decision_id
stringlengths 36
36
| facts
stringlengths 618
1.55M
| considerations
stringlengths 0
643k
| law_area
stringclasses 3
values | law_sub_area
stringclasses 13
values | language
stringclasses 3
values | year
int32 2k
2.02k
| court
stringclasses 28
values | chamber
stringlengths 9
11
| canton
stringclasses 13
values | region
stringclasses 7
values |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
aaf09294-827c-514e-a291-f18fdee7d890 | in fatto: A.
Con decreto di accusa
2 novembre 2009 (n. 4619/2009) il sostituto procuratore ha ritenuto RI 1 autore colpevole di:
1. ripetuta violazione di domicilio (art. 186 CP)
1.1. per essersi introdotto e trattenuto presso l’abitazione di via _, di proprietà della immobiliare _, nel periodo 25.10.2008-10.11.2008, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto;
1.2. per essersi introdotto, in data 29.5.2009, presso l’albergo _, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto, nello specifico, al solo scopo di procedere ai danneggiamenti di cui al punto 4);
2. violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari (art. 285 cifra 2 CP)
per avere, in data 10.11.2008, a _ _, partecipato ad un assembramento di persone che ha impedito, con minaccia e violenza, ai funzionari di polizia intervenuti, di compiere atti rientranti nelle loro funzioni, segnatamente, per avere partecipato ad una dimostrazione di protesta del gruppo _ nella quale, allo scopo di contrastare l’intervento della polizia, impedendole di accedere all’abitazione indebitamente occupata, uno dei partecipanti ha gettato da una finestra della stessa un petardo in direzione degli agenti, che, al contatto con il suolo, è scoppiato, causando fastidi momentanei all’apparato uditivo di alcuni di questi;
3. impedimento di atti dell’autorità (art. 286 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 2), presso la casa indebitamente occupata, in correità con terze persone, barricando la porta d’ingresso con spranghe, catene e mobilio accatastato, rendendo difficoltoso il successivo accesso al solaio della medesima abitazione, dove si è nuovamente barricato, pure con l’aiuto di una porta posizionata sull’entrata, impedito agli agenti intervenuti di accedere all’abitazione e di procedere a quanto di loro competenza;
4. danneggiamento (art. 144 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 1.2., alfine di impedire il realizzarsi della conferenza dei _, a cui avrebbe partecipato pure l’ex ministro cileno _, danneggiato, in correità con terzi, cose mobili altrui, e meglio scrivendo con del colore nero i termini “_” sullo schermo del bimer e cospargendo di escrementi animali il pavimento, le tende, i tavoli, il telecomando del bimer e il microfono della sala riunioni cagionando danni alla parte lesa, albergo PC 1, pari a CHF 40'000.-.
In applicazione della pena il sostituto procuratore ha proposto la condanna di _ alla pena pecuniaria di 40 aliquote giornaliere di fr. 30.- ciascuna, per un totale di fr. 1'200.-, la cui esecuzione è sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, nonché alla multa di fr. 200.- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie.
B.
Con decreto di accusa
2 novembre 2009 (n. 4621/2009) il sostituto procuratore ha ritenuto RI 2 autrice colpevole di:
1. violazione di domicilio (art. 186 CP)
1.1. per essersi introdotta e trattenuta, presso l’abitazione di _, di proprietà della Immobiliare PC 3, nel periodo 25.10.2008 - 10.11.2008, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto;
1.2. per essersi introdotta, in data 29.05.2009, presso l’albergo PC 1, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto, nello specifico, al solo scopo di procedere ai danneggiamenti di cui al punto 4);
2. violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari (art. 285 cifra 2 CP)
per avere, in data 10.11.2008, a _, partecipato ad un assembramento di persone che ha impedito, con minaccia e violenza, ai funzionari di polizia intervenuti di compiere atti rientranti nelle loro funzioni, segnatamente, per avere partecipato ad una dimostrazione di protesta del gruppo _ nella quale, allo scopo di contrastare l’intervento della polizia, impedendole di accedere all’abitazione indebitamente occupata, uno dei partecipanti ha gettato da una finestra della stessa un petardo in direzione degli agenti, che, al contatto con il suolo, è scoppiato, causando fastidi momentanei all’apparato uditivo di alcuni di questi;
3. impedimento di atti dell’autorità (art. 286 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 2), presso la casa indebitamente occupata, in correità con terze persone, barricando la porta d’ingresso con spranghe, catene e mobilio accatastato, rendendo difficoltoso il successivo accesso al solaio della medesima abitazione, dove si è nuovamente barricata, pure con l’aiuto di una porta posizionata sull’entrata, impedito agli agenti intervenuti di accedere all’abitazione e di procedere a quanto di loro competenza;
4. danneggiamento (art. 144 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 1.2., alfine di impedire il realizzarsi della conferenza dei _, a cui avrebbe partecipato pure l’ex ministro cileno _, danneggiato, cose mobili altrui, e meglio scrivendo con del colore nero i termini “_” sullo schermo del bimer e cospargendo di escrementi animali il pavimento, le tende, i tavoli, il telecomando del bimer e il microfono della sala riunioni cagionando danni alla parte lesa, albergo PC 1, pari a CHF 40'000.-.
In applicazione della pena il sostituto procuratore ha proposto la condanna di RI 2 alla pena pecuniaria di 40 aliquote giornaliere di fr. 30.- ciascuna, per un totale di fr. 1'200.-, la cui esecuzione è sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, nonché alla multa di fr. 200.- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie.
C.
C
on decreto di accusa
2 novembre 2009 (n. 4623/2009) il sostituto procuratore ha ritenuto RI 3, autore colpevole di:
1. ripetuta violazione di domicilio (art. 186 CP)
1.1. per essersi introdotto e trattenuto presso l’abitazione di via
_, di proprietà della immobiliare
PC 3, nel periodo 25.10.2008-10.11.2008, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto;
1.2. per essersi introdotto, in data 29.05.2009, presso l’albergo PC 1, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto, nello specifico, al solo scopo di procedere ai danneggiamenti di cui al punto 5);
2. violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari (art. 285 cifra 2 CP)
per avere, in data 10.11.2008, a _, partecipato ad un assembramento di persone che ha ripetutamente impedito, con minaccia e violenza, ai funzionari di polizia intervenuti, di compiere atti rientranti nelle loro funzioni, commettendo personalmente atti di violenza, segnatamente, per avere partecipato ad una dimostrazione di protesta del gruppo _ nella quale, allo scopo di contrastare l’intervento della polizia, impedendole di accedere all’abitazione indebitamente occupata, uno dei partecipanti ha gettato da una finestra della stessa un petardo in direzione degli agenti, che, al contatto con il suolo, è scoppiato, causando fastidi momentanei all’apparto uditivo di alcuni di loro;
nonché per avere, successivamente, dopo aver lasciato l’abitazione, partecipato ad una nuova dimostrazione di protesta del medesimo gruppo, nella quale, allo scopo di ostacolare la polizia nel recupero e nella conduzione di uno dei partecipanti all’interno del furgone cellulare, egli stesso ha commesso lesioni semplici nei confronti di uno degli agenti di polizia, e meglio come descritto al punto 4);
3. impedimento di atti dell’autorità (art. 286 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 2), presso la casa indebitamente occupata, in correità con terze persone, barricando la porta d’ingresso con spranghe, catene e mobilio accatastato, rendendo difficoltoso il successivo accesso al solaio della medesima abitazione, dove si è nuovamente barricato, pure con l’aiuto di una porta posizionata sull’entrata, impedito agli agenti intervenuti di accedere all’abitazione e di procedere a quanto di loro competenza.
4. lesioni semplici (art. 123 cifra 1 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 2), nel corso di un intervento di polizia, colpendo con un calcio il ginocchio destro dell’agente _, intenzionalmente cagionatogli un danno al suo corpo, e meglio come risulta dai certificati medici agli atti, fra cui quello in data 17.11.2008, rilasciato _, attestante una “rottura almeno parziale importante ma probabilmente completa del legamento crociato anteriore con contusione ossea al piatto tibiale laterale e versamento articolare. Leggera alterazione di II grado al corno posteriore menisco mediale;
5. danneggiamento (art. 144 CP)
per avere, nelle circostanze di cui al punto 1.2., alfine di impedire il realizzarsi della conferenza dei _, a cui avrebbe partecipato pure l’ex ministro cileno _, danneggiato, in correità con terzi, cose mobili altrui, e meglio scrivendo con del colore nero i termini “_” sullo schermo del bimer e cospargendo di escrementi animali il pavimento, le tende, i tavoli, il telecomando del bimer e il microfono della sala riunioni cagionando danni alla parte lesa, albergo PC 1, pari a CHF 40'000.-.
In applicazione della pena il sostituto procuratore ha proposto la condanna di RI 3, alla pena pecuniaria di 60 aliquote giornaliere di fr. 30.- ciascuna,
per un totale
di fr.
1'800.-, la cui esecuzione è stata sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, nonché alla multa di fr. 200.- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie.
D.
In data
13/17 novembre 2009 RI 1 e RI 2 hanno interposto opposizione contro i rispettivi decreti di accusa limitatamente ai reati di violazione di domicilio e danneggiamento di cui ai fatti inerenti all’albergo PC 1
Parimenti, il 13/17 novembre 2009 RI 3 ha interposto opposizione al citato DA in relazione ai reati di violazione di domicilio e danneggiamento di cui ai fatti inerenti all’albergo PC 1 e in relazione al reato di lesioni semplici in relazione ai fatti di via _.
E.
Statuendo sulle opposizioni degli insorgenti, con sentenza 13 dicembre 2010 il giudice della Pretura penale ha confermato integralmente i rispettivi decreti di accusa.
F.
In data 14 dicembre 2010
, RI 1, RI 2 e RI 3 hanno inoltrato dichiarazione di ricorso contro la sentenza del primo giudice. Nei motivi del gravame, presentato il 20 gennaio 2011, i ricorrenti lamentano un’errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza, vizi essenziali di procedura ed un arbitrario accertamento dei fatti da parte del giudice di prime cure (art. 288 lett. a, b e c CPP TI).
Chiedendo che questa Corte sospenda la trattazione del ricorso per cassazione fino al termine del procedimento penale avviato con la denuncia di falso da essi sporta il 20 gennaio 2011 - e di cui diremo in seguito - i ricorrenti postulano, in via principale, l’annullamento della sentenza impugnata ed il rinvio degli atti alla Pretura penale per un nuovo giudizio. In via subordinata, essi postulano il loro proscioglimento dall’accusa di violazione di domicilio e danneggiamento per i fatti del 29 maggio 2009 relativi all’albergo PC 1 e - per RI 3 - anche dall’imputazione di lesioni semplici inerente ai fatti del 10 novembre 2008 a _, con conseguente riduzione della pena loro inflitta.
G.
Con scritto 8 febbraio 2011 la PC 2 ha rinunciato a formulare particolari osservazioni, rimettendosi al giudizio di questa Corte.
Con scritto 18 febbraio 2011 il procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del gravame e la contestuale conferma della sentenza impugnata.
Altrettanto ha fatto, con scritto 22 febbraio 2011, la parte civile PC 4.
H.
Si osserva qui che, in data 20 gennaio 2011, unitamente al ricorso per cassazione, i ricorrenti hanno sporto denuncia al Ministero pubblico del Cantone Ticino nei confronti del primo giudice e della sua segretaria per il reato di falsità in atti formati da pubblici ufficiali o funzionari (art. 317 cifra 1 CP) ritenendo falso il verbale dibattimentale allestito il 13 dicembre 2010. Alla denuncia ha fatto seguito, in data 21 gennaio 2011, un decreto di non luogo a procedere del Ministero pubblico avverso il quale gli insorgenti hanno interposto il 31 gennaio 2011 reclamo poi respinto dalla Corte dei reclami penali con sentenza del 1° marzo 2011.
I.
In data 1. febbraio 2011, il primo giudice ha inviato a questa Corte uno scritto in cui prende posizione sulla censura di falso sollevata dai ricorrenti. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP TI - applicabile in forza dell’art. 453 CPP(fed)
- il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (lett. a e b), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP TI) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
Fatti del 29.05.2009 presso PC 1
Ricorrenti: RI 1, RI 2 e
RI 3
2.
Nel loro gravame, i ricorrenti eccepiscono, preliminarmente, di falso il contenuto del verbale dibattimentale 13 dicembre 2010 in relazione all’istruttoria dei fatti svoltisi il 29 maggio 2009 presso l’albergo PC 1.
Essi ricordano, dapprima, di avere formulato tempestiva opposizione, ai sensi dell’art. 227 CPP TI, all’utilizzo in sede dibattimentale di tutte le risultanze scritte dell’istruzione formale e che, con ordinanza 27 ottobre 2010, il primo giudice ha deciso sulle prove da assumere al dibattimento, disponendo, in particolare, l’assunzione di prove testimoniali.
Proseguendo, i ricorrenti affermano che “
durante il dibattimento non è stato eseguito alcun riconoscimento degli accusati sulle immagini della videosorveglianza dell’albergo PC 1 allegate al rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria del 26 giugno 2009
”
(ricorso, pto 10.5., pag. 7): in effetti - precisano - nel corso del dibattimento il giudice non ha, per quanto a loro risulti, visionato il film in questione o suoi fotogrammi e non ha proceduto a constatazioni sull’identità o sulle caratteristiche delle persone riprese in immagine. “
Durante il processo”
- precisano gli insorgenti - “
nessun accertamento in tale senso è mai stato loro comunicato, né prospettato
”. Rilevando che “
la questione era stata trattata nella fase delle arringhe, ma proprio nel senso che (...) anche gli eventuali accertamenti diretti svolti dal giudice avrebbero dovuto avere luogo nel corso dell’istruttoria dibattimentale e non in camera di consiglio
”, i ricorrenti concludono che, perciò, “
il verbale menziona un atto procedurale che in realtà non ha mai avuto luogo, o almeno, non a conoscenza delle parti”
(ricorso, pto 10.3., pag. 6). In questo senso, essi sollevano l’eccezione di falsità del passaggio contenuto a pagina 22 del verbale dibattimentale secondo cui “
il giudice visiona con la Segretaria il CD-ROM, constatando che RI 2, RI 1 e RI 3 appaiono sulle riprese video
” (ricorso, pto 10.2, pag. 6).
Nell’“
avversata ipotesi in cui”
dovesse essere respinta l’eccezione di falso, i ricorrenti sostengono che il giudice è incorso in un vizio essenziale di procedura ai sensi dell’art. 288 lett. b CPP TI “
in relazione al preteso confronto dei ricorrenti con le persone riprese nel filmato della videosorveglianza”
avendo egli violato il loro diritto di partecipare al predetto atto istruttorio che non è stato loro né comunicato né prospettato. Anche con riguardo ai confronti fotografici ai fini dell’identificazione - continuano i ricorrenti - “
le parti devono avere la facoltà di porre domande, formulare riserve e più in generale di esprimersi
”. Del resto - precisano gli insorgenti - nel verbale dibattimentale non si trova alcuna traccia di un contraddittorio relativamente ad un simile atto istruttorio. Ne consegue - concludono i resistenti - la nullità, subordinatamente l’annullamento, della predetta prova (ricorso, pti 11-11.2.3., pag. 7-8).
2.1.a)
Giusta il cpv. 1 dell’art. 227 CPP TI - applicabile per analogia anche ai giudizi della Pretura penale giusta l’art. 273 CPP TI - se le parti intendono assumere prove al dibattimento, oltre a quelle indicate nell’atto di accusa, devono notificarle al presidente entro il termine di 10 giorni dalla notifica dell’ordinanza d’apertura.
Per il cpv. 2 dell’art. 227 CPP TI, entro lo stesso termine, le parti possono formulare opposizione all’uso in sede dibattimentale di altre risultanze dell’istruttoria formale.
La
ratio
dell’opposizione all’uso dibattimentale delle risultanze scritte dell’istruzione formale è di garantire, quando ciò risponde ad una specifica esigenza delle parti, una rigorosa applicazione dei principi dell’immediatezza e dell’oralità e di fare chiarezza sul modo e sulla misura in cui verranno istruite le prove nel corso del dibattimento.
Si ricorda, qui, che i principi dell’immediatezza e dell’oralità non sono principi costituzionali indipendenti - né la Costituzione federale né la CEDU li garantiscono in modo illimitato - ed è il diritto di procedura che determina in che misura le prove debbano essere assunte direttamente dal tribunale e se e quali risultanze della procedura d’istruzione debbano essere scartate (STF 6B_1004/2008 del 9 aprile 2009 e riferimenti; STF del 26 maggio 2004 1P.215/2004 consid. 2; Piquerez, Procédure pénale suisse, Manuel, 2a ed 2007, nota 884 e 885).
b)
L'opposizione ex art. 227 cpv. 2 CPP TI non deve essere motivata. Se formulata, essa ha quale effetto l'obbligo per il giudice di assumere durante il dibattimento le prove necessarie al giudizio (cfr. rapporto 22.7.1992 della commissione speciale per l’esame del messaggio aggiuntivo 20 marzo 1991 del Consiglio di Stato concernente la revisione totale del codice di procedura penale del 10 luglio 1941).
2.2.
In concreto, nel termine loro assegnato con ordinanza 10 dicembre 2009, rispettivamente con ordinanza 13 ottobre 2010, sia RI 2 che RI 3 che RI 1 hanno formulato opposizione all’utilizzo delle risultanze predibattimentali (RI 2 e RI 3 il 15 gennaio 2010; doc.
PRPEN 8 inc. 10.2009.666; doc. PRPEN 8 inc. 10.2009.667 e RI 1 il 21 ottobre 2010; doc.
PRPEN 7 inc. 10.2009.665).
Tali opposizioni - peraltro confermate al dibattimento (verbale dibattimento, pag. 8) - hanno comportato, così come indicato al considerando precedente, l’obbligo per il primo giudice di procedere all’assunzione al dibattimento di tutte le prove che egli riteneva essere rilevanti per il giudizio che era chiamato a rendere.
3.a)
Dalla sentenza impugnata si evince che il giudice di prime cure ha fatto uso ai fini del proprio giudizio delle riprese video delle telecamere di sorveglianza dell’albergo PC 1 contenute nel cd-rom e che tale atto
istruttorio è stato determinante per l’esito del giudizio impugnato, in particolare per individuare la responsabilità dei ricorrenti per quanto attiene alla violazione di domicilio e al danneggiamento del predetto albergo.
In effetti, l’altro elemento considerato dal giudice di prime cure - e meglio, il riconoscimento, in polizia e in sede dibattimentale, da parte della testimone _ di RI 2 individuata come persona presente il 29 maggio 2009 presso l’albergo PC 1 - non basta a fondare l’accertamento secondo cui i ricorrenti sono gli autori dei citati reati
(sentenza impugnata, pti 3.5.- 3.12, pag. 21-24).
b)
Visto che si trattava di un mezzo di prova importante per il giudizio, discendeva dall’opposizione formulata ex art. 227 cpv. 2 CPP TI l’obbligo per il primo giudice di visionare tale filmato durante il dibattimento. Esso doveva, perciò, venire proiettato e visionato dal giudice alla presenza e con la partecipazione delle parti cui doveva, poi, essere data facoltà d’esprimersi in merito.
c)
In concreto, risulta con chiarezza dal verbale del dibattimento che il filmato è stato visionato, sul monitor del computer, dal pretore e dalla segretaria e che le foto contenute nel cd-rom sono state mostrate alla teste _.
Così come, peraltro, già rilevato dal PG nel suo DNLP, dal verbale emerge, tuttavia, con altrettanta chiarezza che il pretore ha proceduto alla visione del cd-rom (ed alla ostensione delle foto contenute nello stesso alla teste) senza coinvolgere le parti in tale atto istruttorio: p
er dirla con il PG, “
il pretore ha espressamente riportato nel verbale di avere visionato il cd-rom unicamente con la segretaria, escludendo in tal modo di avervi proceduto alla presenza delle parti, e confermando in tal modo che l’accertamento non è avvenuto nel corso dell’udienza
” (DNLP 21.01.2011, consid. 5, pag.2; CRP 1.3.2011, consid. 3.4., pag. 5).
3.1.
Il diritto di essere sentito, sancito dall’art. 29 cpv. 2 Cost., assicura, tra l’altro, la facoltà di partecipare all’assunzione dei mezzi di prova e di esprimersi sulle relative risultanze nella misura in cui esse possano influire sulla decisione (DTF non pubblicata 1. maggio 2009 [4A. 153/2009], consid. 4.1 e riferimenti; DTF non pubblicata 23 maggio 2008 [6B.570/2007] consid. 5.1; DTF non pubblicata del 13 aprile 2005 [2P.20/2005] consid. 3.2 e riferimenti; DTF 131 I 153 consid. 3; DTF 126 I 15 consid. 2a/aa; DTF 124 I 49 consid. 3a, DTF 124 I 241 consid. 2; DTF 115 Ia 8 consid. 2b pag. 11 con citazioni). In quest’ottica, il diritto di essere sentito consacra le stesse garanzie processuali dell’art. 6 par. 3 lett. d CEDU e la sua inosservanza comporta la cassazione della sentenza impugnata già per motivi di forma, senza riguardo al merito (DTF 116 Ia 52 consid. 2 pag 54 con richiami).
3.2.
E’ evidente che procedendo alla visione del filmato senza coinvolgere le parti, il primo giudice ha violato il loro diritto di essere sentito, assumendo, peraltro, in modo crassamente irrito il mezzo di prova tanto da poter considerare - come ha fatto il procuratore generale nel suo DNLP - che tale assunzione non è avvenuta al dibattimento
nella misura in cui per dibattimento si intende tutto quanto avviene nel corso di un’udienza alla presenza e con la partecipazione delle parti (De Preux in Kuhn/Jeanneret, Commentaire romand, Code de procédure pénale suisse, Basilea 2011, ad art. 339, n 1 e ss, pag. 1516 e segg.).
Non essendo state le parti coinvolte nella visione del filmato, non può essere considerato che la prova su cui il pretore ha fondato il suo giudizio sia stata assunta al dibattimento.
Ne discende che, con riferimento ai fatti svoltisi il 29 maggio 2009 presso l’albergo PC 1, il ricorso va accolto (avendo, peraltro, i ricorrenti eccepito il vizio non appena possibile) senza che sia necessario pronunciarsi sulle altre censure ricorsuali.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata per quanto attiene ai dispositivi di condanna di RI 2, RI 1 e RI 3 in relazione alle imputazioni di violazione di domicilio e danneggiamento per i fatti di _ e gli atti sono rinviati alla Pretura penale per nuovi accertamenti - da esperire con la partecipazione delle parti - e per un nuovo giudizio.
Fatti del 10.11.2008 a _
Ricorrente: RI 3
4.
Il ricorrente RI 3 sostiene, dapprima, che il giudice di prime cure è incorso in arbitrio (art. 288 lett. c CPP TI) nel ritenere che la lesione subita dall’agente PC 4 è stata provocata da un calcio da lui sferrato (ricorso, pto 12.3, pag. 13 e segg.).
4.1.
Rilevato come risulti dai certificati medici in atti (certificato _ del 10 novembre 2008, certificato del dott. med. _ del 6 dicembre 2010) che PC 4 ha subito un trauma contusivo del ginocchio destro ed evidenziato che l’evento si è prodotto durante l’azione di sgombero dell’edificio occupato in _, il primo giudice ha ritenuto di poter fondare l’accertamento secondo cui la lesione patita dall’agente PC 4 è stata causata da un colpo sferrato dal ricorrente sulle audizioni dibattimentali del primo tenente _, del gendarme e della parte civile PC 4 (sentenza impugnata, consid. 2.9., pag. 17). In effetti - ha spiegato il primo giudice - da tali audizioni si evince che, al momento in cui è stato sferrato il colpo, in loco (cioè, nello spazio ristretto in cui l’evento si è verificato) c’erano soltanto l’accusato RI 3 e i due agenti. Rilevato come fosse improponibile identificare nel collega l’autore del gesto in quanto questi “
non aveva nessun motivo per colpire l’agente PC 4
”
- ha precisato il primo giudice - l’autore va forzatamente individuato in RI 3 per cui l’agente PC 4 rappresentava il “
sistema
” che impedisce di considerare “
liberata
” una casa “
okkupata
” (sentenza impugnata, consid. 2.10., pag. 17 e consid. 2.12., pag. 18-19).
4.2.
Il ricorrente considera arbitrario l’accertamento secondo cui la lesione subita da PC 4 è riconducibile ad un colpo da lui sferrato in quanto fondato su “
indizi fortemente contraddittori, rispettivamente inesistenti”
. Sulla questione - continua l’insorgente - il giudice di prime cure
“ha fatto delle deduzioni insostenibili, rispettivamente ha considerato unilateralmente le singole prove e infine ha accertato circostanze che non risultano minimamente dagli atti”
(ricorso, pto 12.3., pag.13-14). Omettendo incomprensibilmente di considerare
che non vi è alcun testimone che abbia visto quanto accaduto e che neppure la parte lesa è stata in grado di spiegare cosa sia successo, il primo giudice - sostiene il ricorrente - ha “
apoditticamente
e senza alcun riferimento agli atti del processo
” concluso che egli ha sferrato il calcio ferendo l’agente PC 4 fondando, così come emerge dai considerandi della sentenza, tale suo accertamento su un’“
insostenibile e sua personale teoria sulle pretese motivazioni soggettive dell’accusato (volontà di sferrare un colpo contro una persona che rappresentava il sistema)”
(ricorso, pto 12.3.1., pag. 14). Le testimonianze raccolte, in particolare quelle di _ e dello stesso PC 4 - precisa il ricorrente - indicano che all’agente PC 4 è occorso l’infortunio mentre lui era ammanettato sul cofano di un’auto di servizio ed “
aveva il volto rivolto verso la macchina e si dimenava a casaccio con mani e piedi
”.
In questo contesto, non si può concludere con sufficiente certezza per la tesi accusatoria. Ve ne sono altre, maggiormente plausibili. Fra tutte, quella secondo cui la lesione patita da PC 4 sia dovuta ad un “
movimento convulso nella concitata fase del fermo
” appare, peraltro - sostiene il ricorrente - supportata, da un lato, dalla testimonianza resa da _ (collega dell’infortunato) al dibattimento che ha dichiarato di non sapere “
se sia stato un calcio o uno sgambetto
” a far cadere PC 4 e, dall’altro, dal tipo di lesione subita ritenuto come gli atti medici (in particolare, il certificato 17.11.2008 del dott. med. _) attestino “
una distorsione del ginocchio
” e non “
una lesione condrale post-traumatica visibile”.
Il tipo di lesione - precisa il ricorrente - “
sembra escludere la tesi acriticamente sposata”
dal primo giudice
, “ovvero che il danno fisico sarebbe da ricondurre ad un calcio del ricorrente”
.
Pertanto - conclude - “
già solo poiché non tiene conto di questi insopprimibili dubbi sulla dinamica dei fatti, la sentenza risulta arbitraria e va annullata
” (ricorso, pto 12.3.2., pag.14-15).
4.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006, consid. 3.4.1) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata, né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati da errore qualificato (DTF 133 I 149 consid. 3.1 con rinvii). È, invece, necessario indicare e sostanziare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1).
Secondo la giurisprudenza, per essere annullata una sentenza deve essere inoltre arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 135 V 2 consid. 1.3; DTF 133 I 149 consid. 3.1, 132 I 13 consid. 5.1, 131 I 217 consid. 2.1, 129 I 8 consid. 2.1, 173 consid. 3.1).
Il precetto in dubio pro reo è il corollario della presunzione d’innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II e disciplina sia la valutazione delle prove sia la ripartizione dell'onere probatorio. Per quanto riguarda l'onere probatorio, esso impone alla pubblica accusa di provare la colpevolezza dell'imputato e non a quest'ultimo di dimostrare la propria innocenza. Al proposito la Corte di cassazione e di revisione penale fruisce - come il Tribunale federale - di libero esame (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 40, 124 IV 86 consid. 2a pag. 87). Per quanto attiene invece alla valutazione delle prove, il principio in dubio pro reo significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie (DTF 129 I 8 consid. 2.1. pag. 9; 127 I 38 consid. 2a pag. 41; 124 IV 86 consid. 2a pag. 88; 120 Ia 31 consid. 2c pag. 37). Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Un giudizio di colpevolezza può poggiare, mancando testimonianze oculari o prove materiali inoppugnabili, su indizi che sono atti a fondare il convincimento del tribunale quando, valutati globalmente, consentono di escludere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'accusato (STF 12 febbraio 2003, inc. 1P.333/2002 consid. 1.4; STF 10 gennaio 2002, inc. 6P.93/2001 consid. 3c; STF 25 settembre 2000, inc. 1P.608/1999 consid. 3d; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006 consid. 3.9; STF 28 giugno 2004, inc. 6P.72/2004 consid. 1.2; STF 7 maggio 2003, inc. 6P.37/2003 consid. 2.2). Ritenuto che semplici dubbi astratti e teorici sono sempre possibili, il principio è disatteso soltanto quando il giudice penale avrebbe dovuto nutrire sulla colpevolezza, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, dubbi rilevanti e insopprimibili (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38). Sotto questo profilo il principio in dubio pro reo ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40; 17.2002.45).
4.4.
La realtà che emerge dalle testimonianze rese al dibattimento non è propriamente quella disegnata dal ricorrente.
Da un lato, il teste _ (primo tenente preposto a comandare l’intervento della Polizia cantonale in via _), ha individuato sotto giuramento in RI 3 l’autore della lesione subita da PC 4: in effetti, egli ha dichiarato di essersi girato ed avere “
visto lui (indica RI 3) che si dimenava e tirava calci. Così colpiva l’agente PC 4, che è caduto (siccome era stato colpito al ginocchio che ha ceduto)
” (verbale dibattimento, teste _, pag. 12).
D’altro lato, il gendarme _ ha dichiarato al dibattimento che, al momento in cui PC 4 ha subito la lesione, con loro c’era soltanto “
la persona fermata
” ossia RI 3 (verbale dibattimento, pag. 13). Infine, PC 4 ha precisato che, pur non avendo visto chi ha tirato il calcio, lo ha “
sentito benissimo
” e, in quel momento, con lui, oltre al collega, c’era soltanto “
colui che stavo ammanettando
” - cioè, RI 3 (lo ha indicato al dibattimento definendolo “
quello senza cuffia”
- che è stato “
l’unico con il quale ho avuto a che fare direttamente
” (verbale dibattimento, audizione PC 4, pag 16).
Ritenuto come, peraltro, emerga chiaramente da tutte le testimonianze e sia incontestato che, quando è stato fermato, RI 3 “
scalciava e si dimenava
” (verbale dibattimento, audizione PC 4, pag 16; teste _, pag. 12; ricorso, pto. 12.3.2., pag 14), è in un procedimento esente da arbitrio che il giudice di prime cure ha concluso che a causare la lesione patita da PC 4 sia stato un calcio assestato da RI 3.
Non basta a sostenere la tesi ricorsuale il riferimento al tipo di lesione patita da PC 4 nella misura in cui non vi sono valutazioni specialistiche che permettano di escludere che un calcio possa causare tale lesione. Va, comunque, qui precisato che dagli atti emerge, piuttosto, la tesi contraria ritenuto che sia il rapporto di visita del pronto soccorso ortopedico che il certificato _, entrambi del 10 novembre 2008, che il certificato medico del dott. med. _ del 6 dicembre 2010 parlano di un trauma contusivo del ginocchio.
La tesi ricorsuale secondo cui la lesione è da ricondurre ad un movimento convulso dell’agente - che, contrariamente a quanto sostenuto, non è confortata dalla deposizione del teste _ il quale si è limitato a dire di non sapere “
se sia stato un calcio o uno sgambetto a farlo cadere
” (verbale dibattimento, teste _, pag. 13) - rimane allo stadio di pura ipotesi che, per quanto possibile, non basta a qualificare di arbitrario un accertamento fondato su una valutazione sostenibile del materiale probatorio.
Su questo punto il ricorso va, pertanto, respinto.
5.
Proseguendo nel suo esposto, RI 3 sostiene che il primo giudice è incorso in arbitrio nel ritenere che egli ha sferrato intenzionalmente o con dolo eventuale il colpo ricevuto dall’agente PC 4 (ricorso, pto 12.3.3., pag. 15).
5.1
. Al riguardo, il giudice di primo grado ha ritenuto che “
rifiutarsi di collaborare con la Polizia e dimenarsi violentemente, scalciando al momento dell’ammanettamento equivale a non escludere l’ipotesi (dolo eventuale) di poter ferire chi sta mettendo in atto l’operazione di sgombero
” (sentenza impugnata, cons. 2.11, pag. 18).
5.2.
Per il ricorrente -
“ammesso e non concesso”
che sia stato un colpo da lui assestato a causare la lesione - “
niente poteva e può lasciar pensare
” che tale colpo sia stato inferto intenzionalmente. In realtà, se lui ha colpito - precisa il ricorrente - lo ha fatto involontariamente. Egli si dimenava mentre si trovava ammanettato, con il viso rivolto verso l’auto di servizio e con gli agenti alle sue spalle e, perciò, non poteva vedere dove eventuali calci sarebbero andati a colpire. In quei frangenti - conclude - “
stava semmai agli agenti stare attenti e mettere in atto gli accorgimenti necessari”
per evitare che qualcuno si potesse far male (ricorso, pto. 12.3.3., pag. 15).
5.3.
Sussiste dolo eventuale laddove l’autore ritiene possibile che il suo comportamento cagioni l’evento illecito o il reato e, ciò nondimeno, agisce prendendo in considerazione ed accettando la predetta eventualità, pur non desiderandola (
DTF 134 IV 26 consid. 3.2.2, 133 IV 9 consid. 4.1 pag. 16, 131 IV 1
consid. 2.2 e rinvii). Chi prende in considerazione l’evento qualora si produca, ossia lo accetta, lo vuole ai sensi dell’art. 12 cpv. 2 CP (“basta a tal fine che l’autore ritenga possibile il realizzarsi dell’atto e se ne accolli il rischio”; cfr. 18 cpv. 2 vCP). Non è necessario che l’autore desideri tale evento o lo approvi (
DTF 121 IV 249
consid. 3a). Il discrimine tra dolo eventuale e negligenza cosciente può rivelarsi delicato, sia in un caso come nell’altro. Infatti, vi è dolo eventuale quando l’autore ritiene possibile che l’evento o il reato si produca e, per il caso, se ne accomoda e v’è, invece,
negligenza -
e non dolo - quando l’autore, per un’imprevidenza colpevole, agisce presumendo che l’evento, che ritiene possibile, non si realizzi (
DTF 130 IV 58
consid. 8.3). Quindi, la differenza tra dolo eventuale e negligenza cosciente risiede nella volontà dell’autore e non nella coscienza (DTF 133 IV 9 consid. 4 pagg. 15 e segg. con giurisprudenza ivi citata).
Quanto l’autore di un reato sa, vuole o accetta è una questione di fatto (DTF 128 I 177 consid. 2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3a pag. 63, 125 IV 242 consid. 3c pag. 252, 119 IV 1 consid. 5a pag. 3, 110 IV 20 consid. 2 pag. 22, 74 consid. 1c pag. 77 con rinvii). Sulla questione di sapere se una persona ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all'evento delittuoso, quindi, la Corte di cassazione e di revisione penale può rivedere gli accertamenti del primo giudice soltanto sotto il profilo dell’arbitrio (per analogia, sul piano federale: Wiprächtiger in: Geiser/Münch, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con i richiami alla nota 182; Corboz, Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246).
Tuttavia, il dolo (eventuale), quale fatto interiore, può essere accertato solo in base a elementi esteriori; ne discende che in quest’ambito, le questioni di fatto e di diritto sono strettamente connesse tra di loro e coincidono parzialmente (DTF 133 IV 1 consid. 4.1 pag. 4). Il quesito giuridico se l’autore abbia agito con dolo eventuale può essere risolto solo valutando i fatti accertati dall’autorità cantonale da cui quest’ultima ha dedotto tale elemento soggettivo. Con riferimento al concetto giuridico di dolo eventuale, la Corte di cassazione e revisione penale (al pari del Tribunale federale) può pertanto esaminare se sono stati valutati correttamente gli elementi esteriori, in base ai quali è stato accertato che l’autore ha preso in considerazione, ossia ha accettato, l’evento o il reato (
DTF 130 IV 58
consid. 8.5).
In mancanza di confessioni, il giudice può, di regola, dedurre la volontà dell’interessato fondandosi su indizi esteriori e sulle regole dell’esperienza. Può inferire la volontà dell’autore da ciò che questi sapeva, laddove l’eventualità che l’evento si produca era tale da imporsi all’autore, in modo che si possa ragionevolmente ammettere che lo abbia accettato (
DTF 133 IV 222 consid. 5.3 pag. 225, 130 IV 58
consid. 8.4). Quest’interpretazione deve ragionevolmente prendere in considerazione il grado di probabilità che l’evento si realizzi, alla luce delle circostanze concrete e dell’esperienza della vita (DTF 133 IV 1 consid. 4.6 pag. 8). Tra gli elementi esteriori da cui è possibile dedurre che l’autore ha accettato che si produca l’evento illecito figurano, in particolare, la gravità della violazione del dovere di diligenza e la probabilità, nota all’autore, della realizzazione del rischio, il movente e la modalità con cui l’atto è stato commesso (
DTF 125 IV 242
consid. 3c in fine e rinvii; sentenza del Tribunale federale 6B_519/2007 del 29 gennaio 2008, consid. 3.1). Quanto più grave è tale violazione e quanto più grande tale rischio, tanto più fondata risulterà la conclusione che l’autore, malgrado i suoi dinieghi, aveva accettato l’ipotesi che l’evento considerato si realizzasse.
5.4.
Nel contesto disegnato dal materiale probatorio in atti, la censura è al limite del temerario.
Chi scalcia mentre viene fermato forse non ha quale obiettivo principale il colpire, ma il divincolarsi per opporsi al fermo. È certo che chi si comporta in questo modo prende almeno in considerazione la possibilità di colpire chi gli sta intorno e accetta che tale possibilità - molto probabile visto che i poliziotti erano costretti a stargli molto vicino per mantenerlo fermo - si verifichi (sentenza impugnata, consid. 2.11., pag. 18).
Ininfluente dal profilo della configurazione soggettiva del reato e, pertanto, destinato all’insuccesso l’argomento sull’obbligo degli agenti di adottare gli accorgimenti necessari affinché nessuno si potesse far male durante il loro intervento.
Anche su questo punto, pertanto, il ricorso va respinto.
6.
In via subordinata, RI 3 invoca un’errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (art. 288 lett. a CPP TI) per avere il primo giudice violato gli art. 123, 15 e 16 cpv. 2 CP (ricorso, pto 13, pag. 16).
6.1.
Nella sentenza impugnata, il primo giudice ha osservato che gli agenti di polizia, nell’intervenire per impedire il protrarsi di una violazione di domicilio che durava da giorni, “
si sono comportati con la dovuta professionalità, pacatezza e proporzionalità nei confronti di quegli occupanti che invece, in maniera del tutto inadeguata, hanno iniziato lanciando loro un petardo per poi finire ad aggredirli verbalmente e fisicamente
”. RI 3
, ben consapevole di trovarsi nell’illecito, non può - ha
continuato il primo giudice - appellarsi alla legittima difesa in
quanto la vittima del suo agire non è stata una persona qualsiasi,
un delinquente incontrato per strada e che gli ha impartito ordini
infondati, ma
un agente di polizia
che
dava seguito alle istruzioni
ricevute dai propri superiori
conformandosi alle modalità previste per quel genere d’intervento. Pertanto - ha concluso sulla questione il primo giudice - RI 3 era, come “
qualunque cittadino privato (...) tenuto a seguire le istruzioni fornite dalle forze dell’ordine ed a collaborare con le medesime
” (sentenza impugnata, pto 2.11., pag. 18).
6.2.
Il ricorrente, dopo avere ricordato il tenore dell’art. 15 CP e dell’art. 16 cpv. 2 CP, rileva che il primo giudice “
ha ingiustamente omesso di applicare questi principi
”, malgrado dalla ricostruzione dei fatti sia emerso che il fermo eseguito dalla polizia con la forza fosse privo di giustificazione. A sostegno della propria tesi, l’insorgente richiama le testimonianze, rilasciate dagli agenti in corso d’inchiesta ed al dibattimento, da cui emerge che lo sgombero è avvenuto in maniera “
abbastanza pacifica
”. In particolare, il ricorrente sottolinea che il teste _ ha dichiarato durante l’istruttoria predibattimentale che “
gli occupanti [...] non hanno assolutamente usato violenza e non sono stati aggressivi fisicamente e hanno proceduto a quanto gli si era detto, e quindi a liberare la casa e uscire
(VI Polizia teste _ 07.04.2009)
”. Per il ricorrente, le successive accese discussioni fra occupanti e poliziotti sono state causate dalle “
ingiustificate e contraddittorie decisioni di chi dirigeva l’operazione di polizia
”. Al proposito, il ricorrente cita le dichiarazioni rese al dibattimento da _ secondo cui
“v
i era un cittadino straniero, italiano. In un primo momento si era deciso di lasciarlo andare, ma in seguito si è deciso di fermarlo per la verbalizzazione a _. Questa decisione ha fatto arrabbiare i compagni, che hanno cominciato a venirci contro, con insulti, ma anche con la forza fisica. Spintoni e calci. Ad un certo punto ho detto agli agenti che bisognava procedere al fermo di tutti
(verbale dibattimentale, teste _, pag. 11)”
.
Da questa testimonianza e da altri atti istruttori, non meglio precisati, l’insorgente deduce che il suo ammanettamento non rispondeva ad alcuna necessità e che non vi era nessuna concreta minaccia per l’incolumità fisica degli agenti o di terzi né per altro bene di polizia. A suo dire, l’uso della coercizione fisica da parte degli agenti di polizia, in superiorità numerica rispetto agli occupanti, non era affatto giustificato e, pertanto, egli - costretto con la faccia rivolta verso il cruscotto dell’auto e con le mani bloccate dietro la schiena - era legittimato a reagire cercando di tenere a distanza l’aggressore così come poteva. Egli conclude, dunque, invocando l’applicazione dell’art. 15 CP e, in via subordinata, qualora fossero stati superati i limiti della legittima difesa, l’applicazione dell’art. 16 cpv. 2 CP sostenendo di avere agito “
in una situazione di scusabile
eccitazione e sbigottimento, di fronte all’improvvisa e ingiustificata (tenuto conto che la situazione era sostanzialmente pacifica) intenzione degli agenti di ammanettarlo e portarlo via
” (ricorso, pto 13, pag.16-18).
6.3.
In forza dell’art. 15 CP, ognuno ha il diritto di respingere in modo adeguato alle circostanze un’aggressione ingiusta o la minaccia ingiusta di un’aggressione imminente fatta a sé o ad altri (legittima difesa esimente).
Secondo dottrina, è ingiusta ai sensi della predetta disposizione l’aggressione o la minaccia di un’aggressione lesiva di un bene giuridicamente protetto, ovvero la minaccia che violi oggettivamente l’ordinamento giuridico. E’ tale l’intervento di una pubblica autorità che agisce al di fuori di un obbligo o di un’autorizzazione legale (Seelmann
, Basler Kommentar, Strafrecht I, 2.edizione, Basilea 2007, ad art. 15, n. 7, pag. 338;
Monnier, Code pénal I, Basilea 2009, ad art. 15, N. 8-9, pag.188-189). Dottrina e giurisprudenza hanno al riguardo precisato che, qualora un’autorità agisca illecitamente, chi è parte lesa dovrà di principio adire le vie legali per ripristinare una situazione di legalità, potendo avvalersi a giusto titolo della legittima difesa solo in presenza di un illecito palese e se gli stessi rimedi giuridici non offrano una protezione sufficiente (Monnier, op. cit., ad art. 15, N. 9, pag.188-189; DTF 98 IV 45 consid. 4 lett. b). In particolare, per il Tribunale federale un atto compiuto da una pubblica autorità è illegale se la stessa è incompetente, se non osserva essenziali forme prescritte dalla legge o se abusa del suo potere di apprezzamento, segnatamente violando il principio della proporzionalità. Per l’Alta Corte federale, qualora l’illegalità sia manifesta, chi ne è colpito potrà impunemente opporvisi per ristabilire l’ordine legale sempre che, come detto, non siano esperibili rimedi giuridici atti a garantire una protezione sufficiente (STF del 8 novembre 2008 6B_393/2008 consid. 2.1; STF del 16 agosto 2007 6B_113/2007 consid. 2.5; DTF 98 IV 45 consid. 4 lett. b)).
La situazione di legittima difesa presuppone un attacco incombente o già in corso, ma non concluso (STF del 12 maggio 2005 6S.29/2005 consid.
3.1; STF del 12 agosto 2003 6S.154/2003 consid. 2.1;
Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, ad art. 15, N. 7, pag. 93-94
).
Questa
condizione non è realizzata se l’attacco è cessato o se non sono dati ancora i presupposti perché si realizzi
. C’è minaccia imminente di un’aggressione quando segni concreti di pericolo incitano alla difesa. La sola prospettiva che una contesa verbale possa finire in vie di fatto non basta. Colui che si pretende minacciato deve provare l’esistenza di circostanze proprie a fargli credere che si trovava in uno stato di legittima difesa. È il caso quando l’aggressore adotta un comportamento minaccioso, si prepara allo scontro
o gesticola in modo da far pensare che egli passerà all’atto, metterà, cioè, in pratica la sua minaccia (STF del 7 febbraio 2005 6S.384/2004 consid.
3.1 e rinvii; Trechsel, op. cit., ad art. 15, N. 6, pag. 93).
Per verificare se la difesa è stata proporzionata, occorre valutare l’insieme delle circostanze del caso concreto. In particolare, va valutata la gravità dell’attacco, il bene giuridico protetto o minacciato, i mezzi di difesa utilizzati e il modo in cui questi mezzi sono stati utilizzati (DTF 107 IV 12 consid. 3a; Seelmann, op. cit., ad art. 15, n. 9-13., pag. 339-340). La difesa è da considerarsi eccessiva quando è diretta, non tanto o non solamente a proteggere il bene giuridico minacciato o attaccato, quanto piuttosto a punire l’autore dell’attacco (DTF 109 IV 5 consid. 3).
Se chi respinge un’aggressione eccede i limiti della legittima difesa secondo l’articolo 15 CP, il giudice attenua la pena (legittima difesa discolpante, art. 16 cpv. 1 CP; art. 33 cpv. 2 prima frase vCP).
Chi eccede i limiti della legittima difesa per scusabile eccitazione o sbigottimento non agisce in modo colpevole (
art. 16 cpv. 2 CP).
L’autore dell’eccesso va dichiarato non colpevole (cfr. 16 cpv. 2 CP) solo se l’aggressione di cui è vittima costituisce l’unica causa o, almeno, la causa preponderante dell’eccitazione o dello sbigottimento che le modalità e le circostanze dell’aggressione fanno apparire scusabile. Come nel caso di omicidio passionale, è lo stato di eccitazione o di sbigottimento che deve essere scusabile, non l’atto con cui l’aggressione è respinta. La legge non precisa oltre l’intensità dello stato in cui si deve trovare l’autore. Non è necessario che raggiunga quella della violenta commozione dell’animo richiesta dall’art. 113 CP, ma deve nondimeno assumere una certa importanza. Spetta al giudice valutare di caso in caso se l’eccitazione o lo sbigottimento erano tali da giustificare l’esenzione da pena nonché determinare se le modalità e le circostanze dell’aggressione facevano apparire scusabile lo stato in cui si trovava l’autore. Il giudice dovrà mostrarsi tanto più severo quanto più dannoso o pericoloso appaia l’atto difensivo. Non è, comunque, necessario che la reazione difensiva non sia imputabile a colpa: è sufficiente che una pena non si imponga. Malgrado la formulazione assoluta della legge, il giudice fruisce di un certo potere d’apprezzamento (STF del 3 settembre 2007 6B_222/2007 consid. 2.3;
DTF 102 IV 1
consid. 3d pag. 7; sentenza del Tribunale federale del 14 aprile 1987 pubblicata in SJ 1988 pag. 121 consid. 4).
6.4.
Dalla sentenza impugnata emerge che, a sgombero avvenuto, la polizia ha deciso di fermare RI 1, cittadino italiano, per sentirlo presso gli uffici di _ e che - nonostante sia stato loro spiegato “
che cosa sarebbe successo, che avremmo semplicemente proceduto alla verbalizzazione del ragazzo” (
verbale dibattimento, audizione _, pag 13) - gli ormai ex-occupanti hanno reagito a questa decisione aggredendo verbalmente e fisicamente le forze dell’ordine.
Ai disordini generati dalla reazione dei giovani ha fatto seguito la legittima decisione del tenente _ di procedere al fermo di tutti i manifestanti presenti (sentenza impugnata, consid. 2.5.-2.6., pag. 14-15)
.
Inutilmente, il ricorrente cerca di proporre una diversa ricostruzione dei fatti con l’estrapolazione dal suo contesto di una dichiarazione resa dal teste _ il 7 aprile 2009, cioè di una risultanza al cui utilizzo lo stesso insorgente si è opposto giusta l’art. 227 cpv. 2 CPP TI. Infatti, anche volendo lasciar perdere la contraddittorietà procedurale in cui cade il ricorrente, non è qui in discussione se lo sgombero della casa è avvenuto in modo pacifico o meno. In discussione e rilevante per la questione sollevata è l’accertamento - sostanzialmente incontestato e, comunque, operato senza arbitrio dal primo giudice - secondo cui è a seguito della decisione delle forze dell’ordine - decisione successiva allo sgombero della casa - di tradurre RI 1 negli uffici di _ che sono iniziate aggressioni verbali e fisiche da parte dei manifestanti contro gli agenti di polizia.
In questa fase di scontro fisico voluto dai manifestanti, legittima è da ritenersi anche la procedura di fermo e di ammanettamento eseguita dalla polizia nei confronti di chi, come RI 3, faceva parte del gruppo di riottosi. In effetti, è sostanzialmente incontestato che il ragazzo - unitamente ad altri compagni (verbale dibattimento, teste _, pag. 11; verbale dibattimento, teste _, pag. 13; verbale dibattimento, audizione di un occupante, pag. 17-18) - non si è limitato a fare resistenza passiva ma si è opposto alle forze dell’ordine scalciando e dimenandosi. Ritenuto che non è nemmeno preteso che, nella procedura di fermo e di ammanettamento, i poliziotti si siano lasciati andare ad episodi di violenza, forza è concludere che l’intervento è stato, non soltanto legittimo, ma pure adeguato e proporzionato (sentenza impugnata, consid 2.11., pag 18). Ritenuto, infine, come la legittimità dell’intervento delle forze dell’ordine fosse del tutto riconoscibile e riconosciuta da parte dei giovani che erano, peraltro, “
perfettamente consapevoli di essere nell’illecito
” (sentenza impugnata, consid. 2.11, pag 18), non può entrare in linea di conto l’ipotesi di una legittima difesa ai sensi dell’art. 15 CP in assenza, già, del presupposto di una minaccia ingiusta.
Non configurando il suo agire nei confronti dell’agente PC 4 una legittima difesa, tantomeno può l’insorgente appellarsi all’art. 16 cpv. 2 CP, presupponendo anche quest’ultimo un’ingiusta aggressione.
Anche su questo punto, il ricorso deve essere respinto.
7.
Da ultimo il ricorrente sostiene, senza argomentare alcunché, che il primo giudice ha violato l’art. 123 CP.
Questa accennata censura, in quanto non motivata, è irricevibile.
8.
In esito a quanto suesposto, le condanne di RI 1, RI 2 e RI 3 per i reati di violazione di domicilio e danneggiamento relativi ai fatti del 29 maggio 2009 presso l’albergo PC 1 sono
annullate e gli atti sono rinviati alla Pretura penale per nuovi accertamenti e per un nuovo giudizio e una nuova decisione anche sugli oneri processuali di prima sede.
Per il rimanente, la sentenza impugnata è confermata.
9.
Sulle spese e le ripetibili di questa sede
Gli oneri processuali del presente giudizio sono posti per 2/3 a carico dello Stato e per 1/3 a carico del ricorrente RI 3 (art. 9 cpv. 1 CPP TI e 15 cpv. 2 CPP TI). Lo Stato rifonderà ripetibili ai ricorrenti, assistiti dal medesimo legale, nella misura di fr. 200.- a RI 1, di fr. 200.- a RI 2 e di fr. 100.- a RI 3; quest’ultimo rifonderà alla parte civile PC 4, assistito da un legale, un’indennità di fr. 400.- per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP TI). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ab00ed52-1806-5ccd-8dd2-4ee8abc7c4db | in fatto: A.
Su istanza della ditta _ SA, _, il 14 luglio 1995 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 3, ha ordinato in via cautelare alla ditta _ SA, _, “di non più fare uso della ragione sociale _, in particolare su insegne, cartelli pubblicitari, carta intestata, timbri e ogni altro mezzo atto a causare confusione con la ditta _ SA”. L'ordine è stato impartito con la comminatoria dell'art. 292 CP. La ditta _ SA è insorta il 20 luglio 1995 alla seconda Camera civile del Tribunale di appello, il cui presidente ha conferito al ricorso effetto sospensivo. Statuendo il 2 novembre 1995, la Camera ha respinto l'appello e ha confermato il decreto del Pretore. Il 20 novembre 1995 la ditta _ SA ha invitato la controparte a disdire, in ossequio alla sentenza di appello, l'allacciamento telefonico _ intestato a “_ SA _ ” figurante nell'elenco Telecom 1995-1997 sotto le località di _ e _. Ripetuto l'invito senza esito il 25 gennaio 1996, la ditta _ SA si è rivolta il 19 febbraio 1996 il Ministero pubblico affinché perseguisse la ditta _ SA (già _ SA) e il suo amministratore unico _ per disobbedienza a decisioni dell'autorità (art. 292 CP) e concorrenza sleale (art. 23 LCSl). Con decreto di accusa del 6 agosto 1997 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di entrambi i reati e lo ha condannato a una multa di fr. 3'000.–. Statuendo su opposizione, con sentenza del 16 dicembre 1997 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 5, ha confermato le imputazioni e la multa. Un ricorso introdotto dal condannato alla Corte di cassazione e di revisione penale è stato respinto il 7 luglio 1998 (inc. 17.98.00003).
B.
Nel frattempo, il 15 ottobre 1996, il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 3, ha ordinato alla ditta _ SA di disattivare il numero telefonico _ancora intestato ad _ SA sull'elenco degli abbonati dei Comuni di _ e _, con la comminatoria dell'esecuzione effettiva (art. 490 CPC). Un ricorso introdotto dalla convenuta contro tale ingiunzione è stato respinto dalla seconda Camera civile del Tribunale di appello il 25 febbraio 1997. Il 20 maggio 1998 il medesimo Pretore ha accolto la petizione di merito e ha ordinato alla ditta “di non iscrivere a Registro di commercio o sul Foglio ufficiale svizzero di commercio la ragione sociale _ SA o ogni altro nome simile, di non fare più uso di tale dicitura né di ogni altra simile, in particolare su insegne, cartelli pubblicitari, carta intestata, timbri, elenco del telefono ed ogni altro mezzo atto a causare confusione con la ditta _ SA”. L'ordine è stato impartito con la comminatoria dell'art. 292 CP. Un ulteriore ricorso inoltrato dalla convenuta alla seconda Camera civile del Tribunale di appello è stato respinto con sentenza del 23 ottobre 1998. L'11 gennaio 1999 la ditta _ ha sporto querela contro _ e la ditta _ SA per concorrenza sleale e disobbedienza a decisione dell'autorità.
C.
Con decreto di accusa dell'11 maggio 2000 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di ripetuta disobbedienza a decisioni dell'autorità e di concorrenza sleale per avere pubblicato sui giornali carnevaleschi di _ del 1999 e del 2000 annunci pubblicitari a nome di “_ SA _ di _ ”, rispettivamente “_ SA _ ”. In applicazione della pena, egli lo ha condannato a 5 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per 2 anni. Statuendo su opposizione, con sentenza del 18 dicembre 2000 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 5, ha confermato l'imputazione di disobbedienza a decisione dell'autorità e di concorrenza sleale limitatamente agli annunci pubblicati sul giornale di carnevale del 1999, condannando l'imputato a 3 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per 2 anni.
D.
Contro la sentenza predetta _ ha introdotto il 18 dicembre 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 22 dicembre 2000, egli chiede la propria assoluzione e la conseguente riforma della sentenza impugnata. Nelle sue osservazioni del 17 gennaio 2001 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. Analoga conclusione formula la parte civile _ SA nel proprio memoriale del 22 gennaio 2001. | Considerando
in diritto: 1.
L'art. 292 CP punisce l'autore di disobbedienza a decisioni dell'autorità con l'arresto o con la multa. Trattandosi di una contravvenzione, l'azione penale si prescrive in un anno (art. 109 CP). Quanto alla prescrizione assoluta, essa si compie “con il decorso di un termine pari al doppio della durata normale” (art. 72 n. 2 cpv. 2 ultima frase CP) e comincia il giorno in cui è stato commesso il reato, rispettivamente il giorno in cui è stato compiuto l'ultimo atto di un reato perpetrato mediante atti successivi o il giorno in cui è cessata l'esecuzione di un reato continuato (art. 71 CP). Essa non si interrompe, salvo nell'ipotesi – estranea nel caso in esame – di una sospensione giusta l'art. 72 n. 1 CP (DTF 111 IV 89, 100 Ib 275) e continua a decorrere anche in pendenza di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale (da ultimo: CCRP, sentenza del 4 novembre 2000 in re F. SA e L. consid. 2). Il suo compimento va rilevato d'ufficio (DTF 97 IV 157).
In concreto al ricorrente è stata imputata disobbedienza a decisioni dell'autorità compiuta mediante la pubblicazione di un annuncio su un giornale di carnevale del 1999. In quell'anno il carnevale è venuto a cadere nella terza settimana di febbraio. Il giornale in questione dev'essere stato diffuso pertanto, al più tardi, nel corso di quei giorni, sicché la prescrizione assoluta è intervenuta, al più tardi, durante la terza settimana di febbraio del 2001, in pendenza del ricorso per cassazione. Ciò osta ormai all'emanazione di un sindacato di merito e impone di annullare anche la sentenza di prima sede, che su questo punto non può più passare in giudicato (CCRP, sentenza del 4 novembre 2000 in re F.SA e L. consid. 3).
2.
In applicazione degli art. 3 lett. d LCSl (RS 241) si rende colpevole di concorrenza sleale (ed è punito a querela di parte, se agisce intenzionalmente, con la detenzione o con la multa sino a fr. 100'000.–: art. 23 LCSl) chiunque “si avvale di misure atte a generare confusione con le merci, le opere, le prestazioni o gli affari d'altri”. Il ricorrente sostiene che nella fattispecie l'unica ragione sociale iscritta a registro di commercio è “_ SA”, non quella indicata nel decreto di accusa (“_SA _ ”). La denominazione “_ SA”, che è quella correntemente usata, non è atta a generare alcuna confusione con la ditta del denunciante _. E siccome la dicitura usata nell'annuncio non è una ragione sociale, non vi sarebbe spazio per una condanna fondata sui fatti enunciati nel decreto di accusa.
In realtà il ricorrente cerca di equivocare sulla dicitura da lui usata nell'inserzione pubblicitaria e su quanto imputatogli dal Procuratore pubblico. Intanto l'art. 3 lett. d LCSl punisce non solo chi crea confusioni effettive con merci, opere, prestazioni o affari altrui, ma anche crea rischi di confusione, e nel caso specifico non fa dubbio che l'annuncio pubblicitario era atto a indurre in errore. Inoltre, nella misura in cui vietava l'uso della dicitura “_ SA” e simili su insegne, cartelli pubblicitari, carta intestata ecc., l'ordine del giudice civile era chiaro. Poco importa che la dicitura usata dal ricorrente non corrisponda alla ragione sociale iscritta a registro di commercio. Determinante è che egli ha fatto uso di tale denominazione a fini commerciali. Del resto, come ha rilevato la seconda Camera civile di appello nella già citata sentenza del 23 ottobre 1998, proprio l'aggiunta alla ragione sociale della dicitura “_ ” era idonea a far sorgere nel pubblico la naturale impressione che le due società fossero in qualche modo legate o appartenessero a un gruppo commerciale facente capo alla famiglia _. Tanto più che entrambi le ditte sono attive nello stesso ramo e si rivolgono per l'essenziale alla medesima cerchia di clienti. Oggettivamente la disattenzione dell'art. 3 lett. d LCSl è quindi data.
3.
Dal profilo soggettivo il ricorrente afferma che l'aggiunta, al nome della ditta, di quello del proprietario e amministratore smentisce l'ipotesi di un comportamento deliberato volto a creare confusione e a trarre illecito profitto. La sua intenzione – egli prosegue – era solo quella di precisare a chi la ditta appartenesse, da chi questa fosse amministrata e a chi occorresse rivolgersi per interpellare la _ SA. La precisazione dell'intero nome “_ ” fugava appunto ogni malinteso. Il ricorrente rimprovera altresì al Pretore di essere incorso in arbitrio evocando una serie di circostanze che proverebbero la concorrenza sleale, dimenticando che nel decreto di accusa gli era stato imputato un unico episodio.
Ancora una volta il ricorso è destinato all'insuccesso, giacché – comunque sia – al ricorrente era stato fatto divieto da parte del giudice civile di usare il cognome _ nell'attività commerciale. Anche nella misura in cui rimprovera al primo giudice di avergli imputato fatti estranei all'atto di accusa, il ricorrente muove censure infondate. A parte il fatto che per giurisprudenza una sentenza incorre nell'annullamento quando è arbitraria nel suo esito, e non soltanto nella motivazione (DTF 126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 123 I 5 consid. 4a, 122 I 253 consid. 6c, 61 consid. 3a, 120 Ia 369 consid. 5a), il Pretore non ha condannato il ricorrente per fatti estranei all'atto di accusa. Ha rilevato che l'intenzionalità dell'atto risultava anche dalla pervicacia con cui l'imputato aveva continuato ad aggiungere alla ragione sociale _ SA la dizione “_ ” sulla carta intestata della società e sul cartello apposto all'entrata del magazzino (sentenza, pag. 8 a metà). Perché ciò dovrebbe essere arbitrario non è dato a divedere. Del resto, determinante è il dispositivo di condanna, il quale contempla unicamente l'inserzione pubblicitaria sul giornale di carnevale di _ del 1999.
4.
Accertato che in pendenza di ricorso l'azione penale per disobbedienza a decisioni dell'autorità si è prescritta, di modo che non entra più in considerazione l'applicazione dell'art. 68 n. 1 CP, occorre procedere a una nuova commisurazione della pena (art. 296 cpv. 1 CPP). Come si è visto, nel decreto di accusa il Procuratore pubblico aveva condannato il ricorrente a 5 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per 2 anni. Il Pretore
ha ridotto la pena detentiva a 3 giorni, con il beneficio della sospensione condizionale per 2 anni, tenuto conto del proscioglimento dalle accuse di disobbedienza a decisioni dell'autorità e di concorrenza sleale per l'inserzione pubblicitaria sul giornale di carnevale del 2000. In questa sede il ricorrente non può più essere punito nemmeno per la disobbedienza a decisioni dell'autorità relativamente all'inserzione pubblicata sul giornale del 1999. Resta la condanna per concorrenza sleale compiuta in quella circostanza ai danni della ditta denunciante. Ora, la violazione dell'art. 3 lett. d LCSl è sanzionata con la pena della detenzione o con la multa sino a fr. 100'000.– (art. 23 LCSl). Trattasi quindi di un delitto, mentre la disobbedienza a decisioni dell'autorità (art. 292 CP) è punita unicamente con l'arresto o la multa ed è quindi una contravvenzione. Se si pensa che il ricorrente già è stato condannato dal Pretore il 16 dicembre 1997 al pagamento di una multa di fr. 3'000.– per disobbedienza a decisioni dell'autorità e per concorrenza sleale in relazione a fatti analoghi, non sussiste motivo per pronunciare una pena inferiore al minimo edittale di 3 giorni di detenzione (art. 36 CP). A nulla rileva che questa corrisponda alla pena inflitta dal Pretore: nella commisurazione della pena, invero, questa Corte non è vincolata al giudizio di prima sede e non è abilitata per ciò solo a disattendere i minimi fissati dalla legge.
5.
Dato l'esito del gravame, sia pure per intervenuta prescrizione assoluta dell'azione penale, si giustifica di porre tre quarti degli oneri processuali a carico del ricorrente, mentre il resto va assunto dallo Stato (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). Il ricorrente verserà inoltre alla parte civile, che per presentare osservazioni si è valsa dell'assistenza di un legale, un'indennità per ripetibili ridotte (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ab142cb1-1a4f-59ed-9594-b69713384732 | in fatto:
che con decreto di accusa dell'11 marzo 2002 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di lesioni semplici per avere colpito con pugni al torace e al volto _, cagionandogli i danni fisici attestati in un certificato medico 18 aprile 2001 del dott. _ (“naso edematoso con un livido al sopracciglio destro con sospetta frattura dell'osso nasale”), e lo ha condannato pertanto a una multa di fr. 400.–;
che contro il decreto di accusa _, segretario regionale del Sindacato _, ha inoltrato opposizione il 21 marzo 2002 a nome dell'accusato sulla base di una procura da questi firmata il 15 marzo 2002 per ottenere assistenza e patrocinio;
che il 25 marzo 2002 _, costituitosi parte civile, ha introdotto anch'egli opposizione al decreto di accusa per il tramite di _, dipendente del Sindacato _;
che con sentenza del 7 gennaio 2004 il giudice della Pretura penale ha dichiarato irricevibili entrambe le opposizioni perché introdotte da mandatari non abilitati al patrocinio;
che contro la sentenza appena citata _ ha presentato ricorso personalmente il 29 dicembre (
recte:
gennaio) 2004 alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendo che sia confermata la sua opposizione del 21 marzo 2002;
che con osservazioni del 9 febbraio 2004 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso, mentre _ è rimasto silente.
e considerando | in diritto:
che giusta l'art. 289 cpv. 2 CPP un ricorso per cassazione dev'essere inoltrato entro venti giorni dalla notificazione della sentenza scritta;
che in concreto la sentenza del giudice della Pretura penale è stata intimata il 7 gennaio 2004;
che il ricorrente asserisce di avere ricevuto tale decisione “il 9 settembre 2004”, incorrendo in una svista, perché poteva trattarsi solo del 9 gennaio 2004;
che, del resto, anche il ricorso per cassazione porta la data del 29 dicembre 2004, ma evidentemente si tratta di un'ulteriore inavvertenza, poiché correttamente doveva essere indicato il 29 gennaio 2004;
che, interpellato per fax dalla Corte di cassazione e di revisione penale il 28 aprile 2004, l'ufficio postale di _ ha comunicato lo stesso giorno per fax che il plico raccomandato n. _ contenente la sentenza della Pretura penale è stato recapitato al destinatario non il 9 gennaio, bensì l'8 gennaio 2004;
che, pertanto, il termine per presentare il ricorso per cassazione è scaduto il 28 gennaio 2004, e non il 29 gennaio 2004 come pretende l'interessato;
che, consegnato alla posta di _ il 30 gennaio 2004, alle ore 14.21 (LSI _), il ricorso si rivela dunque tardivo e come tale irricevibile;
che in ogni modo, quand'anche la sentenza impugnata fosse stata consegnata al ricorrente il 9 gennaio 2004, nulla muterebbe alla tardività del ricorso, poiché in tal caso quest'ultimo doveva essere consegnato alla posta al più tardi entro la mezzanotte del 29 gennaio 2004;
che, sia come sia, il ricorso sfugge perciò a un esame di merito;
che gli oneri del giudizio odierno, volutamente contenuti per tenere conto del fatto che il pronunciato si esaurisce in una dichiarazione di inammissibilità, seguono la soccombenza (art. 15
cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP);
vista sulle spese anche la tariffa giudiziaria, | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ab4f165a-20b2-5645-bf9d-b3365e8f9efd | in fatto: A.
A seguito di denuncia penale presentata il 7 marzo 2008 da, il Ministero Pubblico ha avviato il 10 marzo 2008 un procedimento penale a carico del RI 1, per lesioni colpose gravi, per fatti avvenuti il 4/5 giugno 2003 a _. Con decreto d'accusa 4 maggio 2010 il Procuratore Pubblico ha riconosciuto il RI 1 autore colpevole di lesioni colpose gravi per avere, nel periodo 4/5 giugno 2003, a _, per imprevidenza colpevole, cagionato un grave danno al corpo e/o alla salute di PC 1, e meglio “
per avere omesso, nella sua qualità di medico chirurgo, dopo un intervento di plastica al ginocchio sinistro, di porre corretta tempestiva diagnosi sull'origine della presenza di dolore al polpaccio (crampiformi) e alla caviglia, dei disturbi alla sensibilità della pianta del piede, rispettivamente di una tumefazione alla caviglia e a tutto il polpaccio e dei disturbi alla mobilità (attiva e passiva) della caviglia, sviluppati dalla paziente, procedendo ad esami inadeguati quali eco doppler, e risonanza magnetica, che non permisero di formulare la diagnosi (relativo trattamento) di sindrome compartimentale del compartimento posteriore profondo e del compartimento antero laterale, riscontrabili effettuando invece una misurazione della pressione all'interno del compartimenti come descritto dalla perizia giudiziaria del 27.11.2009/2.12.2009, provocando alla paziente l'insorgenza di un piede paritetico con sequele menomanti a tutt'oggi persistenti come descritto nel parere del perito di data 15 marzo 2010
”
e ne ha proposto la condanna alla pena pecuniaria di fr. 39'000.–, corrispondente a cinquanta aliquote giornaliere da fr. Fr. 780.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e al pagamento di tasse e spese.
B.
Con scritto 20 maggio 2010 il RI 1 ha presentato opposizione. Di conseguenza il 27 maggio 2010 il Ministero pubblico ha trasmesso l'incarto penale per competenza alla Pretura penale. Con ordinanza di apertura 28 maggio 2010, il Presidente della Pretura penale ha ammesso i mezzi di prova indicati dal decreto d'accusa, ha assegnato alle parti un termine di dieci giorni per notificare le prove che si intendono assumere al dibattimento (con riferimento all'art. 227 cpv. 1 e 3 CPP), nonché un medesimo termine per eventualmente opporsi all'uso dibattimentale delle altre risultanze dell'istruzione formale (con riferimento all'art. 227 cpv. 2 CPP). In data 1° giugno 2010, prima della scadenza dei termini fissati con l'ordinanza 28 maggio 2010, il giudice della Pretura penale ha citato le parti a comparire nell'aula udienze venerdì 4 giugno 2010 alle ore 9.00 per procedere al dibattimento; anche l'aggiornamento del dibattimento era previsto prima della scadenza dei termini della predetta ordinanza. Con ricorso 2 giugno 2010, il RI 1 ha chiesto alla Camera dei ricorsi penali (CRP) l'annullamento della citazione 1° giugno 2010 e la fissazione del dibattimento per una data che tenesse conto delle normative legali (art. 224, 228 e 230 CPP), il breve preavviso impedendogli, a suo dire, tra l'altro di presenziare al dibattimento (per gli impegni professionali già assunti e non prorogabili) e non permettendo all'avvocato difensore di preparare e presenziare al dibattimento.
Con decisione 2 giugno 2010, la CRP ha accolto il ricorso e annullato la citazione 1° giugno 2010 per il 4 giugno 2010. La CRP ha motivato la propria decisione ricordando che l'art. 230 cpv. 3 CPP prevede che le citazioni siano staccate al più tardi entro dieci giorni prima del dibattimento, termine minimo finalizzato a consentire la preparazione del dibattimento, quindi non un termine d'ordine. La CRP ha aggiunto che il termine in questione deve essere messo in relazione con gli altri due termini, di medesima durata, previsti dall'art. 227 cpv. 1 e 2 CPP, per la notifica delle prove da assumere e per l'opposizione all'uso dibattimentale di altre risultanze dell'istruzione formale. La CRP ha quindi ritenuto che la citazione non ossequiava il termine dell'art. 230 cpv. 3 CPP, e neppure i termini dell'art. 227 cpv. 1 e 2 CPP, come pure che il dibattimento era stato indetto prima ancora che fossero scaduti i termini assegnati con l'ordinanza d'apertura del 28 maggio 2010. Più in generale, con riferimento all'art. 6 cifra 1 e cifra 3 litt. b CEDU, 29 cpv. 2 e 32 cpv. 2 Cost, la CRP ha ribadito che il termine di 10 giorni surriferito, non è un termine d'ordine ma perentorio e che l'imminente prescrizione non era un motivo sufficiente per soprassedere a tale termine e per violare una norma legale chiara. Dati i tempi stretti, la CRP ha proceduto all'intimazione della decisione, facendola pervenire quello stesso 2 giugno 2010, al giudice della Pretura penale e alle parti anche per fax.
Il giudice della Pretura penale ha preso conoscenza della predetta decisione il 2 giugno 2010 alle ore 18.00 (cfr. sentenza impugnata consid. 7). Il giorno successivo, giovedì 3 giugno 2010, era giorno festivo del Corpus Domini.
C.
La mattina del 4 giugno 2010, la parte civile PC 1 e il suo patrocinatore si sono presentati presso la sede della Pretura penale, benché il predetto patrocinatore fosse comunque, a suo dire, quella mattina, “
poco prima del dibattimento
” stato informato telefonicamente dalla segretaria della menzionata decisione della CRP (cfr. osservazioni al ricorso, pag. 9 in alto). Il giudice della Pretura penale, preso atto “
preliminarmente e prima dell'apertura del procedimento
” della dichiarazione del patrocinatore della parte civile di voler interporre ricorso avverso la predetta decisione della CRP, ha ritenuto di non poter “
prescindere dall'apertura del dibattimento
” in quanto “
la decisione della CRP (che non ha deciso sull'effetto sospensivo, ma immediatamente nel merito)
” non era “
cresciuta in giudicato, potendo la stessa essere impugnata al Tribunale federale
” (verb. dib. pag. 1). Il giudice della Pretura penale, alle ore 9.15, ha poi dichiarato aperto il dibattimento e, in presenza della sola parte civile e del suo patrocinatore, ha proceduto nelle forme contumaciali, verbalizzando che “
l'accusato ed il suo patrocinatore (entrambi citati al dibattimento)
” avevano “
dichiarato di non intendere partecipare
” (verb. dib. pag. 2 in basso e pag. 3 verso l'alto). Acquisiti gli atti formanti l'incarto del Ministero pubblico, come pure gli accertamenti sulla situazione personale ed economica eseguiti dalla Pretura penale e “
sentito il patrocinatore della parte civile
”, il giudice della Pretura penale ha dichiarato chiusa la fase istruttoria alle ore 9.30 (verb. dib. pag. 3 nel mezzo). La parte civile ha poi ripercorso brevemente i fatti, chiedendo, in conclusione, la conferma del decreto d'accusa. Posti i quesiti per il giudizio, in assenza di opposizione ai quesiti, alle ore 9.42 il giudice della Pretura penale ha dichiarato definitivi i quesiti e sospeso il dibattimento (verb. dib. pag. 4 in alto). Alle ore 10.25 il giudice della Pretura penale ha riaperto il dibattimento e, dopo aver motivato il giudizio, ha dato lettura del dispositivo che prevedeva la conferma delle imputazioni del decreto d'accusa, la condanna del RI 1 a pene più elevate rispetto a quelle proposte dal Procuratore Pubblico, e meglio alla pena pecuniaria di fr. 48'500.–, corrispondente a cinquanta aliquote giornaliere da fr. Fr. 970.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di fr. 1'000.–, al pagamento di tasse e spese giudiziarie di complessivi fr. 7'200.–, come pure assegnazione di fr. 2'000.– alla parte civile a titolo di ripetibili (verb. dib. pag. 4 dall'alto verso il basso). Alle ore 12.05 la cancelleria della Pretura penale ha per finire informato per fax il patrocinatore dell'accusato che il dibattimento era comunque “
stato effettuato per i motivi
” rilevabili dal verbale del dibattimento, inviato “
per conoscenza
” pure per fax (annesso al verb. dib./act. n. 8 incarto della Pretura penale).
D.
Contro la citata sentenza contumaciale, motivata poi per scritto, il RI 1 ha inoltrato il 4 giugno 2010 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi scitti del gravame, presentati il successivo 13 luglio 2010, egli ha chiesto l'annullamento del giudizio, avendo, a suo dire, il giudice della Pretura penale proceduto a torto nelle forme contumaciali. Il 7 settembre 2010 il Procuratore Pubblico ha comunicato di non avere particolari osservazioni e di rimettersi al giudizio di questa Corte. Con osservazioni 7 settembre 2010, la parte civile ha chiesto la reiezione del ricorso e la conferma della decisione impugnata.
D.
Con decisione 15 luglio 2010, il Tribunale federale aveva nel frattempo dichiarato irricevibile il ricorso in materia penale interposto in data 1° luglio 2010 dalla parte civile con richiesta di annullamento della decisione 2 giugno 2010 e di conseguente convalida della citazione del dibattimento per il 4 giugno 2010. Con il ricorso PC 1 non aveva comunque postulato effetto sospensivo, ma di tenere in sospeso la trattazione del ricorso “
sino al giudizio sul caso da parte della Corte di cassazione e revisione penale del Canton Ticino
”. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP, il ricorso per cassazione può essere presentato per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (lett. a), per vizi essenziali di procedura, purché il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile (lett. b) e per arbitrio nell’accertamento dei fatti (lett. c).
Contro una sentenza pronunciata in contumacia, il ricorso per cassazione è ammissibile limitatamente alla declaratoria di contumacia (CCRP 2.12.2009, inc. 17.2009.54; CCRP 5.03.2008, inc. 17.2008.14; CCRP 22.11.2005, inc. 17.2005.44; Rep. 1982 pag. 194).
2.
Nel ricorso il RI 1 impugna la declaratoria di contumacia. Egli si aggrava per il fatto che il dibattimento è stato celebrato in assenza di citazione della sua persona, essendo la citazione, emessa dal giudice della Pretura penale il 1°/2 giugno 2010 per un dibattimento al 4 giugno 2010, alle ore 9.00, stata annullata dalla CRP con sentenza 2 giugno 2010, immediatamente esecutiva. A titolo abbondanziale il RI 1 ha sostenuto che comunque la citazione non era regolare e che, in ogni caso, la sua assenza era giustificata.
3.
Come indicato al consid. 1, in applicazione dell'art. 288 lett. b CPP, il ricorso per cassazione può essere presentato per vizi essenziali di procedura a condizione che il ricorrente abbia eccepito l'irregolarità appena possibile. In concreto ciò è il caso: il ricorrente è stato informato dell'avvenuta celebrazione del dibattimento alle ore 12.05 del 4 giugno 2010, con l'invio per fax del verbale del dibattimento da parte della cancelleria della Pretura penale (annesso al verb. dib./act. n. 8 incarto della Pretura penale). Quel medesimo giorno il ricorrente ha eccepito, nell'ambito di un istanza di nuovo giudizio ex art. 277 CPP, notificata con “
raccomandata a mano
”, che la tenuta del dibattimento reiterava “
gravi violazioni della procedura
”, avendo la CRP “
accolto il ricorso annullando la citazione
” e che la citazione del 1° giugno 2010 violava comunque “
diverse norme legali
” (act. n. 10 incarto della Pretura penale).
4.
Il ricorrente sostiene di essere stato considerato a torto contumace. A ragione.
4.1
E' contumace l'imputato che, citato regolarmente a comparire di persona, non si presenta al dibattimento, la regolarità della citazione costituendo la condizione
sine qua non
della validità del giudizio (
Piquerez
, Traité de procédure pénale suisse, 2
a
ed., Ginevra-Zurigo-Basilea 2006, n. 1168 pag. 734). Per poter rendere un giudizio in contumacia, il giudice deve aver citato regolarmente l'imputato per il dibattimento, nel rispetto delle forme e dei termini di citazione (
Piquerez
, op. cit., n. 1170 pag. 735;
Hauser/Schweri/Hartmann
, Schweizerisches Strafprozessrecht, Basilea-Ginevra-Monaco 2005, § 91 n. 15-16).
4.2
Nel caso in esame, la citazione del dibattimento spiccata dal giudice della Pretura penale il 1°/2 giugno 2010 per un dibattimento al 4 giugno 2010, alle ore 9.00, era stata annullata dalla CRP con sentenza 2 giugno 2010, che aveva accolto il ricorso presentato quel medesimo giorno dall'imputato RI 1. La decisione, anticipata per fax la sera del 2 giugno 2010 (vista l'urgenza ed essendo il giorno successivo festivo) era nota al giudice (cfr. sentenza impugnata pag. 7 consid. 7) e alle parti (parte civile compresa: cfr. osservazioni al ricorso, pag. 9 in alto) prima dell'inizio del dibattimento. Il fatto che la CRP si fosse pronunciata direttamente nel merito, in un brevissimo lasso di tempo, e non sull'effetto sospensivo (pure postulato dal RI 1) – addotto dal giudice della Pretura penale a sostegno della non esecutività della decisione – costituiva semmai un elemento in più per il giudice per attenersi scrupolosamente ed immediatamente alla decisione dell'autorità superiore di ricorso. La mattina del 4 giugno 2010, del resto, non era pendente alcun ricorso al Tribunale federale avverso la decisione della CRP, con domanda di effetto sospensivo. Diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, la decisione della CRP era dunque esecutiva, non bastando la semplice manifestazione di intenzione di ricorrere al Tribunale federale – resa nota al giudice dalla parte civile – a sospendere l'esecutività della sentenza. Per altro, come rettamente evidenziato dal ricorrente, a norma dell'art. 103 cpv. 1 LTF, il ricorso al Tribunale federale non ha di regola effetto sospensivo (
Donzallaz
, Loi sur Tribunal fédéral, Commentaire, Berna 2008, n. 4147 pag. 1505) e nel caso concreto non ricorreva alcuno dei casi particolari per i quali l'effetto sospensivo è eccezionalmente previsto, a norma dell'art. 103 cpv. 2 LTF. Tant'é che, nel proprio ricorso poi introdotto il 1° luglio 2010 al Tribunale federale avverso la menzionata decisione della CRP, la parte civile neppure ha postulato la concessione dell'effetto sospensivo.
La mattina del 4 giugno 2010 non esisteva dunque alcuna valida citazione che astringeva l'accusato a comparire nell'aula del dibattimento. Già per questo motivo il ricorso merita di essere accolto.
4.3
Comunque, anche qualora la decisione della CRP non fosse stata immediatamente esecutiva, non poteva sfuggire al giudice della Pretura penale che la citazione da lui spiccata il 1°/2 giugno 2010, per un dibattimento al 4 giugno 2010, alle ore 9.00, era palesemente irregolare, contravvenendo ai chiari termini previsti dalla procedura penale ticinese (art. 230 cpv. 3 CPP) ed essendo in urto flagrante con i termini di 10 giorni concessi dalla medesima Pretura il 28 maggio 2010 per notificare le prove da assumere al dibattimento (con riferimento all'art. 227 cpv. 1 e 3 CPP), nonché per eventualmente opporsi all'uso dibattimentale delle altre risultanze dell'istruzione formale (con riferimento all'art. 227 cpv. 2 CPP), termini, questi ultimi, che non risultavano scaduti né al momento della notifica della citazione né il giorno in cui era previsto il dibattimento. In simili circostanze, il giudice della Pretura penale non poteva non rendersi conto che la notifica della citazione risultava anche chiaramente contraria al principio della buona fede processuale.
Oltre a ciò, va evidenziato che il RI 1, con lettera 2 giugno 2010 – trasmessa alla Pretura anche per fax (act. n. 6 incarto della Pretura penale) – aveva chiesto, motivandolo, il rinvio di un dibattimento citato in termini di tempo così brevi. Il giudice della Pretura penale non poteva non avvedersi che il fatto di non dare neppure risposta a detta richiesta e di riportare a verbale la comunicazione scritta 2 giugno 2010 dell'imputato e del suo patrocinatore (conseguente alla menzionata richiesta di rinvio) di non partecipazione al dibattimento – comunicazione per altro superata dalla decisione della CRP, che questi ultimi, la mattina del 4 giugno 2010, potevano legittimamente ritenere valida ed immediatamente esecutiva – ostava nuovamente alla buona fede processuale, rendendo ancor più irregolare la citazione e la celebrazione del dibattimento.
Anche per questi motivi il ricorso merita di essere accolto, senza che sia necessario – viste le flagranti irregolarità procedurali di cui sopra – esaminare le ulteriori considerazioni delle parti.
5.
Il primo giudice ha motivato il suo agire, con esigenze di opportunità processuale attinenti alla salvaguardia della prescrizione penale. E' opportuno ricordare che non spetta al giudice prestarsi ad artifizi procedurali palesemente in urto con le norme di procedura e con le decisioni di un'autorità superiore di ricorso, per porre rimedio all'imminenza della prescrizione, determinata, non da ultimo, anche dal ritardo (quasi cinque anni) con cui i fatti sono stati denunciati all'autorità inquirente.
6.
Visto quanto precede, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va annullata e gli atti rinviati ad un nuovo giudice della Pretura penale per le decisioni di sua competenza. Gli oneri processuali vanno caricati allo Stato (art. 15 cpv. 2 CPP), che verserà fr. 1'000.– al RI 1 per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ab8bf641-5f73-5cf5-b15d-1d3638b16962 | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 18 agosto 2008, il sostituto procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di:
- diffamazione ripetuta per avere, nel periodo marzo 2006 - marzo 2007, via Internet, lasciato sul guestbook dello _ e inviato via e-mail dall’indirizzo _ i seguenti scritti:
·
il 15 marzo 2006 fattosi passare per CC. lasciando il messaggio "Vendo le mie secrezioni vaginali a 2.-- fr./decilitro. Contattatemi.";
·
il 15 marzo 2006 fattosi passare per F. e per CC. lasciando il seguente messaggio "Almeno io non sono perseguitato dalla Polizia Municipale di _ per pedofilia (come il G. e la _) ...";
·
il 26 marzo 2006 lasciando il messaggio "CC.: ti ricordi quando ti scopavi il G. qualche anno fa ... nei cameroni dopo il refettorio e te lo sei scopata nel Schlafsack davanti a tutti i ragazzi presenti ...";
·
il 19 agosto 2006 fattosi passare per G., soprannome di F., lasciando i seguenti messaggi "però mi piace, lo ammetto, squartare col mio cazzo i giovani soci del club", "il G. frocio deciso, col suo culo si vende preciso";
·
il 9 gennaio 2007 lasciando il seguente messaggio "Vi rendo noto il fatto che il G. è un pederasta pedofilo che ama il pediluvio in un pedalò col P.";
·
il 24 gennaio 2007 lasciando il seguente messaggio "G., perkè nn racconti a tutti che sei un pedofilo del cazzo assetato di ani vergini?";
·
il 21 ottobre 2006 inviando il messaggio e-mail a PC 1 "Ascolta, vuoi che tutti sappiano che ti hanno sbattuto fuori dal _ perché ti hanno preso a frugare nelle carte del rettore??????";
·
il 2 novembre 2006 inviando il messaggio e-mail a PC 1 "Oh. ..vuoi che ti sputtano????? sai che io so che al _ ti hanno sbattuto fuori perchè hai frugato nelle carte del R.???";
·
il 30 novembre 2006 inviando il messaggio e-mail a PC 1 "... hai fatto fallire la _ ";
nonché di
- ingiuria ripetuta, per avere, con scritti lasciati sul guestbook dello _ e inviati via e-mail dall’indirizzo PC 1:
·
il 26 marzo 2006 offeso l'onore di F. tacciandolo di "bastardo di merda";
·
il 26 marzo 2006 offeso l'onore di CC. tacciandola, due volte di "troia";
·
il 13 aprile 2006 offeso l'onore di M.. tacciandolo di "minchione, coglione";
·
il 13 aprile 2006 offeso l'onore di CC. tacciandola di "troia" "scrofa";
·
il 19 agosto 2006 offeso l'onore di CC. tacciandola di "troietta";
·
il 02 novembre 2006 offeso l'onore di PC 1 tacciandolo di "stronzo";
·
il 30 novembre 2006 offeso l'onore di PC 1 tacciando di "bastardo";
·
il 2 gennaio 2007 offeso l'onore di CC. tacciandola di "troia";
·
il 22 gennaio 2007 offeso l'onore di CC. tacciandola di "troiona";
·
il 27 gennaio 2007 offeso l'onore di CC. tacciandola di "troia puttanella".
In applicazione della pena, il sostituto procuratore pubblico ha proposto la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 20 aliquote giornaliere di fr. 30.- cadauna – pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni – e alla multa di fr. 800.- (da sostituirsi, in caso di non pagamento, con 8 giorni di pena detentiva).
B. RI 1
ha
sollevato opposizione contro il citato decreto.
C.
Il giudice della pretura penale, con sentenza 3 marzo 2009, ha confermato la condanna di RI 1 per ripetuta diffamazione e ingiuria condannandolo alla pena pecuniaria di 15 aliquote giornaliere di fr 30.- cadauna – pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni – e alla multa di fr 150.- (da sostituirsi, in caso di non pagamento, con 5 giorni di pena detentiva).
D.
Motivando la dichiarazione di ricorso 6 marzo 2009 con ricorso 10 aprile 2009, RI 1, sostenendo l’arbitrio nell’accertamento dei fatti, ha chiesto l’annullamento della sentenza con conseguente suo proscioglimento.
E.
Il sostituto procuratore pubblico, con osservazioni 19 maggio 2009, ha chiesto la reiezione del gravame.
Altrettanto ha fatto la parte civile PC 1 con osservazioni di ugual data. | Considerato
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP).
Va, a questo proposito, precisato che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
Il ricorrente sostiene che il primo giudice è caduto in arbitrio accertando che è lui il mittente dei messaggi considerati nel decreto d’accusa.
2.1.
Il primo giudice ha, dapprima, accertato che RI 1 (studente presso la facoltà di scienze politiche dell’università di _) è stato, fino al 2005, membro attivo dello _ – di cui le parti civili CC. e F. sono rispettivamente presidente e segretaria/membro del comitato – nonché della società atletica _ , di cui PC 1 era, al momento dei fatti, presidente.
Egli ha, poi, accertato che lo _ è titolare di un sito che, tra l’altro, offre un guestbook
“che permette ai vari soci ed amici di comunicare tra loro e di lasciare dei messaggi che risultano poi visibili a chiunque si collega al sito”
(sentenza di primo grado, consid. 1 pag. 4). Dopo avere ricordato le circostanze che portarono le parti civili a sporgere querela, il pretore ha ricordato che gli inquirenti sono riusciti a stabilire che i messaggi indirizzati ai membri dello _ provenivano
“da un computer che risponde ad un IP di proprietà della ditta _ con sede in rue de la _ (3 identificazioni) mentre altri sono riconducibili a numeri IP (2 identificazioni) in uso all’università di _”
che erano stati assegnati dai responsabili di quest’ultimo istituto
“ad uno studente che è risultato essere proprio il signor RI 1”
.
Inoltre, il primo giudice ha accertato che i messaggi indirizzati a PC 1 sono stati spediti tramite la rete wireless dell’università di _ “
da un utente che è risultato corrispondere alla persona dell’accusato
” (sentenza di primo grado, consid. 6 pag. 6).
Quindi, il primo giudice ha sottolineato che RI 1 non ha contestato l’identificazione IP dei messaggi partiti dall’università di _ con il suo computer ma ha contestato di esserne il mittente poiché “
l’avere stabilito da quale computer siano partiti i messaggi non significa ancora avere individuato la persona che in quel momento pigiava i tasti
” e che egli ha negato che vi possa essere un collegamento fra lui e l’IP della ditta _.
Tuttavia, il primo giudice, dopo avere giudicato inconsistente e poco credibile la tesi difensiva secondo cui uno sconosciuto abbia utilizzato il computer dell’imputato per spedire i messaggi, ha ritenuto accertato che sia stato proprio questi a farlo sulla base – oltre che degli accertamenti surriportati riguardo i punti di partenza (numeri IP in uso all’università di _ e assegnati a RI 1 e numero IP di _) – dei seguenti elementi:
-
RI 1 aveva la possibilità di collegarsi ad una rete senza fili tramite la tecnologia wireless. Egli lo poteva fare tramite l’accesso concessogli dall’università di _ previa introduzione di login e password e, pure, attraverso la rete wireless della _ che, a differenza dell’istituto accademico, era priva di protezione da incursioni esterne di chiunque si trovasse nel raggio coperto dai suoi apparecchi emittenti, così come era il caso per RI 1 che abita in rue de la _, a pochissima distanza dagli uffici della ditta siti in rue de la _;
-
nessun dipendente della _ è risultato avere un legame con i destinatari dei messaggi e non vi è traccia di studenti o altre persone nella cerchia dell’università o che abitano in prossimità di rue de la _ che possano in qualche modo essere messe in relazione con le parti lese o le parti civili;
-
RI 1 è stato membro sia dello _ che della _ e conosceva tutte le persone nominate nei messaggi e aveva inserito fra i siti preferiti del suo laptop i siti dello _ e della _ nonché l’indirizzo e-mail di PC 1 con cui aveva avuto accesi diverbi (che lo spinsero a lasciare la _) e di cui sapeva che era stato docente al _ e per cui ha detto di non provare nessuna stima;
-
RI 1 non ha mai negato di essere stato, nei momenti cruciali, nei luoghi dove era piazzato il suo computer.
Tutti questi elementi convergenti, uniti al fatto che l’elevato numero di messaggi inviati da IP riconducibili a RI 1 parla contro l’ipotesi di una semplice casualità e al fatto che l’invio di messaggi è cessato dopo la prima verbalizzazione di RI 1 (senza che questi abbia mai sostenuto di avere divulgato la notizia del suo interrogatorio), sono stati letti dal primo giudice come “
numerosi indizi convergenti che permettono di ritenere con sicurezza che sia stato il signor RI 1 a trasmettere i messaggi e gli e-mails indicati nel decreto d’accusa in esame e che permettono di escludere con certezza la mano di una terza persona
” (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 7 – 10).
2.2.
Il ricorrente, rimproverando al giudice di prime cure di avere arbitrariamente accertato che è stato lui a spedire i messaggi incriminati, si è soffermato, nel suo allegato, sui diversi elementi chiamati a sostenere tale accertamento.
Egli ha, dapprima, rilevato, in relazione ai messaggi partiti dall’IP della _ , di avere più volte dichiarato – e di averlo fatto anche in aula – di non avere mai usato il suo laptop a casa. Inoltre, egli ha affermato che la zona in cui la ditta ha i suoi uffici è una zona abitata da molti studenti. Ritenuto che la rete wireless della _ non era protetta – ha concluso il ricorrente sull’argomento – e che, perciò, chiunque poteva collegarsi con essa, “
la prova dell’avvenuto collegamento dell’imputato non è agli atti
” essendo, poi, sempre per lo stesso motivo, irrilevante il fatto che nessun impiegato della ditta è risultato avere legami con il Ticino o con le due società sportive (ricorso pag. 3 e 4).
Quanto ai messaggi partiti dall’IP a lui assegnato dall’università di _ , il ricorrente afferma come egli non abbia mai contestato che essi siano stati scritti e spediti con il suo laptop ma ritiene che da ciò non possa ancora essere dedotto, senza arbitrio, che sia stato lui a scrivere e a spedire tali messaggi. Dopo avere sottolineato che “
non gli sarebbe mai venuto in mente di comunicare (...) tramite uno pseudonimo o di creare un indirizzo e-mail falso, poiché non è assolutamente il tipo che si nasconde dietro un nome fittizio per diffamare gente cui voleva e vuole ancora molto bene”,
il ricorrente afferma che
“egli si trovava per mesi ogni giorno nello stesso stabile universitario (biblioteca, mensa, bar) e lasciava spesso incustodito il suo laptop poiché andava a mangiare, frequentava le lezioni, ecc
.” e precisa che, quando egli faceva una pausa, il suo “
portatile era sempre in rete e connesso a internet con il suo IP
”, senza alcun blocco automatico dell’accesso. L’università di _ – continua il ricorrente – è frequentata da molti studenti ticinesi e, fra questi, ve ne sono sicuramente molti che hanno frequentato le due società sportive interessate dai messaggi e altrettanti che hanno frequentato il collegio _ . Per questo – continua il ricorrente – le sue spiegazioni (e cioè, che qualcuno ha usato il suo computer nei momenti in cui lui lo lasciava incustodito) andavano maggiormente considerate a prova della sua innocenza così come andava considerato, sempre a sua discolpa, il fatto che egli non è mai stato allievo del _ e, quindi, egli non poteva sapere nulla dei rapporti fra PC 1 e l’ex-rettore (ricorso pag. 4 -7).
Continuando nel suo esposto, il ricorrente rileva come sia del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della paternità dei messaggi il fatto che, fra i suoi preferiti, vi erano i siti dello _ e della _ : tra i suoi
“preferiti”
– continua – “
vi erano anche siti di giornali svizzeri ed esteri, di politica e di sport
” e lui li usava per guardare “
ogni tanto le foto, il programma di stagione, le attività, i diversi corsi e gli articoli, ma nulla di più
“. Quanto all’indirizzo e-mail di PC 1, questo era – riferisce il ricorrente – “
noto a tutti quelli che visitavano il sito della _
” (ricorso pag. 6).
Quanto ai suoi rapporti con PC 1 – spiega ancora il ricorrente –
“è assolutamente vero (...) che non erano buonissimi poiché c’erano dei conflitti a proposito delle assenze agli allenamenti”.
Tuttavia, egli precisa che, quando lasciò la _ , spiegò con una lettera aperta indirizzata alla _ e a PC 1 i motivi della sua partenza (ricorso pag. 8).
Infine, il ricorrente spiega la cessazione dell’invio di messaggi dopo il suo primo interrogatorio con il fatto che egli si spaventò molto e che, perciò, “
ha fatto di tutto per proteggersi immediatamente dagli abusi subiti e ovviamente non ha più lasciato il suo portatile incustodito in biblioteca
” (ricorso pag. 8).
Queste considerazioni – conclude il ricorrente – dimostrano che la sentenza è da ritenere
“apertamente insostenibile, destituita di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti poiché non vi sono abbastanza indizi convergenti
”. In queste circostanze, un’analisi più ampia del materiale probatorio avrebbe dovuto imporre l’applicazione del principio
in dubio pro reo
e la sua assoluzione dai reati ascrittigli
“poiché dagli atti non emerge in modo incontrovertibile che l’autore dei messaggi e creatore dell’indirizzo e-mail sia il signor RI 1”
(ricorso pag. 10).
2.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1.; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30.3.2007 6P.218/2006) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. E’, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trovi in chiaro contrasto con gli atti, si fondi su una svista manifesta o contraddica in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il TF ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1.)
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7.05.2003 6P.37/2003 consid. 2.2).
Il precetto
in dubio pro reo
è il corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II e disciplina sia la valutazione delle prove sia la ripartizione dell'onere probatorio. Per quanto riguarda l'onere probatorio, esso impone alla pubblica accusa di provare la colpevolezza dell'imputato e non a quest'ultimo di dimostrare la propria innocenza. Al proposito la Corte di cassazione e di revisione penale fruisce – come il Tribunale federale – di libero esame (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 40, 124 IV 86 consid. 2a pag. 87). Per quanto attiene invece alla valutazione delle prove, il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie. Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi teorici sono sempre possibili; il principio è disatteso quando il giudice penale avrebbe dovuto nutrire sulla colpevolezza, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, dubbi rilevanti e insopprimibili (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38). Sotto questo profilo il principio
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40; 17.2002.45)
2.4.
Come visto al considerando 2.1., il primo giudice ha fondato l’accertamento secondo cui fu proprio RI 1 a spedire i messaggi incriminati sulla valutazione complessiva di una serie di circostanze di fatto e considerazioni.
I fatti in questione – e cioè, che l’imputato aveva fatto parte delle due associazioni sportive, che da una di queste egli era uscito proprio a seguito di diverbi con PC 1 (e, meglio, con uno dei destinatari dei messaggi ingiuriosi) e che i messaggi erano partiti, in parte, da un IP a lui assegnato e, per il rimanente, da una rete wireless cui lui poteva accedere liberamente – valutati complessivamente, insieme, in particolare, all’immediata cessazione dei messaggi dopo il primo interrogatorio dell’accusato, possono far concludere, senza arbitrio, così come ha fatto il giudice di prime cure.
A maggior ragione, l’arbitrio è escluso se si considera che, dopo essersi chinato sulle argomentazioni con cui l’imputato cercava di rendere plausibile la possibilità che uno sconosciuto avesse mandato i messaggi incriminati dal suo computer approfittando delle sue imprudenze (l’averlo lasciato incustodito senza protezione), il primo giudice le ha scartate come “
inverosimili”
sulla scorta di motivazioni del tutto sostenibili. Infatti, dopo avere rilevato che il prevenuto non è andato oltre le parole e non ha nemmeno tentato di rendere verosimile la possibilità che altri, oltre a lui, avessero potuto utilizzare il computer con l’IP corrispondente, il primo giudice ha ritenuto
“non ipotizzabile se non con un grande sforzo di fantasia”
che uno sconosciuto abbia approfittato dell’assenza del prevenuto per utilizzarne il computer e “
sotto lo sguardo di altri studenti della biblioteca
” abbia ripetutamente, in giorni diversi, spedito dei messaggi “
penalmente punibili proprio sul sito di un’associazione della quale RI 1 era stato socio qualche anno prima nonché degli e-mail ad un uomo che lo stesso RI 1 conosceva personalmente e con il quale aveva avuto dei diverbi
” (sentenza impugnata consid. 7 pag. 7). A queste, ad ulteriore sostegno della valutazione di non verosimiglianza della tesi sostenuta dall’imputato, il primo giudice ha aggiunto l’argomentazione secondo cui RI 1 ha ammesso di “
non avere la più pallida idea di chi possa avere commesso gli atti in discussione
” e, soprattutto, “
di non conoscere nessun ticinese abitante a _ che abbia avuto relazioni con le parti civili e non ha saputo formulare alcuna ipotesi su chi possa avere avuto un motivo per inviare dei messaggi illeciti dal suo computer
” ed ha, infine, ricordato come lo stesso imputato abbia escluso che a farlo possa essere stata la sua
“compagna-convivente (...) senza legami con le due società”
(sentenza impugnata consid. 7 pag. 7).
Si tratta di considerazioni e valutazioni del tutto ragionevoli poiché fondate sul buon senso e sulla comune esperienza della vita, la cui fondatezza è, peraltro, sostenuta dal fatto che, per ammettere la tesi difensiva, occorrerebbe in più ammettere, oltre ogni logica, come verosimile che uno studente universitario lasci – per il tempo, non solo di una pausa, ma anche di una lezione – del tutto incustodito il proprio laptop assumendosi, oltre il rischio di un abuso, anche quello di una sottrazione.
Con le sue argomentazioni – in cui, peraltro, egli si limita a discutere la valenza probatoria di ogni singolo elemento dimenticando che, invece, occorre vagliare la portata probatoria complessiva di tutti gli indizi considerati – il ricorrente non fa che offrire una chiave di interpretazione del mezzo di prova alternativa a quella del giudice di prime cure senza, però, riuscire a dimostrare che le conclusioni che questi ha tratto dal materiale probatorio a sua disposizione preso nel suo complesso sono manifestamente insostenibili, è cioè completamente destituite di fondamento.
E se il ricorrente sbaglia questo obiettivo, è perché – dimenticando l’errore metodologico che lo ha portato a privilegiare un’analisi dei singoli elementi di fatto e a dimenticarne la portata complessiva – non c’è arbitrio nell’accertamento del primo giudice che è giunto alle sue conclusioni sulla scorta di una valutazione sostenibile del materiale probatorio a sua disposizione.
Le argomentazioni ricorsuali dimostrano, tutt’al più, che vi è la possibilità che le cose si siano svolte diversamente da come è stato accertato in prima sede.
Ma questo non basta.
Non basta a sostanziare l’arbitrio poiché, se ciò fosse, nessuna differenza sussisterebbe tra un accertamento arbitrario e un accertamento manchevole, discutibile o finanche erroneo, e il ricorso per cassazione si identificherebbe né più né meno con un ricorso in appello.
Non basta nemmeno ad imporre l’applicazione del principio
in dubio pro reo
– principio che, come visto sopra, in questa sede, si confonde con il principio del divieto dell’arbitrio – poiché la semplice possibilità che i fatti possano essersi svolti in modo diverso da quanto accertato con una lettura sostenibile e convincente del materiale istruttorio non costituisce ancora dubbio insopprimibile ai sensi di quanto sopra: se così fosse , in ogni processo di natura anche solo parzialmente indiziaria, il giudice sarebbe sempre tenuto a prendere in considerazione la fattispecie più favorevole all’imputato, indipendentemente dal significato probatorio dell’insieme degli elementi istruttori raccolti.
In queste condizioni, il ricorso deve essere respinto.
3.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) e sono, perciò, posti a carico del ricorrente che rifonderà alla parte civile PC 1, che ha presentato osservazioni per il tramite di un avvocato, fr 500.- per ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ab9d41c9-83f0-580c-840e-e9a5d457da72 | in fatto ed in diritto
1.
A carico, tra gli altri, di PI 2 è stato aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 15.12.2008 emanato dall’allora procuratore pubblico Luca Maghetti (DA _). Il predetto decreto è passato in giudicato il 19.01.2009.
2.
Con la presente istanza la IS 1 (di seguito IS 1) chiede, in applicazione dell’art. 30 della LF del 22.03.1974 sul diritto penale amministrativo (DPA), di poter accedere – tra gli altri – agli atti dell’incarto penale DA _ (già inc. MP _) riguardante PI 2.
A sostegno della sua richiesta precisa che presso la IS 1 è stato aperto un procedimento penale amministrativo nei confronti di diverse persone del Canton _ e _ per sospetto di infrazione alla Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer, RS 812.21) in relazione al commercio all’ingrosso di medicamenti / alla violazione di norme GDP. Secondo le informazioni fornite dal _ cantonale ticinese
diversi incarti penali, tra cui quello riguardante
PI 2
, potrebbero contenere informazioni utili per il procedimento penale amministrativo in questione. Il _ cantonale ticinese si occuperà dell’ispezione degli atti e di fotocopiare gli atti necessari per la IS 1.
3.
Come esposto in entrata, il procuratore generale si è rimesso al giudizio di questa Corte.
Nelle sue osservazioni
22/24.04.2013 PI 2
si è opposto alla richiesta, poiché la stessa non sarebbe stata minimamente motivata [
"
(...) così come non si è provveduto a comprovare o a rendere verosimile una qualsivoglia connessione tra i fatti oggetto della procedura penale a suo tempo condotta nei confronti del signor PI 2 e l’inchiesta di cui si fa vaga menzione in sede d’istanza
" (osservazioni 22/24.04.2013, doc. 6)].
Con replica 26/29.04.2013 la IS 1, richiamati gli art. 63 e 90 LATer e 30 DPA, ribadisce che
"
(...). Dalle informazioni ottenute dal _ cantonale ticinese, gli atti richiesti potrebbero contenere delle informazioni importanti per lo svolgimento di un procedimento penale aperto dall’IS 1 per sospetto d’infrazione alle legge sugli agenti terapeutici. Questo procedimento penale è stato aperto nei confronti di diverse persone domiciliate nel cantone _ e _, ma non nei confronti del Signor PI 2
" (replica
26/29.04.2013
, p. 1, doc. 8).
Ricorda inoltre il tenore dell’art.
art. 3 cifra 15 dell’Ordinanza concernente la comunicazione di decisioni penali cantonali (RS 312.3), secondo il quale le autorità cantonali sono obbligate a comunicare all’Istituto tutte le sentenze e decisioni amministrative di carattere penale emanate in applicazione della LATer, evidenziando parimenti che la decisione emanata a carico di PI 2 non le è mai stata trasmessa.
Il procuratore generale e PI 2 non hanno presentato osservazioni di duplica.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
IS 1
è l'autorità centrale svizzera di sorveglianza per gli agenti terapeutici. In qualità di ente di diritto pubblico della Confederazione, con sede a _, esso è autonomo nella sua organizzazione e gestione e dispone di fondi propri. IS 1 fa parte del Dipartimento federale dell'interno ed ha iniziato la sua attività il 1°.01.2002 con l’entrata in vigore della
LATer
. A tutela della salute delle persone e degli animali, IS 1 si assicura che i medicamenti e i dispositivi medici siano efficaci e sicuri. La valutazione approfondita degli agenti terapeutici comprende il riconoscimento tempestivo di nuovi rischi e la realizzazione rapida di misure riguardanti la sicurezza. IS 1 informa puntualmente in modo mirato gli specialisti e il pubblico sui problemi e le nuove conoscenze nel settore degli agenti terapeutici.
Le competenze di IS 1 sono in particolare l'omologazione di medicamenti, le autorizzazioni di esercizio per la fabbricazione e il commercio all'ingrosso nonché le ispezioni, la sorveglianza del mercato di medicamenti e dispositivi medici, il controllo del traffico degli stupefacenti, gli esami analitici di laboratorio sulla qualità del medicamento e l'attività legislativa e la normalizzazione (cfr. _; cfr. anche la LATer).
5.2.
La LATer prevede delle disposizioni penali [cfr., al proposito, art. 86 LATer ss.; Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3060 ss.].
Giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer il perseguimento penale nell’ambito della competenza della Confederazione è condotto dalla IS 1 in virtù delle disposizioni della DPA.
La IS 1 può dunque condurre inchieste (che esigono conoscenze tecniche approfondite) ed emanare decreti e decisioni penali. Nella misura in cui sono dati gli estremi per infliggere una pena o per ordinare una misura privativa della libertà, il giudizio spetta al tribunale (art. 21 cpv. 1 DPA) [Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3063].
I servizi della Confederazione e dei Cantoni competenti per l’esecuzione della LATer provvedono allo scambio di dati sempre che l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 1 LATer).
Il Consiglio federale può prevedere la comunicazione di dati a altre autorità o organizzazioni qualora l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 2 LATer).
Le autorità amministrative della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni devono prestare assistenza, nell’espletamento dei loro compiti, alle autorità incaricate del procedimento e del giudizio in materia di cause penali amministrative; esse devono segnatamente comunicare loro tutte le informazioni occorrenti e concedere loro di prendere visione degli atti ufficiali che possono avere importanza per il procedimento penale (art. 30 cpv. 1 DPA).
Giusta l’art. 30 cpv. 2 DPA l’assistenza può essere negata soltanto quando vi si oppongano importanti interessi pubblici, segnatamente la sicurezza interna o esterna della Confederazione o dei Cantoni, ovvero quando essa pregiudichi notevolmente l’autorità richiesta nell’esecuzione dei suoi compiti. I segreti confidati giusta gli articoli 171–173 CPP devono essere serbati. Del rimanente, in materia d’assistenza sono applicabili gli articoli 43–48 CPP (art. 30 cpv. 3 DPA). Gli organismi con compiti di diritto pubblico sono tenuti, nell’ambito di questi compiti, a prestare la stessa assistenza delle autorità (art. 30 cpv. 4 DPA).
Non va del resto dimenticato che le autorità cantonali comunicano tutte le sentenze, decisioni amministrative di carattere penale e dichiarazioni di non doversi procedere emanate in applicazione, tra l’altro, della LATer all’IS 1 (art. 3 cifra 15 dell’Ordinanza concernente la comunicazione di decisioni penali cantonali del 10.11.2004, RS 312.3).
Infine, l’allora Camera dei ricorsi penali – dall’1.01.2011 Corte dei reclami penali – nella decisione 16.02.2010 (inc. CRP _) aveva stabilito che IS 1, essendo un’autorità penale di perseguimento giusta l’art. 90 LATer, non doveva ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP TI (ora art. 62 cpv. 4 LOG) in relazione alla richiesta di poter accedere agli atti di un procedimento penale pendente a carico di diverse persone per contravvenzione aggravata alla LATer [
"
(...). Nel presente caso, in base all’art. 90 della Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici, l’istante è l’autorità competente per il perseguimento penale delle violazioni della surriferita legge. Trattandosi di un’autorità penale di perseguimento, non deve ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP, ma ha diritto di accedere agli atti e ricevere copia dei medesimi, in quanto necessario per l’adempimento delle sue attribuzioni penali. (...)
"
(decisione 16.02.2010, p. 2, consid. 4., inc. CRP _)].
5.3.
Alla luce di quanto sopra esposto, richiamate in particolare le competenze conferite alla IS 1 e le suddette disposizioni, questa Corte con decisione 24.05.2013 (inc. CRP _) ha ritenuto di dover emanare una decisione di principio, statuendo quanto segue:
"
La Corte
dei reclami penali riconosce, di principio, alla IS 1 – quale autorità di perseguimento penale giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer – un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG per poter esaminare (e se, del caso, fotocopiare) gli atti di procedimenti penali conclusi utili ai fini delle sue incombenze direttamente presso le autorità penali ticinesi (ovverossia presso il Ministero pubblico, il Tribunale penale cantonale, la Pretura penale, la Corte di appello e di revisione penale e questa Corte), senza dover ricorrere di volta in volta alla procedura ex art. 62 cpv. 4 LOG, dimostrando nondimeno l’esistenza di una connessione tra i suoi obblighi di competenza (in applicazione della LATer) e i fatti oggetto del procedimento penale concluso (di cui chiede la compulsazione degli atti).
Va da sé che la compulsazione degli atti deve avvenire nel rispetto del segreto professionale (art. 61 LATer).
In caso di dubbio, la IS 1 può presentare a questa Corte un’istanza ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG rispettivamente le autorità penali ticinesi coinvolte possono trasmettere la richiesta, per competenza, a questa Corte in applicazione della predetta disposizione
"
(decisione 24.05.2013, p. 5, inc. CRP _).
6.
Per quanto interessa la fattispecie in esame, la può dunque rivolgersi direttamente al Ministero pubblico, autorità alla quale viene ritornata, per evasione, la presente istanza.
7.
Stante la funzione dell’istante e la finalità della richiesta, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
aba28787-c5e6-525d-9e3d-07c5e96ca53d | in fatto ed in diritto
1.
Il _, prima di mezzogiorno, a _, è accaduto un incidente domestico a seguito del quale è deceduto _
detto _
(_). Il Ministero pubblico ha di conseguenza aperto d’ufficio un procedimento penale sfociato nel decreto di non luogo a procedere 2.2.2005 (NLP _), mediante il quale l’allora sostituto procuratore pubblico Marisa Alfier ha in particolare comunicato agli eredi fu _ che "
(...) gli accertamenti a suo tempo ordinati sono stati portati a termine e non sono emersi elementi tali da giustificare ulteriori approfondimenti sul piano penale. (...)
" (AI 7 – inc. MP _
).
2.
Con la presente istanza l’avv. PR 1, in nome e per conto di IS 1 e di IS 2 quali eredi del defunto _ (cfr. certificato ereditario 8.7.2005, doc. 3.a), chiede la trasmissione, in copia, del referto autoptico al quale era stato sottoposto quest’ultimo.
A suffragio della sua richiesta ha precisato di rappresentare i figli del defunto nell’ambito della procedura di divisione della sostanza paterna ancora pendente e che gli stessi, prima di procedere alla sottoscrizione dell’accordo definitivo, volevano sapere il motivo per il quale è stata esperita un’autopsia sulla salma del loro defunto padre ed il suo esito.
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico ha dato il suo nulla osta alla richiesta.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.1.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nella fattispecie in esame IS 1 e IS 2, qui istanti, sono i figli e gli eredi di _, deceduto, come visto, a seguito dell’incidente domestico avvenuto il _. Nonostante abbiano veste di eredi, essi devono seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo.
Come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava anche alle richieste di ispezione degli atti delle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.3.1987, ad art. 8 p. 10). In base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19).
Lo stesso principio deve valere anche per gli eredi.
5.
Nel presente caso – richiamata in particolare la suddetta giurisprudenza – è pacifico l’interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG degli istanti in qualità di eredi ad ottenere copia del referto autoptico inerente al loro defunto padre.
Di conseguenza copia del referto autoptico 22.12.2004 (AI 3 – inc. MP _) viene trasmesso al patrocinatore degli istanti unitamente alla presente decisione.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico di chi le ha occasionate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
aba9af3e-a45d-5a5e-a8d8-6657b09ba779 | in fatto ed in diritto
che a seguito dell’esposto 17/19.12.2013 inoltrato dal Comune di _, per il tramite del Municipio, nei confronti di IS 1 e di IS 2 in relazione al contenuto della risoluzione municipale no. _ del _
, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato, da un lato, nel decreto di accusa 27.02.2014 mediante il quale il procuratore pubblico Moreno Capella ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 2, e dall’altro lato, nel decreto di accusa di medesima data mediante il quale lo stesso magistrato inquirente ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1, siccome ritenuti entrambi colpevoli di disobbedienza a decisioni dell’autorità giusta l’art. 292 CP "
(...), per non avere ottemperato all’ordine municipale “Divieto uso abitazione”, risoluzione municipale n. _ del _, con il quale veniva vietato l’uso dell’abitazione di cui al mappale n. _ RFD _, sotto comminatoria del presente articolo
" ed ha proposto la loro condanna alla multa di CHF 100.-- ciascuno e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, e meglio come descritto nel DA _ rispettivamente nel DA _;
che l’11.12.2014 il giudice della Pretura penale Flavio Biaggi – preso in particolare atto del ritiro delle opposizioni datate 5.03.2014 interposte ai suddetti decreti di accusa da entrambi gli imputati durante il dibattimento – ha stralciato dai ruoli i procedimenti e dichiarato esecutivi i due decreti di accusa in questione (decreto di stralcio 11.12.2014, inc. _);
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – IS 1 e IS 2 domandano l’autorizzazione ad esaminare e a fotocopiare gli atti istruttori del summenzionato incarto penale, essendo intenzionati a presentare una denuncia nei confronti del Comune di _ per un’asserita condotta scorretta nei loro confronti;
che, come esposto in entrata, il Ministero pubblico non ha presentato osservazioni in merito;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare il Comune di _, essendo i qui istanti stati parte (in qualità di imputati) al procedimento penale sfociato nei DA _ e DA _ (passati in giudicato);
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stati gli istanti parti (in qualità di imputati) nel procedimento nel frattempo terminato, essi devono seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 e di IS 2 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere l’autorizzazione ad esaminare l’incarto penale _, nel frattempo archiviato, poiché il procedimento penale sfociato nei due decreti di accusa, passati in giudicato, di cui si è detto poc’anzi, li ha interessati personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che essi necessiterebbero di esaminare l’incarto in questione allo scopo di eventualmente avviare un procedimento penale nei confronti del Comune di _;
che di conseguenza IS 1 e IS 2 sono autorizzati ad esaminare, per motivi di praticità presso questa Corte, gli atti istruttori dell’incarto _ (composto da una cartelletta marrone), concordando i tempi e le modalità di accesso con i collaboratori della cancelleria, compatibilmente con i loro impegni;
che gli stessi sono, se del caso, autorizzati a fotocopiare i documenti utili per le loro incombenze;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo i qui istanti già stati parte al procedimento penale in questione nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
abe552b8-9739-568a-8e81-8d349785f3ec | in fatto ed in diritto
1.
Con decreto 12.12.2006 l’allora sostituto procuratore pubblico Marisa Alfier ha posto PI 2 in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole di danneggiamento ripetuto giusta l’art. 144 cpv. 1 CP [“
per avere, a _ nel periodo 11 agosto 2004 / 15 settembre 2004 ed il 20 giugno 2005, intenzionalmente danneggiato il muro sub. _ mapp. _ RFD _ su cui gravava un diritto di compera sottoscritto da _ e poi regolarmente esercitato
”] e di ingiuria giusta l’art. 177 CP [
"
per avere, a _ il 12 agosto 2004, offeso l’onore di _ tacciandolo di “imbecille, deficiente, disgraziato, bastardo”
"
] ed ha proposto la sua condanna alla multa di CHF 1'500.--, al versamento alla parte civile _ di CHF 5'896.50 a titolo di risarcimento ed al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (DA _).
Con ulteriore decreto di medesima data lo stesso magistrato inquirente ha posto PI 3 in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuta colpevole di ingiuria giusta l’art. 177 CP [
"
per avere, a _ il 12 agosto 2004, offeso l’onore di _ tacciandolo di “disgraziato, assassino”
"
] ed ha proposto la sua condanna alla multa di CHF 300.--, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, rinviando la parte civile _ al competente foro civile (DA _).
In data 20/21.12.2006 è stata interposta opposizione ai decreti d’accusa.
Con sentenza 3.04.2009 – emanata in seguito alla richiesta 9/12.01.2009 di PI 2 e PI 3 di nuovo giudizio dopo la decisione di condanna emessa nelle forme contumaciali il 15.07.2008 (inc. _) – il presidente della Pretura penale ha prosciolto PI 2 dal reato di ripetuto danneggiamento per i fatti descritti nel DA _ rispettivamente l’ha dichiarato autore colpevole di ingiuria per i fatti compiuti nelle circostanze descritte nel medesimo DA, condannandolo alla multa di CHF 300.-- ed al pagamento della tassa di giustizia e delle spese; inoltre lo stesso presidente ha ritenuto PI 3 autrice colpevole di ingiuria per i fatti compiuti nelle circostanze descritte nel DA _ e l’ha condannata alla multa di CHF 300.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie (inc. _).
In data 10.11.2010 l’allora Camera dei ricorsi penali ha parzialmente accolto l’istanza 2/6.04.2010 presentata da PI 2 tendente ad ottenere, in relazione all’esito del surriferito procedimento penale, un’indennità per ingiusto procedimento ai sensi degli art. 317 ss. CPP TI (inc. _, sentenza pubblicata in forma anonimizzata sul sito internet _).
2.
Con scritto
4/9.09.2013
– a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG ed emendato, su richiesta di questa Corte, il 20/23.09.2013 – la IS 1 chiede (richiamando il verbale di udienza preliminare 3.09.2013 e le prove ivi notificate dalle parti ammesse con la relativa ordinanza giusta l’art. 182 CPC) la trasmissione della decisione finale degli incarti _ e _, nel frattempo archiviati, ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa il 16.09.2010 da PI 3, (già in) _, e da PI 2, (già in) _, e dalla CE fu _, _, composta da PI 2 e PI 3 (tutti patr. da: avv. _, _) contro _, _, e _, _ (scritto datato 3.09.2013 della IS 1, doc. 1a).
A sostegno della sua richiesta la Pretura istante ha prodotto due scritti, in cui sono state riassunte le motivazioni che stanno alla base della presente istanza (scritto 20/23.09.2013 e documentazione ivi annessa, doc. 3, doc. 3.b e doc. 3.c).
Dallo scritto 16.09.2013 della parte convenuta emerge in particolare che la causa civile trarrebbe le sue origini da una presunta turbativa che il muro di cinta di proprietà di quest’ultima procurerebbe alla parte attrice. Adduce, tra l’altro, che
"
(...). Il fatto significativo fu sorprendere il signor PI 2 a manomettere il muro di cinta con fini demolitori che sfociò appunto nella vertenza penale richiamata agli atti. Il decreto di accusa riconobbe la sua colpevolezza, suffragata dalle indagini e dalle testimonianze. Malauguratamente, un aspetto formale non permise la sua condanna in fase risolutiva poiché al momento dei fatti, noi non eravamo ancora i proprietari del fondo (beneficiavamo unicamente di un diritto di compera) e la causa avrebbe dovuto essere promossa dal precedente proprietario della part. _ di _. Un impedimento di forma che però non muta l’aspetto sostanziale legato all’atteggiamento dei signori _ nei confronti del nostro muro
" (scritto 16.09.2013, p. 2, doc. 3.b).
La parte convenuta ritiene che il richiamo della sentenza penale sarebbe utile per evidenziare il controverso comportamento assunto dalla parte attrice. Se nulla di tutto ciò dovesse trasparire dalla stessa sentenza, essa rinuncia all’assunzione di questa prova.
La parte attrice, dal canto suo, afferma che la sentenza penale è stata richiamata per sostanziare l’infondatezza delle illazioni di controparte in relazione al presunto comportamento assunto da PI 2. Si rimette in ogni caso al giudizio del pretore per la necessità o meno di questa prova (doc. 3.c).
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
4.
Nella fattispecie in esame – viste le motivazioni addotte nella presente richiesta e il contenuto della sentenza 3.04.2009 (inc. _) – sembra sia data una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e i procedimenti penali in questione nel frattempo archiviati,
poiché le parti coinvolte sono in sostanza le stesse e i procedimenti traggono le loro origini (anche) dalla questione relativa al muro di cinta.
La sentenza
3.04.2009 (inc. _)
potrebbe dunque essere potenzialmente utile ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile. È quindi, di principio, adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza la sentenza richiamata viene trasmessa, in copia, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione.
Questa Corte autorizza inoltre la IS 1 a richiedere direttamente alla Pretura penale gli incarti _ e _, se il pretore lo riterrà opportuno per eventualmente chiarire/completare la fattispecie dell’istruttoria civile.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
ac64af07-56f3-5f69-b863-7317fa8f6c53 | in fatto
a.
A seguito della denuncia/querela sporta il 3/4.10.2011 da PI 1 contro RE 1, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di quest’ultima sfociato nel decreto di accusa 6.2.2012 emanato dal procuratore pubblico Marisa Alfier, mediante il quale l’ha posta in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuta colpevole di minaccia “
per avere, a _, il 25 luglio 2011, usando grave minaccia, incusso spavento e timore ad una persona, segnatamente per aver inviato un sms, dall’utenza telefonica _ a PI 1, dal tenore seguente: ‘(...) presto Dio ti fa raccogliere il male che hai seminato. Io conosco l’ora e il giorno quando avverrà (...)’
”; coazione “
per avere, a _ e a _, nel periodo compreso tra il 30 settembre 2011 ed il 4 ottobre 2011, intralciato la libertà di agire di PI 1, costringendola a fare, omettere e tollerare un atto, segnatamente per essersi presentata più volte presso il negozio ‘_’, gestito da PI 1, nonché per aver ripetutamente tentato di contattarla presso il suo posto di lavoro e altresì per averle scritto un sms dall’utenza telefonica _, dopo essersi recata presso il citato negozio, dal tenore seguente: ‘Vado ancora, così crepi di più a vedermi (...)’ con l’intenzione di pedinarla e di importunarla
” e abuso di impianti di telecomunicazioni
"
per avere, nel periodo compreso tra il 25 luglio 2011 ed il 3 ottobre 2011, per malizia o per celia, utilizzato abusivamente un impianto di telecomunicazione per inquietare o importunare PI 1, segnatamente per aver importunato PI 1 scrivendole almeno 50 messaggi telefonici
”, ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 20 aliquote giornaliere da CHF 30.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 600.-- (sospendendo condizionalmente l’esecuzione della pena per un periodo di prova di 2 anni), alla multa di CHF 150.-- (con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 5 giorni), al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie,
precisando che la condanna sarà iscritta a casellario giudiziale
(DA _).
b.
Il 20.2.2012 RE 1 ha interposto formale opposizione al surriferito decreto.
Con decisione 28.2.2012 il procuratore pubblico ha confermato il DA _, trasmettendo gli atti alla Pretura penale per procedere al dibattimento, avvertendo parimenti che il decreto d’accusa sarà considerato come atto d’accusa giusta l’art. 356 cpv. 1 CPP.
c.
Il 12.3.2013 il giudice della Pretura penale ha citato il procuratore pubblico, l’imputata RE 1, l’accusatrice privata PI 1 ed il patrocinatore di quest’ultima avv. PR 1 a comparire nell’aula udienze della Pretura penale a Bellinzona il 24.5.2013, alle ore 9:00, per procedere al dibattimento
“con l’avvertenza che se l’opponente ingiustificatamente non compare né si fa rappresentare (art. 127 cpv. 5 CPP), l’opposizione è considerata ritirata (art. 356 cpv. 4 CPP)”
(AI 3, inc. _).
Con scritti 21.3.2013 e 21.5.2013 (fax) RE 1 ha comunicato alla Pretura penale di non poter partecipare al dibattimento fissato per il 24.5.2013 per motivi di salute, allegando certificati medici di cui si dirà in seguito (cfr. AI 6 e 7, inc. _).
Con scritto 21.5.2013 il giudice della Pretura penale ha confermato il dibattimento già fissato per il 24.5.2013, ritenendo la domanda di rinvio ingiustificata e intempestiva e le ragioni mediche ivi indicate non sufficienti per giustificare la mancata comparsa al processo od un rinvio dello stesso (cfr. AI 8, inc. _).
Con ulteriore scritto 22.5.2013 (fax) RE 1 ha ribadito di non poter presenziare al dibattimento per motivi di salute (cfr. AI 9, inc. _).
d.
Il 24.5.2013 il giudice della Pretura penale ha stralciato dai ruoli il surriferito procedimento penale, ritenuto che l’imputata ingiustificatamente non è comparsa al dibattimento al quale è stata regolarmente citata e che di conseguenza l’opposizione è da considerata ritirata.
e.
Con gravame 31.5/5.6.2013, emendato in data 18/24.6.2013, RE 1 in sostanza, chiede a questa Corte l’annullamento della decisione di stralcio spiegando di aver problemi di salute e indicando che non appena le cure saranno terminate sarà “
in grado di venire al dibattito
” (reclamo 31.5/5.6.2013, p. 1). | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto – entro il termine di dieci giorni – contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali dei tribunali di primo grado; sono eccettuate le decisioni ordinatorie.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione. Esso deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame, inoltrato il
31.5/5.6.2013, emendato il 18/24.6.2013,
contro il decreto di stralcio 24.5.2013 emanato dal giudice della Pretura penale in applicazione dell’art. 356 cpv. 4 CPP, è tempestivo.
1.3.
Il gravame è pure proponibile. In presenza di opposizioni non valide e di opposizioni ritirate (dopo la trasmissione degli atti al tribunale di primo grado) il tribunale di primo grado statuisce sulla non entrata nel merito (
Nichteintretensentscheid
) tramite l’emanazione di un’ordinanza o di un decreto, contro la quale è data facoltà di reclamo (art. 393 cpv. 1 lit. b CPP) [ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 2].
A ciò aggiungasi che l’art. 356 cpv. 4 CPP corrisponde all’art. 355 cpv. 2 CPP (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 5; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 5; Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 356 CPP n. 9).
1.4.
RE 1 è legittimata a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo, in qualità di imputata e destinataria del decreto qui impugnato, un interesse giuridicamente protetto al suo annullamento o alla sua modifica (BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 2; ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 355 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 355 CPP n. 5;
Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 355 CPP n. 5).
1.5.
Va ora esaminato se il reclamo 31.5/5.6
.2013, emendato su richiesta di questa Corte in data 18/24.6.2013
, rispetti i requisiti di motivazione.
1.5.1.
L’art. 385 cpv. 1 CPP prevede che il reclamante indichi, oltre ai punti della decisione che intende impugnare (cpv. 1 lit. a) ed ai mezzi di prova che invoca (cpv. 1 lit. c), i motivi a sostegno di una diversa decisione (cpv. 1 lit. b). L’art. 385 cpv. 2 CPP contempla poi che “
se l’atto di ricorso non soddisfa tali requisiti, la giurisdizione di ricorso lo rinvia al mittente perché ne sani i difetti entro un breve termine suppletorio
”, norma che intende evitare l’eccesso di formalismo, una delle forme di diniego di giustizia formale (Commentario CPP – M. MINI, art. 385 CPP n. 3).
Il Tribunale federale ritiene che il reclamante deve indicare, nell’impu-gnativa, senza rinvio ad altri atti (decisione TF 1B_775/2012 del 17.1.2013 in fine), i fatti essenziali ed una breve esposizione delle norme violate dalla decisione impugnata e delle ragioni di contestazione (decisione TF 6B_208/2013 dell’8.3.2013 consid. 3.2.).
1.5.2.
Con scritto 5.6.2013 questa Corte ha richiesto a RE 1 di emendare il proprio reclamo, in quanto non rispettava le prescrizioni minime previste dal CPP.
Nell’emendamento 18/24.6.2013
la reclamante espone fatti e considerazioni non attinenti a quanto qui in discussione, senza aggiungere nulla di rilevante per sostanziare le sue tesi.
Il reclamo non rispetta i requisiti di
motivazione
di cui ai
considerandi precedenti, e ciò
neppure nella sua versione emendata.
Gli argomenti addotti dalla reclamante, non sostanziati e non corroborati da alcun mezzo di prova, non possono bastare a soddisfare i requisiti posti in materia da dottrina e giurisprudenza.
In siffatte circostanze, il reclamo è – di conseguenza – irricevibile.
Il gravame risulta, come si vedrà di seguito, infondato anche nel merito.
2.
2.1.
La procedura del decreto di accusa è disciplinata dagli art. 352 ss. CPP.
Il decreto di accusa può essere impugnato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero da: a. l’imputato; b. altri diretti interessati; c. il pubblico ministero superiore o generale della Confederazione o del Cantone nel rispettivo procedimento federale o cantonale (art. 354 cpv. 1 CPP). Ad eccezione di quella dell’imputato, l’opposizione deve essere motivata (art. 354 cpv. 2 CPP). Se non vi è valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (art. 354 cpv. 3 CPP).
Se è fatta opposizione, il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005
, p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 1), che
assume le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione medesima (art. 355 cpv. 1 CPP).
Se, pur essendo stato citato a un interrogatorio, l’opponente ingiustificatamente non compare, l’opposizione è considerata ritirata (art. 355 cpv. 2 CPP).
Una volta assunte le prove, il pubblico ministero decide se: a. confermare il decreto di accusa; b. abbandonare il procedimento; c. emettere un nuovo decreto di accusa; d. promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 CPP).
2.2.
Se decide di confermare il decreto di accusa, il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale; in tal caso, il decreto di accusa è considerato atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
Secondo l’art. 356 cpv. 2 CPP il tribunale di primo grado statuisce sulla validità del decreto di accusa e dell’opposizione.
L’opposizione può essere ritirata fino alla conclusione delle arringhe (art. 356 cpv. 3 CPP).
Giusta l’art. 356 cpv. 4 CPP se l’opponente ingiustificatamente non compare al dibattimento né si fa rappresentare, l’opposizione è considerata ritirata.
Quest’ultima disposizione corrisponde all’art. 355 cpv. 2 CPP e si applica soltanto all’opponente privato (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 5; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 5; Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 356 CPP n. 9). A differenza dell’art. 355 cpv. 2 CPP, la parte interessata – anche l’imputato nella misura in cui colui che dirige il procedimento non esiga la sua comparizione – può farsi rappresentare (ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 3; CR CPP – G. GILLI
È
RON / M. KILLIAS, art. 356 CPP n. 7; Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1195).
Se l’opponente privato non si presenta al dibattimento senza valido motivo, non si entra nel merito dell’opposizione: non viene dunque svolta una procedura contumaciale e il decreto di accusa viene confermato (Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1194 s.).
Nel caso in cui l’opponente non può partecipare al dibattimento, egli è tenuto a comunicarlo al giudice che ha staccato la citazione, documentando le sue ragioni. Un’omissione da parte sua porta ad un’assenza ingiustificata (CR CPP – G. GILLI
È
RON / M. KILLIAS, art. 356 CPP n. 7).
Se l’opponente è, per contro, un’autorità (come ad esempio il pubblico ministero), la stessa non è tenuta a comparire dinanzi al tribunale, ma può presentare le sue conclusioni per iscritto (Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1194 nota a piè di pagina 396; Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 356 CPP n. 9; CR CPP – G. GILLI
È
RON / M. KILLIAS, art. 356 CPP n. 7).
Le norme inerenti alla procedura contumaciale ai sensi degli art. 366 CPP non sono applicabili. La conseguenza giuridica è dunque pesante, come del resto previsto dall’art. 355 cpv. 2 CPP, il cui contenuto, come visto, vale anche in quest’ambito (BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 5).
2.3.
L’art. 355 cpv. 2 CPP è applicabile (anche) in caso di inosservanza del termine da parte dell’imputato giusta l’art. 93 CPP (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 355 CPP n. 4).
Vi è inosservanza del termine quando una parte non compie tempestivamente un atto procedurale oppure non compare a un’udienza (art. 93 CPP).
Un ritardo di qualche minuto nel comparire a un’udienza potrebbe essere sufficiente per ammettere un’inosservanza, ma occorre comunque evitare un formalismo eccessivo nell’applicazione di questa norma (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 93 CPP n. 1; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 1; CR CPP – D. STOLL, art. 93 CPP n. 8).
È pacifico che si è alla presenza di inosservanza allorquando la parte coinvolta e il suo patrocinatore non si presentano all’udienza (BSK StPO – C. RIEDO, art. 93 CPP n. 12).
I motivi alla base dell’inosservanza sono irrilevanti. La questione della colpa assume un ruolo importante nell’ambito, se del caso, della richiesta di restituzione del termine (art. 94 cpv. 1 CPP). Le conseguenze dell’inosservanza sono sancite dalle diverse disposizioni del CPP (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 93 CPP n. 2 e 3; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 2 e 3; BSK StPO – C. RIEDO, art. 93 CPP n. 5 e 16) e dipendono dunque dallo stadio della procedura e dalle disposizioni applicabili (CR CPP – D. STOLL, art. 93 CPP n. 4).
La persona che deve compiere un atto procedurale o comparire a un’udienza deve essere in ogni caso informata anticipatamente sulle conseguenze dell’inosservanza, in modo tale da non subire pregiudizi processuali per ignoranza (ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 3).
2.4.
Chi è oggetto di una citazione emessa da un’autorità penale deve darvi seguito (art. 205 cpv. 1 CPP). Chi è impedito di dar seguito a una citazione deve comunicarlo senza indugio all’autorità citante; l’impedimento va motivato e per quanto possibile provato (art. 205 cpv. 2 CPP) [cfr., tra tanti, BSK StPO – S. ARQUINT, art. 205 CPP n. 1 ss.].
In caso di una mancata comparsa ingiustificata, il CPP prevede nei diversi stadi procedurali anche la decadenza del diritto processuale (
prozessualer Rechtsverlust
): ciò vale anche nell’ambito della procedura del decreto d’accusa (art. 355 cpv. 2 CPP e art. 356 cpv. 4 CPP) [BSK StPO – S. ARQUINT, art. 205 CPP n. 9].
3.
3.1.
Nel caso in esame, il 12.3.2013 il giudice della Pretura penale ha citato RE 1 a comparire nell’aula udienze della Pretura penale a Bellinzona il 24.5.2013, alle ore 9:00, per procedere al dibattimento,
“con l’avvertenza che se l’opponente ingiustificatamente non compare né si fa rappresentare (art. 127 cpv. 5 CPP), l’opposizione è considerata ritirata (art. 356 cpv. 4 CPP)”
(AI 3, inc. _).
In calce alla citazione è stato riportato, in modo integrale, anche il contenuto dell’art. 356 cpv. 4 CPP (secondo cui se l’opponente ingiustificatamente non compare al dibattimento né si fa rappresentare, l’opposizione è considerata ritirata). La qui reclamante è stata dunque informata anticipatamente sulle conseguenze dell’inosservanza del termine in caso di mancata comparsa al pubblico dibattimento del 24.5.2013 (con lo scopo, come visto poc’anzi, di evitare di subire eventuali pregiudizi processuali per ignoranza) secondo i dettami di legge.
La suddetta citazione al dibattimento, provvista come detto delle indicazioni relative alle conseguenze giuridiche di un’eventuale mancata comparsa, è dunque perfettamente regolare (ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 3).
3.2.
La citazione è stata inviata il 12.3.2013 all’imputata stessa per raccomandata AR (con avviso di ricevimento), che l’ha ricevuta - sottoscrivendo il relativo avviso - il 18.3.2013 (cfr. AI 5, inc. _).
Con un primo scritto 21.3.2013 RE 1 ha comunicato al giudice della Pretura penale di aver ricevuto la citazione e, in modo assai confuso, di dover affrontare degli esami medici e di non poter quindi partecipare al dibattimento “
non per colpa mia perché il mio stato di salute
” (cfr. AI 6, inc. _). A tale scritto vi era allegato un documento datato 7.2.2013 rilasciato dallo Stabilmento Ospedalierio di _ dal quale risulta un’anemia microcitica e la terapia consigliata da eseguire a domicilio.
La qui reclamante ha atteso poi due mesi per riscrivere - via fax - alla Pretura penale, in data 21.5.2013 - quindi unicamente tre giorni prima il dibattimento in questione -, comunicando di essere molto dispiaciuta “
di non poter affrontare viaggio x la mia salute
”. A quest’ultimo scritto è stato allegato il certificato medico 20.5.2013 dal quale risulta che la reclamante è affetta da “
severa anemia ferropriva con valori di Hb 9,2. Si richiede un trattamento intensivo di ferro (...). Nel frattempo si consiglia riposo a domicilio, senza effettuare viaggi o trasferte faticose
” (cfr. AI 7, inc. _)
Il 21.5.2013 il Pretore penale ha confermato il dibattimento già previsto per il 24.5.2013 (cfr. AI 8, inc. _).
Con ulteriore fax 22.5.2013 RE 1 ha comunicato alla Pretura penale di aver parlato con la segretaria del giudice e di aver appreso che “
l’udienza è definitiva mi dispiace veramente non sto bene vorrei venire x vedere in faccia ex inquilini che mi accusano (...). Se pf può rimandare xché mi tremano le gambe – non posso pagare taxi che costa molto – non ho fatto nessuna separazione legale mi mantengo da sola e tutti i medicamenti sono a mio carico (...)
” (cfr. AI 9, inc. _).
3.3.
In data 24.5.2013 il giudice della Pretura penale, in applicazione dell’art. 356 cpv. 4 CPP, ha stralciato dai ruoli il procedimento penale di cui al DA _ del 6.2.2012, dichiarandolo definitivo e ritornando l’incarto al magistrato inquirente per i suoi incombenti.
A motivazione della sua decisione il giudice ha posto l’accento sul fatto che l’imputata ingiustificatamente non è comparsa al dibattimento del 24.5.2013, al quale era stata regolarmente citata con lettera raccomandata (AR), e che di conseguenza l’opposizione è considerata ritirata ai sensi dell’art. 356 cpv. 4 CPP (cfr. stralcio 24.5.2013, AI 13, inc. _).
4.
Ai sensi dell’art. 356 cpv. 4 CPP va quindi valutato se la mancata comparsa di RE 1 al dibattimento sia o meno giustificata.
Nella fattispecie, la reclamante giustifica anche in questa sede (ed ancora in maniera assai confusa), la sua mancata comparsa all’udienza con i suoi problemi di salute, sostenendo di essere disposta a presenziare non appena le sue cure saranno terminate. Nella versione emendata del reclamo la stessa fa poi riferimento a fatti che non hanno alcuna attinenza con la fattispecie in esame, segnatamente problemi con il marito ed altre questioni relative alla locazione di un appartamento (cfr. reclamo emendato 18/24.6.2013).
Nelle sue osservazioni 5/8.7.2013 il giudice della Pretura penale rileva che il certificato medico agli atti attesta un’assenza di ferro nel sangue pari ad un valore di Hb 9,2. Ciò che non le avrebbe impedito di affrontare un viaggio in treno da _ a _.
Alla luce di quanto sopra, questa Corte ritiene che l’assenza all’udienza dibattimentale debba essere qualificata come ingiustificata per il fatto che l’opponente non ne ha dato adeguato preventivo avviso al giudice (CR CPP – G. GILLI
È
RON / M. KILLIAS, art. 356 CPP n. 8), documentando opportunamente quanto le sue ragioni.
Come esposto ai considerandi precedenti, RE 1 non ha mai informato il giudice, in modo adeguato, circa la sua (reale) impossibilità a presenziare al dibattimento.
Nel primo scritto 21.3.2013 la stessa si è limitata a citare non meglio precisati motivi di salute, dicendo che gli esami medici a cui avrebbe dovuto sottoporsi potevano capitare lo stesso giorno previsto per il dibattimento e allegando un documento che attestava unicamente che la stessa doveva sottoporsi a dei controlli per la mancanza di ferro riscontrata.
La stessa ha poi atteso l’imminenza del previsto dibattimento (tre giorni prima) per ribadire di non poter affrontare il viaggio per motivi di salute, allegando il certificato 20.5.2013 sopra menzionato (cfr. AI 7, inc. _). Anche a voler considerare quanto attestato da tale certificato medico un valido motivo per non presenziare al dibattimento, segnatamente il bisogno di riposo e il divieto di effettuare viaggi/trasferte, non si può ritenere che RE 1 abbia diligentemente e tempestivamente informato il giudice di tali circostanze.
Ora, come ritenuto dal giudice nelle proprie osservazioni e come risulta dagli atti, la reclamante è a conoscenza dei suoi problemi di salute, relativi alla mancanza di ferro nel sangue, almeno dal mese di febbraio 2013. La stessa ha quindi avuto tutto il tempo per organizzarsi adeguatamente per il dibattimento o per chiederne un rinvio documentando le sue ragioni, senza invece aspettare il 21.5.2013 per comunicare di non poter presenziare.
Al proposito, non va poi dimenticato come la stessa sia stata citata con adeguato anticipo. Come visto il 18.3.2013 ha ricevuto la citazione per il dibattimento del 24.5.2013.
La mancata comparsa di RE 1 all’udienza del 24.5.2013 deve quindi essere considerata ingiustificata. Conformemente a quanto sancito dall’art. 356 cpv. 4 CPP, il giudice della Pretura penale ha quindi considerato decaduto il diritto processuale dell’opponente.
Da ultimo nella presente procedura la reclamante non apporta prove tangibili atte a dimostrare che i fatti ritenuti nel decreto d’accusa (DA _) siano errati e comportino quindi un’ingiusta condanna (CR CPP – G. GILLI
È
RON / M. KILLIAS, art. 356 CPP, n. 6). La decisione del giudice della Pretura penale non può pertanto essere censurata neppure dal profilo dell’eccessivo formalismo.
5.
Visto quanto precede, a ragione il giudice della Pretura penale ha considerato ritirata l’opposizione interposta in data 20.2.2012 da RE 1 contro il decreto d’accusa (DA _), ha stralciato la causa dai ruoli e ha dichiarato definitivo il decreto d’accusa in oggetto.
La decisione impugnata deve quindi essere confermata.
6.
Il reclamo è irricevibile. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico di RE 1, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ac9dc93e-aa9b-531f-afb4-535c1bff7bdc | in fatto
a.
Con atto d’accusa 6.5.2008, l’allora procuratore pubblico
Manuela Minotti Perucchi ha posto in stato d’accusa dinanzi alla Corte delle assise criminali PI 26 e PI 27 per i titoli di reato di truffa, falsità in documenti ed appropriazione indebita
(ACC _).
b.
In data 15.2.2013, la Corte delle assise criminali ha condannato gli imputati alle pene di ventiquattro mesi di detenzione per PI 26 e di venti mesi di detenzione per PI 27, siccome ritenuti colpevoli di truffa aggravata, appropriazione indebita e falsità in documenti (sentenza 15.2.2013, p. 17, inc. TPC _). Entrambi gli imputati sono stati condannati ad un risarcimento equivalente in favore dello Stato di CHF 450'000.-- ciascuno (dispositivo 5.1.2. e 5.2.2.), ed a versare, in solido, ai ventisette accusatori privati importi per complessivi CHF 2'969'191.10. La Corte delle assise criminali ha inoltre confiscato
“(...) prestazioni assicurative della polizza d’assicurazione sulla vita (...) presso la _; conto di libero passaggio (...) presso _; fr. 146'517.55 depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 26 e
“(...) fr. 211'700.-- depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 27. I risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2. e 5.2.2. sono stati assegnati, previo soddisfacimento di tasse e spese di giustizia,
“(...) in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[PI 24]
,8.4
[PI 25]
, 8.12
[_]
, 8.25
[RE 1]
e 8.26
[_]
(...)”
(sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
La sentenza 15.2.2013 è passata in giudicato.
c.
Con scritto 16.9.2013 il presidente della Corte delle assise criminali, giudice Marco Villa, ha disposto le assegnazioni a favore di ulteriori cinque accusatori privati oltre quelli già riconosciuti nella sentenza 15.2.2013, che si erano annunciati dopo l’emanazione di quest’ultima (scritto 16.9.2013, inc. TPC _).
d.
Contro tale decisione sono insorti gli accusatori privati che avevano visto riconoscersi le loro pretese nella sentenza di merito,
contestando nella sostanza le modalità di assegnamento adottate dal presidente della Corte. A loro dire le assegnazioni disposte nella sentenza di merito del 15.2.2013 avrebbero acquisito forza di cosa giudicata, e sarebbero state, di conseguenza, vincolanti, e non ulteriormente modificabili. Inoltre, nessuna cessione a favore dello Stato sarebbe intervenuta da parte di altri accusatori privati. I reclamanti hanno inoltre censurato una violazione del diritto di essere sentito.
e.
Con sentenza 8.10.2013 questa Corte ha accolto i gravami sopraindicati annullando la decisione 16.9.2013 in quanto adottata dal solo presidente della Corte delle assise criminali, e non dalla stessa. Ha inoltre constatato una violazione del diritto di essere sentito in quanto il presidente, prima di prendere la propria decisione, non aveva intimato le richieste di assegnazione e non aveva dato, almeno a chi aveva già avanzato simili richieste precedentemente, la possibilità di esprimersi (sentenza 8.10.2013, inc. CRP _).
f.
Con scritto 25.10.2013 RE 1, per il tramite del suo avvocato, ha chiesto che
“(...) gli importi confiscati come al punto N. 11 della sentenza 15 febbraio 2013, le vengano messi a disposizione, come per gli altri accusatori privati, proporzionalmente al suo credito, fino al totale pagamento del suo credito, riservato ogni altro suo diritto”
(scritto 25.10.2013, doc. 28).
g.
La Corte delle assise criminali ha dunque accordato a tutti gli accusatori privati, tra cui a RE 1, un termine per confermare la cessione allo Stato della quota relativa al loro credito nei confronti di PI 26 e PI 27 (scritto 6.12.2013, doc. 36, inc. TPC _). Dopo aver ricevuto gli scritti di risposta, tra cui quello della qui reclamante del 13.12.2013 (doc. 46, inc. TPC _), ha poi emanato la decisione di assegnazione 18.2.2014. La Corte ha affermato che i valori confiscati al momento del passaggio in giudicato della sentenza di merito 15.2.2013 ammontavano a CHF 358'217.55. Ha inoltre informato che
“(...) con scritto 23.7.2013 della _ Assicurazioni, le prestazioni assicurative relative alla polizza vita (...) di pertinenza di PI 26 non sono esigibili e che neppure lo sono attualmente gli averi della previdenza professionale presso Banca _ (...), sempre di pertinenza di PI 26 (...)”
e che
“(...) i condannati si sono impegnati a proseguire i versamenti al Tribunale penale cantonale per il risarcimento degli accusatori privati e, facendo fede ai loro impegni, hanno versato ad oggi (...) l’ulteriore importo di fr. 51'200.- (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 3). La Corte delle assise criminali ha inoltre citato la dottrina e la giurisprudenza in merito all’art. 73 CP (assegnamenti al danneggiato) affermando che
“(...) dal momento che né in sede d’istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata debita informazione sul contenuto dell’art. 73 CP alle parti lese sprovviste di rappresentante legale, le richieste degli AP (...), con cessione allo Stato della relativa quota del loro credito, vanno accolte e, pertanto, anche a loro va assegnato proporzionalmente al loro credito l’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza (...)”.
Ha tuttavia precisato che
“(...) ciò non è invece il caso per l’AP RE 1, in quanto validamente assistita da un avvocato ticinese durante tutto l’iter procedurale e in mancanza della cessione del suo credito allo Stato entro l’emanazione della sentenza 15.2.2013 (...)”.
A dire dell’autorità giudicante
“(...) al momento del suo passaggio in giudicato la sentenza 15.2.2013 non era in tutti i suoi punti esecutiva, stante l’impegno di versamenti futuri – nel frattempo effettivamente avvenuti – da parte dei condannati e stante la non esigibilità delle prestazioni assicurative relative alla polizza vita e degli averi della previdenza professionale di PI 26 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5 s., inc. TPC _). La Corte ha dunque proceduto all’assegnazione dell’importo confiscato prima dell’emanazione della sentenza di merito ad ogni singolo accusatore privato, tranne a RE 1, per la quota parte di loro spettanza. Unicamente l’importo supplementare pari a CHF 51'200.-- maturato dopo il 15.2.2013 è stato assegnato a tutti gli accusatori privati, qui reclamante compresa.
h.
Contro tale decisione insorge ora, fra gli altri, RE 1. A suo dire la decisione impugnata violerebbe l’art. 73 CP:
“(...) è ingiusto che questa assegnazione non sia anzitutto avvenuta contemporaneamente con la decisione di merito della sentenza, avendo la ricorrente già notificato più volte, e quale accusatrice privata, la pretesa. La signora RE 1 non può condividere quanto esposto nella decisione alle pagine N. 4 e 5, e chiede che tutti gli importi confiscati vengano messi anche a sua disposizione e proporzionalmente al suo credito di fr. 374'902.40 (...)”
. Essa afferma di essere stata
“(...) informata dell’esistenza del sequestro e della possibilità di chiedere la divisione di questi importi, soltanto con la comunicazione 15 ottobre 2013, e vi ha dato seguito il 25 ottobre 2013. Il Giudice doveva informarla della possibilità dell’art. 73 CP, di cedere la relativa quota del suo credito ai sensi dell’art. 73 CP (...)”
. Aggiunge inoltre che
“(...) la cessione del credito, non è avvenuta entro l’emanazione della sentenza 15 febbraio 2013, perché la ricorrente non poteva essere presente al dibattimento, ne è stata informata dei sequestri (...)”
(reclamo 12.3.2014, p. 3).
i.
Delle ulteriori argomentazioni, così come delle successive osservazioni, si dirà, se necessario, in corso di motivazione. | in diritto
1.
1.1.
L’art. 73 cpv. 3 CP dispone che i Cantoni debbano prevedere una procedura semplice e rapida per decidere sugli assegnamenti qualora non fosse possibile deciderli nella sentenza penale. Il testo di questo capoverso è sostanzialmente identico a quello del previgente art. 60 cpv. 3 vCP. È più che probabile che l’entrata in vigore del Codice di procedura penale federale (CPP) abbia di fatto reso superfluo detto capoverso. Di modo che, per determinare le norme procedurali applicabili, ci si deve orientare sul CPP.
1.2.
Nella presente fattispecie, questa Corte ritiene applicabili le norme degli art. 363 ss. CPP, relative alle decisioni giudiziarie indipendenti successive (
N. Schmid
, StPO Praxiskommentar, 2. ed., art. 378 CPP n. 2). Caratterizzando in tal modo la procedura, la via d’impugnazione è quella del reclamo a questa Corte (Commentario CPP –
M. Mini
, art. 393 CPP n. 18).
1.3.
Il gravame, inoltrato il 12.3.2014, è dunque tempestivo e proponibile. Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate. RE 1, quale accusatrice privata, è pacificamente legittimata a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP, avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio (BSK StPO – M. ZIEGLER, art. 382 CPP n. 4; PC CPP – L. MOREILLON / A. PEREIN–REYMOND, art. 382 CPP n. 5).
Il reclamo è, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l’art. 73 CP se in seguito a un crimine o a un delitto, alcuno patisce un danno non coperto da un’assicurazione e si deve presumere che il danno o il torto morale non saranno risarciti dall’autore, il giudice assegna al danneggiato, a sua richiesta, fino all’importo del risarcimento o dell’indennità per torto morale stabiliti giudizialmente o mediante transazione: a. la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato; b. gli oggetti e i beni confiscati o il ricavo della loro realizzazione, dedotte le spese; c. le pretese di risarcimento; d. l’importo della cauzione preventiva prestata. Il giudice può tuttavia ordinare questi assegnamenti soltanto se il danneggiato cede allo Stato la relativa quota del suo credito.
2.2.
Conformemente al testo di legge, gli assegnamenti sono concessi al danneggiato unicamente a sua richiesta. Quando più danneggiati possono pretendere un risarcimento, è dovere di ciascuno di loro farne domanda al giudice competente. Quest’ultimo dovrà tener conto unicamente dei danneggiati che avranno espressamente formulato la richiesta sulla base dell’art. 73 CP. La dottrina sostiene che il giudice deve rendere attento il danneggiato alla possibilità offerta dall’art. 73 CP, almeno nei casi in cui quest’ultimo non ha delle conoscenze giuridiche sufficienti o non è assistito da un avvocato. Anche la giurisprudenza ammette un dovere di informazione da parte del giudice quando il danneggiato non è pratico nella materia giuridica o non è assistito da un patrocinatore (cfr. decisione TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013; sentenza TF 6B_190/2010 del 16.7.2010; BSK Strafrecht I – F. BAUMANN, 3. ed., art. 73 CP n. 20).
In virtù del principio dell’economia processuale l’assegnamento deve essere deciso, di principio, già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP a contrario). I Cantoni devono prevedere una procedura semplice e rapida nel caso in cui gli assegnamenti non fossero possibili già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP). Una tale procedura è possibile nel caso in cui il danneggiato, che postula l’assegnamento giusta l’art. 73 CP, si annunci posteriormente. Per esempio nel caso in cui la confisca degli oggetti e i beni ai sensi degli artt. 69-72 CP sia già stata ordinata o quando la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato sia già stata acquisita dall’autorità competente. Una decisione ulteriore è tuttavia possibile nel caso in cui i beni in questione non siano già stati oggetto di una decisione di assegnamento, passata in giudicato, in favore di altri danneggiati (decisione TF 6B_53/2009 del 24.8.2009).
3.
3.1.
La Corte delle assise criminali al dispositivo 13 della sentenza di merito del 15.2.2013 ha deciso che
“(...) i risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2
[CHF 450'000.--]
e 5.2.2
[CHF 450'000.--]
sono assegnati, previo soddisfacimento di tassa e spese di giustizia,
in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[PI 7]
,8.4
[PI 8]
, 8.12
[_]
, 8.25
[PI 4]
e 8.26
[_]
(...)”
(sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
Con scritti 9.3.2013 di PI 17 e PI 18, 20.2.2013 di PI 14, 28.3.2013 di PI 6 e 12.9.2013 di PI 8, gli accusatori privati chiedevano l’assegnazione, a loro favore, dei risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2 e 5.2.2 (doc. 1/2/3/6, inc. TPC _).
A seguito di tali richieste il presidente della Corte delle assise criminali ha deciso di procedere all’assegnazione di quanto confiscato anche agli accusatori privati sopraindicati che avevano fatto richiesta dopo l’emanazione della sentenza di merito (decisione 16.9.2013, doc. 7, inc. TPC _).
3.2.
A seguito della sentenza 8.10.2013 di questa Corte, che annullava la predetta decisione 16.9.2013, il presidente della Corte delle assise criminali ha invitato tutti gli accusatori privati o i loro rappresentanti a confermare, nel termine di dieci giorni, la cessione allo Stato della quota relativa al loro credito nei confronti di PI 27 e di PI 26 (così come stabilito nella sentenza 15.2.2013 della Corte delle assise criminali), attirando la loro attenzione sul fatto che
“(...) in mancanza di una loro dichiarazione di cessione del credito allo Stato l’assegnazione non può essere ordinata (...)”
(scritto 6.12.2013, doc. 36, inc. TPC _).
È così che (oltre ai cinque accusatori privati che si erano annunciati prima dell’emanazione della sentenza di merito della Corte delle assise criminali ed ai cinque del 9.3.2013, 20.2.2013, 28.3.2013 e 12.9.2013) altri dieci accusatori privati hanno fatto richiesta di assegnazione giusta l’art. 73 CP (scritti doc. 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 57, inc. TPC _). Tra questi anche la qui reclamante con gli scritti 25.10.2013 e 13.12.2013 (doc. 28 e 46, inc. TPC _).
Con decisione 18.2.2014 la Corte delle assise criminali ha precisato che
“(...) i valori confiscati al momento del passaggio in giudicato della sentenza ammontavano a fr. 358'217.55, di cui fr. 146'517.55, di pertinenza di PI 26 (...) e fr. 211'700.- di pertinenza di PI 27 (...)”
; ha evidenziato che
“(...) visto lo scritto 23.7.2013 della _ Assicurazioni, le prestazioni assicurative relative alla polizza vita (...) di pertinenza di PI 26 non sono esigibili e che neppure lo sono attualmente gli averi della previdenza professionale presso Banca _ (...) sempre di pertinenza di PI 26 (...)”
; ha ricordato che
“(...) i condannati si sono impegnati a proseguire i versamenti al Tribunale penale cantonale per il risarcimento degli accusatori privati e, facendo fede ai loro impegni, hanno versato ad oggi (...) l’ulteriore importo di fr. 51'200.- di cui fr. 20'000.- PI 26 e fr. 31'200.- PI 27 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 3, doc. 60, inc. TPC _). La Corte ha ribadito che per gli accusatori privati PI 25, PI 24, RE 1 e _
“(...) le rispettive richieste di assegnazione, ribadite in questa sede, sono già state decise con la sentenza 15.2.2013, passata in giudicato (...)”
. Di conseguenza
“(...) dal momento che né in sede d’istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata debita informazione sul contenuto dell’art. 73 CP alle parti lese sprovviste di rappresentante legale le richieste (...)”
degli ulteriori accusatori privati
“(...) con cessione allo Stato della relativa quota del loro credito, vanno accolte e, pertanto, anche a loro va assegnato proporzionalmente al loro credito l’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza (punti 11.1.3 e 11.2.1 del dispositivo) (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5 s., doc. 60, inc. TPC _). Ha tuttavia precisato che tale discorso non poteva essere applicato anche a RE 1 in quanto
“(...) validamente assistita da un avvocato ticinese durante tutto l’iter procedurale e in mancanza della cessione del suo credito allo Stato entro l’emanazione della sentenza 15.2.2013 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5, doc. TPC 60, inc. TPC _).
Alla luce di quanto precede la Corte delle assise criminali ha dunque suddiviso l’importo confiscato al punto 11 del dispositivo della sentenza 15.2.2013 tra i quindici accusatori privati annunciatisi (oltre a RE 1, _, PI 24 e PI 25), tranne RE 1, per la quota parte di loro spettanza in funzione delle altre indennità riconosciute in sentenza.
4.
4.1.
La Corte
delle assise criminali ha dunque affermato che non essendovi stata una debita informazione da parte del giudice, né in sede di istruttoria, né in sede dibattimentale, agli accusatori privati sprovvisti di patrocinatore in merito ai loro diritti derivanti dall’art. 73 CP, le loro richieste, avvenute dopo il passaggio in giudicato della sentenza di merito del 15.2.2013, devono essere accolte. L’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato di quest’ultima ammontava a CHF 358'217.55; somma di denaro da suddividere dunque, a mente dell’autorità giudicante, fra diciotto accusatori privati. Al contrario la Corte delle assise criminali non avrebbe avuto un dovere di assistenza nei confronti di RE 1, essendo stata validamente assistita da un avvocato durante tutto l’iter procedurale; la sua richiesta, effettuata dopo il 15.2.2013, non è stata dunque accolta.
4.2.
La Corte
delle assise criminali si riferisce al fatto che, giusta la giurisprudenza e la dottrina, il giudice deve rendere attenta la parte lesa in merito alle possibilità offerte dall’art. 73 CP, almeno nel caso in cui quest’ultima non possa fare affidamento sulle sue conoscenze giuridiche o sull’aiuto di un avvocato. Come indicato il Tribunale federale prevede infatti il dovere di assistenza del giudice nel caso di danneggiati inesperti non patrocinati (cfr. sentenza TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013). L’assegnazione deve tuttavia essere ordinata contemporaneamente alla decisione di merito giusta l’art. 73 cpv. 3 CP, come è avvenuto nel caso in esame. Un’assegnazione posteriore può infatti essere effettuata unicamente nel caso in cui non sia già avvenuta alcuna assegnazione passata in giudicato in favore di altri danneggiati (sentenza TF 6B_53/2009 del 24.8.2009 consid. 2.6; sentenza TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013 consid. 3.1.) o se i beni pervengono dopo. Nel caso in esame nella sentenza 15.2.2013 la Corte delle assise criminali assegnava a PI 24, PI 25, PI 4 e PI 5 i risarcimenti compensatori (punto 13). La sentenza è passata in giudicato. Pertanto, contrariamente a quanto sembra sostenere l’autorità di merito, il fatto che né in sede di istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata una debita informazione alle parti lese in merito ai loro diritti, è irrilevante: determinante è il solo carattere definitivo ed esecutivo della decisione di assegnazione ai cinque accusatori privati, ossia la sentenza di merito 15.2.2013 della Corte delle assise criminali. RE 1 non vanta dunque nessun diritto sui beni confiscati. Tale giudizio si impone anche per garantire una certa sicurezza del diritto ed evitare che i danneggiati che hanno fatto valere le proprie pretese durante la procedura si vedano diminuire il loro risarcimento, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da ulteriori accusatori privati annunciatisi successivamente.
Pertanto, anche per quanto concerne la qui reclamante, è irrilevante il fatto che quest’ultima sia stata patrocinata per tutto l’iter procedurale da un avvocato; quel che conta è che RE 1 non ha presentato, come peraltro gran parte degli altri accusatori privati, una richiesta giusta l’art. 73 CP prima dell’emanazione della sentenza di merito. Il fatto di aver
“(...) già notificato più volte, e quale accusatrice privata la pretesa (...)”
non è sufficiente: lei stessa afferma peraltro di essere stata informata dell’esistenza del sequestro e della possibilità di chiedere la divisione di questi importi soltanto con scritto 15.10.2013 della Corte delle assise criminali e di non aver provveduto alla cessione del credito allo Stato, come prescritto dall’art. 73 CP, entro il 15.2.2013
“(...) poiché non poteva essere presente al dibattimento, né poteva essere informata dei sequestri”
(reclamo 12/18.3.2014, p. 3).
4.3.
Al contrario, come rettamente rilevato dalla Corte delle assise criminali,
“(...) gli importi maturati posteriormente al passaggio in giudicato della sentenza ovvero dopo il 15.2.2013 vanno assegnati a tutte le parti istanti proporzionalmente al loro credito nel frattempo ceduto allo Stato (...)”
(sentenza 18.2.2014, p. 6). Pertanto i versamenti effettuati posteriormente al 15.2.2013, che ammontano a CHF 51'200.--, devono essere assegnati a tutti gli accusatori privati annunciatisi e di conseguenza anche a RE 1. Al momento del passaggio in giudicato della sentenza di merito 15.2.2013 tale importo non era infatti ancora stato assegnato, anche perché non ancora confiscato.
5.
Nella misura delle assegnazioni qui contestate, il gravame è respinto. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Le ripetibili sono poste a carico della reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
accb3bfb-e208-5f5e-8dc6-e898520992f2 | in fatto
a.
Il 21.08.2012 il TPF, con rito abbreviato, ha riconosciuto RE 1 (_), cittadino _, autore colpevole di ripetuta infrazione aggravata alla LStup (art. 19 cpv. 1 e 2 LStup) e lo ha in particolare condannato alla pena detentiva di quattro anni e sei mesi (cui va dedotto il carcere preventivo sofferto di 189 giorni) e al pagamento della somma di CHF 12'000.-- a favore della Confederazione a valere quale risarcimento equivalente (art. 71 CP). L’esecuzione della pena è stata demandata al Canton Ticino in applicazione dell’art. 74 LOAP (cfr., nel dettaglio, sentenza TPF _ del 21.08.2012).
Il 5/8.10.2012 l’Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi, competente in materia secondo la LEPM, ha ricevuto la comunicazione ufficiale della suddetta decisione e della sua esecutività (AI 10 – inc. GPC _).
Già nel corso del mese di settembre 2012 erano pervenuti al predetto Ufficio alcuni documenti riguardanti la persona di RE 1, in particolare il piano di esecuzione della pena (PES) e la sua richiesta di trasferimento in sezione aperta (AI 1, AI 2 e AI 3 – inc. GPC _; AI 5 – inc. GPC _).
b.
RE 1 è stato posto in carcerazione preventiva il 24.03.2010. Il 29.09.2010 gli è stato concesso il regime agevolato di esecuzione anticipata della pena. L’espiazione della pena è formalmente iniziata il 21.08.2012. Dedotto il carcere preventivo sofferto, egli ha già superato i 7/12 della pena il 23/24.10.2012. I 2/3 della pena saranno raggiunti il 24.03.2013, mentre la fine della pena è prevista il 23.09.2014.
c.
Con scritto datato 27.09.2012 RE 1 ha inoltrato alla Direzione delle strutture carcerarie una richiesta di trasferimento in sezione aperta raggiunti i 7/12 dell'esecuzione della pena come definito nel PES (AI 1 – inc. GPC _).
La richiesta è stata preavvisata favorevolmente sia dal Servizio sociale (AI 1 – inc. GPC _), sia dal Servizio medico delle strutture carcerarie cantonali (AI 2 – inc. GPC _), sia dalle stesse Strutture carcerarie cantonali (AI 3 – inc. GPC _).
d.
Con decisione 9.10.2012 il giudice dei provvedimenti coercitivi, sedente in materia di applicazione della pena – richiamata la sentenza del 21.08.2012 emanata dal TPF nei confronti di RE 1 e dovendosi determinare sul collocamento iniziale (art. 76 CP) rispettivamente sulla domanda 27.09.2012 di trasferimento in sezione aperta – ha ordinato il collocamento di quest’ultimo in sezione chiusa ed ha stabilito che la pena sarà considerata interamente scontata il 23.09.2014 (decisione 9.10.2012, inc. GPC _ e _).
Il giudice, riassunti i fatti rilevanti ed esposto il diritto applicabile, ha stabilito l’esistenza/la sussistenza di sufficienti elementi per una prognosi sfavorevole in merito al suo pericolo di fuga. Ha inoltre non ritenuto necessario procedere alla sua audizione prima dell’emanazione della decisione (qui impugnata), avendo dovuto, da un lato, stabilire l’esecuzione (sia nei termini sia nelle sue modalità) della sentenza 21.08.2012 del TPF e avendo considerato, dall’altro lato, che lo stesso RE 1 si è espresso nel suo scritto del 27.09.2012.
e.
In data 17.10.2012 l’Ufficio della migrazione della Sezione della popolazione ha emesso nei confronti di RE 1 un ordine di allontanamento da eseguirsi al momento della sua scarcerazione (AI 16 – inc. GPC _).
f.
Con il presente gravame RE 1 chiede che gli sia concesso il trasferimento in sezione aperta e di essere posto al beneficio dell’assistenza giudiziaria e del gratuito patrocinio.
Il reclamante, dopo aver esposto brevemente i fatti, ritiene anzitutto che sia stato violato il suo diritto di essere sentito, non avendo il giudice ritenuto necessario procedere alla sua audizione prima dell’emanazione della decisione qui impugnata. Contesta poi il suo pericolo di fuga, avendo in particolare legami e vincoli famigliari a _ ed essendo stato deciso il suo collocamento nella zona agricola in relazione alla sua attività lavorativa in seno al carcere. | Delle sue puntuali argomentazioni, così come delle osservazioni delle altre parti si dirà, laddove necessario, nei considerandi in diritto.
in diritto
1.
1.1.
L’art. 74 cpv. 1 lit. a-i della Legge federale sull’organizzazione delle autorità penali della Confederazione (LOAP) prevede l’esecuzione da parte dei Cantoni di diverse pene e misure pronunciate dalle autorità penali, tra cui le pene detentive (lit. b).
Il Cantone competente – in casu il Canton Ticino – prende le decisioni inerenti all’esecuzione (art. 74 cpv. 3 LOAP).
1.2.
Il CPP, in vigore dall'1.01.2011, all'art. 439 cpv. 1 CPP lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
Il Canton Ticino ha adottato il 20.04.2010 la Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti (LEPM), entrata in vigore l'1.01.2011, che all'art. 10 cpv. 1 lit. h conferisce al giudice dell'applicazione della pena – funzione questa attribuita in Ticino dall'1.01.2011 al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi giusta l'art. 73 LOG – la competenza, tra l'altro, a decidere il collocamento iniziale del condannato (art. 76 CP) e il trasferimento del condannato in sezione aperta e la concessione del lavoro e dell'alloggio esterni (art. 77a CP).
Contro tali decisioni, conformemente all'art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM, è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli art. 393 ss. CPP alla Corte dei reclami penali.
1.3.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.4.
Il gravame inoltrato il 19/22.10.2012, contro la decisione 9.10.2012 del giudice dei provvedimenti coercitivi, sedente in materia di applicazione della pena, è tempestivo.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1 – quale condannato e destinatario della decisione impugnata che lo tocca direttamente, personalmente e attualmente nei suoi diritti – è pacificamente legittimato a reclamare giusta l'art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all'annullamento o alla modifica del giudizio.
Il reclamo è quindi, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Le pene detentive sono scontate in un penitenziario chiuso o aperto (art. 76 cpv. 1 CP).
Giusta l'art. 75a cpv. 2 CP per regime aperto si intende un'espiazione della pena tale da essere meno restrittiva della libertà, in particolare il trasferimento in un penitenziario aperto, la concessione di congedi, l'autorizzazione del lavoro o alloggio esterni e la liberazione condizionale.
L'art. 76 cpv. 2 CP stabilisce che il detenuto è collocato in un penitenziario chiuso o in un reparto chiuso di un penitenziario aperto se vi è il pericolo che si dia alla fuga o vi è da attendersi che commetta nuovi reati.
Il detenuto è, di principio, da collocare in un penitenziario aperto, a meno che sussista il pericolo che egli si dia alla fuga oppure il rischio che egli commetta nuovi reati (cfr. Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.09.1998, pubblicato in FF 1999 p. 1793; BSK Strafrecht I – B.F. BRÄGGER, 2. ed., art. 76 CP n. 8).
A livello cantonale – oltre l'applicazione del Concordato sull'esecuzione delle pene privative di libertà e delle misure concernenti gli adulti e i giovani adulti nei cantoni latini del 10.04.2006 (Concordato latino sulla detenzione penale degli adulti) – l'art. 19 del Regolamento sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti del 6.03.2007 (REPM), in vigore dal 9.03.2007, al cpv. 1 dispone che l'esecuzione della pena in uno stabilimento chiuso (ossia in uno stabilimento in cui le misure di sicurezza sono elevate) è la forma di esecuzione ordinaria quando al detenuto non possono essere concesse altre forme di esecuzione in grado di evitare in particolare la fuga o pericoli a terzi.
Il cpv. 3 del medesimo regolamento prevede inoltre la possibilità di espiare la pena privativa della libertà, in tutto o in parte, in uno stabilimento aperto (ossia in una struttura che dispone di misure di sicurezza ridotte per quanto concerne l'organizzazione, il personale e la costruzione) se tale collocazione non provoca pericoli alla comunità, evita il ripetersi di azioni delittuose e non vi è rischio di fuga.
L'art. 3 del Regolamento delle strutture carcerarie del Cantone Ticino del 15.12.2010, in vigore dall'1.01.2011, precisa che sono considerate strutture aperte lo Stampino e il Naravazz (cpv. 5). Esse sono in particolare destinate all'incarcerazione di: a) persone in esecuzione di pene eseguite in regime di lavoro esterno; b) persone in esecuzione di pene eseguite in forma di semiprigionia; c) persone in esecuzione di pene di breve durata eseguite per giorni; d) persone in esecuzione di pena che non presentano un rischio di fuga e per le quali non vi è da attendersi che commettano nuovi reati (cpv. 6).
Inoltre l'art. 43 cpv. 1 di detto regolamento stabilisce che l'esecuzione della pena avviene di principio secondo una progressione, il cui obiettivo, condizioni e fasi sono contemplati dal PES (Piano d'esecuzione della sanzione penale). I passaggi tra le fasi sono decisi dall'autorità competente, che tiene conto segnatamente della durata della pena, del comportamento in esecuzione di pena, dell'impegno nel lavoro o nella formazione, dei rischi di fuga, della capacità di rispettare le norme di condotta imposte, dei rischi di commissione di reati e di sicurezza.
2.2.
Con quale intensità debba sussistere il pericolo di fuga o il rischio che il detenuto commetta nuovi reati richiesto dall'art. 76 cpv. 2 CP, non può essere espresso in generale e in astratto, ma dipende dalle circostanze. I due criteri non sono cumulativi (cfr. Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.09.1998, FF 1999 p. 1793).
Conformemente alla giurisprudenza federale il rischio di fuga deve essere analizzato in funzione di un insieme di circostanze quali la gravità dei reati, il carattere dell'interessato, la sua morale, le sue risorse, i suoi legami con lo Stato che lo persegue come pure i suoi contatti con l'estero, che fanno apparire un tale rischio non solo possibile ma probabile (decisione TF 1B_423/2010 del 17.01.2011; decisione TF 1B_195/2010 del 13.07.2010; DTF 125 I 60).
In una recente sentenza in ambito di concessione del primo congedo, l'Alta Corte ha avuto modo di precisare che il pericolo di fuga non può essere ammesso, allorquando un rischio simile è dato solo in modo astratto. Devono sussistere dei motivi concreti, che facciano apparire la fuga come probabile. Al proposito va preso in considerazione l'insieme delle condizioni del detenuto ("
die gesamten Verhältnisse des Eingewiesenen
"), quali ad esempio i suoi legami familiari ("
familiäre Bindungen
"), le sue condizioni di vita ("
Lebensumstände
"), la sua situazione professionale e finanziaria ("
berufliche und finanzielle Situation
"), i suoi contatti all'estero ("
Kontakte zum Ausland
") [decisione TF 6B_577/2011 del 12.01.2012, consid. 2.2. e rif.; cfr. anche decisione TF 6B_774/2011 del 3.04.2012 consid. 3.1. e rif.].
La dottrina ha inoltre precisato che un alto pericolo di fuga è dato in particolare allorquando l'interessato non dispone di alcuna rete di relazioni
("Beziehungsnetz"
) con il nostro paese, ovverossia quando egli non ha alcun legame con la Svizzera, ciò che è da presupporre per i cosiddetti turisti del crimine
("Kriminaltouristen"
) e per i condannati sprovvisti di un valido permesso di soggiorno o di dimora (BSK Strafrecht I – B.F. BRÄGGER, op. cit., art. 76 CP n. 4).
Per quanto attiene al pericolo di recidiva il testo di legge non precisa espressamente di quale gravità i reati di cui si teme la reiterazione debbano essere. Per la dottrina gli stessi devono essere di una certa rilevanza (BSK Strafrecht I – A. BAECHTOLD, op. cit., art. 77b CP n. 7), stante che nel pericolo di recidiva non entra in considerazione la (prospettata) commissione di semplici contravvenzioni (S. TRECHSEL et al., Schweizerisches StGB, Praxiskommentar, art. 76 CP n. 3).
3.
È pacifico e incontestato che RE 1 abbia raggiunto i 7/12 dell'esecuzione della pena.
Dal PES emerge in particolare che il suo comportamento generale (
"
buone capacità di adattamento, rispettoso e degno di fiducia
"
) e sul luogo di lavoro (
"
collocato al lavoro in cucina, puntuale, motivato e affidabile
"
), così come le relazioni con i collaboratori delle Strutture carcerarie (
"
rispettoso, corretto
"
) sono stati valutati buoni (PES, p. 6, AI 5 – inc. GPC _).
Il reclamante è stato collocato al lavoro in zona agricola dall’1.10.2012 e non ha subito alcuna sanzione disciplinare (preavviso alla richiesta di trasferimento in sezione aperta 3.10.2012 delle Strutture carcerarie cantonali, AI 3 – inc. GPC 850.2012.1003).
Ciononostante questa Corte intravvede, per le circostanze che verranno esposte nel seguente considerando, un concreto pericolo di fuga che impedisce la concessione del postulato trasferimento in sezione aperta, così come rettamente accertato dal giudice dei provvedimenti coercitivi nella decisione qui impugnata, che merita dunque di essere tutelata.
4.
Dal rapporto finale allestito l’11.10.2011 dalla polizia giudiziaria federale, Divisione Indagini _ – Commissariato I (annesso alle osservazioni 25/26.10.2012 del MPC, doc. 4) risulta che RE 1, cittadino _, è nato l’_, a _, ed è cresciuto a _
"
(...) dove ha tuttora residenza. Il padre, di professione pasticcere, era titolare di una pasticceria nella quale prestava aiuto anche la madre. Ha una sorella. Ha frequentato le scuole dell’obbligo a _ fino alla terza media. Non ha mai ottenuto un diploma professionale. È coniugato con _, _, dalla quale ha avuto due figli, _ (4 anni) e _ (2 anni). Oltre all’attività in società con il padre, nella pasticceria, RE 1 si è pure occupato di compravendita di auto a partire dal 2006. Vive in un’abitazione propria donatagli dalla madre. Mediamente, nella sua attività lecita riusciva a percepire un guadagno mensile di circa
Euro
2'000. A suo dire ha debiti per una decina di migliaia di Euro per multe arretrate ciò che ha provocato l’iscrizione di un’ipoteca legale sulla casa. Il 15.11.2000 e il 20.07.2005 era stato arrestato a _ per consumo e spaccio di cocaina con la conseguenza di due condanne a 6 mesi rispettivamente due anni per stupefacenti. In quel periodo era anche tossicodipendente
"
(rapporto finale dell’11.10.2011, p. 9, annesso alle osservazioni 25/26.10.2012 del MPC, doc. 4).
Il 21.08.2012 RE 1 è stato condannato, con rito abbreviato ai sensi degli art. 358 ss. CPP, alla pena detentiva di quattro anni e sei mesi per ripetuta infrazione aggravata alla LStup (art. 19 cpv. 1 e 2 LStup).
Nella sua decisione il TPF ha in particolare esposto che
"
(...) nel caso concreto, le sanzioni proposte con l’atto di accusa appaiono adeguate stante il fatto che si è confrontati con importanti quantitativi di stupefacente, ed in particolare di cocaina, sostanza presente in quantità tali da mettere in pericolo la salute di molte persone; in casu, trattasi di infrazione aggravata ex art. 19 n. 2 LStup, segnatamente alla luce dell’importante cifra d’affari (superiore a fr. 100'000.--) e dei regolari redditi conseguiti col citato traffico, nonché alla luce della frequenza e dell’intensità degli atti punibili, così come pure delle finalità egoistiche perseguite, fermo restando altresì la concorrenza di precedenti specifici, come risulta dal casellario giudiziale _ (...)
"
(decisione TPF _ del 21.08.2012, p. 9; cfr., per i dettagli, i verbali d’interrogatorio di RE 1 e il rapporto finale annessi alle osservazioni 25/26.10.2012 del MPC, doc. 4, alla cui lettura si rimanda per brevità).
Circa la posizione di RE 1 in rapporto alla sua condanna, nel PES del 23.08.2012 è stato indicato che egli ha ammesso i fatti così come sono stati indicati nella sentenza, che egli avrebbe agito in tal senso per necessità di denaro e che avrebbe riconosciuto l’infrazione commessa (AI 5 – inc. GPC _).
In effetti, egli durante l’udienza per la conferma dell’arresto 19.10.2010 dell’Ufficio dei giudici istruttori federali ha in particolare ammesso che
"
(...) con gli stupefacenti arrotondavo. Negli ultimi tempi ho avuto problemi di denaro e ho ripreso a fare traffici perché avevo bisogno di denaro. (...). Mia moglie sa che ero un consumatore di cocaina. Da febbraio/marzo 2008 ho smesso però ho molte multe in arretrato (...)
" (verbale d’udienza per la conferma dell’arresto 19.08.2010 dell’Ufficio dei giudici istruttori federali, p. 2 e 3, annesso alle osservazioni 25/26.10.2012 del MPC, doc. 4).
Dal PES risulta che RE 1 ha un legame stretto con la famiglia d’origine e che riceve visite regolari da parte della compagna, dei due figli minorenni e dei parenti. Possiede una buona rete famigliare che lo sostiene ed effettua regolari versamenti alla famiglia di CHF 100.-- mensili. Egli è intenzionato a riprendere l’attività di pasticcere e ritirare la pasticceria di suo padre. La sua situazione finanziaria sarebbe difficile da verificare, ma a suo dire è molto precaria. Ha buone capacità relazionali, rispetta le norme istituzionali ed ha un comportamento corretto. Quale fattore rischio nel bilancio da considerare ai fini dell’inserimento sociale è stata indicata la sua situazione debitoria in _.
RE 1, cittadino _, non ha dunque alcun legame con il territorio elvetico (PES, p. 7, AI 5 – inc. GPC _; cfr. anche verbale d’udienza per la conferma dell’arresto 19.08.2010 dell’Ufficio dei giudici istruttori federali, p. 4, annesso alle osservazioni 25/26.10.2012 del MPC, doc. 4:
"
ADR che in Svizzera non ho niente, nessun conto bancario, nessuna relazione. Tutti i miei legami affettivi, personali, famigliari si trovano in _
"), circostanza comprovata anche dal fatto che la sua compagna e i suoi due figli minorenni,
che lo visitano regolarmente in carcere, risiedono nella vicina _.
L’_, prima del suo arresto, era il centro dei suoi interessi personali, famigliari e professionali e verosimilmente lo sarà anche in futuro, avendo dichiarato di essere intenzionato a ritornarvi per ritirare la pasticceria di suo padre.
Non da ultimo va ricordato che il 17.10.2012 l’Ufficio della migrazione della Sezione della popolazione ha emesso nei suoi confronti un ordine di allontanamento da eseguirsi al momento della sua scarcerazione in applicazione dell’art. 64 LStr (AI 16 – inc. GPC _).
Ciò posto e visti in particolare l’entità e la gravità della condanna (in particolare con riferimento ai traffici di cocaina, per i quali egli ha del resto inizialmente negato ogni addebito ed ha ammesso le sue responsabilità solo in un secondo tempo poiché coinvolto dalle dichiarazioni di altri imputati) e la pena ancora da scontare (i 2/3 della pena saranno raggiunti il 24.03.2013, mentre la fine della pena è prevista il 23.09.2014), la totale assenza di legami con il territorio elvetico da parte sua se non quelli di avervi commesso azioni penalmente rilevanti di una certa gravità, i suoi solidi legami d’origine, affettivi, famigliari (dai quali riceve regolari visite in carcere), personali e professionali con il territorio _, la sua situazione finanziaria precaria (si ricorda al proposito che egli ha dichiarato che proprio a causa di problemi finanziari ha ripreso con il traffico di stupefacenti poiché aveva bisogno di denaro), il rischio che egli possa sottrarsi al residuo di pena riparando in patria, qualora fosse trasferito in sezione aperta, risulta concreto e altamente probabile.
5.
L'esistenza di un concreto pericolo di fuga, essendo da solo sufficiente a giustificare il mantenimento del reclamante in un penitenziario chiuso ex art. 76 cpv. 2 CP, rende superfluo l'esame del rischio di recidiva.
6.
Il reclamante sostiene che il
giudice dei provvedimenti coercitivi, sedente in materia di applicazione della pena, avrebbe violato il suo diritto di essere sentito, non avendo ritenuto necessario procedere alla sua audizione formale prima dell’emanazione della decisione. Giova anzitutto rilevare che la procedura in questione non prevede espressamente il diritto ad un’udienza. L’art. 11 cpv. 1 LEPM prevede unicamente il diritto di essere sentito. Il qui reclamante ha in ogni modo potuto esprimersi prima dell’emanazione della decisione. Ne discende che il suo diritto di essere sentito è stato tutelato.
7. RE 1
era già stato ammesso dal MPC al beneficio del gratuito patrocinio, con la nomina dell’avv. PR 1 a suo difensore d’ufficio (doc. B annesso al reclamo
19/22.10.2012). Postula in questa sede di essere posto al beneficio del gratuito patrocinio e dell’assistenza giudiziaria nella persona dell’avv. PR 1, producendo diversa documentazione a suffragio della sua domanda. A giudizio di questa Corte la richiesta deve essere accolta, vista la fattispecie in esame e ritenuto inoltre che dall’analisi degli atti può essere riconosciuto lo stato d’indigenza del reclamante.
8.
Il reclamo è respinto. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. L’indennità dovuta al difensore d’ufficio, avv. PR 1, è fissata in CHF 500.-- (IVA inclusa) ed è a carico della Confederazione (art. 74 cpv. 5 LOAP). | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ad1c1756-d72e-5029-bbe2-f345aebb344a | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia/querela 11/14.09.2012 sporta dal _, con sede a _, per il tramite del suo patrocinatore avv. _, nei confronti di IS 1 per le ipotesi di reato di truffa e falsità in documenti
in relazione ad un acquisto di un’autovettura, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 29.07.2013 mediante il quale il procuratore generale John Noseda ha posto quest’ultimo in stato di accusa dinanzi alla Corte delle assise correzionali di _ siccome ritenuto colpevole di truffa giusta l’art. 146 cpv. 1 CP "
per avere, a _, nel periodo 12.05.2012 – 18.05.2012, al fine di procacciarsi un indebito profitto, ingannato con astuzia il _ di _, affermando cose false e dissimulando cose vere, inducendolo in tal modo ad atti pregiudizievoli al proprio patrimonio (...)
" ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 120 (centoventi) aliquote giornaliere da CHF 100.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 12'000.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 2'400.--, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, rinviando l’accusatore privato al competente foro civile per far valere le sue pretese, e meglio come descritto nel DAC _;
che l’8/12.08.2013 l’accusatore privato ha interposto tempestiva opposizione al summenzionato decreto, contestando il rinvio delle pretese di natura civile al competente foro (AI 11);
che il 28.10.2013 il presidente della Corte delle assise correzionali di _, giudice Rosa Item, ha dichiarato irricevibile la suddetta opposizione, in difetto di legittimazione dell’accusatore privato, confermando contestualmente il contenuto del DAC _ (decreto 28.10.2013, inc. TPC _);
che il DAC _ è passato in giudicato, non essendo stato impugnato presso questa Corte;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto di IS 1, la trasmissione degli atti del surriferito procedimento penale, essendo venuto a conoscenza del fatto che in data 29.07.2013 è stato emanato un decreto di accusa a carico del suo assistito;
che a sostegno della sua richiesta il legale ha prodotto copia di un decreto del 28.05.2013 emanato dall’Oberstaatsanwaltschaft del Canton _ attestante il fatto che è stato nominato difensore d’ufficio, con effetto dal 28.05.2013, di IS 1 a seguito dell’istanza presentata il 27.05.2013 dal Ministero pubblico _, in applicazione degli art. 130 lit. b e 132 cpv. 1 lit. a CPP (doc. CRP 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore generale non ha presentato osservazioni in merito alla presente richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare l’accusatore privato del procedimento penale in questione, nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di imputato) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di imputato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 (e, di riflesso, del suo difensore d’ufficio, avv. PR 1) giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, di tutti gli atti istruttori dell’incarto penale sfociato nel DAC _, passato in giudicato, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che l’avv. PR 1, essendo stato nominato difensore d’ufficio di IS 1 nell’ambito di un altro procedimento penale aperto a carico di quest’ultimo nel Canton Argovia per titolo di truffa e falsità in documenti (cfr., al proposito, estratto del casellario giudiziale datato 7.06.2013, inc. DAC _), ha evidentemente un interesse giuridico legittimo a conoscere il contenuto dell’incarto penale in questione sfociato nel DAC _ (passato in giudicato) che concerne il suo patrocinato;
che di conseguenza tutti gli atti istruttori dell’incarto DAC _ vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore di IS 1 unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
ad86b21c-5a0d-5dbb-a475-3ed7d674b80f | in fatto
a
. Con decreto 28.2.2011, ritenuto che nell’ambito del procedimento penale i fatti erano stati sufficientemente chiariti, il procuratore pubblico ha posto RE 1 in stato di accusa davanti alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole di impiego di stranieri sprovvisti di permesso giusta l’art. 117 cpv. 1 LStr
[“
per avere, in qualità di datore di lavoro, impiegato intenzionalmente la cittadina _ _, non autorizzata ad esercitare un’attività lavorativa in Svizzera, come cubista presso il locale notturno _, per almeno 16 serate
”, fatti avvenuti a _ da gennaio ad ottobre 2010].
Ha proposto la condanna alla pena pecuniaria di CHF 10'200.-- (60 aliquote giornaliere da CHF 170.--/aliquota), pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, alla multa di CHF 1'500.-- ed al pagamento di tassa di giustizia e di spese.
Al decreto di accusa (DA _) RE 1 ha interposto opposizione il 9/10.3.2011; l’imputato si è contestualmente riservato la facoltà di motivare l’impugnativa rispettivamente di chiedere l’assunzione di prove nel seguito della procedura. Ha inoltre domandato di trasmettergli copia degli atti all’incarto.
b
. Copia delle pagine del rapporto di inchiesta di polizia giudiziaria che lo concernevano è stata a lui inviata in data 10.3.2011.
c
. Con decisione 11.3.2011 il magistrato inquirente ha confermato il decreto di accusa 28.2.2011
(DA _) ed ha parimenti trasmesso gli atti del procedimento alla competente autorità per procedere al dibattimento, indicando che il decreto di accusa, giusta l’art. 356 cpv. 1 CPP, era considerato come atto di accusa.
d
. Con gravame 25/28.3.2011 RE 1 domanda che sia annullata la predetta decisione e che gli atti siano rinviati al procuratore pubblico affinché, garantito il diritto di essere sentito, proceda nei suoi incombenti come esposto nei considerandi.
Il reclamante sottolinea che giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP può essere interposto reclamo contro “
le decisioni e gli atti procedurali (...) del pubblico ministero
”; la limitazione di cui all’art. 394 lit. b CPP (inammissibilità del reclamo contro la reiezione di istanze probatorie che possono essere riproposte senza pregiudizio giuridico dinnanzi al tribunale di primo grado) non sarebbe applicabile: in discussione non sarebbe la mancata assunzione di prove, ma il diritto di essere sentito, vanificato da detta decisione.
Rileva che, a’ sensi dell’art. 355 cpv. 1 CPP, se è fatta opposizione al decreto di accusa, “
il pubblico ministero assume le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione medesima
”. Secondo il Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005 riguardante la predetta disposizione, il caso passerebbe nuovamente nelle mani del pubblico ministero, che svolgerebbe dapprima una vera e propria procedura preliminare, nella quale assumerebbe le prove necessarie.
Il procuratore pubblico non gli avrebbe dato la possibilità di motivare la propria opposizione e di fornire prove a suo sostegno.
Il CPP, a differenza del CPP TI, disporrebbe che, in caso di opposizione, gli atti rimangano presso il magistrato inquirente, che – “
assunte le prove
” – decide a’ sensi dell’art. 355 cpv. 3 CPP.
Il decreto di accusa potrebbe peraltro essere emanato soltanto in assenza di dubbi riguardo alla colpevolezza dell’imputato, posto come in caso di contestazione i fatti non potrebbero più essere considerati “
sufficientemente chiariti
” (art. 352 cpv. 1 CPP).
Il procuratore pubblico, a cui sarebbe stata preannunciata l’intenzione di motivare l’opposizione, non avrebbe atteso oltre, in lesione del suo diritto di essere sentito, svuotando di ogni significato (pratico) la procedura prevista in caso di opposizione.
Questo modo di procedere non sarebbe difendibile e costituirebbe un diniego formale di giustizia: non gli sarebbe stata data la possibilità di difendersi, evitando (forse) un inutile dibattimento.
La decisione di cui all’art. 355 cpv. 3 CPP sarebbe prematura.
Inoltre – secondo il Commentario CPP, Bernasconi – la chiusura del complemento istruttorio e l’imminente decisione avrebbero dovuto essergli comunicate in analogia all’art. 318 CPP.
La circostanza che potrà difendersi davanti al tribunale di primo grado sarebbe irrilevante: patirebbe infatti comunque sicuro pregiudizio perché dovrà subire un processo (pubblicità, ecc.).
e
. Delle osservazioni del procuratore pubblico si dirà, per quanto necessario, nei considerandi successivi in corso di motivazione. | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal Codice o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame – inoltrato il 25/28.3.2011 – contro la
decisione 11.3.2011 del procuratore pubblico con cui ha confermato il decreto di accusa 28.2.2011 (DA _) a carico di RE 1 adempie le esigenze di forma e di motivazione.
Resta da determinare se esso sia proponibile contro la decisione di conferma del decreto di accusa, ovvero se questa Corte sia competente a pronunciarsi in materia di decreto di accusa.
2
. 2.1.
La procedura del decreto di accusa disciplinata agli art. 352-356 CPP è una procedura speciale del CPP.
Essa prevede che, se nell’ambito della procedura preliminare i fatti sono stati ammessi dall’imputato oppure sono stati sufficientemente chiariti, il pubblico ministero emette un decreto di accusa qualora, tenuto conto di un’eventuale revoca della sospensione condizionale di una pena o di un’eventuale revoca della liberazione condizionale, ritenga sufficiente una delle seguenti pene: a. una multa; b. una pena pecuniaria non superiore a 180 aliquote giornaliere; c. un lavoro di pubblica utilità non superiore a 720 ore; d. una pena detentiva non superiore a sei mesi (art. 352 cpv. 1 CPP).
A determinate condizioni, dette pene possono essere cumulate (art. 352 cpv. 3 CPP), anche con misure (art. 352 cpv. 2 CPP).
Il decreto di accusa – il cui contenuto è codificato nell’art. 353 CPP – può essere impugnato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero da: a. l’imputato; b. altri diretti interessati; c. il pubblico ministero superiore o generale della Confederazione o del Cantone nel rispettivo procedimento federale o cantonale (art. 354 cpv. 1 CPP). Ad eccezione di quella dell’imputato, l’opposizione deve essere motivata (art. 354 cpv. 2 CPP). Se non vi è valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (art. 354 cpv. 3 CPP).
Se è fatta opposizione, il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (Messaggio
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 1), che
assume le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione medesima (art. 355 cpv. 1 CPP). Una volta assunte le prove, il pubblico ministero decide se: a. confermare il decreto di accusa; b. abbandonare il procedimento; c. emettere un nuovo decreto di accusa; d. promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 CPP).
Se decide di confermare il decreto di accusa (art. 355 cpv. 3 lit. a CPP), il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale. In tal caso, il decreto di accusa è considerato come atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
Il tribunale di primo grado statuisce sulla validità del decreto di accusa e dell’opposizione (art. 356 cpv. 2 CPP); quest’ultima può essere ritirata fino alla conclusione delle arringhe (art. 356 cpv. 3 CPP). Se il decreto di accusa non è valido, il giudice lo annulla e rinvia la causa al pubblico ministero affinché svolga una nuova procedura preliminare (art. 356 cpv. 5 CPP).
2.2.
Secondo la dottrina (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 355 CPP n. 7) la decisione del procuratore pubblico
al termine della procedura in caso di opposizione
non è
di principio
impugnabile con reclamo.
Restano tuttavia riservati i rimedi di diritto contro il (nuovo) decreto di accusa (art. 355 cpv. 3 lett. c CPP), impugnabile con opposizione (art. 354 CPP)
o il decreto di abbandono (art. 355 cpv. 3 lett. b CPP), impugnabile con reclamo (art. 322 cpv. 2 CPP) (
N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 355 CPP n. 7).
Pacifico che non sia dato il reclamo contro la decisione di promuovere l’accusa (art. 355 cpv. 3 lit. d CPP), come peraltro avviene nella procedura ordinaria (art. 324 cpv. 2 CPP).
Pacifico pure che non sia impugnabile la conferma del decreto di accusa (art. 355 cpv. 3 lett. a CPP), essendo considerata dal Codice quale atto d’accusa ed imponendo il Codice di trasmettere senza indugio gli atti al tribunale di 1° grado (art. 356 cpv. 1 CPP).
2.3.
L’esclusione del reclamo contro la conferma di un decreto di accusa in applicazione dell’art. 355 cpv. 3 lit. a CPP risulta a maggior ragione in considerazione della particolarità della procedura del decreto di accusa, pensata per accelerare i procedimenti penali nei casi di piccola criminalità (Messaggio
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1192).
2.3.1.
Il decreto di accusa costituisce una proposta di accusa per risolvere il caso in modo extragiudiziario (Messaggio
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1194)
. Nell’ipotesi in cui il magistrato inquirente decida di confermarlo dopo opposizione, è invero considerato un atto di accusa (art. 356 cpv. 1 seconda frase CPP).
Come detto, la promozione dell’accusa (a differenza del diritto previgente, art. 201 CPP TI), non è impugnabile (art. 324 cpv. 2 CPP;
BSK StPO – S. HEIMGARTNER / M.A. NIGGLI, art. 324 CPP n. 18
), fatto che – secondo il Messaggio (
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1178) –
mira soprattutto a garantire la celerità del procedimento.
Sempre contrariamente al diritto previgente (art. 212 CPP TI) e in ossequio al suddetto imperativo di celerità, il CPP esclude la possibilità di presentare reclamo nei confronti di un decreto di accusa,
e questo parimenti nell’ipotesi in cui siano contestate l’ammissibilità e la ritualità del decreto di accusa e della relativa procedura oppure la competenza del procuratore pubblico (
Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 354 CPP n. 1; C. SCHWARZENEGGER, Kommentar zur StPO, art. 354 CPP n. 1; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 354 CPP n. 1; cfr. anche A. KELLER, Kommentar zur StPO, art. 393 CPP n. 18).
Il solo rimedio processuale ammesso avverso un decreto di accusa è l’opposizione a’ sensi dell’art. 354 CPP, che invero non è un rimedio di diritto
stricto sensu
, ma consente unicamente di avviare il procedimento giudiziario nel quale si stabilirà se le imputazioni figuranti nel decreto di accusa sono giustificate (Messaggio
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 354 CPP n. 4;
N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 354 CPP n. 1
).
2.3.2.
Il procedimento penale, ritornato nella competenza del procuratore pubblico dopo opposizione, può sfociare, come esposto, nella conferma del decreto di accusa (art. 355 cpv. 3 lit. a CPP).
In tal caso, non è più prevista la possibilità di opposizione. Gli atti sono trasmessi senza indugio al tribunale di primo grado (art. 356 cpv. 1 CPP). Non essendo data opposizione, a maggior ragione non è dato reclamo.
La predetta conferma costituisce una mera fase della procedura di opposizione, che comporta l’apertura del procedimento giudiziario (nel cui contesto si determinerà la plausibilità delle imputazioni) e la trasmissione degli atti al tribunale di primo grado (art. 356 cpv. 1 CPP).
Ammettere la possibilità di aggravarsi contro la conferma del decreto di accusa, significherebbe riconoscere all’imputato [ed agli altri diretti interessati rispettivamente al pubblico ministero superiore o generale della Confederazione o del Cantone nel rispettivo procedimento federale o cantonale (art. 354 cpv. 1 CPP)] una facoltà di inoltrare reclamo che non esiste neppure in precedenza, al momento dell’emanazione del decreto d’accusa (a cui è stato fatto opposizione) e contraddire il suddetto principio di celerità introducendo, contrariamente agli intendimenti del legislatore, un’ulteriore autorità di controllo non prevista dalla procedura del decreto di accusa.
L’esame della promozione dell’accusa (e quindi della conferma del DA che secondo il diritto previgente competeva, anche, all’allora Camera dei ricorsi penali) è riservato al giudice di merito, a cui il procuratore pubblico, se decide di confermare il decreto di accusa, trasmette senza indugio gli atti affinché svolga la procedura dibattimentale (art. 356 cpv. 1 CPP), in applicazione degli art. 328 ss. CPP (Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 356 CPP n. 1;
BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 1;
N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 1), ed esamini d’ufficio preliminarmente, secondo l’art. 329 CPP, la validità del decreto di accusa e dell’opposizione (art. 356 cpv. 2 CPP) [Commentario CPP – P. BERNASCONI, art. 356 CPP n. 2;
BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 2
].
Gli stessi lavori preparatori alla legge menzionano che la rinuncia al reclamo a’ sensi degli art. 393 ss. CPP è giustificata perché l’art. 330 (divenuto l’art. 329) CPP esige che chi dirige il procedimento nel tribunale adito esamini immediatamente dopo avere ricevuto l’atto di accusa se questo, e il pertinente fascicolo, sono stati allestiti regolarmente (Messaggio
concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, p. 1178).
3
. Il reclamante impugna la decisione di conferma del decreto di accusa 11.3.2011, emanata secondo l’art. 355 cpv. 3 lit. a CPP.
Il gravame – in applicazione di quanto esposto ai considerandi precedenti – è nondimeno irricevibile siccome rimedio di diritto improponibile contro il decreto di accusa e la sua conferma.
Non si deve quindi entrare nel merito delle censure invocate, tra cui la violazione del diritto di essere sentito, che saranno esaminate – preliminarmente – dal tribunale di primo grado, come peraltro riconosce esplicitamente l’imputato [“
Mi riferisco al fascicolo indicato al margine, per comunicarle che avverso la conferma del decreto di accusa, (...), ho interposto reclamo alla Corte dei reclami penali, con motivazioni che a mio giudizio rendono nullo o annullabile il decreto stesso, circostanza che andrà in ogni caso chiarita in via preliminare (art. 356 cpv. 2 CPP)
” (scritto 28/29.3.2011 dell’avv. PR 1 alla Pretura penale)].
4
. L’impugnativa è irricevibile. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico del reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
adc9bd21-54e4-57b5-bdd0-a3c8e2a9886e | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 3 marzo 2008 il Procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di grave infrazione alle norme della circolazione stradale, per avere il 29 novembre 2007 a _ violato gravemente le norme medesime cagionando un serio pericolo per la sicurezza altrui, in particolare per avere circolato con il motoveicolo Ducati targato alla velocità di 75 km/h (dedotto il margine di tolleranza) accertata dalla polizia mediante apparecchio radar, malgrado il vigente limite di 50 km/h. In applicazione della pena, egli ne ha proposto la condanna a 10 aliquote giornaliere di fr. 120.– cadauna (art. 34 segg. CP), corrispondenti a complessivi fr. 1
200.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 3 anni (art. 42 segg. CP), e a una multa di fr. 500.–, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 5 giorni (art. 106 cpv. 2 CP). Al decreto di accusa RI 1 ha sollevato opposizione.
B.
Statuendo sull’opposizione, con sentenza del 21 luglio 2008 il giudice della Pretura penale ha confermato tanto l’imputazione, quanto la proposta di pena. Contro tale sentenza, RI 1 ha presentato il 31 luglio 2004 formale ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
In diritto: 1.
Conclusa la discussione, il giudice emana la sentenza che è immediatamente comunicata verbalmente alle parti nei dispositivi e con l’esposizione dei motivi essenziali all’accusato, alla parte civile e al Procuratore pubblico (art. 277 cpv. 1 CPP). Il giudice avverte le parti del diritto di presentare per il suo tramite dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale entro il termine di cinque giorni e del diritto di richiedere, pure entro il termine di cinque giorni, la motivazione della sentenza (art. 277 cpv. 2 CPP). Alla dichiarazione di ricorso deve far seguito la motivazione scritta entro venti giorni dalla notifica della sentenza motivata (art. 298 cpv.1 e 4 CPP, cui rinvia l’art. 278 cpv. 2 CPP).
2.
Nella fattispecie, l’accusato ha inoltrato il 31 luglio 2008 alla Pretura penale uno scritto, con il quale egli ha dichiarato di inoltrare formale ricorso contro la sentenza pretorile, asseverando che il ritardo di 2 giorni (verosimilmente per presentare dichiarazione di ricorso ex art. 277 cpv. 2 CPP) è conseguente alla sua improvvisa partenza avvenuta il giorno seguente la sentenza 22 (
recte
: 21) luglio 2008 per gravi motivi famigliari, tanto da rientrare al proprio domicilio il 30 luglio 2008. Prima di partire, egli assevera, avrebbe telefonato al Tribunale d’appello, che gli avrebbe consigliato di attendere la sentenza scritta, “inducendomi in errore non ho avuto il tempo materiale per inoltrare il mio appello”. Chiede pertanto di accettare il ricorso.
3.
Nella misura in cui, per avventura, l’accusato considera il suo scritto quale ricorso per cassazione ex art. 289 cpv. 2 CPP, il rimedio andrebbe dichiarato d’acchito inammissibile, in quanto non preceduto dalla dichiarazione previa di volere ricorrere prevista dall’art. 277 cpv. 2 CPP, che andava presentata entro cinque giorni da quando il giudice della Pretura penale ha comunicato oralmente la propria decisione (21 luglio 2008), ossia entro il 28 luglio 2008, tenuto conto del fatto che il relativo termine di cinque giorni veniva a scadere di sabato. Per tacere del fatto che alle parti non è stata notificata alcuna sentenza motivata, condizione essenziale per presentare ricorso per cassazione (art. 289 cpv. 2 e 4 CPP).
4.
In realtà, come peraltro ritenuto dal giudice della Pretura penale nel suo scritto 4 agosto 2008, con il quale ha trasmesso a questa Corte gli atti per competenza, con la sua iniziativa del 31 luglio 2008 l’accusato si è proposto di ossequiare – ancorché in ritardo – la formalità prescritta dall’art. 277 cpv. 1 CPP, ovvero di inoltrare formale dichiarazione di ricorso contro la sentenza di primo grado, in modo da garantirsi la facoltà di successivamente presentare ricorso per cassazione una volta notificatagli la sentenza motivata. Sennonché, come visto, al 31 luglio 2008 il termine per presentare la dichiarazione di ricorso previa era scaduto, circostanza peraltro riconosciuta dallo stesso prevenuto. Il quale ritiene tuttavia tale ritardo non imputabile alla sua persona, ma alla sua improvvisa partenza avvenuta il 22 luglio 2008 per gravi motivi famigliari e al suo conseguente rientro al domicilio avvenuto solo il 30 luglio successivo. Sarebbe inoltre stato indotto in errore dalla cancelleria del Tribunale d’appello, la quale gli avrebbe consigliato di attendere la motivazione scritta della sentenza, ciò che lo avrebbe indotto in errore privandolo del tempo necessario per presentare appello.
a)
Argomentando in questo modo, è evidente che l’accusato si propone di vedersi garantito il termine per proporre dichiarazione di ricorso nonostante il ritardo con il quale si è attivato. In altri termini, egli si propone di ottenerne la sua restituzione. Ora, secondo l’art. 21 cpv. 1 CPP la restituzione per inosservanza di un termine può essere concessa se la parte o il suo patrocinatore prova di non averlo potuto osservare perché impedita senza sua colpa, o per forza maggiore, segnatamente per malattia, assenza scusabile, servizio pubblico o militare o per altre ragioni importanti. L’istanza dev’essere presentata, pena la decadenza, entro dieci giorni dalla cessazione dell’impedimento (art. 22 cpv. 2 CPP). Sull’istanza decide l’autorità davanti alla quale doveva essere compiuto l’atto per il quale è chiesta la restituzione. Se è stato emanato un decreto di accusa o una sentenza, è competente il giudice che lo sarebbe per giudicare sul rimedio di diritto (art. 22 cpv. 2 CPP), in casu quindi questa Corte.
b)
L’accusato non ha però dimostrato di essere stato impedito senza sua colpa di osservare il termine di cinque giorni prescritto dall’art. 277 cpv. 2 CPP per presentare formale dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Egli si è limitato ad asserire di essere stato costretto a partire il giorno successivo al dibattimento per gravi motivi famigliari e di essere così rientrato al suo domicilio soltanto il 30 luglio successivo, senza però spiegare in che cosa sarebbero consistiti i pretesi gravi motivi famigliari e, in particolare, senza comunque essere riuscito a rendere per lo meno verosimile che il preteso impedimento lo avrebbe a tal punto condizionato da nemmeno più consentirgli di spedire alla Pretura una lettera con la quale egli manifestava la sua intenzione di ricorre e di ricevere la motivazione scritta della sentenza, della cui esistenza era a perfetta conoscenza avendo presenziato al relativo dibattimento e alla relativa comunicazione dei dispositivi (v. verbale dei dibattimento). Quanto al preteso errore conseguente al fatto che la cancelleria del Tribunale di appello gli avrebbe consigliato di attendere la sentenza scritta, inducendolo in errore e privandolo così del tempo materiale per inoltrare appello, l’accusato si avvale di un argomento inadatto allo scopo. Giacché il preteso consiglio, comunque sia, non poteva che riferirsi alla seconda fase della procedura ricorsuale, ovvero al fatto di attendere la motivazione scritta prima di decidere se poi effettivamente ricorrere una volta, evidentemente, inoltrato dichiarazione di ricorso ex art. 277 cpv. 2 CPP (art. 289 cpv. 2 e 4 CPP). Circostanza sulla quale l’accusato, di professione ingegnere meccanico HTL e docente c/o la SPAI, non poteva evidentemente equivocare.
5.
Da quanto precede ne discende che il ricorso, da trattare come istanza di restituzione in intero, deve essere disatteso. Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ae1193aa-ed8e-5023-ab44-bc5890a3c7fa | in fatto: A.
Il presente procedimento trova origine nei seguenti fatti accertati dal giudice di prime cure nella sua sentenza e rimasti incontestati.
1.
Con atto di concessione 11 novembre 2002 del Consiglio federale, la _ è stata autorizzata a condurre una casa da gioco di tipo A (grandi giochi) a _.
RI 2 è stato presidente del consiglio d’amministrazione di tale società sino a fine 2005. RI 1 è stato direttore generale della _ dal marzo 2003 sino a fine 2005.
2.
La _ è una società il cui scopo principale è organizzare delle vacanze abbinate al gioco d’azzardo per persone facoltose. Avente diritto economico e direttrice de facto della _ è _ che, nel 1999, era stata ritenuta dalla Corte di appello del tribunale di Milano colpevole di associazione a delinquere. Il marito di _ – _ – era, dal canto suo, stato condannato nel 1998 per associazione a delinquere, violenza privata, rapina, oltraggio, resistenza e violenza, reati contro la pubblica amministrazione, ricorso abusivo al credito e violazione della normativa in materia fallimentare (sentenza consid. 2 pag. 4 e 5; consid. 9 pag. 8).
Già il 14 novembre 2001, prima ancora, dunque, dell’apertura della casa da gioco, _ aveva preso contatto con la società concessionaria offrendole di procacciarle clienti facoltosi e dichiarando di poter contare su un portafoglio di circa 8.000 appassionati giocatori di grandi possibilità economiche, residenti in Italia, Austria, Inghilterra, Francia Stati Uniti e Svizzera.
A quell’offerta, seguirono altri contatti.
Nel giugno 2003, nel corso di una riunione del CdA della _, la direzione informò i membri presenti di avere preso contatti con la _ finalizzati alla conclusione di un contratto di collaborazione avente quale scopo di
“portare giocatori qualificati al _ dietro corresponsione di una provvigione”
(sentenza consid. 2 e 4 pag. 5).
3.
A seguito di controlli regolari, il responsabile della sicurezza della _ ha preso atto di una serie di transazioni per un valore molto elevato (ca 2.000.000.- fr cambiati e giocati) effettuate da _. Visto che da informazioni raccolte in internet, _ veniva associato ad una delle cordate che negli anni ’80 aveva tentato la scalata al casinò di Sanremo, la _ ha segnalato - e si era a fine marzo 2003 - _ al MROS (Ufficio federale in materia di riciclaggio di denaro).
Nel corso dell’estate 2003, il direttore della casa da gioco chiese al MP della Confederazione notizie sul seguito che la segnalazione aveva avuto, visto anche che, nel frattempo, era emerso che _ era il marito di _ con cui avevano intenzione di avviare una collaborazione. Il MP federale rispose, con scritto 6 agosto 2003, che non spetta all’autorità penale inquirente autorizzare attività di natura commerciale, per cui le valutazioni circa la relazione d’affari con la _ erano di esclusiva competenza della società (sentenza consid. 5 pag. 5 e 6).
4.
Il 5 agosto 2003, la RI 3 ha accolto la richiesta rivoltale dalla _ il giorno precedente di autorizzazione ad introdurre dei gettoni speciali facilmente distinguibili dagli altri (gettoni barrati) da utilizzare per gruppi scelti di giocatori e per tornei.
Contestualmente, la RI 3 ha invitato la _ a comunicare la data in cui avrebbe avuto inizio l’impiego dei gettoni barrati e ad indicare le modalità del loro impiego (sentenza consid. 6 pag. 6).
5.
Sempre il 5 agosto 2003, la _ e la _ hanno sottoscritto un contratto, definito di “collaborazione”. Secondo questo contratto, la _ si impegnava a procacciare e indirizzare alla casa da gioco clienti qualificati facendosi carico dei benefits da offrire ai giocatori e dei costi di ospitalità (soggiorno, cene, bevande, biglietti aerei). I clienti portati dalla _ avrebbero dovuto giocare con i gettoni barrati che avrebbero potuto essere utilizzati solo per le scommesse ma che in nessun caso avrebbero potuto venire restituiti alla casa da gioco se non utilizzati. Le puntate vincenti effettuate con i gettoni barrati sarebbero state pagate con i gettoni normali.
Dal canto suo, la _A avrebbe riconosciuto alla _ un importo pari al 10% dei gettoni acquistati (5% a titolo di contributo ai costi sopportati dalla _, 5% a titolo di provvigione; art. 2 e 4 del contratto).
Secondo il contratto, era la _ ad acquistare dalla casa da gioco i gettoni barrati e, poi, a rivenderli direttamente ai suoi clienti.
La _ ha inoltre concesso alla _ l’uso di un locale all’interno del suo stabile, ma al di fuori delle sale da gioco, nel quale avrebbe potuto accogliere ed assistere i propri clienti (contratto, art. 7).
Il contratto contemplava pure un impegno reciproco d’esclusiva: _ non avrebbe potuto fornire prestazioni analoghe a nessuno dei Casinò direttamente concorrenti con quello di _, la _, dal canto suo, non avrebbe potuto affidare ad altri i compiti assunti da _ (art. 6 del contratto).
La durata del vincolo contrattuale è stata inizialmente limitata a 16 mesi con decorrenza dal 1° settembre 2003 al 31 dicembre 2004, senza rinnovo tacito. Al raggiungimento della scadenza, si sarebbe dovuto procedere ad un esame della cifra d’affari connessa ai clienti _: qualora nel 2004 fossero stati venduti gettoni barrati per fr. 25.000.000.-, il contratto sarebbe stato esteso anche al 2005. Analoga procedura sarebbe stata adottata per prolungare di un ulteriore anno il rapporto d’affari, con una correzione verso l’alto del target (2005 obiettivo di vendita: fr. 27.500.000.- di gettoni barrati). Al più tardi alla terza scadenza, il 31 dicembre 2006, la collaborazione tra le due imprese sarebbe inderogabilmente terminata (contratto, art. 8).
6.
A fine settembre/inizio ottobre 2003, RI 1, RI 2 e l’allora vice-presidente si trovarono per decidere se segnalare alla RI 3 il rapporto d’affari con la _. Dopo discussione, essi hanno concluso che la _ non rappresentava un partner contrattuale importante, per cui hanno deciso che non sussisteva alcun obbligo di segnalazione (sentenza consid. 8 pag. 7).
7.
Il 10 ottobre 2003 la _ si è installata nell’ufficio all’interno della casa da gioco ed ha iniziato la propria attività portando i primi clienti.
Lo stesso giorno, la _ ha informato la RI 3 sull’introduzione dei gettoni barrati nella dotazione della casa da gioco per un valore totale di 9.300.000.- fr (corrispondenti al 50% del valore dei gettoni ordinari sino a quel momento utilizzati) descrivendone le modalità d’uso, senza far cenno alla _ (sentenza consid. 8 pag. 7 e 8).
8.
Il 16.10.2003 la _ ha mandato in onda un servizio in cui veniva segnalata la presenza di usurai all’interno della casa da gioco di _ e in cui veniva resa pubblica la collaborazione della _ con la _. A questo proposito, i giornalisti misero l’accento sui precedenti penali dei coniugi _ e _ e sul loro coinvolgimento, negli anni ’80, nell’operazione San Martino connessa con le manovre di scalata per l’ottenimento dell’appalto del _ (sentenza consid. 9 pag. 8).
9.
Il 21 ottobre 2003, il CdA della casa da gioco ha deciso, a maggioranza, di disdire con effetto immediato il contratto con la _
Nel comunicato stampa diramato lo stesso giorno, è stato detto che la disdetta del contratto con la _ era stata decisa “
per opportunità
” e “
a fronte delle recentissime informazioni assunte”
(sentenza consid. 9 pag. 8).
10.
Pertanto, a partire dal 21.10.2003, la _ non ha più svolto alcuna attività per la _. I gettoni barrati ancora in suo possesso sono stati restituiti.
Nel periodo in cui ha operato per la casa da gioco di _, la _ aveva acquistato e rivenduto ai suoi clienti gettoni per complessivi 3.139.320.- fr: la _ le ha pertanto versato, in conformità con quanto stipulato contrattualmente, fr 308.286.-.
11.
Il 29 ottobre 2003 la RI 3 ha annunciato alla _ di avere aperto nei suoi confronti e in quelli dei suoi organi un’inchiesta penale in relazione alla collaborazione con la _.
Parallelamente, la RI 3 ha aperto un’inchiesta amministrativa nei confronti della _ che si è conclusa con la condanna della società al pagamento di una sanzione di fr 668.913,30 (cui si sono aggiunti fr 23.300 per costi).
Questa decisione è passata, incontestata, in giudicato.
B.
Con due decreti penali datati 23 novembre 2003, la RI 3 ha riconosciuto RI 2 e RI 1 autori colpevoli di violazione dell’art. 56 cpv. 1 lett. e della legge federale del 18 dicembre 1998 sul gioco d’azzardo e sulle case da gioco (LCG;
RS
935.52) per non averle notificato, nell’agosto 2003, il contratto stipulato con la società _.
RI 1 è stato condannato ad una multa di fr. 75000.–, oltre a tasse e spese di giudizio per complessivi fr. 2360.–.
A RI 2 è, invece, stata inflitta una multa di fr. 100
000.–, oltre a fr. 2360.– di tasse e spese di giudizio.
C.
A seguito delle opposizioni formulate il 27.12.2005 da entrambi gli accusati, il 23.11.2006, con due separate decisioni, la RI 3 ha confermato i decreti penali, ponendo a carico di RI 1 e RI 2 ulteriori oneri amministrativi per fr. 1.120.–.
D.
Il 1° dicembre 2006 RI 1 e RI 2 hanno chiesto di essere giudicati da un tribunale.
E.
Con sentenza 11 marzo 2008, il giudice della Pretura penale ha dichiarato entrambi gli imputati autori colpevoli di contravvenzione alla
Legge federale sul gioco d’azzardo e sulle case da gioco ai sensi dell’art. 56 cpv. 1 lett. e LCG, per non aver notificato nell’agosto 2003 il contratto stipulato con la società _ che rendeva quest’ultima un “socio d’affari importante”.
Il giudice li ha, quindi, entrambi condannati al pagamento di una multa di fr. 4
000.– (fissando in 40 giorni la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento), e al pagamento di fr. 1
000.– per spese procedurali amministrative e fr. 500.– per tasse e spese giudiziarie.
F.
Il 12 marzo 2008, RI 1 e RI 2 hanno inoltrato una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale contro tale sentenza. Nella motivazione scritta del 17 aprile 2008 essi chiedono, con l’annullamento della sentenza impugnata, il loro completo proscioglimento.
G.
Nelle sue osservazioni 15 maggio 2008, la RI 3 ha proposto di respingere i ricorsi.
Il Procuratore pubblico ha rinunciato a formulare osservazioni.
H.
Il 13 marzo 2008, anche la RI 3 ha inoltrato una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale Contro la sentenza appena citata. Nella motivazione scritta del 21 aprile 2008 essa chiede, in via principale, l’annullamento della sentenza impugnata e la conferma integrale delle decisioni penali del 23 novembre 2006.
In via subordinata, la RI 3 chiede per entrambi gli imputati l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio dell’incarto alla Pretura penale perché proceda a una nuova commisurazione della pena.
I.
Nelle loro osservazioni 9 maggio 2008,RI 1 e RI 2 hanno chiesto di respingere il ricorso inoltrato dalla RI 3.
L.
Ancora una volta, il Procuratore pubblico ha rinunciato a formulare osservazioni. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione (art. 288 lett. a e b CPP) può essere presentato per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (lett. a), per vizi essenziali di procedura, purché il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile (lett. b) e per arbitrio nell’accertamento dei fatti (lett. c).
L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP).
Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto. Arbitrario significa manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
Per motivare una censura di arbitrio non basta, dunque, criticare la sentenza impugnata. Né è sufficiente contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia. Occorre, invece, spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati da errore qualificato.
Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non soltanto nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178).
I. Sul ricorso di RI 1 e RI 2
1.
Dopo avere ricordato il tenore delle disposizioni applicabili alla fattispecie, il giudice di prime cure ha concluso che “sussiste un chiaro obbligo a carico delle società concessionarie di segnalare i contratti conclusi con soci in affari importanti” (sentenza consid.14 pag. 10).
Quindi, ha ritenuto che il contratto con _ “
era sicuramente di peso e faceva di quest’ultima società un socio d’affari importante della _
” già da un punto di vista qualitativo (sentenza consid.17 pag. 12 e 13).
Il giudice di prime cure ha fondato questa sua conclusione, dapprima, sul fatto che la _ ha ottenuto l’esclusiva per il procacciamento di giocatori qualificati, cioè “
giocatori chiamati a scommettere grandi somme, attività che era considerata tutt’altro che marginale e secondaria
” e, d’altro lato, sull’importante retribuzione in percentuale riconosciuta alla _ e, infine, “
visto l’aumento del valore dei gettoni in dotazione al Casinò del 50% avvenuto con l’introduzione di quelli barrati destinati ad essere consegnati ai giocatori privilegiati portati da _
” (sentenza consid.17 pag. 13).
Rivelatore della posizione di “socio d’affari importante” acquisita dalla _ è, pure – secondo il giudice di prime cure – il fatto che la _ le ha concesso di rivendere direttamente ai suoi clienti i gettoni di gioco, “
deferendole un compito cruciale nella gestione di una casa da gioco che, giusta il punto n. 2.6. della concessione, deve essere assunto unicamente dai collaboratori della concessionaria e non affidato a terzi”
(sentenza consid.17 pag. 13). In questo modo – ha aggiunto il giudice di prime cure – “
la _ ha pure aperto la via alla conservazione di una considerevole riserva di gettoni barrati al di fuori della zona video-sorvegliata e al di fuori di ogni possibilità di controllo contabile
” quando l’art. 3 lett c vOGAz “
imponeva alla concessionaria l’obbligo di tenere ininterrottamente sotto controllo tramite telecamere i locali in cui sono custoditi, depositati, trasportati o versati denaro, gettoni o strumenti di gioco
” e mentre la comunicazione n. 5 prevede “
che i gettoni siano contati quotidianamente e che ogni conteggio venga protocollato”
(sentenza consid.17 pag. 13).
Non trascurabile nell’ottica della qualifica della _ di “socio d’affari importante” è stato, per il giudice di prime cure, la considerazione secondo cui “
con la concessione di questo potere di rivendita diretta dei gettoni (...) la casa da gioco ha coscientemente accresciuto i rischi di commissione di reati patrimoniali (usura e riciclaggio in primis) al suo interno, accettando di non avere la supervisione completa dell'uso dei gettoni e delle modalità di consegna degli stessi ai clienti”.
In effetti, essendo i gettoni acquistati direttamente e in blocco dalla _ – ha spiegato il giudice di prime cure – “
la verifica della provenienza del denaro impiegato dai clienti facoltosi di quest’ultima non era di facile attuazione”
(sentenza consid.17 pag. 13).
Inoltre – sempre secondo il giudice di prime cure – concedendo quella facoltà alla _, la _ ha “
aumentato le possibilità di infrazione alle regole previste dall’art. 27 LCG (divieto alle case da gioco di concedere prestiti), art. 26 lett e vOCG (controllo del flusso di denaro), art. 21 LCG (divieto al personale della casa da gioco di giocare al suo interno visto che nessun divieto analogo è stato previsto per i dipendenti di _), infrazione del divieto concordato fra le due società di riacquisto da parte della _ dei gettoni barrati (nessun controllo sulla possibilità di riacquisto dei gettoni dai suoi clienti da parte di _)
“(sentenza consid.17 pag. 13).
Inoltre, a rendere qualitativamente importante la posizione di _ era anche il fatto che i gettoni barrati sono stati introdotti esclusivamente per la sua attività:
“nonostante i proclami, in effetti, non è stato in alcun modo reso verosimile che essi siano stati sfruttati per altre attività (ad esempio, per i tornei)
”. Parimenti – ha continuato il giudice di prime cure – “
la concessione di un locale all’interno della casa da gioco, ove accogliere e gestire in maniera autonoma, senza vigilanza alcuna, i propri clienti, è pure un tassello in più a supporto della teoria della posizione di primo rango della _
”.
Infine, indicativo è – secondo il primo giudice – il fatto che agli imputati avevano dei dubbi riguardo “le persone dei signori _ e _”
tanto che essi chiesero “un intervento delle autorità penali inquirenti e (...) il loro consenso alla conclusione del contratto con la _
” (sentenza consid.17 pag. 14).
Già soltanto per queste considerazioni e per i rischi connessi alla sua attività, _ doveva – secondo il giudice di prime cure – essere considerato un socio d’affari importante la cui esistenza doveva essere segnalata alla RI 3.
A titolo abbondanziale, il primo giudice ha, poi, sottolineato, dal profilo quantitativo, come “
il 3,125% del totale della cifra d’affari, se ricondotto all’intervento di un unico partner contrattuale, sia comunque una percentuale di tutto rispetto, che ne fa un socio in affari importante
” ed ha aggiunto che l’obiettivo di vendere gettoni barrati per 25.000.000.-, rispettivamente 27.500.000.- di franchi in un anno non può che essere considerato un obiettivo che, insieme agli altri elementi considerati, faceva della _ un “socio d’affari importante”.
2.
Nel loro memoriale, i ricorrenti lamentano sia un’errata applicazione del diritto sostanziale sia un arbitrario accertamento dei fatti posti a base della sentenza.
Dapprima, essi censurano di arbitrio l’accertamento secondo cui la concessione alla _ della possibilità di vendere direttamente i gettoni barrati ai propri clienti abbia comportato per il Casinò la perdita del controllo sull’utilizzo e sulle modalità di consegna dei gettoni ai giocatori. Secondo i ricorrenti, non soltanto non vi sarebbero elementi probatori a sostegno di tale conclusione del primo giudice ma i testi sentiti avrebbero dichiarato il contrario (ricorso pag. 7 e 8).
Arbitrario sarebbe, poi – poiché non provato né dagli atti né dall’inchiesta - anche l’accertamento secondo cui la casa da gioco non poteva controllare la provenienza del danaro impiegato per l’acquisto dei gettoni dai clienti facoltosi. Altrettanto arbitrario – poiché mera ipotesi del giudice – è l’accertamento secondo cui vi era un aumento delle possibilità di infrazione alle regole previste dall’art. 27 LCG.
Infine – sempre secondo i ricorrenti – errata sarebbe la valutazione del primo giudice secondo cui la _ avrebbe concesso alla _ un compito cruciale (ricorso pag. 10).
In sintesi - contestando gli elementi ritenuti dal giudice per qualificare di “privilegiata” la posizione della _ - i ricorrenti sostengono che quella società non è mai stata “un socio d’affari importante” per la _: pertanto, essi non erano tenuti a comunicare alla RI 3 il contratto di collaborazione con essa stipulato.
I ricorrenti accennano anche alla tempistica con cui un eventuale obbligo di comunicazione alla RI 3 deve essere assolto e lamentano di essere stati (ingiustamente) trattati diversamente da come lo è stato il vice presidente del CdA _.
3.
L’impostazione ricorsuale non è corretta.
I fatti che hanno determinato il presente procedimento e che sono stati accertati dal giudice di prime cure sono unicamente quelli relativi alle circostanze che hanno portato alla conclusione e, poi, alla disdetta del contratto fra la _ e la _ nonché quelli relativi al contenuto di tale contratto.
Sull’accertamento di questi fatti non v’è stata contestazione.
Le considerazioni del primo giudice che i ricorrenti ritengono essere accertamenti di fatto arbitrari sono, in realtà, considerazioni relative alle conseguenze e ai rischi del contratto concluso fra la _ e la _ che sono state fatte in astratto, nell’ambito dell’applicazione ai fatti accertati del diritto applicabile.
Pertanto, al di là dell’errata terminologia utilizzata, le censure ricorsuali verranno esaminate come se fossero espresse quali censure relative all’applicazione del diritto ai sensi dell’art. 288 lett a CPP.
4.
4.1.
L’art. 12 LCG prevede che la concessione per una sala da gioco può essere rilasciata se il richiedente, i soci in affari più importanti e i loro aventi diritto economici, nonché i possessori di quote e i loro aventi diritto economici che dispongono di mezzi finanziari propri sufficienti, godono di una buona reputazione e offrono tutte le garanzie per un’attività irreprensibile (cpv. 1 lett. a), e se il richiedente e i possessori di quote e, su richiesta della Commissione, i soci in affari più importanti hanno dimostrato la provenienza lecita dei mezzi finanziari a disposizione (cpv. 1 lett. b).
L’art. 3 OCG definisce soci in affari più importanti le persone le cui relazioni d’affari con il richiedente sono in rapporto con la gestione dei giochi (lett. a), quelle che sono legate al richiedente da un interesse economico o che hanno una relazione contrattuale importante con la casa da gioco (lett. b) e quelle che potrebbero influenzare la gestione dei giochi (lett. c).
L’art. 18 LCG prevede che il concessionario deve comunicare alla Commissione tutte le modifiche importanti delle condizioni per il rilascio della concessione (lett. a) e le modifiche relative al capitale o al diritto di voto, che comporterebbero una concentrazione nelle stesse mani superiore al 5 per cento (lett. b).
Secondo l’art. 56 cpv. 1 lett. e LCG, è punito con l’arresto o con la multa fino a fr. 500
000.– chiunque disattende l’obbligo di comunicare informazioni alla Commissione (RI 3).
4.2.
Il punto 1.2 dell’atto di concessione di sito e di gestione di tipo A dell’11 novembre 2002 (n. 516-011, reperibile sul sito internet della RI 3), riferito alla comunicazione delle modifiche, prevede, tra l’altro, quanto segue:
- la concessionaria è tenuta a comunicare alla RI 3, immediatamente, integralmente e di propria iniziativa, tutte le modifiche delle condizioni per il rilascio della concessione (art. 18 LCG, art. 18 OCG);
-
alcune modifiche richiedono la previa autorizzazione della RI 3: tra queste quelle riguardanti uno dei soci in affari importanti elencati nell’allegato III e quelle inerenti i mutamenti dell’offerta di gioco;
- che altre modifiche, tra cui quelle inerenti i cambiamenti nelle partecipazioni e rapporti commerciali elencati negli allegati I e III, e quelle presenti nei contratti
tra la concessionaria, gli aventi diritto economico e i soci in affari importanti
, devono essere annunciate alla RI 3, che verifica se le condizioni per l’assegnazione della concessione sono ancora rispettate ed eventualmente vietarne la modifica.
Il punto n. 2.3. dell’atto di concessione prevede che:
-
i contratti con i soci in affari importanti (per esempio i fornitori di servizi o di attrezzature per case da gioco e apparecchi automatici da gioco) devono essere strutturati in modo conforme alle leggi di mercato;
-
i soci in affari non devono poter esercitare un’influenza diretta o indiretta sugli organi, la direzione e l’esercizio della concessionaria;
- il compenso per le prestazioni fornite dal socio in affari alla concessionaria non deve né consistere in una partecipazione all’utile, né essere in qualche maniera dipendente dal prodotto lordo dei giochi o essere in altro modo legato alle cifre d’affari;
-
in casi fondati, la RI 3 può autorizzare un compenso calcolato sul prodotto lordo dei giochi o sulle cifre d’affari, purché sia di esigua entità.
Il punto 2.6 dell’atto di concessione tratta dell’
Outsourcing
ponendo delle condizioni, in particolare:
- che tutte le attività fondamentali per la gestione di una casa da gioco, devono essere svolte dai collaboratori della concessionaria, ossia da persone responsabili nei confronti della concessionaria in qualità di dipendenti e non come mandatari.
- l’
outsourcing
è di conseguenza possibile solo per le attività non fondamentali per la gestione della casa da gioco.
Nell’allegato III dell’atto di concessione si trova un elenco, non esaustivo, di soci in affari importanti che comprende, ad esempio, il partner finanziario (banca), i fornitori di prestazioni (manutenzione delle slot machines), i fornitori di sistemi di apparecchiature da gioco, ecc.
4.3.
In sostanza, i ricorrenti rimproverano al primo giudice di avere fondato le sue conclusioni su mere supposizioni, su semplici ipotesi non confortate da alcun accertamento di fatto quali il rischio accresciuto di commissione di reati patrimoniali e le presunte perdite di controllo in ambito di sorveglianza e vigilanza da parte del Casinò a seguito dell’accordo concluso con _
Si tratterebbe – secondo i ricorrenti – di accertamenti “manifestamente arbitrari”: sostenere che la vendita diretta di gettoni a favore della _ avrebbe comportato una perdita di controllo da parte della _ sulle modalità di consegna ai clienti dei gettoni è “assolutamente arbitrario” in quanto trattasi di “mera ipotesi del primo giudice”, non suffragata dal “benché minimo riscontro negli atti”.
In effetti – continuano i ricorrenti – non sono state effettuate verifiche volte a stabilire se vi fossero delle “
criticità in ambito di sicurezza, rispettivamente di vigilanza
” con conseguente perdita di controllo sul flusso di denaro a causa della possibilità concessa alla _ di vendita diretta. Anzi, dai verbali di interrogatorio emerge – spiegano i ricorrenti – che la vigilanza antiriciclaggio “
era perfettamente sotto controllo
”, avendo la _ la facoltà di accettare o meno i clienti proposti dalla _. Ritenere, inoltre, che l’attribuzione alla _ della facoltà di vendere i gettoni direttamente ai clienti da essa procacciati, ha portato la _ a contravvenire al punto no. 2.6 della concessione 516-011 del 4 ottobre 2002, che attribuiva il compito di vendere i gettoni solo ai collaboratori del Casinò, è – proseguono i ricorrenti – “
errato e arbitrario
”, essendo l’accordo con la società “
esclusivamente finalizzato all’apporto di clienti qualificati appartenenti alla fascia medio-alta
”, mentre l’attività della _ era “
prevalentemente orientata su giocatori di fascia medio-bassa
”. Oltretutto, prima di giocare, ai clienti portati dalla _ venivano sottoposti, per la sottoscrizione, i formulari di identificazione e di accertamento dell’avente diritto economico, ciò che “
andava ben oltre a quanto sancito dalle norme applicabili in materia
” (ricorso, pag. 6-12 punto 4).
4.4.
Le argomentazioni ricorsuali non bastano ad inficiare la validità delle valutazioni e delle conclusioni del primo giudice.
Il sostenere che queste non sono suffragate da accertamenti di fatto non porta a nulla nella misura in cui, in realtà, le considerazioni del primo giudice censurate dai ricorrenti non si dipartono da accertamenti di fatto ma costituiscono valutazioni sulle possibili conseguenze del contratto concluso fra la _ e la _
Se è, in parte, non sbagliato affermare – come fanno i ricorrenti - che i paventati rischi di realizzazione di reati patrimoniali e la presunta perdita di controllo nella sorveglianza e vigilanza, in particolare per quanto concerne la vendita dei gettoni barrati, le modalità di consegna e il loro utilizzo, altro non sarebbero che mere “ipotesi” del giudice, è anche altrettanto vero che, per valutare l’esistenza in concreto di un obbligo di segnalazione, il giudice doveva proprio valutare, in abstracto, le conseguenze che il contratto di cui s’è più volte detto avrebbe avuto per l’attività della casa da gioco.
È proprio per scongiurare che rischi di questo genere si realizzino – cioè, per intervenire prima che essi si realizzino - che la LCG e la OCG hanno previsto tutta una serie di misure volte a monitorare l’attività dei casinò.
Le condizioni per il rilascio della concessione – la cui presenza è stata valutata ed accertata al momento della concessione dell’autorizzazione - devono essere garantite per tutta la durata della stessa.
Assicurare ciò è compito specifico della Commissione RI 3.
A questo dovere fa da contrappunto l’obbligo completivo e parallelo di comunicazione che incombe a tutti i concessionari che sono tenuti a comunicare tutte le modifiche sostanziali delle condizioni e delle situazioni che sono state esaminate e che sono state considerate determinanti ai fini del rilascio della concessione (
Messaggio concernente la legge federale sul gioco d’azzardo e sulle case da gioco, LCG, del
26 febbraio 1997, FF 1997 III pag. 163).
L’accordo stipulato con la _ – per le sue caratteristiche e per la posizione particolare che, grazie ad esso, veniva concessa alla _ nella misura in cui esso metteva la _ in diretta relazione con la gestione dei giochi - andava a toccare proprio quelle circostanze che sono fondamentali per l’ottenimento della concessione e che, per questo, erano state verificate dall’autorità competente al momento del rilascio della concessione alla _.
Pertanto, esso era soggetto a comunicazione: al di là dell’aspetto finanziario dell’accordo (comunque, importante), già gli aspetti qualitativi del contratto imponevano una (preventiva) comunicazione alla RI 3, sotto forma di una richiesta di autorizzazione a sottoscrivere quel tipo di accordo proprio per realizzare quella trasparenza e indipendenza dell’attività delle case da gioco che la legge impone (Comunicazione n. 2 punto 4; Messaggio, pag. 160-161 ad art. 12 LCG).
Contestare la conclusione del primo giudice con la motivazione secondo cui non era stata accertata concretamente l’esistenza dei rischi legati alla vendita diretta dei gettoni barrati non è serio.
Innanzitutto, la legge vuole scongiurare il rischio di reati patrimoniali che determinati accordi o comportamenti potrebbero accrescere, e per questo conferisce alla RI 3 la facoltà di esigere le informazioni necessarie per valutare i pericoli – appunto ipotetici – di simili accordi.
Secondariamente, alla _ e ai suoi responsabili, si chiedeva semplicemente di informare la Commissione sui termini di un accordo importante, come quello concluso con _Del tutto inappropriato e per nulla serio è sostenere che la concessione non è stata violata poiché la fascia di clienti cui i gettoni erano o sarebbero stati venduti era quella medio-alta, mentre l’attività della _ era “
prevalentemente orientata su giocatori di fascia medio-bassa
”.
In realtà la fascia economica d’appartenenza dei giocatori non è rilevante nella definizione delle attività che costituiscono il cuore della gestione di una casa da gioco – e fra queste vi è certamente la vendita dei gettoni - e che devono essere svolte soltanto dai dipendenti della società concessionaria.
La fascia medio-alta cui accennano i ricorrenti è, semmai, segno ulteriore dell’importante autonomia conferita alla _ e, pertanto, ulteriore indicazione della posizione di “importante socio d’affari” che il contratto attribuiva alla _. Il ricorso su questo punto va quindi respinto.
4.5.
Nel loro allegato, i ricorrenti criticano le considerazioni svolte dal primo giudice per sostanziare, dal profilo quantitativo, la qualifica di “socio importante”.
Il modesto impatto economico che l’accordo di collaborazione avrebbe avuto per il 2004 (fr. 2,5 milioni, circa il 3% del totale della cifra di affari prevista nel “
budget
2004”) è – secondo i ricorrenti - la prova dell’esiguo influsso sulla normale attività del Casinò. “Astratta” e “teorica” è, quindi, la conclusione del primo giudice che invece ha ritenuto che la percentuale in parola sarebbe “di tutto rispetto”.
Il giudice di prime cure avrebbe, inoltre,
“arbitrariamente omesso
” di considerare che l’obiettivo stimato nel contratto di collaborazione con _ di fr. 25 mio per il 2004 e fr. 27.5 mio per il 2005 era “
del tutto irrilevante nella valutazione sulla qualifica di _ come socio d’affari importante, siccome riferito a circostanze ipotetiche, di fatto mai realizzatesi
”.
Prova di ciò è il fatto che, nei pochi giorni in cui è stata attiva per il Casinò, la _ ha procacciato solo 37 clienti (4 effettivi): si tratta di un apporto del tutto trascurabile “
e finanche ridicolo”
se confrontato con il normale afflusso quotidiano di giocatori (1400).
Sempre secondo i ricorrenti, il giudice ha, inoltre, sbagliato nel considerare importante l’aumento del 50% del valore dei gettoni in dotazione alla casa da gioco avvenuto con l’introduzione dei gettoni barrati poiché ha arbitrariamente omesso di considerare che l’acquisto di gettoni “
non configurava ancora alcun incasso per la _
” che sarebbe, invece, intervenuto solo quando i gettoni sarebbero stati acquistati – e persi – dai singoli clienti.
Pure teorico – concludono i ricorrenti – sarebbe il dato riferito alla remunerazione in percentuale concessa alla _, ritenuto dal primo giudice come indicativo dell’importanza dell’accordo (ricorso, pag. 12-17 punti 5-6).
4.6.
Su questa questione, le censure ricorsuali cadono nel vuoto già soltanto perché sono state formulate dimenticando che il giudice di prime cure ha svolte le sue considerazioni sull’aspetto quantitativo del contratto soltanto a titolo abbondanziale.
Né, peraltro, i ricorrenti indicano i motivi per cui le valutazioni espresse dal primo giudice sarebbero “arbitrarie”.
Anche gli obiettivi di vendita vanno considerati nella valutazione dell’aspetto quantitativo. Il fatto che le cifre considerate siano “solo” indicative non è rilevante. L’importanza quantitativa di un accordo va valutata anche in funzione dei suoi obiettivi, ritenuto, peraltro, che, se essi sono stati definiti, è perché essi erano – secondo l’esperienza degli attori in gioco – del tutto realizzabili.
E comunque, il fatto che la _ si sia formalmente impegnata – per contratto – a rinnovare la collaborazione proprio sulla base di quei dati è, dal punto di vista contrattuale, un fatto concreto e non ipotetico.
Anche l’ipotizzata vendita gettoni per il 2004 – pur se ridimensionata a fr. 10.000.000.- (v. verbale di interrogatorio di RI 1 del 24 marzo 2004, act. B.1.2 pag. 2, classatore B; verbale del 3 febbraio 2005, act. B.1.5 pag. 4-5, classatore B) – non può essere banalizzata dal punto di vista quantitativo.
Che l’accordo fosse importante anche dal profilo quantitativo
è, poi, provato dal fatto che, nei pochi mesi di attività, la _ – così come accertato dal giudice di prime cure - aveva acquistato e rivenduto ai suoi clienti gettoni per complessivi
fr. 3.139.320.- fr così che la _ gli ha versato, in ossequio al contratto, fr. 308.286.- (sentenza consid.10 pag. 8).
In ogni caso, al di là delle effettive cifre che la collaborazione avrebbe creato, l’accordo prevedeva delle entrate importanti: pertanto, esso andava notificato alla RI 3.
Anche su questo punto, il ricorso, nella sua limitata ammissibilità, va decisamente respinto.
4.7.
In conclusione, il giudice di prime cure ha valutato la fattispecie che gli era sottoposta in modo esente da critiche.
Ritenuto l’obbligo di informazione (nella forma della richiesta preventiva) riguardo i nuovi “soci d’affari importanti” (cfr. art. 18 LCG, 3 OCG, punto 1.2. della concessione), in concreto, correttamente, il giudice di prime cure ha verificato le caratteristiche dell’accordo stipulato fra la _ e la _ sia dal punto di vista qualitativo (in particolare, circa la rilevanza dell’attività svolta e le ripercussioni che questa potrebbe avere su quella della casa da gioco) sia da quello quantitativo, ossia riferito alle implicazioni economiche dell’accordo per accertare se il partner contrattuale della _ doveva, alla luce delle disposizioni applicabili alla questione, essere considerato un “socio d’affari importante”.
Dopo avere correttamente definito il contenuto del più volte citato contratto, il primo giudice ne ha valutato le implicazioni alla luce delle disposizioni applicabili, avuto riguardo al contenuto dell’atto di concessione di sito e gestione di tipo A e alla ratio delle disposizioni applicabili, in particolare degli art. 12, 18 e 19 LCG e 19 OCG, tutti ripresi nella loro sostanza dall’atto di concessione dell’11.11.2002.
Come visto al considerando 1, il giudice di prime cure ha ritenuto che la _ doveva essere considerata un socio d’affari importante della _ sulla scorta dei seguenti elementi:
- esclusiva per il procacciamento di giocatori qualificati concessa alla _;
- importante retribuzione prevista;
- introduzione dei gettoni barrati ad esclusivo uso della _ (con aumento del valore dei gettoni in dotazione del casinò del 50% a seguito dell’introduzione dei gettoni barrati)
- possibilità concessa alla _ di vendita diretta dei gettoni barrati;
- concessione alla _ di un locale all’interno della casa da gioco dove accogliere e gestire autonomamente, senza vigilanza alcuna, i giocatori qualificati.
Si tratta di elementi che effettivamente indicano come la _ costituisse un socio d’affari importante dal punto di vista qualitativo della _
Così come correttamente rilevato dal primo giudice, l’esclusiva concessa – unita all’importante retribuzione prevista, peraltro, in percentuale sul valore dei gettoni da lei acquistati e l’attribuzione di un locale all’interno della casa da gioco dove gestire autonomamente i giocatori qualificati - concedeva alla _ una situazione privilegiata nei confronti della casa da gioco e ne faceva un partner contrattuale “qualificato”.
Altrettanto correttamente, il primo giudice ha considerato determinante per la qualifica di “socio d’affari importante” il fatto che alla _ sia stato concessa la facoltà di vendita diretta dei gettoni barrati. Concedendole questa facoltà, la _ ha delegato a terzi un suo compito cruciale: in sostanza, ha “appaltato” ad un partner contrattuale un suo compito specifico, non delegabile secondo la concessione (punto 2.6).
Corrette – anche se ipotetiche – poiché nello spirito della concessione sono le considerazioni svolte dal primo giudice circa le possibili conseguenze della concessione di questa facoltà di vendita diretta e sui rischi accresciute di infrazione alle norme specifiche della LCG legate al contenuto del contratto (sentenza consid. 17, pag. 13, cpv. 4).
Infine, sempre correttamente il giudice di prime cure ha ritenuto - anche se a titolo abbondanziale bastando a fondare l’obbligo di informazione l’accertamento della qualifica di socio d’affari importante dal punto di vista qualitativo - che l’importanza economica dell’accordo con la _ era considerevole: il 3.125% del totale della cifra d’affari è effettivamente di tutto rispetto se riconducibile ad un solo partner contrattuale e, in cifre assolute, l’importo di 25/27.500.000 fissato come obiettivo di vendita annuale di gettoni barrati è, parimenti, considerevole. Si tratta – come rilevato dal primo giudice – di importi che adempiono i requisiti di cui all’art. 18 LCG perché sia dato l’obbligo di comunicazione.
5.
Il giudice di prime cure ha ritenuto che l’obbligo di annuncio alla RI 3 era attuale al momento dell’entrata in vigore dell’accordo (sentenza consid. 19 pag. 15).
5.1.
Su questa questione
,
i
ricorrenti sostengono che, proprio “
per la tipologia
” dell’accordo, al momento della sua sottoscrizione, l’importanza economica del contratto di collaborazione stipulato con la _ “
non era valutabile
”. Non per nulla – sottolineano i ricorrenti – il contratto prevedeva un periodo di “
start-up
” di 4 mesi, periodo necessario entro il quale verificarne “la reale portata economica” (ricorso, pag. 15 punto 6).
5.2.
Il punto 1.2. della concessione di sito e di gestione dell’11.11.2002 recita che la concessionaria è tenuta a comunicare alla RI 3 immediatamente, integralmente e di propria iniziativa tutte le modifiche alle condizioni per il rilascio della concessione (art. 18 LCG; art. 18 OCG).
Come visto, secondo il giudice di prime cure, quell’ “immediatamente” significa “non appena l’accordo che modifica le condizioni esaminate per il rilascio della concessione è venuto in essere”.
A mente di questa Corte, questa conclusione pecca di generosità nei confronti dei ricorrenti.
In realtà, un’interpretazione corretta delle norme applicabili porta a concludere che accordi che hanno effetto sulle condizioni per il rilascio della concessione vanno notificati alla RI 3 al più tardi al momento della loro entrata in vigore.
Una soluzione diversa sarebbe incompatibile con la ratio delle norme in questione che vogliono dare alla RI 3 la possibilità di un controllo e di un intervento preventivo.
Ciò rilevato, le considerazioni ricorsuali cadono nel vuoto.
I ricorrenti ignorano, pretestuosamente, da un lato, che l’obbligo di annuncio era dato, non soltanto per l’importanza economica dell’accordo, ma già per l’aspetto qualitativo del contratto e, d’altro lato, che l’atto di concessione prevede al punto 1.2 che
“la concessionaria è tenuta a comunicare alla RI 3, immediatamente, integralmente e di propria iniziativa, tutte le modifiche delle condizioni per il rilascio della concessione
”, tra queste, le modifiche relative i “
contratti
tra la concessionaria, gli aventi diritto economico e i soci in affari importanti
”.
Al momento, non solo della stipulazione del contratto con la _, ma già al momento delle trattative volte alla conclusione di tale accordo, i ricorrenti avevano tutti gli elementi per valutarne l’importanza dell’accordo e, con essa, accertare l’obbligo di comunicare gli estremi del contratto di collaborazione alla RI 3.
Anche su questo punto, dunque, il ricorso va respinto.
6.
I ricorrenti, “
a titolo meramente abbondanziale
”, lamentano la violazione del principio della parità di trattamento, ritenuto che _, avvocato, all’epoca vice-presidente del CdA della _ (nonché azionista, in ragione dell’8.4%), sin dall’inizio era stato attivamente coinvolto nella redazione del contratto di collaborazione con la _ non è stato perseguito.
Secondo i ricorrenti, il primo giudice avrebbe, poi, arbitrariamente omesso di considerare che tutto il CdA era al corrente dei contenuti dell’accordo e della decisione di non comunicare alcunché alla RI 3 (ricorso, pag. 18-20 punto 8).
a)
Il giudice di prime cure ha spiegato come il principio della parità di trattamento “
non possa venire esteso al punto da escludere la procedura penale quando l’autorità inquirente abbia tralasciato di indagare e condannare un correo”
. Nel diritto penale – ha spiegato il primo giudice – “
ognuno paga per le proprie colpe
”.
Oltretutto, non avendo la RI 3 chiarito la posizione di _ con una decisone formale o una presa di posizione ufficiale non è – ha spiegato il giudice – “
assolutamente comprensibile quale sia stato il suo ruolo nella vicenda
” (sentenza, pag. 17 consid. 22).
b)
Nella misura in cui i ricorrenti rimproverano al primo giudice di non avere considerato che _ ha le stesse loro responsabilità, giova ricordare che in materia penale ognuno risponde delle proprie azioni ed omissioni. L’eventuale altrui comportamento illecito non discrimina né attenua la responsabilità per la violazione di prescrizioni imputabili a propria colpa.
Di conseguenza, le considerazioni ricorsuali intese a mettere in evidenza eventuali colpe di _ non possono avere effetto liberatorio per i ricorrenti.
Comunque sia, va rilevato che la RI 3 ha sentito _, prima come persona informata sui fatti e, poi, come testimone (verbali del 12 dicembre 2003 e del 4 marzo 2005, doc. B.3.1 e B.3.3, classatore B; v. anche verbale del 15 dicembre 2003 di _, doc. B.4.1, classatore B ) e che da queste audizioni emerge una situazione diversa da quella che i ricorrenti illustrano nel loro memoriale.
La questione, comunque, non merita altri approfondimenti.
Il ricorso va, anche su questo punto, respinto.
II.
Sul ricorso della RI 3
1.
Nel suo ricorso, la RI 3 contesta la commisurazione della pena inflitta a RI 2 e RI 1 e chiede, in via principale, che la sentenza impugnata venga riformata e che a RI 1 venga inflitta una multa di fr. 75.000.- e a RI 2 una multa di fr. 100.000.-.
In via subordinata, chiede che, annullato il dispositivo sulla pena, gli atti vengano rinviati ad un nuovo giudice per un nuovo giudizio.
2.
Il primo giudice ha inflitto ai due condannati una multa di
fr. 4.000.-
Procedendo alla valutazione della colpa, il primo giudice ha, dapprima, considerato che la mancata segnalazione di un partner in affari importante rappresenta, all’interno della lista dell’art. 56 LCG, “
una delle infrazioni meno gravi, anche se non per questo da sottovalutare
”. Ha, poi, rilevato che il reato commesso dagli accusati ha avuto delle conseguenze “
molto limitate
” avendo l’accordo espletato i suoi effetti “
solo per una dozzina di giorni
” e comportato un giro d’affari contenuto. Pur rilevando che il rischio di commissione di reati patrimoniali da parte di persone legate a _ “
era tutt’altro che astratto
”, il primo giudice ha sottolineato come le inchieste per usura avviate dal Ministero pubblico federale e da quello cantonale contro _ e _ si siano concluse con dei non luoghi a procedere e come, pertanto, non vi sia stata “
alcuna conseguenza nefasta scaturente dall’omissione addebitata ai prevenuti
”. Ha, poi, sottolineato come né RI 1 né RI 2 abbiano tratto profitto personale dal rapporto con la società “porteur” e come l’apporto di clienti e capitali da parte della _ non sia stato, in quei 12 giorni di attività, rimarchevole.
Il giudice di prime cure ha, poi, ritenuto che entrambi gli imputati sono incensurati e che entrambi godono di un’ottima situazione familiare, professionale e sociale. Il giudice ha aggiunto inoltre che, essendo la loro situazione economica solida, “
persino le pene proposte dalla RI 3 sarebbero tranquillamente sopportabili
”.
Sulla scorta di queste considerazioni, “
tenuto pure conto che, nonostante i ruoli diversi all’interno della società, le colpe dei due prevenuti sono analoghe
” (sentenza, consid. 26 pag. 20), il giudice ha, come detto in ingresso, inflitto ad entrambi una multa di fr. 4000.–.
3.
La RI 3 rimprovera al primo giudice di avere violato l’art. 47 CP nella commisurazione della multa.
Dapprima, essa gli rimprovera di avere erroneamente ritenuto la mancata segnalazione di un partner importante come una delle infrazioni meno gravi previste all’art. 56 LCG. In realtà, l’obbligo di comunicazione è – sottolinea la ricorrente – un
“fondamentale
” strumento di controllo delle prescrizioni legali e un “
modo per controbilanciare i rischi legati alla gestione di una casa da gioco e arginare i pericoli inerenti alla criminalità organizzata permettendo di prendere tempestivamente le misure adeguate e i provvedimenti pertinenti
”.
Quindi, la violazione di tale obbligo, al contrario di quanto stabilito dal primo giudice, è da considerarsi grave.
Per questa violazione – continua la commissione ricorrente - il legislatore ha previsto delle multe di importo superiore a quelle del diritto penale generale (sino a fr. 500
000.–) proprio perché esse possano “
esplicare tutto il loro effetto preventivo”
.
Secondo la tesi ricorsuale, il primo giudice, infliggendo una multa di soli fr. 4000.–, non ha, quindi, “
fatto appieno uso dell’ampio quadro delle multe
” ed ha dimostrato “
eccessiva clemenza
”. La multa inflitta non è, infatti, sufficientemente dissuasiva. Il suo esiguo importo non può espletare l’effetto preventivo desiderato dal legislatore.
Essendo “
estremamente clemente
” e, perciò, non atta ad espletare l’effetto preventivo voluto da legislatore, la multa inflitta è – a mente della ricorrente - di per sé arbitraria.
La ricorrente continua il suo esposto sottolineando come, seppure in concreto non sia stata constatata “
alcuna conseguenza nefasta scaturente dall’omissione addebitata ai prevenuti
”, i due condannati hanno comunque coscientemente esposto la casa da gioco al reale rischio di commissione di reati patrimoniali, la cui portata e le cui conseguenze potevano essere “
tutt’altro che limitate
”.
Nella commisurazione della pena – prosegue la ricorrente – non ha importanza la limitata durata in cui è rimasta in essere il contratto. Nemmeno è rilevante il fatto che l’afflusso di capitali non sia stato “
rimarchevole
”. Infatti, anche “
solo un giorno o un’ora sono sufficienti
” per commettere i reati patrimoniali di cui s’è detto e permettere alla criminalità organizzata di agire indisturbata.
E’ questo rischio cui il legislatore ha voluto porre rimedio “
prevedendo un obbligo di comunicare, mirato a facilitare il controllo da parte dell’autorità di sorveglianza
”.
Non avendo tenuto conto di queste finalità preventive, il primo giudice ha – secondo la ricorrente - erroneamente applicato il diritto.
La ricorrente continua il suo esposto sostenendo che la colpa degli imputati è grave anche perché, nonostante avessero avuto dei dubbi sulla liceità del loro comportamento, invece di chiedere un parere alla RI 3
“anche con una semplice telefonata”,
hanno scelto di esporre la _ ai rischi patrimoniali connessi con attività quali il riciclaggio di denaro sporco, l’usura, ecc.
Alla luce dei fatti accertati dal primo giudice, infliggere a Marco RI 1 e RI 2 una multa di soli fr. 4000.– “
mostra
– secondo la commissione ricorrente -
come il giudice non abbia valutato correttamente la colpa degli stessi
” e come non abbia considerato gli obblighi di trasparenza e di impegno costante nell’adozione di tutte le possibili misure di prevenzione contro i reati patrimoniali connessi con le cariche di presidente del CdA e direttore della società che i due ricoprivano.
Non è rilevante – sottolinea la RI 3 – che i due imputati non abbiano tratto personalmente profitto alcuno, che siano entrambi incensurati e che godano di un ottima situazione familiare, professionale e sociale.
Inoltre – sempre secondo la commissione ricorrente – nella commisurazione della colpa e, quindi, della multa, vanno considerato gli obiettivi economici che l’accordo con _ si prefissava: fr. 25.000.000.- nel primo anno e
fr. 27.500.000.- nel secondo mostrano chiaramente che gli interessi in gioco “
erano importanti
” e lasciavano presagire un “
considerevole flusso di denaro
”.
In sintesi, secondo la RI 3 l’esiguo importo inflitto loro non è proporzionato alla grave colpa mentre gli importi da lei proposti “
sono adeguati sia alla colpa degli accusati che alla situazione personale e finanziaria degli stessi”
.
Infliggendo a RI 1 e RI 2 una multa di appena fr. 4
000.–, il giudice della Pretura penale ha, così, violato l’art. 47 CP (ricorso, pag. 4-11).
4.
Nelle loro osservazioni, RI 2 e RI 1 hanno chiesto che il ricorso della RI 3 venga dichiarato irricevibile in quanto manifestamente appellatorio (osservazioni pag. 4 punto 4; pag. 6, pag. 19 e seg).
Contestano, poi, le considerazioni della RI 3 sull’importanza della violazione dell’obbligo di informare in relazione ad un socio importante rilevando come le considerazioni svolte dalla ricorrente siano “degli assunti meramente ipotetici, per nulla circostanziati e che non trovano fondamento alcuno nella fattispecie” e come non siano in concreto state esperite “
verifiche degne di essere considerate tali (...) per accertare l’esistenza di simili rischi
” (ricorso pag. 7 ).
Dopo avere ribadito la loro convinzione di non realizzazione dell’obbligo di informazione, i ricorrenti sottolineano come il contratto concluso con la _A abbia avuto uno scarso – se non nullo – impatto sia in cifre che in durata e che già il giudice di prime cure ha ammesso che di fatto tale stipulazione non ha avuto alcuna conseguenza nefasta. Rilevano, poi, come nessuno di loro abbia tratto profitto personale dall’operazione
Continuando, i ricorrenti osservano come “
l’atteggiamento della RI 3 appaia volto esclusivamente alla massimizzazione degli introiti piuttosto che alla ricerca della verità
” e come la multa inflitta dal pretore rientri nel quadro edittale visto che l’art. 56 LCG permette anche di infliggere multe ammontanti ad un solo franco (osservazioni pag. 13, 14 e 15).
5.
Contrariamente all’opinione dei condannati, la commisurazione della pena è una questione di diritto su cui la Corte di cassazione e di revisione penale interviene nella misura in cui la sanzione si ponga fuori del quadro edittale, oppure si fondi su criteri estranei all'art. 47 CP, oppure disattenda elementi di valutazione prescritti da quest'ultima norma oppure ancora appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare un eccesso o un abuso del potere di apprezzamento (DTF 134 IV 17 consid. 2.1 e rinvii, 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti, 128 IV 73 consid. 3b pag. 77,127 IV 10 consid. 2 pag. 19, 123 IV 49 consid. 2a pag. 51, 150 consid. 2a pag. 152 con richiami; cfr. anche 123 IV 107 consid. 1 pag. 109).
6.
Quanto ai criteri determinanti per commisurare la pena, la gravità della colpa è, come lo era sotto l’egida del vecchio diritto (art. 63 vCP), fondamentale. L’art. 47 cpv. 1 CP – in vigore dal 1° gennaio 2007– stabilisce esplicitamente, del resto, che il giudice commisura la pena alla colpa dell’autore tenendo conto della vita anteriore e delle condizioni personali di lui, nonché dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita. Il legislatore ha in sostanza aggiunto la necessità di prendere in considerazione l’effetto che la pena avrà sulla vita a venire del condannato, codificando la giurisprudenza secondo la quale il giudice può ridurre una pena apparentemente adeguata alla colpa del reo se le conseguenze sulla sua esistenza futura appaiono eccessivamente severe (sentenza del Tribunale federale 6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 5.2 con rinvii; DTF 128 IV 73 consid. 4 pag. 79, 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). Questi aspetti di prevenzione speciale permettono tuttavia solo delle riduzioni marginali, la pena dovendo essere sempre adeguata alla colpa; il giudice non potrebbe ad esempio esentare da pena il reo in caso di delitti gravi (
S
tratenwerth,
Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil II, Strafen und Massnahmen, Berna 2006, § 6 n. 72;
Stratenwerth/Wohlers
, op. cit., n. 17 e 18 ad art. 47 CP
).
Secondo l’art. 47 cpv. 2 CP la colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell’offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l’autore aveva di evitare l’esposizione a pericolo o la lesione. La norma riprende,
mutatis mutandis
, la giurisprudenza relativa all’art. 63 vCP (
Stratenwerth/Wohlers
, Strafgesetzbuch, op. cit., n. 4 ad art. 47 CP) a mente della quale per valutare la gravità della colpa entrano in considerazione svariati fattori: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l’intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto, l’eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato, l’entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell’illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento; DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2 pag. 289).
Vanno inoltre considerati – sempre secondo la citata giurisprudenza – la situazione familiare professionale dell’autore, l’educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l’integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289). Non va trascurata nemmeno la sensibilità personale all'espiazione della pena (
Strafempfindlichkeit
) per rapporto allo stato di salute, all'età, agli obblighi familiari, alla situazione professionale, ai rischi di recidiva ecc. (DTF 102 IV 231 consid. 3 pag. 233; sentenze del Tribunale federale 6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 6.4, 6P.152/2005 del 15 febbraio 2006, consid. 8.1 e 6S.163/2005 del 26 ottobre 2005, consid.
2.1 con rinvii;
S
tratenwerth,
Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil II, Berna 1989, § 7 n. 53 seg.).
Esigenze di prevenzione generale, per converso, svolgono solo un ruolo di secondo ordine (DTF 118 IV 342 consid. 2g pag. 350). Il principio della parità di trattamento, da parte sua, assume rilievo solo in casi eccezionali, nelle rare ipotesi in cui pene determinate in modo di per sé conforme all’art. 47 CP (che ha la stessa portata del previgente art. 63 CP) diano luogo a un’obiettiva disuguaglianza; il confronto tra casi concreti suole invece essere infruttuoso, ogni fattispecie dovendo essere giudicata in base alle sue individualità soggettive e oggettive (DTF 123 IV 150, 116 IV 292; v. anche DTF 124 IV 44 consid. 2c pag. 47).
7.
Per capire quanto sia grave dal profilo oggettivo il comportamento di chi disattende l’obbligo di comunicare informazioni alla Commissione (RI 3) ai sensi dell’art. 56 cpv. 1 lett. e LCG, e per capire la portata dell’incidenza che tale omissione potrebbe avere sul rischio che vengano commessi per questo dei reati patrimoniali quali l’usura e il riciclaggio di denaro, è necessario rifarsi al
Messaggio del
26 febbraio 1997.
a)
Sin dalle pagine iniziali del Messaggio (Compendio, pag. 130-131), viene sottolineata l’importanza che il legislatore ha voluto dare alla prevenzione della criminalità organizzata.
Nelle case da gioco deve essere, infatti, garantito l’esercizio di un gioco sicuro e trasparente e deve essere impedito il riciclaggio di denaro sporco. È per questo che per la sorveglianza delle case da gioco e il controllo della loro attività è stata istituita, sul modello della Commissione federale delle banche, una Commissione RI 3 e sono state previste diverse
disposizioni volte a impedire il riciclaggio di denaro sporco. Nell’intento di evitare il mancato ossequio delle norme emanate a tutela della correttezza della gestione delle case da gioco nella LCG sono state previste, in aggiunta alle sanzioni di natura amministrativa, delle disposizioni penali che, oltre a pene privative della libertà, prevedono sanzioni pecuniarie molto elevate (Messaggio, pag. 130-131,146).
Tra gli obiettivi perseguiti dal legislatore, molta importanza è stata data alla tutela della società che deve essere garantita mediante misure efficaci contro la criminalità organizzata e il riciclaggio di denaro sporco. Pertanto, le autorità di concessione e di vigilanza sono tenute, fra l’altro, a esercitare una “
severa
” verifica dei presupposti necessari per l’ottenimento della concessione, a verificare la concessione nel corso della sua validità per quanto concerne l’esercizio dei giochi e il riciclaggio di denaro sporco, a valutare in primo luogo costantemente la qualità e l’efficienza del sistema di controllo interno alla casa da gioco. L’interesse principale deve però consistere nell’esame delle misure di controllo e sorveglianza interne alla casa da gioco, delle quali sono
“responsabili gli organi e la direzione della casa da gioco stessa”.
Ove si rivelino debolezze o carenze, vengono a mancare le premesse per la concessione, la quale in tal caso deve essere revocata, sospesa o limitata (Messaggio, pag. 141, 146-148).
Come visto, in aggiunta alle sanzioni amministrative (revoca, sospensione, limitazione delle concessioni e dei permessi), la LCG prevede delle sanzioni penali. Affinché la legge possa esplicare appieno “tutto il suo effetto preventivo”, il quadro delle pene previsto dal diritto penale generale è stato sensibilmente ampliato (per i delitti, in casi gravi è prevista la reclusione fino a cinque anni, eventualmente abbinata a una multa fino a 2.000.000.- di fr. mentre per le contravvenzioni è previsto l’arresto o la multa fino fr. 500.000.–; Messaggio, pag. 151).
b)
Ora, il Messaggio sulla LCG – come visto – ha chiaramente voluto sottolineare la necessità di prevenire la commissione di reati patrimoniali all’interno delle case da gioco e, quindi, la necessità di avere strumenti legislativi atti a garantire tali pericoli non si concretizzino. Per questo, il legislatore ha predisposto tutta una serie di misure di controllo, la cui disattenzione – qualora venisse accertata – deve essere severamente punita.
La commisurazione della colpa di RI 1 e RI 2 come lieve – e, quindi, la commisurazione della multa – discende, come visto, dalla considerazione del primo giudice secondo cui la norma da loro violata non è fra le più importanti.
Ora, forza è concludere, in funzione delle argomentazioni estrapolate dal Messaggio sulla ratio dell’obbligo di informare, che la commisurazione della colpa dei condannati discende dalla sottovalutazione da parte del primo giudice della portata della norma violata che va, invece, considerata una norma di fondamentale importanza nell’ambito della lotta al riciclaggio e ai reati patrimoniali nel contesto delle case da gioco e il cui rispetto da parte delle società concessionarie è necessario affinché la RI 3 possa far fronte all’obbligo di costante e regolare controllo che il legislatore le ha imposto a tutela della correttezza della gestione delle case da gioco.
Quel che, nella valutazione della colpa dei due condannati andava, dapprima, considerato, dal profilo oggettivo, era, dunque, che - contrariamente a quanto ritenuto in prima sede - i due condannati hanno violato una norma posta a tutela di valori importanti e che, quindi, già soltanto per questo, dal profilo oggettivo, la loro colpa era grave.
Inoltre, eccessivo valore attenuante è stato dato dal giudice di prime cure al fatto che “
il reato commesso dagli accusati ha avuto una portata e delle conseguenze molto limitate
” avendo il contratto con la _ trovato applicazione soltanto per una dozzina di giorni e, quindi, avendo comportato un giro d’affari contenuto (sentenza consid. 26 pag. 19 e 20).
In realtà, se ciò è vero, è anche altrettanto vero – ed è molto più rilevante – che se il contratto con la _ è stato disdetto il 21.10.2003 è stato soltanto a seguito del clamore suscitato dalla trasmissione televisiva di cui s’è detto e per motivi definiti “d’opportunità” e non certamente a causa di una presa di coscienza da parte dei due imputati del mancato ossequio delle norme applicabili e, quindi, di una loro volontà di porre rimedio all’errore commesso.
Inoltre, a questo proposito, va considerato che, in realtà, viste le finalità di natura preventiva della norma violata, le conseguenze pratiche della violazione sono di poca rilevanza nella commisurazione della colpa e, quindi, della pena. Ben più importanti sono, in quest’ottica, le considerazioni sul rischio creato dalla violazione. E, nella fattispecie, il rischio era molto importante viste le particolarità dell’accordo che prevedevano, in particolare, la concessione dell’esclusiva per il procacciamento di un numero importante (cfr. obiettivi) di clienti qualificati con vendita diretta dei gettoni barrati alla _ società controllata da persone sulla cui correttezza gli stessi imputati hanno nutrito dei dubbi. Quest’ultima circostanza non può non essere considerata nella commisurazione della colpa dei due imputati: non può, in effetti, essere fatta astrazione dalla circostanza secondo cui i due, prima di concludere il contratto, hanno chiesto lumi al MPF. I sospetti e i dubbi sull’irreprensibilità della persona con cui intendevano entrare in affari non possono essere stati fugati dalla risposta ricevuta. Il fatto che, ciò nonostante, gli imputati abbiano deciso, non tanto di concludere il contratto, quanto di farlo senza coinvolgere preventivamente la RI 3 è indicativo di una certa spregiudicatezza o di un’importante superficialità, inaccettabili in chi ha il compito di gestire una casa da gioco.
Che, poi, le inchieste avviate per usura nei confronti di _ e _ si siano concluse con dei decreti di non luogo a procedere è irrilevante per la valutazione della colpa soggettiva dei due imputati che va fatta sulla base delle circostanze che erano loro note al momento della commissione del reato: a quel momento, è accertato che i due nutrivano dei dubbi sull’irreprensibilità della persona con cui intendevano avviare una collaborazione importante. Quel che conta per la valutazione della loro colpa è il fatto che essi hanno deciso di concludere il contratto senza prima fugare quei dubbi e senza coinvolgere la RI 3, preposta, appunto, alla verifica della correttezza della gestione delle case da gioco e, pertanto, alla verifica dell’irreprensibilità delle persone che operano in modo rilevante nelle case da gioco.
A torto, poi, il giudice di prime cure ha completamente ignorato l’importanza economica del contratto: nella valutazione della colpa è un elemento che non può essere dimenticato nella misura in cui, fra l’altro, maggiore è l’importanza dell’affare (in particolare, l’importanza dei clienti procacciati) maggiore è il rischio legato ai reati contro la cui commissione il legislatore ha, appunto, emanato le norme che i due imputati hanno violato.
Tutto ciò ritenuto, è evidente come infliggere una multa di
fr. 4.000.- per avere omesso di segnalare alla RI 3 l’accordo con la _ significhi – come sottolineato dalla Commissione ricorrente – misconoscere, da un lato, la gravità oggettiva della mancanza e, d’altro lato, la colpa degli accusati.
Se il giudice di prime cure ha correttamente accertato la violazione dei principi basilari della LCGA e delle condizioni della concessione, applicando una multa di soli fr. 4
000.– egli ha erroneamente applicato i principi della LCG e, di riflesso, quelli sulla commisurazione della pena (art. 47 CP) banalizzando in modo inaccettabile, dal profilo oggettivo e soggettivo, l’errore commesso dai due imputati così che, per finire, la multa inflitta risulta eccessivamente bassa e, quindi, arbitraria.
Ritenuto come questa Corte abbia gli elementi per valutare una corretta sanzione, un rinvio dell’incarto al giudice di prima sede per ricommisurare la multa non appare giustificato.
La RI 3 propone che i due imputati vengano condannati a multe di diverso importo: fr. 75.000.- per RI 1e fr. 100.000.- per RI 2.
Se è vero che il reddito di RI 2 è effettivamente più alto di quello di RI 1, è anche vero che quello del direttore è comunque talmente alto che un distinguo tra i due imputati basato solo su questo aspetto non si giustifica.
Non risultano, inoltre, dagli accertamenti del giudice di prime cure elementi che permettano di differenziare le responsabilità dei due imputati: al contrario, sembra che i due abbiano quasi sempre agito di concerto.
Ad entrambi, quindi, va inflitta una multa di pari importo.
Ritenuti gli elementi di cui sopra e, a favore degli imputati, quelli diffusamente ricordati dal primo giudice (in particolare, incensuratezza, ottima situazione familiare, professionale e sociale, assenza di profitto personale nell’operazione) e rilevato come il giudice di prime cure abbia accertato – accertamento rimasto incontestato - che i due godono di una solida situazione economica “
al punto che persino le pene proposte dalla RI 3 sarebbero tranquillamente sopportabili
” (sentenza consid. 26 pag. 20), questa Corte ritiene, dopo avere ponderato tutti gli elementi, correttamente adeguata alla loro colpa la multa di fr. 50.000.– ciascuno.
La pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento della multa può essere quantificata in 50 giorni (art. 106 cpv. 2 CP).
Il ricorso della RI 3 deve quindi essere parzialmente accolto:
la sentenza impugnata va, quindi, parzialmente annullata e a
sia a RI 1 che a RI 2 va inflitta una multa
di fr. 50.000.–.
III. Sulle spese e le ripetibili
1.
Da quanto precede discende che nella (limitata) misura in cui è ammissibile, il ricorso di RI 1 e RI 2 deve essere respinto, siccome manifestamente infondato.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico dei ricorrenti (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP).
2.
Vanno confermate le tasse e le spese di prima sede.
3.
Gli oneri relativi al ricorso della RI 3 sono posti a carico dello Stato (art. 15 cpv. 2 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ae3e71ea-16ac-5f09-a648-f7271d612626 | in fatto: A.
La _ SA, azienda che si occupa di mediazione finanziaria e commerciale, è stata costituita il 15 settembre 1998 su iniziativa di _, il quale ha affidato la funzione di amministratore unico all'amico _. Il 1° ottobre 1998 la ditta ha assunto _ in qualità di consulente finanziario con uno stipendio mensile di fr. 2900.–. Questi ha cessato di lavorare alla fine di dicembre dello stesso anno poiché fino a quel momento aveva ricevuto un solo acconto sullo stipendio, di fr. 2000.–, nell'ottobre del 1998. A suo dire la società avrebbe ancora dovuto versargli lo stipendio di gennaio 1999, non avendolo mai licenziato, per un totale arretrato di fr. 8350.–.
B.
A fine novembre 1998 _ ha offerto a _, in deduzione di fr. 1800.– dal debito della ditta nei suoi confronti, due personal computer, due monitor e due stampanti, acquistati dalla _ SA qualche settimana prima per fr. 5200.–. Prima di accettare la proposta, _ ha interpellato _, il quale aveva lavorato tre settimane per la stessa ditta nell'ottobre del 1998, domandandogli se il materiale informatico gli interessava. Sassi ha risposto di sì, di modo che il 28 novembre 1998 _ e _ si sono recati nella sede della ditta e hanno portato via gli apparecchi insieme con un tavolino a rotelle. _ ha prelevato anche talune dispense contenenti direttive sull'attività della ditta e schedari di clienti. Per gli apparecchi informatici _ ha versato a _ fr. 1600.– e successivamente altri fr. 1200.– che sono serviti a quest'ultimo per pagare pigioni arretrate.
C.
Con decreti di accusa del 29 marzo 1999 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ e _ autori colpevoli di appropriazione indebita per essersi impossessati di documentazione appartenente alla ditta (il primo) e del tavolino a rotelle (il primo in correità con il secondo), oltre che di ricettazione, per avere acquistato materiale informatico della _ SA svenduto illecitamente da _. In applicazione della pena, egli ha proposto per entrambi la condanna a 5 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per 2 anni. _, da parte sua, è stato ritenuto colpevole di amministrazione infedele e nei suoi confronti il Procuratore pubblico ha proposto la pena di 10 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per 2 anni.
D.
_ non ha sollevato opposizione al decreto di accusa. Alla proposta di condanna si sono opposti invece _ e _, che hanno adito il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4. Statuendo su opposizione, con sentenza del 15 giugno 1999 il Pretore ha confermato l'accusa di ricettazione a carico di _, derubricando nondimeno la seconda accusa ad appropriazione indebita di elementi patrimoniali di poco valore (per essersi impossessato della documentazione appartenente alla ditta, escluso il tavolino a rotelle, che non gli era mai stato affidato) e riducendo la pena a 4 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per 2 anni. _ è stato prosciolto da entrambe le imputazioni.
E.
Contro la sentenza predetta _ ha inoltrato il 21 giugno 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendo nella motivazione scritta del 29 luglio 1999 la sua piena assoluzione e la conseguente riforma della sentenza impugnata. Nelle sue osservazioni dell'11 agosto 1999 il Procuratore pubblico postula il rigetto del ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il Pretore, dopo avere accertato che il materiale informatico ritirato dal ricorrente per fr. 1800.– (due computer, due monitor e due stampanti) era provento di amministrazione infedele a danno della _ SA (condanna passata in giudicato), ha ritenuto che ciò non potesse sfuggire al ricorrente, il quale sapeva che gli apparecchi erano stati acquistati dalla ditta nell'ottobre del 1998 per circa fr. 5'000.– e che avevano ancora un valore residuo di circa il 50%. Accettando di ritirare per fr. 1800.– beni che valevano almeno fr. 2600.–, tant'è che _ gli ha poi corrisposto fr. 2800.– (fr. 1600.– più fr. 1200.–), egli si era reso conto di danneggiare la società, onde la ricettazione (art. 160 n. 1 CP). Quanto all'accusa di appropriazione indebita (art. 138 n. 1 CP), il primo giudice ha accertato che l'accusato si è impossessato il 28 novembre 1998 di documentazione consegnatagli dal datore di lavoro, documentazione affidata poi a un'amica di _ a _ e depositata in seguito negli uffici del medesimo _, dov'è stata infine sequestrata dalla polizia l'11 gennaio 1999 durante una perquisizione avvenuta su denuncia della società. Posto tuttavia che il valore della documentazione doveva essere inferiore a fr. 300.–, egli ha derubricato il reato ad appropriazione indebita di elementi patrimoniali di poco valore (art. 172
ter
cpv. 1 CP).
2.
Il ricorrente afferma di avere sollecitato più volte l'amministratore unico _ perché la _ SA avesse a corrispondergli almeno parte dello stipendio scaduto. Lo stesso _ gli aveva proposto così di ritirare le apparecchiature informatiche ed egli non aveva avuto motivo di ritenere che costui non fosse autorizzato a farlo. Certo, l'amministratore unico era stato denunciato da _, a causa però della mancata consegna di determinate azioni, non per atti di amministrazione infedele. Del resto – prosegue il ricorrente – il fatto di avere ritirato per fr. 1800.– merce che valeva circa fr. 2500.– non denota alcun intento delinquenziale e la circostanza di avere rivenduto le apparecchiature a _ il giorno stesso dimostra che egli non era interessato al materiale informatico, ma solo a ricuperare parte del suo arretrato. Per di più la chiarezza con la quale la cessione è avvenuta (su carta intestata della società e con firma delle parti) dimostra la trasparenza della transazione e la sua buona fede a norma dell'art. 933 CC. Non sussisterebbero perciò i presupposti oggettivi né soggettivi di una ricettazione.
3.
È pacifico nella fattispecie che il materiale informatico in questione era stato acquistato dall'_ SA nell'ottobre 1998 per circa fr. 5200.– e che il ricorrente lo ha ritirato per fr. 1800.– sapendo (dopo essersi informato presso la _) che il valore residuo degli apparecchi era di almeno il 50%. Non è controverso nemmeno ch'egli ha poi alienato le apparecchiature a _ per complessivi fr. 2800.–, da egli usati per pagare pigioni arretrate. Litigiosa è la consapevolezza del ricorrente circa l'origine illecita del materiale. A tale riguardo il Pretore si è fondato su due elementi: il prezzo di favore offerto al ricorrente da _ e la circostanza che al ricorrente erano noti i rapporti ormai deteriorati fra l'amministratore unico e l'azionista della ditta. Contrariamente all'opinione del primo giudice, tuttavia, nel caso in esame il primo elemento è di ben poco peso si pensa che il prezzo di favore offerto al ricorrente (circa il 70% del valore effettivo del materiale) non appariva irrisorio al punto da far presumere che l'amministratore unico stesse abusando delle sue facoltà (cfr.
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar, 2a edizione, n. 12 in fine ad art. 160 con richiami). Tanto meno se si considera il rapido deprezzamento cui è notoriamente soggetto il materiale informatico e tanto meno ancora se si rammenta che nei confronti della ditta il ricorrente vantava pretese salariali incontestate (circa fr. 4000.–), sicché poteva anche supporre che l'amministratore desiderasse in qualche modo venirgli incontro.
Quanto al fatto che al ricorrente fossero noti i dissidi insorti fra l'amministratore unico e il promotore della ditta, resta da sapere se tali dissidi potessero lasciar presumere illeciti penali. Il fatto è che la sentenza impugnata nulla precisa sulla natura e la portata dei conflitti né accerta che il ricorrente avesse concreti motivi per dubitare circa la legittimità dell'operato di _. E la transazione debitamente sottoscritta su un foglio di carta intestata della _ SA non è sicuramente un indizio in tal senso. Diverso sarebbe il caso qualora, per esempio, _ avesse limitato i poteri di rappresentanza dell'amministratore unico e ciò non potesse essere sfuggito al ricorrente. In realtà dal fascicolo processuale si può desumere soltanto che l'amministratore ha compiuto un atto di favoritismo verso un lavoratore che aspettava da tempo il saldo dello stipendio (assumendo il rischio di risponderne civilmente verso la società) e, per converso, una buona dose di disinvoltura da parte del ricorrente, che non si è fatto scrupolo di approfittare dell'occasione. Per l'applicazione dell'art. 160 CP occorre però ben altro, in particolare che la circostanza indiziasse univocamente un reato di _ (v.
Trechsel
, op. cit., n. 12 ad art. 160 CP). Le risultanze processuali lasciano qualche perplessità, ma non bastano per trarre una conclusione del genere. Ne segue che il ricorrente va assolto, quanto meno nel dubbio, dall'accusa di ricettazione.
4.
Per quel che è dell'appropriazione indebita, il ricorrente asserisce che la documentazione rinvenuta negli uffici di Bruno Sassi riguardava essenzialmente la ditta _ _ e non apparteneva alla _ SA. Si tratterebbe di atti che gli erano stati consegnati da _ nel caso in cui vecchi clienti lo avessero interpellato. Lo stesso _, del resto, avrebbe ammesso ciò al dibattimento, specificando che era prassi dei dipendenti portare con sé le schede dopo la fine del rapporto di lavoro. Inoltre – egli sottolinea – nella lettera del 4 dicembre 1998 con cui il patrocinatore di _ ha esteso la denuncia e la richiesta di perquisizione, si lamentava solo la sparizione dei computer, dei monitor e delle stampanti. La documentazione è stata rinvenuta solo durante la perquisizione. Fosse stata rilevante dal punto di vista patrimoniale, il denunciante l'avrebbe menzionata. Infine il ricorrente assevera di non essersi mai ritenuto proprietario della documentazione, che _ avrebbe potuto esigere in ogni tempo, e fa valere che al momento di portare via tali carte egli era ancora dipendente dell'_ SA, ciò che esclude la perpetrazione del reato. Per di più – egli conclude – documenti del genere non possono nemmeno essere oggetto di ritenzione (perché non realizzabili), sicché il suo agire non può configurare un reato contro il patrimonio.
5.
L'appropriazione indebita è un reato contro il patrimonio, tant'è che l'autore deve avere agito "per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto" (art. 138 n. 1 CP). Quale indebito profitto intendesse trarre il ricorrente dalle schede dei clienti e dalle fotocopie delle dispense dell'_ SA non è stato accertato dal Pretore, che si è limitato a stimare il valore della documentazione in meno di fr. 300.–. A giusta ragione il ricorrente obietta però che tale stima è completamente arbitraria, giacché il Pretore non disponeva di alcun criterio di apprezzamento. Anzi, per quanto riguarda i documenti in questione il Pretore stesso ha rilevato che "la parte civile non solo non ha fornito elementi utili alla loro valutazione economica, ma nemmeno ha preteso che a seguito di ciò abbia subito danni particolari" (sentenza, pag. 8 in alto). In applicazione del principio
in dubio pro reo
non si può dunque escludere che la documentazione avesse non solo un valore inferiore a fr. 300.–, ma addirittura un pregio economico trascurabile. Ciò premesso, non sono dati a divedere gli estremi di un reato patrimoniale. Anche l'appropriazione indebita di elementi di poco valore intravista dal Pretore non trova dunque alcun serio conforto agli atti. Donde il proscioglimento dell'accusato.
6.
L'accoglimento del ricorso comporta l'assoluzione dell'imputato e la conseguente riforma della sentenza pretorile (art. 296 cpv. 1 CPP). Gli oneri processuali di prima sede vanno a carico dello Stato (art. 9 cpv. 4 CP), che rifonderà al ricorrente fr. 1000.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). Spese e ripetibili del presente giudizio seguono la medesima sorte (art. 15 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 1,999 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ae86d34c-4954-594d-a44a-541f843a5c4a | in fatto ed in diritto
1.
In data 3.09.2010 la Corte delle assise correzionali di _ ha emanato una sentenza di condanna a carico di RE 1 per vari titoli di reato e lo ha conseguentemente condannato (inc. TPC _).
Con decisione 14.03.2011 la Corte di appello e di revisione penale ha accolto ai sensi dei considerandi il ricorso presentato dall’imputato, annullando la summenzionata decisione e rinviando gli atti ad un’altra Corte delle assise correzionali per un nuovo giudizio (inc. CARP _).
A seguito del predetto rinvio, il 5.09.2011 la Corte delle assise criminali ha emanato una sentenza di condanna a carico di RE 1 e lo ha in particolare riconosciuto autore colpevole di ripetuta coazione (in parte tentata), ripetuta sottrazione di minorenne, ripetuta minaccia, lesioni semplici, ripetute vie di fatto, ripetuta disobbedienza a decisioni dell'autorità, ingiuria, ripetuta guida senza l'assicurazione di responsabilità civile e inosservanza dei doveri in caso di infortunio (inc. TPC _).
Con giudizio 2.02.2012 la Corte di appello e di revisione penale ha parzialmente accolto l’appello presentato dall’imputato, riducendo a ventiquattro mesi la pena detentiva, confermando in sostanza la condanna dei summenzionati reati.
Con sentenza _ il Tribunale federale ha respinto, nella misura della sua ammissibilità, il ricorso presentato dall’imputato (decisione TF _ del _).
2.
Il 16.12.2013 la Corte delle assise correzionali di _ ha ritenuto RE 1 autore colpevole di coazione, ingiuria, minaccia, vie di fatto, disobbedienza a decisioni dell’autorità e, avendo agito in stato di lieve scemata imputabilità, lo ha in particolare condannato alla pena detentiva di dodici mesi (da dedursi il carcere preventivo sofferto) (inc. TPC _).
Con sentenza 16.04.2014 la Corte di appello e di revisione penale, in parziale accoglimento dell'appello dell’imputato, lo ha dichiarato autore colpevole di coazione, ingiuria, minaccia, vie di fatto e disobbedienza a decisioni dell'autorità. Riconoscendogli di aver agito in stato di lieve scemata imputabilità, gli ha in particolare inflitto una pena detentiva di dieci mesi (da dedursi il carcere preventivo sofferto).
Il _ il Tribunale federale ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’imputato (decisione TF _ del _).
3.
Con decisioni 3.12.2014 (inc. CRP _) e 11.12.2014 (inc. CRP _) questa Corte, in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG, ha accolto ai sensi dei considerandi le richieste 26/27.11.2014 e 5/9.12.2014 presentate da RE 1, qui istante, mediante le quali ha trasmesso a quest’ultimo copia della sentenza 3.09.2010 e del relativo verbale del dibattimento 2/3.09.2010 (inc. TPC _), copia della sentenza 5.09.2011 e del relativo verbale del dibattimento 2.09.2011 (con gli allegati) (inc. TPC _) e copia della sentenza 16.12.2013 e del relativo verbale del dibattimento 16.12.2013 (con gli allegati) (inc. TPC _).
In data 24.02.2015 questa Corte, sempre in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG, ha accolto ai sensi dei considerandi l’istanza
25/29.01.2015 presentata da RE 1, mediante la quale gli ha ritrasmesso, in copia, la sentenza 3.09.2010 e il relativo verbale del dibattimento 2/3.09.2010 (inc. TPC _), la sentenza 5.09.2011 e il relativo verbale del dibattimento 2.09.2011 (con gli allegati) (inc. TPC _) e infine la sentenza 16.12.2013 e il relativo verbale del dibattimento 16.12.2013 (con gli allegati) (inc. TPC _)
(inc. CRP _).
4.
Con la presente istanza – emendata, su richiesta 12.03.2015 di questa Corte, il 21/26.03.2015 – IS 1 domanda prima di tutto la trasmissione dei verbali d’interrogatorio di _, _, _, _, _, _, _ (recte: _), _ e _ inerenti ai summenzionati procedimenti penali.
A sostegno della sua richiesta il qui istante precisa di essere stato l’imputato principale del processo, di non avere mai avuto la possibilità di visionare i verbali richiesti, sostenendo contestualmente
"
(...) di aver reclamato per la sostituzione dell’Avvocato _ per avermi legato le mani nel primo processo presso la Corte dei reclami penali (inc. _). Per non avermi dato le copie dei verbali del processo con sentenza CARP._
"
(scritto di emendamento 21/26.03.2015, doc. CRP 3).
Postula inoltre la trasmissione, in copia, delle osservazioni del procuratore pubblico Paolo Bordoli e dell’avv. _ e della decisione dell’incarto CRP _, nel frattempo archiviato, in cui questa Corte aveva respinto il suo reclamo 19/24.09.2013 presentato contro la decisione 18.09.2013 emanata dal procuratore pubblico Paolo Bordoli mediante la quale ha rifiutato la sua richiesta di sostituzione del difensore d’ufficio (avv. _) nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _.
5.
Stante l’esito della presente decisione riguardo alla richiesta di trasmissione dei verbali d’interrogatorio in questione, questa Corte ha deciso di non interpellare le relative parti coinvolte.
Per quanto concerne, per contro, l’incarto CRP _ questa Corte non ha interpellato il procuratore pubblico Paolo Bordoli e l’allora difensore d’ufficio del qui istante (avv. _), essendo stato RE 1 legittimato a reclamare in veste di imputato con difesa d’ufficio.
6.
6.1.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
6.2.
Nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di imputato) nei procedimenti penali nel frattempo terminati, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo.
Come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10).
Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
7.
7.1.
Ora, con riferimento alla richiesta del qui istante di ottenere la trasmissione di alcuni verbali d’interrogatorio (cfr., al proposito, considerando 4. della presente decisione), d
al punto di vista dell’interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG e della giurisprudenza di questa Corte, non si può negare a priori un interesse dell’istante, essendo stato parte, in qualità di imputato, dei procedimenti penali di cui agli incarti penali
TPC _, _ e _, nel frattempo archiviati.
A giudizio di questa Corte, nella ponderazione degli interessi delle parti in gioco – in particolare in considerazione del contenuto dei verbali d’interrogatorio richiesti nonché della natura dei reati per i quali l’imputato, qui istante, è stato condannato – non si può ritenere che sia dato un interesse giuridico legittimo (sufficiente) giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG di RE 1 prevalente sui diritti personali delle persone interrogate dinanzi alla Polizia/al Ministero pubblico (di cui il qui istante chiede il relativo verbale). La tutela della sfera privata e personale di queste ultime persone è dunque, in casu, preponderante. Ciò in quanto l’istante è stato (tra l’altro) condannato per ripetuta minaccia, coazione e ripetute vie di fatto. Neppure è pensabile di concedere i verbali con delle limitazioni, considerato che l’istante è stato condannato per ripetuta disobbedienza a decisioni dell’autorità.
Ne discende che l’istanza deve essere respinta in relazione alla richiesta del qui istante di ottenere la trasmissione dei verbali d’interrogatorio in questione.
7.2.
Per quanto concerne, per contro, l’incarto CRP _ giova anzitutto evidenziare che le osservazioni e le dupliche dell’avv. _ rispettivamente del procuratore pubblico Paolo Bordoli così come la sentenza 11.11.2013 (inc. _) sono già state (debitamente) trasmesse al qui istante.
In siffatte circostanze, questa Corte trasmette nuovamente a RE 1 copia della documentazione da lui postulata in questa sede – segnatamente copia delle osservazioni PP 7.10.2013 (doc. CRP 5) e delle osservazioni PP 15/16.10.2013 (doc. CRP 14), copia degli scritti 7/8.10.2013 (doc. CRP 6), 7/8.10.2013 (doc. CRP 7) e 17/18.10.2013 (doc. CRP 15) tutti e tre dell’avv. _, e copia della sentenza 11.11.2013 dell’incarto CRP _ – unitamente alla presente decisione, essendo dato un interesse giuridico legittimo giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG.
8.
L’istanza è parzialmente accolta ai sensi del precedente considerando. Si prescinde dal prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo il qui istante già stato parte ai summenzionati procedimenti penali nel frattempo archiviati. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
ae88a940-2c3b-566a-9dbc-af95cb0d68a1 | in fatto:
che con sentenza dell'11 marzo 2002 il Pretore del Distretto di Bellinzona ha riconosciuto _ autore colpevole di ripetuta mancata opposizione a una pubblicazione punibile (art. 322
bis
CP) per non avere impedito con dolo eventuale, come redattore responsabile del periodico _, che fossero stampati:
nella rivista (che allora appariva cinque volte l'anno) n. _ del _ un articolo (“l mille tentacoli dei fratelli ticinesi – La massoneria influenza di nascosto politica, economia e televisione. Lo Stato sostiene le logge segrete all'insaputa del contribuente. Ecco i nomi degli adepti”) in cui si incolpavano e si rendevano sospetti di condotta disonorevole l'arch. _ e il giornalista _ (pag. 4 a 7);
nella rivista (divenuta nel frattempo bimestrale) n. _ del _ un articolo (“Può riciclarmi 50 milioni? Simulando un traffico di denaro sporco, _ ha contattato 35 fiduciari e avvocati di Lugano. Ecco le loro reazioni”) in cui si incolpava e si rendeva sospetto di condotta disonorevole l'avv. _ (pag. 6 a 9);
nella rivista n. _ del _ un articolo (“Divise avvelenate – Mobbing, favoritismi e giochi di potere. Così nella polizia cantonale ticinese si sprecano i soldi e si bloccano le riforme. _ ha indagato dietro le quinte”) in cui si incolpava e si rendeva sospetto di condotta disonorevole l'ispettore _ (pag. 11 e 12);
che in applicazione della pena il Pretore ha condannato _ a una multa di fr. 1500.–, al pagamento delle spese processuali (fr. 900.– complessivi) e alla rifusione di un'indennità per ripetibili di fr. 3000.– all'arch. _, come pure di fr. 2000.– all'avv. _, respingendo la richiesta di pubblicare il dispositivo della sentenza_ e rinviando le parti civili a far valere le loro pretese davanti al foro competente;
che con sentenza del 30 giugno 1997 questa Corte ha respinto un ricorso presentato da _ contro il giudizio del Pretore, ponendo gli oneri processuali di fr. 900.– a carico del ricorrente, tenuto a rifondere un'indennità per ripetibili di fr. 1500.– all'arch. _, una di fr. 1500.– all'avv. _ e una di fr. 1500.– a _ (inc. 17.2004.24);
che, adito da _ con ricorso per cassazione, il Tribunale federale ha annullato il 17 giugno 2004 la sentenza predetta e rinviato gli atti a questa Corte per nuovo giudizio (sentenza 6S.403/2003);
che ciò ripristina la litispendenza sul piano cantonale;
e considerando | in diritto:
che in caso di rinvio l'autorità cantonale
“
deve porre a fondamento della sua decisione i considerandi di diritto della sentenza di cassazione
”
(art. 277
ter
cpv. 2 PP);
che nella fattispecie il Tribunale federale ha deciso doversi concedere al responsabile di un mezzo d'informazione, il quale non impedisca intenzionalmente o per negligenza una pubblicazione costitutiva di reato (art. 322
bis
CP), la prova della verità o – ove questa non riuscisse – una prova liberatoria della buona fede, in analogia con il dettato dell'art. 173 n. 2 CP
(sentenza citata, consid. 1.7 e 1.8);
che per quanto riguarda la prova della buona fede, in particolare, incombe al Procuratore pubblico dimostrare che l'accusato ha disatteso un dovere di diligenza idoneo a mettere in luce – se il dovere fosse stato rispettato – la punibilità della pubblicazione, mentre l'accusato va ammesso a dimostrare di avere
ritenuto vere le affermazioni incriminate
“
senza commettere imprevidenza colpevole
”, ovvero senza avere
trascurato le precauzioni di vigilanza redazionale cui egli era ragionevolmente tenuto secondo le circostanze e la sua situazione personale (sentenza citata, loc. cit.);
che a tal fine entrano in considerazione il mezzo di comunicazione usato, i rischi specifici connessi all'uso del mezzo e il grado di fiducia che il responsabile del mezzo di comunicazione può riporre nella correttezza dei suoi collaboratori (sentenza citata, loc. cit.);
che in concreto il carattere diffamatorio degli articoli apparsi _ è fuori discussione (non è stato contestato nemmeno davanti al Tribunale federale), così com'è assodato che già davanti al primo giudice il ricorrente aveva ammesso di avere pubblicato i testi ricevuti senza procedere ad alcuna verifica (sentenza del Pretore, consid. 9);
che nelle condizioni descritte occorre dunque ammettere l'imputato a provare la verità di quanto pubblicato, rispettivamente a provare di avere avuto seri motivi di considerare vero in buona fede il contenuto delle pubblicazioni;
che per compiere un apprezzamento del genere occorre valutare –da un lato– le prove recate dal Procuratore pubblico e –dall'altro– i mezzi liberatori addotti dall'imputato;
che la Corte di cassazione e di revisione penale è abilitata a statuire essa medesima nel merito, nondimeno, solo
“
quando ha sufficienti elementi per il nuovo giudizio
”
(art. 296 cpv. 1 CPP);
che ciò non è il caso nella fattispecie, l'imputato dovendo ancora essere ammesso a dimostrare la verità di quanto pubblicato, rispettivamente di non avere pubblicato i testi diffamatori per imprevidenza colpevole;
che, di conseguenza, gli atti vanno rinviati in prima sede perché l'imputato possa addurre i propri mezzi di prova e perché un nuovo giudizio sia emanato tenendo conto altresì di tali risultanze;
che le Preture distrettuali non avendo più competenze in materia, la causa va trasmessa in tale prospettiva alla Pretura penale;
che la sentenza del Tribunale federale impone anche una nuova decisione sugli oneri processuali, la sentenza del Pretore dovendo essere annullata;
che la cassazione di tale sentenza era quanto chiedeva il condannato nel suo memoriale del 10 aprile 2002 a questa Corte, onde la necessità di accogliere quel ricorso;
che, dandosi accoglimento del ricorso, gli oneri del giudizio vanno posti a carico dello Stato, poco importando che davanti a questa Corte l'arch. _, l'avv. _ e _ proponessero di respingere l'impugnazione (art. 15 cpv. 2 CPP);
che l'arch. _, l'avv. _ e _ vanno tenuti invece a rifondere al ricorrente un'equa indennità per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP), il reato dell'art. 322
bis
CP potendo essere perseguito d'ufficio solo ove sia stato previamente querelato l'autore della pubblicazione punibile, rimasto ignoto o non perseguibile in Svizzera (sentenza del Tribunale federale, consid. 2.3), sicché i tre vanno assimilati a resistenti privati; | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
aea50509-4fbc-5e2b-ab50-b6ed3a5b6aa0 | in fatto ed in diritto
che a seguito del rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria allestito il 16.06.2011 (da cui emerge in particolare che la Polizia cantonale è stata incaricata da parte dell’Ufficio di migrazione di esaminare la residenza dei coniugi PI 2 e PI 3), in data 19.09.2011 il procuratore pubblico Valentina Tuoni ha emanato un decreto di non luogo a procedere a carico di PI 2 per le ipotesi di reato di minaccia e di coazione ai danni di PI 3 (NLP _ – inc. MP _), avverso il quale
non è stato presentato reclamo a questa Corte giusta i combinati art. 310 cpv. 2 e 322 cpv. 2 CPP
;
che lo stesso giorno il procuratore pubblico, sempre in relazione al suddetto rapporto d’inchiesta, ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 2 siccome ritenuto colpevole, tra l’altro, di vie di fatto ai danni di sua moglie PI 3 (DA _ – inc. MP _ e MP _);
che il predetto decreto è cresciuto in giudicato il 20.10.2011 (AI 3 – inc. MP _);
che
con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte
– il IS 1 chiede di poter visionare ed acquisire agli atti il DA _ e il NLP _ del 19.09.2011 inerenti a PI 2, e ciò a completazione del ricorso 29.09.2011 presentato da PI 3;
che a suffragio della sua richiesta richiama l’art. 5 cpv. 2 LALPS, gli art. 97 cpv. 2 e 3 LStr e l’art. 82 OASA, precisando parimenti che i documenti richiesti sarebbero necessari per decidere in merito al permesso di dimora di PI 3, moglie di PI 2, in applicazione dell’art. 50 LStr;
che con l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che
nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti dall’istante e la finalità della sua richiesta, ritenuti inoltre in particolare l’art. 50 LStr (inerente allo scioglimento della comunità familiare), l’art. 97 LStr (inerente all’assistenza amministrativa e alla comunicazione di dati) e l’art. 5 cpv. 1 LALPS (secondo cui
le autorità amministrative e giudiziarie cantonali nonché i Comuni, anche se vincolati dal segreto d’ufficio, comunicano gratuitamente, su richiesta scritta e motivata dell’autorità, quelle informazioni che nel caso concreto risultano utili e necessarie per la corretta applicazione della LALPS e delle normative concernenti le persone straniere) e considerati infine il contenuto del procedimento penale di cui all’incarto MP _
nel frattempo archiviato – è pacifico l’interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG dell’istante ad ottenere copia
del decreto di non luogo a procedere 19.09.2011, che prevale sugli interessi personali di PI 2 e di PI 3, poiché potrebbe essere effettivamente utile ai fini delle sue incombenze dovendo decidere sul ricorso presentato il 29.08.2011 da PI 3 in merito al suo permesso di dimora;
che per quanto attiene al decreto di accusa 19.09.2011 (DA _) va evidenziato che il medesimo concerne anche un’altra fattispecie e un altro incarto (inc. MP _) che esula dalla presente richiesta;
che in siffatte circostanze il decreto di non luogo a procedere 19.09.2011 (NLP _) e il decreto di accusa 19.09.2011 (DA _) limitatamente alle vie di fatto (ndr: viene quindi cancellato l’altro reato per cui è stato condannato PI 2) emanati dal procuratore pubblico Valentina Tuoni vengono trasmessi, in copia, all’autorità istante unitamente
alla presente decisione;
che questa Corte autorizza inoltre _, collaboratrice del Servizio dei ricorsi del Consiglio di Stato, ad esaminare presso il Ministero pubblico gli atti dell’incarto MP _, concordando i tempi di accesso con il procuratore pubblico Valentina Tuoni; la stessa è, se del caso, autorizzata a fotocopiare i documenti utili ai fini delle sue incombenze;
che
l’istanza è accolta ai sensi delle suddette considerazioni;
che vista la natura della richiesta, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
aeed0aa5-f6fa-5d1d-bd47-988bf10209c0 | in fatto: A.
Il 30 novembre 1999 la polizia cantonale ha sequestrato nel negozio _ di _, per ordine del Procuratore pubblico, numerosi sacchetti contenenti marijuana, svariate piante di canapa e altro. Le analisi hanno consentito di accertare che il sequestro riguardava complessivamente 18'786.67 g di marijuana (con tenore THC variante tra il 10.2 e il 20.8%), 95.06 g di “hash + polline” e una decina di grammi di resina di hashish. Durante l'inchiesta _ ha dichiarato di essersi occupata – nei mesi in cui ha lavorato presso il negozio, proprietà di _ – delle vendite della canapa e dei suoi derivati, sapendo che la quasi totalità degli acquirenti usava il contenuto delle confezioni come prodotto da fumo. Sua figlia _ curava la preparazione dei sacchetti, mentre lei stessa scriveva a mano le etichette inserite poi nelle confezioni, sulle quali figuravano avvertenze come “vietato l'uso esterno, vietata l'esportazione ecc”. _ ha stimato in circa fr. 1'000.– la cifra di affari media giornaliera del commercio.
B.
Con decreto di accusa del 6 marzo 2000 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autrice colpevole di violazione della legge federale sugli stupefacenti per avere, in qualità di commessa nel negozio _, proprietà di _ e della figlia _, ripetutamente venduto a un numero indeterminato di persone, tra cui alcuni minorenni, una quantità considerevole di marijuana, riscuotendo uno stipendio mensile di fr. 2'000.–. Egli ne ha proposto perciò la condanna a 20 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente con un periodo di prova di due anni. Statuendo il 29 maggio 2001 su opposizione, il presidente della Corte delle assise correzionali di Mendrisio ha confermato l'imputazione, salvo assolvere l'imputata dall'accusa di avere consapevolmente venduto canapa o suoi derivati a minorenni. In applicazione della pena, egli ha pronunciato una condanna a 15 giorni di detenzione (computato il carcere preventivo sofferto), sospesi condizionalmente con un periodo di prova di due anni.
C.
Contro la sentenza di assise _ ha inoltrato il 5 giugno 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 9 luglio successivo, essa chiede la sua completa assoluzione o quanto meno, in subordine, l'esenzione da ogni pena (art. 66
bis
cpv. 1 CP). Il Procuratore pubblico ha comunicato il 16 luglio 2001 di non avere particolari osservazioni da formulare, limitandosi a proporre di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
La ricorrente si duole di una violazione dell'art. 20 CP. Ora, l'art. 20 CP abilita il giudice ad attenuare la pena secondo il suo libero apprezzamento (art. 66 CP) o a prescindere da ogni pena se l'agente ha avuto ragioni sufficienti per credere che l'atto fosse lecito. L'errore (in diritto) può essere invocato, secondo giurisprudenza, da chi ha avuto ragionevole motivo di ritenere che non stesse compiendo alcun illecito e non soltanto un'azione non punibile dal profilo penale (DTF 104 IV 217 consid. 2, 98 IV 293 consid. 4a). “Ragioni sufficienti” sussistono, in altri termini, solo quando l'autore vada esente da ogni rimprovero, essendosi fondato su motivi che avrebbero indotto in errore anche una persona coscienziosa (DTF 104 IV 217 consid. 3a, 98 IV 303). E ciò perché è compito della persona confrontata con situazioni poco chiare – ha precisato il Tribunale federale – assumere informazioni affidabili, dandosene il caso con l'ausilio di un legale (DTF 98 IV 293 consid. 4a). Non vi è spazio per l'errore, ad esempio, quando l'autore ha dubitato o avrebbe dovuto dubitare della liceità del suo comportamento (DTF 121 IV 105 consid. 5, 120 IV 208 consid. 5a, 104 IV 217 consid. 3a) o quando egli sa dell'esistenza di una norma di legge, ma non si cerziora sul suo contenuto e sulla sua portata (DTF 120 IV 208 consid. 5a).
2.
Quel che l'autore di un reato sa o non sa, quello che vuole o l'eventualità cui egli consente è un problema legato all'accertamento dei fatti (DTF 121 IV e 92 consid. 2b con rinvii). Il ricorso per cassazione è invece un rimedio di mero diritto (art. 288
cpv. 1 lett. a e 295 CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove possono essere rimessi in discussione solo se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c PP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (DTF 126 I 208 consid. 4, 174 consid. 2g, 125 I 168 consid. 2a).
3.
Il presidente della Corte d'assise ha richiamato anzitutto la sentenza pubblicata in DTF 126 IV 60, secondo cui la vendita di fiori di canapa è punibile a norma dell'art. 19 n. 1 LStup se lo scopo è quello di estrarre stupefacenti, condizione data quando l'agente sa che la canapa sarà usata come droga e, ciò nonostante, la vende, accettando che sia utilizzata a tale scopo. A suo giudizio l'accusata si è resa colpevole di ciò e ha agito quindi intenzionalmente, poiché era consapevole che nella maggior parte dei casi il contenuto dei sacchetti da lei venduti (marijuana) veniva fumato dagli acquirenti. Il primo giudice ha poi escluso l'errore di diritto invocato dall'imputata, già per il fatto che essa medesima aveva scritto le etichette inserite nei sacchetti. La circostanza che l'autorità inquirente non fosse ancora intervenuta in tutti i negozi di “canapai” sparsi nel Ticino e che l'Ufficio regionale di collocamento di _ avesse recentemente offerto a _ (figlia dalla ricorrente) un impiego presso un negozio di prodotti derivati da canapa – ha soggiunto la prima corte – non legittimava ancora l'accusata a ritenere che il commercio praticato dal _ fosse lecito. Nemmeno il fatto che all'epoca fosse già in corso la discussione attorno alla liceità delle droghe leggere – sempre secondo il presidente della Corte – è rilevante. Se mai, proprio per tale motivo, una persona coscienziosa non poteva essere certa che la messa in circolazione di prodotti simili fosse lecita e rinunciare ad assumere precise informazioni prima di passare al commercio (sentenza, pag. 5).
4.
La ricorrente sostiene che il contesto in cui essa esercitava la sua attività di venditrice poteva ragionevolmente indurla a ritenere lecita, o per lo meno tollerata, la vendita della canapa, ove si considerino i numerosi negozi aperti nel Cantone, per altro con debita autorizzazione municipale, che per anni hanno liberamente esercitato il loro commercio. L'argomentazione non può essere condivisa. La ricorrente non poteva infatti dare per scontata la liceità del proprio comportamento solo perché altri “cana-pai” non venivano perseguiti. L'art. 20 CP non tutela la parità di trattamento nell'illegalità. Del resto, la ricorrente medesima ha riconosciuto di avere personalmente confezionato le etichette inserite nei sacchetti, ove figurava un “divieto di uso esterno” (sentenza, pag. 4 e 5), e ha ammesso di avere venduto anche le cartine che servivano per confezionare le sigarette, fossero queste di marijuana o di tabacco (act. 2, pag. 3). In circostanze del genere era suo dovere agire con cautela, eventualmente chiedendo consiglio a uno specialista, ma non fidarsi di opinioni generiche o dell'impunità riservata – a suo giudizio – ad altri canapai. Come si è spiegato, l'errore (in diritto) è escluso quando l'interessato abbia sufficienti ragioni per ritenere di compiere un illecito; confidare soltanto sulla non punibilità dell'azione non basta (DTF 98 IV 303, 120 IV 215). Nella fattispecie l'imputata ha agito avventatamente, senza approfondire alcunché. A torto essa insiste pertanto nell'attenuante prevista dall'art. 20 CP.
5.
Ricordati i dibattiti e le discussioni attorno alla canapa e ai suoi derivati, segnatamente i pareri che ne auspicavano la liberalizzazione, la ricorrente sottolinea che proprio in tale ambito i “canapai” hanno potuto non solo esercitare legalmente la loro attività, ma ottenere anche nuove autorizzazioni dalle autorità amministrative. Essa non aveva perciò alcun motivo per ritenere illecito il suo lavoro. In realtà la ricorrente tenta però di equivocare sui termini, giacché essa non è stata perseguita per avere venduto canapa in quanto tale, ma per avere venduto confezioni a base di canapa ben sapendo che il relativo contenuto sarebbe stato usato da quasi tutti i compratori come stupefacente (marijuana). Nessun esperto degno di fede le avrebbe mai assicurato la liceità di un comportamento siffatto. Anche su questo punto il ricorso è perciò destinato all'insuccesso.
6.
La ricorrente fa notare che nel maggio del 1999 un certo _ ha perpetrato un furto nel negozio _, sottraendo anche sacchetti di canapa (act. 8 prodotto al dibattimento). Tale refurtiva è poi stata riportata nel negozio dalla polizia senza che fosse preso alcun provvedimento nei confronti del gestore. La ricorrente deplora poi che in seguito al suo arresto la figlia _, pure attiva nel negozio, sia rimasta disoccupata e che, annunciatasi all'Ufficio di collocamento di _, si sia vista prospettare un impiego proprio quale venditrice in un negozio in cui venivano venduti derivati dalla canapa. In circostanze del genere – conclude la ricorrente – la tolleranza dello Stato era evidente. Per tacere del fatto che, pur essendo entrata più volte nel suo negozio, la polizia non aveva mai riscontrato irregolarità, che – anzi – al dibattimento è stata prodotta una fotografia in cui figura un agente di polizia in pacata discussione dinanzi al “canapaio” situato proprio dirimpetto al suo, che nella vetrina di in tale negozio si pubblicizza da tempo la vendita di “sacchetti profumati”, come essa aveva segnalato al Procuratore pubblico con scritto del 16 febbraio 2000 (act. 2 prodotto dibattimento), e che lo stesso negozio è tuttora aperto.
La doglianza è destinata all'insuccesso. Certo, fosse vero quanto la ricorrente afferma, l'operato del Procuratore pubblico apparirebbe a dir poco unilaterale. Già si è accennato al fatto però che l'art. 20 CP non tutela la parità di trattamento nell'illegalità (sopra, consid. 4). Giovi aggiungere ora che una simile protezione non discende nemmeno dall'art. 5 cpv. 1 Cost., implicitamente evocato nel ricorso. La mancata o errata applicazione della legge in casi analoghi, in altri termini, non dà al cittadino il diritto a un identico trattamento, salvo che l'autorità manifesti l'intenzione di continuare poi come prima, rifiutando di abbandonare la sua prassi illegale (
Weber-Dürler,
Rechtsgleichheit,
in: Thürer/
Aubert/Müller, Verfassungsrecht der Schweiz, Zurigo 2001, pag. 667, n. 22 con richiami di giurisprudenza). Nella fattispecie nemmeno l'interessata pretende che il Procuratore pubblico la persegua per violazione dell'art. 19 n. 1 LStup, manifestando però l'intenzione di tornare dopo di allora a una situazione di generalizzata tolleranza. Il richiamo alla parità di trattamento nell'illegalità si rivela pertanto infruttuoso. E se il richiamo alla parità di trattamento nell'illegalità si rivela infruttuoso, rimane solo l'errore di diritto (
Grisel
, Traité de droit administratif, Neuchâtel 1984, vol. I, pag. 363, n. 2 lett. b e d), che però in concreto non sussiste, come si è già spiegato.
7.
La ricorrente rimprovera inoltre al presidente della Corte di avere violato l'art. 66
bis
cpv. 1 CP per non averla esentata da pena, l'umiliante e degradante carcere preventivo cui essa è stata sottoposta nelle celle pretoriali di _ avendole causato finanche scompensi psichici. Ora, l'art. 66
bis
cpv. 1 CP prevede che se l'agente è stato così duramente colpito dalle conseguenze dirette del suo atto che una pena risulterebbe inappropriata, l'autorità competente prescinde dal procedimento penale, dal rinvio a giudizio o dalla punizione. La norma è disattesa ove non sia applicata sebbene una colpa lieve abbia comportato pesanti conseguenze dirette per l'autore o, inversamente, ove sia applicata sebbene una colpa grave abbia comportato per l'autore solo conseguenze lievi. In tutti gli altri casi il giudice deve ponderare le circostanze del caso specifico e dispone quindi di un ampio potere di apprezzamento (DTF 121 IV 162 consid. 2d, 119 IV 280 consid. 1a, 117 IV 245 consid. 2a; DTF inedita del 14 novembre 1994 in re P., consid. 2a). La Corte di cassazione e di revisione penale – come il Tribunale federale – interviene soltanto, in proposito, ove giudice di merito si sia ispirato a criteri senza pertinenza oppure, pur ispirandosi a criteri pertinenti, abbia abusato o ecceduto del proprio apprezzamento (DTF 117 IV 248; CCRP, sentenza del 12 luglio 1994 in re D. e coimputati consid. 15a). Per quanto riguarda le conseguenze dirette dell'atto, si tratta di quelle che subentrano alla commissione del reato o che sono strettamente connesse alla perpetrazione dell'illecito (
Stratenwerth
, Schweizerisches Strafrecht, Teilrevisionen 1987 bis 1990, § 1 n. 7). Ciò è il caso, ad esempio, quando l'autore si ferisca gravemente nel tentativo di appiccare un incendio, oppure con l'uso improprio di esplosivi o in esito a un incidente stradale di cui è responsabile (
Stratenwerth
, loc. cit.; v. anche
Trechsel
, Kurzkommentar zum StGB, 2a edizione, n. 2 ad art. 66
bis
).
Nella fattispecie il primo giudice ha escluso l'applicazione dell'art. 66
bis
cpv. 1 CP già per il fatto che il dichiarato trauma psichico conseguente all'arresto dell'accusata e alla carcerazione preven-tiva (act. 3 e 5 prodotti al dibattimento) non è una conseguenza diretta dell'infrazione alla legge federale sugli stupefacenti. Delle pretese turbe psichiche denotate dalla ricorrente dopo il fermo – durato una sola notte – egli ha tenuto conto, in ogni modo, nel quadro dell'art. 63 CP (sentenza, pag. 6). Ciò sfugge alla critica. L'angoscia e i sentimenti di umiliazione patiti di fronte alla sporcizia riscontrata nella cella e l'agitazione che avrebbero pervaso l'accusata per dover trascorrere la notte in condizioni igieniche precarie non sono la conseguenza
immediata
della commissione del reato. A torto la ricorrente richiama perciò la sentenza apparsa in DTF 121 IV 162. In quel caso l'autore era stato colpito dalla polizia con armi da fuoco durante la liberazione di un ostaggio, riportando conseguenze gravi e permanenti per il suo stato di salute. Nel caso in esame il preteso trauma non è conseguenza diretta dell'illecito per il quale la ricorrente è stata condannata, ma dell'ordine di carcerazione preventiva. Per di più, se è vero che la ricorrente ha risentito delle deplorevoli condizioni sanitarie in cui si trovava la cella a _, non risulta dagli atti invece che essa abbia subito traumi psichici particolari. Considerando la sofferenza dovuta al carcere preventivo nel solo quadro dell'art. 63 CP, la prima Corte non ha perciò ecceduto o abusato del proprio potere di apprezzamento (DTF 121 IV 162 consid. 2d). Anche su questo punto il ricorso manca perciò di consistenza.
8.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 in relazione con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
af48b329-c4c5-58f1-a3b8-c2ee7634f639 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito della segnalazione _ da parte di PI 2 in relazione ai fatti accaduti la stessa notte, a _, apparentemente ai suoi danni, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato, per insufficienza di prove, dapprima nel decreto di non luogo a procedere (non motivato) 26.02.2007 a favore di _ e di _
per le ipotesi di reato di violenza carnale e favoreggiamento (NLP _) rispettivamente nel decreto di non luogo a procedere (non motivato) 26.02.2007 a favore di _ per l’ipotesi di reato di violenza carnale (NLP _).
A seguito dello scritto 8/9.03.2007 della madre della presunta vittima inviato al Ministero pubblico – da intendersi quale richiesta di motivazione delle citate decisioni – in data 30.03.2007 l’allora procuratore pubblico Luca Maghetti ha motivato i summenzionati decreti in un unico decreto (motivazione dei decreti di non luogo a procedere 30.03.2007, NLP _ – NLP _).
In data 14.05.2007 l’allora Camera dei ricorsi penali ha stralciato dai ruoli l’istanza di promozione dell’accusa ai sensi del previgente art. 186 CPP TI 5/6.04.2007 presentata da PI 2 avverso il predetto decreto motivato, non avendo corretto, in lingua italiana, il suo gravame entro il termine assegnatole (inc. CRP _).
Il decreto motivato 30.03.2007 (NLP _ – NLP _) è dunque passato in giudicato.
2.
Con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – la sezione aiuto alle vittime della IS 1 (di seguito IS 1) domanda l’autorizzazione ad ottenere la trasmissione degli atti istruttori del summenzionato procedimento penale, nel frattempo archiviato, allegando parimenti la relativa procura rilasciata da PI 2. A sostegno della sua richiesta precisa che PI 2 ha presentato un’istanza per ottenere delle prestazioni in base alla LAV, sostenendo di essere stata vittima di una violenza carnale nell’anno _ a _.
3.
Questa Corte ha rinunciato ad interpellare le altre parti del procedimento penale, nel frattempo archiviato, essendo PI 2 stata parte (in qualità di presunta vittima) al medesimo.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
La IS 1 del Canton _ si occupa delle mansioni che le sono state attribuite tramite la legge e le risoluzioni concrete del potere legislativo ed esecutivo. Ha in particolare il compito di occuparsi di problemi in ambito sociale, tra cui anche l’aiuto alle vittime. La sezione aiuto alle vittime (_) è competente per l’esecuzione della LAV e decide, tra l’altro, le richieste in ambito d’indennizzo e di riparazione morale presentate dalla vittima oppure dal suo rappresentante legale (cfr. _).
5.2.
Nella fattispecie in esame – visti in particolare le mansioni attribuite alla IS 1, il contenuto e l’esito del procedimento penale, nel frattempo archiviato, in cui PI 2 era vittima e si era costituita parte civile ai sensi del previgente CPP TI, e ritenuto inoltre che quest’ultima ha presentato un’istanza di prestazioni ai sensi della LAV alla IS 1 – appare dato un interesse giuridico di PI 2 rispettivamente dell’autorità istante ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG che prevale sui diritti personali delle altre persone coinvolte, ad ottenere la trasmissione, in copia, degli atti istruttori degli incarti in questione.
In effetti, i documenti ivi presenti [in particolare il rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 20.02.2007 e la motivazione dei decreti di non luogo a procedere 30.03.2007 (NLP _ – _)] sono indubbiamente utili alla IS 1 per decidere sull’istanza presentata da PI 2 riguardo ai fatti accaduti, a _, il _.
Di conseguenza, gli atti istruttori dell’incarto NLP _ e gli atti istruttori dell’incarto NLP _ vengono trasmessi, in copia, all’autorità istante unitamente alla presente decisione.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Considerato che PI 2 si è costituita parte civile ai sensi del previgente CPP TI al procedimento penale in questione, nel frattempo archiviato, e stante inoltre la natura della richiesta, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
af4a8d03-ec81-55d0-af10-92acc31c0e8a | in fatto:
A.
Con decreto di accusa del 4 agosto 2004 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di danneggiamento, violenza contro funzionari e ubriachezza molesta per fatti avvenuti a Lugano il 3 luglio 2004. Nei confronti di lui egli ha proposto la condanna a 5 giorni di detenzione da espiare, la revoca della sospensione condizionale a una pena di 15 giorni di detenzione decretata dal Ministero pubblico il 13 maggio 2004 e la proroga di un anno della sospensione condizionale relativa a una pena di 20 giorni di detenzione decisa il 13 aprile 2004 dall'
Untersuchungsrichteramt
III Bern-Mittelland
. La parte civile _ è stata rinviata a far valere le sue pretese davanti al foro competente. Il decreto di accusa è stato intimato per raccomandata al domicilio del destinatario il 4 agosto 2004. Il 6 settembre successivo il Ministero pubblico ha attestato il passaggio in giudicato del decreto.
B.
Il 7 settembre 2004 è giunta al Ministero pubblico una lettera del 3 settembre 2004 (spedita il 6 settembre) in cui _ dichiarava di formulare opposizione al decreto di accusa. Con sentenza del 21 ottobre 2004 il giudice della Pretura penale ha dichiarato l'opposizione irricevibile siccome tardiva. Contro tale sentenza l'accusato è insorto con ricorso del 15 novembre 2004 alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendo che la sua opposizione sia dichiarata tempestiva e che la sentenza impugnata sia annullata. Nelle sue osservazioni del 23 novembre 2004 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente fa valere di avere trovato la comunicazione postale che lo invitava a ritirare il plico raccomandato contenente il decreto di accusa il 16 agosto 2004, al rientro delle sue vacanze in Spagna, ma di non avere potuto darvi seguito perché la raccomandata era già stata rinviata al mittente. Il giudice della Pretura penale ha trascurato – egli sottolinea – che sul retro dell'ultima pagina del decreto di accusa non figura solo il timbro “intimazione a mezzo raccomandata” con la data del 4 agosto 2004, ma anche una successiva indicazione “intimazione a mezzo posta B”, con la data del 20 agosto 2004, attestata dallo stesso Ministero pubblico (act. 2 annesso al ricorso). Spettava al Ministero pubblico precisare – ove ciò fosse – che tale seconda spedizione costituiva un mero invio per conoscenza. Nel dubbio, la sua opposizione del 6 settembre 2004 al decreto di accusa trasmessogli per
“
posta B
”
il 20 agosto 2004 va ritenuta tempestiva.
2.
Secondo l'art. 7 CCP l'intimazione delle sentenze e degli atti del processo penale avviene per invio postale o per mezzo di usciere o della polizia (cpv. 1), in applicazione analogica delle disposizioni del Codice di procedura civile (cpv. 2). Di regola, una notificazione avviene dunque per invio raccomandato, con o senza ricevuta di ritorno, in conformità con i regolamenti postali (art. 124 cpv. 1 CPC). Alle persone domiciliate nel Cantone la notifica avviene mediante consegna dell'atto al destinatario, nel luogo in cui esso dimora o svolge la sua attività, oppure al suo rappresentante; in caso di assenza il plico è rimesso a una persona adulta della sua famiglia o a un suo impiegato (art. 120 CPC).
3.
In DTF 127 I 31 consid. aa pag. 34 il Tribunale federale ha avuto modo di ricordare che una decisione spedita per raccomandata si ritiene notificata al destinatario nel momento della consegna effettiva oppure, se l'invio non è recapitato a domicilio né ritirato alla posta, l'ultimo dei sette giorni utili durante i quali il plico rimane depositato all'ufficio postale, sempre che il destinatario dovesse prevedere la notifica (cfr. anche DTF 123 II 492 consid. 1 pag. 493). Il termine di giacenza previsto dall'art. 169 cpv. 1 lett. d ed e dell'ordinanza (1) delle legge sul servizio delle poste del 1° settembre 1997 è stato invero abrogato con l'entrata in vigore dell'art. 13 dell'ordinanza delle poste, del 29 ottobre 1997 (OPA). Il termine di giacenza di sette giorni è stato ripreso però nelle condizioni generali
“
Servizi postali
”
(010.01 it, rif. 142713, edizione gennaio 2004, cifra 2.3.7 lett. b). Conserva perciò tutti i suoi effetti (DTF 127 I 131 consid. 2b pag. 34; CCRP, sentenza del 27 marzo 2003 in re S., consid. 3).
4.
Nella fattispecie non è contestato che il plico contenente il decreto di accusa, in cui figuravano indicati i rimedi di diritto, è stato spedito per raccomandata dal Ministero pubblico al domicilio del destinatario, a _, il 4 agosto 2004 ed è stato rinviato al mittente dalla posta il 17 agosto 2004, decorso infruttuoso il periodo di giacenza. Che l'accusato dovesse attendersi sviluppi dal procedimento penale a suo carico è altrettanto pacifico (sentenza impugnata, pag. 3). L'intimazione del decreto di accusa è avvenuta perciò il settimo e ultimo giorno di giacenza, giovedì 12 agosto 2004. Introdotta il 6 settembre successivo, l'opposizione in esame è perciò manifestamente tardiva, il termine di 15 giorni per impugnare il decreto di accusa (art. 208 cpv. 1 lett. e CP) essendo scaduto nel frattempo, e ciò anche volendo individuare l'ultimo giorno utile nel 17 agosto 2004, allorché il plico è stato ritornato al mittente.
5.
Resta il fatto che, come risulta dall'esemplare del decreto di accusa allegato al ricorso, il Ministero pubblico ha ripetuto l'invio al destinatario per
“
posta B
”
non appena il plico raccomandato gli è stato rinviato dall'ufficio postale, tant'è che sul retro del decreto figura, barrato, il timbro dell'intimazione per raccomandata del 4 agosto 2004, sostituita dalla menzione manoscritta
“
intimato per posta B
”
con accanto il timbro 20 agosto 2004. E all'intimazione per
“
posta B
”
il destinatario ha poi reagito, come si è visto, con l'opposizione del 3 settembre 2004, spedita il 6 settembre successivo. Nel trasmettere gli atti alla Pretura penale, il Procuratore pubblico ha eccepito la tardività dell'opposizione, sostenendo che il rinvio del decreto di accusa al destinatario per
“
posta B
” il
20 agosto 2004 era una semplice ulteriore spedizione per conoscenza. Così argomentando, egli dimentica però che il decreto giunto all'accusato non recava la dicitura
“copia
per informazione
”, “copia per conoscenza” o un'avvertenza analoga
(v.
Donzallaz
, La notification en droit interne suisse, Berna 2002, pag. 555 n. 1172)
, bensì il formale attergato “intimazione per posta B”
, che poteva essere interpretato solo come una nuova notifica. Del resto, l'intimazione di un atto giudiziario è valida anche per posta semplice, sempre che l'atto entri in possesso del destinatario.
6.
È vero che il mancato ritiro di un plico raccomandato da parte del destinatario entro i sette giorni di giacenza alla posta non dà diritto a una seconda intimazione, la quale equivarrebbe a una proroga del termine di ricorso (
Donzallaz
, op. cit., pag. 553 n. 1168). Diversa sarebbe la situazione ove una seconda intimazione fosse prevista dalla legge (ciò che non è il caso nel Ticino) o se la prima notifica fosse risultata infruttuosa per motivi non imputabili al destinatario (ciò che nella fattispecie appare per lo meno dubbio). Comunque sia, la regola secondo cui una nuova notifica non comporta un nuovo termine di ricorso trova i suoi limiti nel precetto dell'affidamento (
Donzallaz
, op. cit. n. 1170 pag. 554; DTF 115 Ia 20). E nel caso specifico il ricorrente non aveva motivo per credere che la modifica manoscritta apposta dal Ministero pubblico all'attergato figurante sul decreto di accusa fosse priva di valore. Da questa risultava che il Procuratore pubblico aveva scelto egli medesimo la via della seconda notifica per
“
posta B
”
. Un non giurista come il ricorrente non poteva interpretarla altrimenti. Si ripete: avesse il Ministero pubblico inteso procedere al semplice invio di una copia per conoscenza, avrebbe dovuto indicare le proprie intenzioni senza ambiguità (
Donzallaz
, op. cit., pag. 555 n. 1173 con riferimento a RDAF 1983 pag. 319).
7.
Se ne conclude che nelle circostanze descritte il ricorso va accolto, la sentenza impugnata annullata e gli atti ritornati al giudice della Pretura penale perché statuisca sul merito dell'opposizione. Non occorre demandare la causa a un magistrato diverso (art. 296 cpv. 2 CPP), il primo giudice non essendo entrato ancora – appunto – nel merito dell'opposizione formulata dal ricorrente (CCRP, sentenze del 26 novembre 2003 in re C., consid. 5 e del 4 settembre 2003 in re B., consid. 5). Gli oneri del giudizio odierno sono posti a carico dello Stato (art. 15 cpv. 2 CPP), che rifonderà al ricorrente, il quale ha presentato ricorso avvalendosi di un legale, un'indennità di fr. 800.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
af9f47d0-c264-5437-9ae4-ad8be420bd2d | in fatto: A.
Con sentenza dell'11 aprile 1997 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 6, ha sciolto per divorzio il matrimonio contratto il 10 ottobre 1989 da _ e _. A _ è stato imposto il versamento di fr. 3'000.-- a titolo di contributo alimentare in favore di _ fino al 30 aprile 1999. Tale sentenza è stata confermata il 14 dicembre 1998 dalla I Camera civile del Tribunale di appello. Il 13 luglio 1998 _ ha inoltrato allo stesso Pretore una petizione con la quale ha chiesto la soppressione del contributo alimentare per l'ex moglie, asserendo – tra l'altro – che essa conviveva in modo duraturo con _. Sentito come teste nell'ambito di quella causa, il 16 dicembre 1998 _ ha dichiarato che visitava e rimaneva presso l'amica 3 o 4 volte la settimana. _ è stata sottoposta dal Pretore il 21 gennaio 1999 all'interrogatorio formale. Rispondendo alla domanda n. 42, essa ha negato che _ abitasse in maniera duratura e ininterrottamente nel suo appartamento, precisando che egli veniva da lei 2 o 3 sere per settimana.
B.
Con decreti di accusa del 20 aprile 1999 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di falsa testimonianza e _ di dichiarazione falsa di una parte in giudizio, condannandoli entrambi a 15 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per 2 anni. Statuendo su opposizione, con sentenza del 5 ottobre 1999 il Pretore del Distretto di Lugano ha prosciolto _ dall'accusa, mentre nei confronti di _ ha confermato sia l'imputazione che la pena irrogata con il decreto di accusa.
C.
L'8 ottobre 1999 _, costituitosi parte civile, ha inoltrato alla Corte di cassazione e di revisione penale una dichiarazione di ricorso contro il proscioglimento di _, chiedendo nella motivazione scritta del 15 novembre 1999 che costui sia riconosciuto colpevole di falsa testimonianza e condannato ai sensi del decreto di accusa. Egli postula inoltre la rifusione di fr. 19'444.50 o quanto meno, in subordine, il rinvio degli atti al primo giudice perché statuisca sulle pretese civili. Con scritti del 5 e del 13 dicembre 1999 il Procuratore pubblico e _ hanno comunicato di rinunciare a osservazioni, mentre _ ha proposto il 14 dicembre 1999 di respingere il ricorso.
D.
_ ha presentato a sua volta, l'11 ottobre 1999, una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale contro la sentenza di condanna e nella motivazione scritta del 16 novembre 1999 conclude per il suo proscioglimento, subordinatamente per la riduzione della pena a una multa di fr. 100.– e in via ancor più subordinata per il rinvio degli atti al primo giudice affinché statuisca di nuovo. Non sono state presentate osservazioni a tale ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
I. Sul ricorso della parte civile
2.
Dalla sentenza impugnata risulta che al dibattimento l'accusato _ ha precisato la sua deposizione del 16 dicembre 1998 in cui aveva affermato di recarsi e di rimanere 3 o 4 volte la settimana presso _ nel senso che, sulla base di un calcolo a ritroso, ha quantificato i pernottamenti in 4.25 volte la settimana (consid. 3c). Determinante era quindi, a mente del Pretore, stabilire se costui avesse mentito sostenendo di avere visitato l'amica, in media, 4.25 volte la settimana (consid. 3d). A tale riguardo egli ha rilevato che la copiosa documentazione prodotta dall'accusato attestava ripetuti soggiorni in alberghi sia in Svizzera sia all'estero (consid. 3d) e che le dichiarazioni del testimone _ relative alla frequenza dei pernottamenti non contraddicevano le affermazioni dell'interessato per il periodo in esame. In effetti, quand'anche l'accusato avesse trascorso ininterrottamente la notte presso l'amica dal 3 al 6 novembre e dal 5 al 9 ottobre 1998, ciò non significava che egli avesse mentito dichiarando di abitare con lei 3 o 4 volte la settimana (consid. 3f). In definitiva, quindi, il Pretore ha espresso il convincimento che al momento dell'interrogatorio il testimone aveva sostanzialmente detto la verità poiché tra le 3 o 4 volte la settimana e le 4.25. volte accertate in sede dibattimentale non vi era una differenza tale da poter affermare che il soggetto avesse mentito consapevolmente (consid. 3g).
3.
Il ricorrente sostiene che il Pretore è incorso nell'arbitrio ponendo alla base del proprio giudizio una documentazione prodotta in fotocopia, in realtà fasulla e senza pertinenza con il periodo oggetto della deposizione dell'accusato, fatta eccezione per i documenti n. 27 e 28. Il primo documento poi – soggiunge il ricorrente – attesta se mai che nell'albergo di Ginevra il 17 dicembre 1998 aveva pernottato non la controparte, bensì il collega _. Inoltre, secondo il ricorrente, il Pretore è caduto in contraddizione dando credito contemporaneamente alla testimonianza di _ e a quella dell'accusato. Dato che _, sia nella dichiarazione scritta sia nella deposizione resa durante l'istruttoria sia ancora al dibattimento aveva dimostrato, tramite i sopralluoghi, che ad uscire dalla residenza “_ ” era sempre _, la sua deposizione doveva assumere ben maggior peso. Il ricorrente si dilunga poi sugli estratti degli addebiti bancari concernenti l'uso della carta di credito “Visa” allo scopo di confutare l'accertamento del Pretore circa le frequenti e prolungate assenze dell'accusato da Lugano, affermando che gran parte di tali addebiti provano dalla frequentazione di ristoranti e che, quindi, costui era era solito rincasare la sera. Un ulteriore arbitrio ravvisa il ricorrente laddove il Pretore ha ritenuto di non poter escludere che il mattino del 18 dicembre 1998 il testimone _ fosse stato convinto di vedere al volante della vettura Saab della ditta _, mentre in realtà vi si trovava _. A suo dire si tratta di un convincimento in contrasto con le dichiarazioni dello steso testimone e con la dichiarazione di _, che adduce di non avere mai usato tale vettura per lavoro.
4.
Ora, la giurisprudenza ha già avuto modo di ricordare che per incorrere nell'annullamento una sentenza deve essere arbitraria – o anche solo erronea, ove l'autorità di ricorso sia munita di pieno potere cognitivo – nel suo risultato, non soltanto nella motivazione (DTF 117 Ia 139 consid. 2c con rinvii). A parte il fatto che invano si cercherebbe negli atti successivi al 10 settembre 1999 (data alla quale l'accusato ha prodotto in Pretura il plico di fotocopie contenente la documentazione cui il ricorrente si riferisce) o nel verbale del dibattimento la richiesta degli originali, in concreto tutte le argomentazioni che si riferiscono al periodo successivo al 16 dicembre 1998, giorno della deposizione testimoniale dell'accusato, sono ininfluenti ai fini del giudizio. Determinante – come ha ritenuto il Pretore – è stabilire se, dichiarando di recarsi presso _ 3 o 4 volte la settimana, l'imputato abbia mentito. Dal rapporto scritto del testimone _ del 5 marzo 1999 (allegato n. 1 alla querela penale) risulta che l'accusato è stato visto uscire dalla residenza di _ cinque volte tra il 5 e il 9 ottobre 1998, quattro volte tra il 3 e il 6 novembre 1998 e tre volte tra il 14 e il 16 dicembre 1998, ossia, in media, quattro volte la settimana. Tale circostanza in definitiva non solo non contraddice, ma collima con quanto ha dichiarato il testimone, secondo cui in quelle occasioni al volante della nota Saab si trovava l'accusato. La conclusione del Pretore, stando al quale l'accusato non aveva mentito dicendo di avere passato la notte presso l'amica 3 o 4 volte per settimana, resiste di conseguenze alla censura di arbitrio.
5.
Il ricorrente contesta poi la conclusione del Pretore, secondo cui tra le riferite 3 o 4 volte la settimana e le 4.25 volte accertate al dibattimento non vi è uno scarto tale da poter affermare che l'accusato abbia mentito in modo consapevole. A suo dire, il fatto che _ abbia dichiarato il 16 dicembre 1998 di soggiornare presso _ 3 o 4 volte per settimana, precisando espressamente “dunque in modo non continuativo”, comprova la volontà di mentire, oltre tutto se si pensa che in sede istruttoria (verbale 20 aprile 1999, pag. 1) egli aveva precisato che a volte gli capitava di restare cinque giorni presso di lei e che, solitamente, quando non era da lei, si trovava all'estero. Il che collimerebbe con la deposizione del testimone _. Se non che, così proposti, gli argomenti ricorsuali sono palesemente appellatori e quindi irricevibili, poiché si limitano a dare alle dichiarazioni dell'accusato una diversa interpretazione e valenza rispetto a quella data del Pretore. Già si è visto che, asserendo di abitare presso l'amica in media 3 o 4 volte la settimana, l'imputato non ha sostanzialmente mentito. Che, poi, la precisazione “dunque non in modo continuativo” avesse il preciso scopo di ingannare il giudice civile, negando la continuità della convivenza, è una mera illazione del ricorrente. Del resto, la precisazione resa in sede di istruttoria non è stata trascurata dal Pretore, per il quale tale circostanza non era atta a configurare una menzogna (consid. 3f). Né il ricorrente spiega perché la deposizione del testimone _, della quale si è già riferito, sarebbe atta a ulteriormente suffragare il preteso dolo. Infine, semplice congettura è l'asserzione del ricorrente secondo cui, avendo _ ottenuto l'apostillazione della sentenza di divorzio nell'agosto 1998, il Pretore avrebbe dovuto dubitare che l'intenzione espressa al dibattimento dall'accusato di sposarsi con lei fosse maturata solo nel gennaio 1999, quando essa gli aveva confidato di essere incinta, e quindi dopo l'interrogatorio (consid. 3e).
II. Sul ricorso per cassazione del condannato
6.
Il Pretore, posto che la domanda n. 42 dell'interrogatorio formale dell'accusata era chiara nella misura in cui tendeva ad appurare se e in quale misura _ convivesse con lei, ha ritenuto sostanziale la differenza tra le 2 o 3 volte da essa indicate e le 4.25 volte accertate in base alle dichiarazioni dibattimentali di _ (consid. 4c e 4d). Per il primo giudice l'accusata aveva mentito consapevolmente, sia perché la sua quantificazione nel verbale non si riferiva a una media, ma costituiva il preambolo della risposta in modo da minimizzare la frequenza (consid. 4e cpv. 1), sia perché la risposta era incompleta, imprecisa ed evasiva benché essa sapesse su quali fatti sarebbe stata interrogata (consid. 4e cpv. 2), sia perché essa aveva mentito anche al Procuratore pubblico affermando che non vi era mai stata convivenza alcuna tra lei e _ e che questi a volte giungeva da lei tra le ore 6 e le 7 del mattino, circostanza che egli in aula aveva escluso (consid. 4e cpv. 2), sia infine per avere essa ottenuto la dispensa della pubblicazione del matrimonio sul Foglio ufficiale e per avere fissato la data della celebrazione otto giorni dopo la scadenza dell'ultimo contributo alimentare (consid. 4e cpv. 3).
7.
La ricorrente censura siccome arbitraria la rilevanza data dal Pretore alla domanda n. 42, laddove ha egli ritenuto che lo scopo era di sapere se e in quale misura lei vivesse con _. A suo dire, con la domanda in questione, la parte civile intendeva assodare se essi convivessero ininterrottamente e durevolmente, ossia tutti i giorni dal mese di settembre 1997, e non quanti giorni, se 2, 3, 4 o 4.25 la settimana. Inoltre, secondo la ricorrente, arbitraria è la conclusione del Pretore quando sostiene che, accertata la convivenza in una media di 4.25 volte la settimana, fra le 2 o 3 volte da lei indicate e quelle accertate vi è una differenza sostanziale non tanto per l'esito dell'azione, quanto come fatto di causa. A suo dire, l'oggetto della falsa dichiarazione ai sensi dell'art. 306 CP deve essere importante e influente ai fini del giudizio. Una coabitazione di 2 o 3 oppure di 3 o 4 giorni la settimana non poteva incidere sull'esito della sentenza pretorile circa la soppressione del contributo alimentare. Difatti, una coabitazione del genere non costituisce concubinato ininterrotto e duraturo, come voleva far accertare il quesito in oggetto.
In realtà gli argomenti della ricorrente non denotano alcun arbitrio da parte del Pretore. Per quanto concerne la domanda n. 42 dell'interrogatorio formale, lo scopo attribuito dal Pretore non si discosta sostanzialmente da quello dato dalla ricorrente. Il tenore stesso della domanda non poteva dare adito a dubbi, posto che menziona espressamente i termini “duraturo” e “ininterrotto”. Del resto, la ricorrente medesima nella risposta ha negato la convivenza duratura e ininterrotta, specificando poi che essa era limitata a 2 o 3 volte la settimana. A torto, quindi, essa pretende ora di far assurgere quanto specificato nella propria risposta a circostanza che la controparte non voleva appurare, ossia la frequenza settimanale della convivenza. Per quanto riguarda l'influsso della risposta, la dichiarazione non deve necessariamente essere rilevante, cioè riferirsi a un punto decisivo ai fini del giudizio. Né è necessario che il giudice sia stato influenzato dalla dichiarazione, trattandosi di un reato di pericolo astratto (
Stratenwerth
, Schweizerisches Strafrecht, Besonderer Teil 2, 4
a
edizione, pag. 292 n. 12). Determinante è che la parte dichiari il falso sui fatti oggetto della contestazione (
Stratenwerth
, op. cit., pag. 291 n. 11), e la ricorrente non pretende che l'affermazione che _ veniva da lei 2 o 3 volte la settimana sia falsa. Irricevibile infine è il riferimento a quanto espresso dal giudice civile nella successiva azione di modifica della sentenza di divorzio promossa il 1° aprile 1999, trattandosi di un fatto nuovo e, comunque sia, ininfluente ai fini del giudizio.
8.
La ricorrente assevera poi che non è né credibile né verosimile che essa abbia avuto intenzione di mentire allo scopo di evitare che il giudice pronunciasse la soppressione del contributo alimentare e che, fornendo la propria versione dei fatti, essa era convinta di dire la verità. Al proposito essa allega tutta una serie di argomenti per confutare il convincimento espresso dal Pretore in merito alla sua consapevolezza di mentire (sopra, consid. 6).
Se non che, quanto essa fa valere in questa sede non è atto a sostanziare arbitrio. Quanto l'autore sa o ignora, quello che egli vuole o l'eventualità delittuosa cui egli consente è un dato di fatto, come tale vincolante per la Corte di cassazione e di revisione penale (DTF 122 IV 160, consid. 2b; 118 IV 124 consid. 1, 174 consid. 4, 117 IV 165 consid. 2c, 116 IV 145 consid. 2c, 115 IV 223). Invano si cercherebbe nel gravame perché sarebbe arbitrario il convincimento espresso dal Pretore in merito al fatto che la risposta alla domanda n. 42 iniziava con la precisazione che la convivenza era limitata a 2 o 3 volte la settimana allo scopo di minimizzare la frequenza. Né la ricorrente spiega perché dall'omissione di indicare la frequenza nei giorni dal 1° al 6 novembre 1998, periodo in cui il testimone _ aveva eseguito gli appostamenti, sarebbe arbitrario dedurre che, rispondendo in modo impreciso ed evasivo sui fatti di cui era consapevole sarebbe stata interrogata, essa aveva tradito la preoccupazione di rispondere non in modo veritiero, ma tale da non nuocere all'esito della procedura di soppressione del contributo alimentare. Per quanto concerne la testimonianza _, è mera ipotesi che l'errore di indicazione dei giorni corrispondenti alle date tra il 1° e il 7 novembre 1998 significhi che questi non li aveva sorvegliati in tutti i giorni indicati. Quanto alla versione fornita al Procuratore pubblico, è appena il caso di segnalare che nel verbale del 20 aprile 1999 la ricorrente aveva dichiarato che con _ non vi era convivenza alcuna, come ha ritenuto il Pretore, ragione per cui non è vero che in quella sede avrebbe negato di convivere in modo “duraturo e ininterrotto”. Per quanto attiene infine agli ulteriori indizi ritenuti dal Pretore (dispensa dalla pubblicazione e data delle nozze), la ricorrente si limita a prospettare una propria versione, senza neppure pretendere che l'interpretazione data nel giudizio impugnato sia insostenibile.
9.
Da ultimo la ricorrente reputa che la pena inflitta sia sproporzionata rispetto alle circostanze del caso. Nella commisurazione della pena, tuttavia, il giudice di merito fruisce di ampia autonomia quando valuta l'importanza di ogni singolo fattore previsto dall'art. 63 CP. Egli deve indicare però quale peso attribuisce ai vari elementi considerati, non necessariamente in cifre o in percentuali, ma in modo che l'autorità di ricorso possa – pur rispettando la sua latitudine di apprezzamento – seguire il suo ragionamento e controllare l'applicazione della legge (
Queloz
, Commentaire de la jurisprudence du Tribunal fédéral en matière de fixation et de motivation de la peine, in: RPS 116/1998 pag. 136 segg.). Sapere se la pena risponda a tali esigenze e rientri nei limiti edittali è una questione di diritto, che va quindi esaminata liberamente dalla Corte di cassazione e di revisione penale; nella commisurazione della pena, per contro, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice del merito sia stato esageratamente severo o mite, al punto di cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (DTF 123 IV 152 consid. 2a con richiami).
a)
Confermando la pena proposta dal Procuratore pubblico, il Pretore ha rilevato che la colpa dell'accusata non poteva essere ritenuta lieve. Essa aveva mentito al giudice infatti per impedire l'accertamento di fatti rilevanti nella causa promossa dall'ex marito allo scopo di ottenere la soppressione degli alimenti. E ciò in modo disinvolto, senza mai dare segni di ravvedimento neppure in aula, ove aveva addirittura preteso che non vi sarebbe discrepanza tra la sua versione e quella dell'attuale marito. Per di più, secondo il Pretore, essa non aveva voluto dare spiegazioni sui motivi alla base della richiesta di dispensa della pubblicazione del matrimonio, né risultava convincente la motivazione addotta a proposito della data stabilita per le nozze, da lei collegata con la prima gravidanza che aveva indotto le parti a sposarsi, posto che già il 23 febbraio 1999 essa aveva abortito. L'intero atteggiamento processuale dell'accusata, che aveva continuato a mentire sulla frequenza di _ presso di lei, testimoniava di una persona cui importava solo di perseguire lo scopo economico che si era prefissa (consid. 5).
b)
Gli argomenti enunciati in questo ambito dalla ricorrente si rivelano nuovamente privi di fondamento. Intanto va rilevato che, irrogando una pena detentiva di 15 giorni con la sospensione condizionale per 2 anni, il Pretore è rimasto ampiamente entro i limiti inferiori previsti dagli art. 306 e 36 CP. Inoltre la ricorrente si limita a riproporre parte delle allegazioni già sollevate laddove aveva censurato l'apprezzamento delle prove operato dal primo giudice relativamente alla sussistenza del reato, nel senso che quanto dichiarato in merito alla frequenza settimanale delle visite del compagno non era di rilevanza ai fini del giudizio del Pretore, che la propria versione corrispondeva alla verità e che collimava con quella di costui. Non una parola invece essa spende per contestare l'accertamento di avere mentito e reiterato nel mentire, ancora in sede dibattimentale, unicamente per perseguire il fine economico che si era prefissa, ovvero per non perdere i contributi alimentari. E nell'ambito dei motivi a delinquere si situano anche le considerazioni del Pretore circa la richiesta di dispensa dalla pubblicazione del matrimonio e la definizione della data, ragione per cui non può essere seguita la ricorrente quando pretende che il primo giudice avrebbe apprezzato i medesimi fatti a favore di un imputato e a sfavore dell'altro.
III. Sulle spese e le ripetibili
10.
La reiezione dei ricorsi comporta il carico delle spese secondo la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). A _, che per presentare le osservazioni al ricorso si è valso del patrocinio di un legale, la parte civile _ rifonderà congrue ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b014924b-e7ae-58e7-80f1-d215ea16d90e | in fatto ed in diritto
1.
In data 15.04.2011 questa Corte ha emanato una decisione di principio, riconoscendo
al _ un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere direttamente dal Ministero pubblico, dal Tribunale penale cantonale, dalla Pretura penale, dalla
Corte di appello e di revisione penale e dalla Corte dei reclami penali copia delle decisioni di procedimenti penali conclusi e non cancellati dal casellario giudiziale giusta il previgente art. 17 cpv. 2 vOCSP e l’art. 19 cpv. 2 OCSP in relazione all’art. 20 LMSI, senza dover ricorrere di volta in volta alla procedura ex art. 62 cpv. 4 LOG, allegando l’apposito formulario intitolato
"
Controllo di sicurezza relativo alle persone per terzi (progetto civile)
" sottoscritto dalla persona soggetta a controlli (inc. CRP _).
2.
Con la presente istanza il IS 1 (di seguito IS 1), quale organo preposto alla sicurezza pubblica, richiamando gli art. 113 cpv. 1 lit. d e 113 cpv. 2 LM, gli art. 10, 11 e 12 dell’OCSP, e infine l’art. 20 LMSI, domanda che l’interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG riconosciuto mediante la decisione del 15.04.2011 emanata da questa Corte (inc. CRP _), venga esteso
al IS 1 nell’ambito dei controlli di sicurezza effettuati ai sensi degli art. 10, 11 e 12 cpv. 1 OCSP e nell’ambito della valutazione del potenziale di violenza mediante un controllo di sicurezza senza il consenso della persona interessata ai sensi dell’art. 113 cpv. 1 lit. d LM, alla Magistratura dei minorenni e a tutti i procedimenti penali pendenti, conclusi e abbandonati. Ciò allo scopo di poter svolgere al meglio il mandato conferitogli, ovverossia nell’eseguire i controlli di sicurezza relativi alle persone
(doc. CRP 1).
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
4.1.
L’art. 17 cpv. 1 della Legge federale sulla protezione dei dati del 19.06.1992 (RS 235.1, di seguito LPD) prevede esplicitamente che gli organi federali hanno il diritto di trattare i dati personali se sussiste una base legale. I dati personali degni di particolare protezione e i profili della personalità possono essere trattati
soltanto se lo prevede esplicitamente una legge in senso formale, o se eccezionalmente:
- ciò sia indispensabile per l’adempimento di un compito chiaramente definito in una legge in senso formale (art. 17 cpv. 2 lit. a LPD);
- il Consiglio federale lo autorizza nel caso specifico poiché non sono pregiudicati i diritti della persona interessata (art. 17 cpv. 2 lit. b LPD) oppure
- la persona interessata, nel caso specifico, ha dato il suo consenso o ha reso i suoi dati accessibili a chiunque e non si è opposta formalmente al trattamento (art. 17 cpv. 2 lit. c LPD).
4.2.
La Legge federale sulle misure per la salvaguardia della sicurezza interna del 21.03.1997 (RS 120, di seguito LMSI) si prefigge lo scopo di garantire i fondamenti democratici e costituzionali della Svizzera nonché di proteggere la libertà della sua popolazione (art. 1 LMSI).
Giusta l’art. 19 cpv. 1 LMSI il Consiglio federale può prevedere controlli di sicurezza per agenti della Confederazione, militari e terzi che collaborano a progetti classificati nell’ambito della sicurezza interna ed esterna e nell’esercizio dell’attività se hanno conoscenza, in modo regolare e approfondito, dell’attività governativa o di importanti affari di politica della sicurezza e possono avere influsso sugli stessi (lit. a), se hanno regolarmente accesso a segreti concernenti la sicurezza interna o esterna o ad informazioni che, se svelate, potrebbero minacciare l’adempimento di compiti importanti della Confederazione (lit. b), se hanno, in quanto militari, accesso a informazioni, materiali o impianti classificati (lit. c), se collaborano, in quanto partner contrattuali o impiegati di questi ultimi, a progetti classificati della Confederazione o devono essere oggetto di controllo in virtù di convenzioni sulla protezione di segreti (lit. d) e se hanno regolarmente accesso a dati personali degni di particolare protezione, la cui divulgazione potrebbe gravemente pregiudicare i diritti individuali delle persone interessate (lit. e).
Il controllo di sicurezza è effettuato prima dell’elezione alla carica o funzione o dell’attribuzione del mandato. La persona sottoposta al controllo deve essere consenziente; rimane salvo l’art. 113 cpv. 1 lit. d LM (art. 19 cpv. 3 LMSI).
Il controllo di sicurezza consiste nel raccogliere i dati rilevanti in materia di sicurezza concernenti il modo di vita della persona interessata, segnatamente le relazioni personali strette e quelle familiari, la situazione finanziaria, i rapporti con l’estero e le attività atte a minacciare in maniera illegale la sicurezza interna ed esterna; non vengono raccolti dati sull’esercizio dei diritti costituzionali (art. 20 cpv. 1 LMSI).
I dati possono essere rilevati – tra l’altro – tramite richiesta, ai competenti organi incaricati del perseguimento penale, di informazioni concernenti procedimenti penali in corso, conclusi o abbandonati nonché dei relativi atti giudiziari e istruttori (art. 20 cpv. 2 lit. d LMSI).
I controlli di sicurezza relativi alle persone hanno, in effetti, quale obiettivo di mettere lo Stato al riparo dal rischio che le persone che occupano posizioni chiave commettano un tradimento, agiscano contro lo Stato o aspirino a modificarne in modo illegale le istituzioni. Allo scopo di valutare i rischi in materia di sicurezza, l’autorità di controllo ha l’obbligo di visionare atti inerenti a procedimenti penali conclusi o abbandonati, poiché anche persone sottoposte ad altri livelli di controllo (accesso a informazioni, impianti militari o materiali classificati confidenziale o segreto) rivestono funzioni sensibili in materia di sicurezza (FF 2010 6970).
4.3.
Per l’esame dei motivi d’impedimento per la consegna dell’arma personale, lo Stato maggiore di condotta dell’esercito necessita di determinati dati: mediante l’art. 113 LM, entrato in vigore il 1°.01.2011, è stata istituita la base legale formale (Messaggio relativo alla modifica della legge militare del 19.08.2009, 09.063, p. 5139).
In particolare l’art. 113 cpv. 1 lit. d cifra 1 LM sancisce che lo Stato maggiore di condotta dell’esercito, con riferimento all’esame dei motivi d’impedimento per la consegna dell’arma personale, può esigere – senza il consenso della persona interessata – la valutazione del potenziale di violenza mediante un controllo di sicurezza relativo alle persone che è limitato alla consultazione del casellario giudiziale informatizzato, del sistema per il trattamento dei dati relativi alla protezione dello Stato, del Registro nazionale di Polizia, nonché alla domanda di informazioni alle competenti autorità di perseguimento penale sui procedimenti penali in corso, conclusi o sospesi.
L’esecuzione del controllo di sicurezza ai sensi della summenzionata disposizione può dunque essere messa in atto anche senza il consenso della persona interessata. In ogni caso la raccolta dei dati nell’ambito dei controlli di sicurezza relativi alle persone dovrebbe essere limitata allo stretto necessario che il caso
richiede (decisione TAF A-6294/2011 del 4.08.2012, consid. 3.2.1. e riferimenti).
Su richiesta dello Stato maggiore di condotta dell’esercito, sono sottoposti a un controllo di sicurezza relativo alle persone secondo l’art. 113 cpv. 1 lit. d LM tutte le persone soggette all’obbligo di leva (art. 5 cpv. 2 lit. a OCSP), tutti i membri del Servizio della Croce Rossa equipaggiati con un’arma personale (art. 5 cpv. 2 lit. b OCSP) e i militari se sussistono seri segni o indizi che questi possano mettere in pericolo se stessi o terzi con l’arma personale (art. 5 cpv. 2 lit. c cifra 1 OCSP) oppure se sussistono segni o indizi di un imminente uso abusivo dell’arma personale da parte dei militari stessi o di terzi (art. 5 cpv. 2 lit. c cifra 2 OCSP).
4.4.
L’Ordinanza sui controlli di sicurezza relativi alle persone del 4.03.2011 (RS 120.4, in vigore dall’1.04.2011; di seguito OCSP) disciplina i controlli di sicurezza relativi alle persone secondo gli art. 19-21 LMSI nonché secondo gli art. art. 23 cpv. 2 lit. d, 103 cpv. 3 lit. d e 113 cpv. 1 lit. d LM (art. 1 OCSP).
Giusta l’art. 3 OCSP il IS 1 esegue i controlli di sicurezza su determinate persone [ovverossia gli agenti della Confederazione (art. 4 OCSP), le persone soggette all’obbligo di leva, militari e militi della protezione civile (art. 5 OCSP), terzi (art. 6 OCSP) e gli impiegati dei Cantoni (art. 7 OCSP)] secondo gli art. 10 (controllo di sicurezza di base), 11 (controllo di sicurezza ampliato) e 12 (controllo di sicurezza ampliato con audizione) OCSP in collaborazione con gli organi di sicurezza della Confederazione e dei Cantoni.
Per tutti i tre tipi di controllo di sicurezza l’autorità di controllo (il IS 1) rileva i dati – tra l’altro – ai sensi dell’art. 20 cpv. 2 lit. d LMSI [tramite richiesta, ai competenti organi incaricati del perseguimento penale, di informazioni concernenti procedimenti penali in corso, conclusi o abbandonati nonché dei relativi atti giudiziari e istruttori] (cfr., al proposito, art. 10 cpv. 3 OCSP, art. 11 cpv. 3 OCSP e art. 12 cpv. 3 OCSP; cfr. anche l’art. 20 cpv. 2 lit. d OCSP il cui contenuto corrisponde all’art. 20 cpv. 2 lit. d LMSI).
Lo svolgimento del controllo di sicurezza relativo alle persone è sancito dagli art. 14-20 OCSP (cfr. inoltre
"
Personensicherheits-prüfung - das Verfahren
"
rispettivamente
"
Contrôles de sécurité relatifs aux personnes - déroulement
"
scaricabili dal sito www.vbs.admin.ch).
4.5.
A giudizio di questa Corte – tenuto conto di quanto sopra esposto – l’art. 113 cpv. 1 lit. d cifra 1 LM, così come gli art. 10, 11 e 12 OCSP in relazione all’art. 20 cpv. 2 lit. d LMSI costituiscono una base legale sufficiente che prevalgono sul diritto cantonale (l’art. 62 cpv. 4 LOG) affinché il IS 1 possa chiedere direttamente ai competenti organi del perseguimento penale ticinesi informazioni concernenti, per quanto concerne la competenza di questa Corte, procedimenti penali conclusi (archiviati) e non cancellati dal Casellario giudiziario nonché dei relativi atti giudiziari e istruttori, senza
dover ricorrere di volta in volta alla procedura ex art. 62 cpv. 4 LOG.
Il IS 1 può dunque rivolgersi direttamente ai competenti organi del perseguimento penale ticinesi in ossequio a quanto sancito dalle norme federali applicabili nei singoli casi.
5.
L’istanza è evasa ai sensi dei precedenti considerandi. Stante la funzione dell’istante e la finalità della richiesta, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b0366088-d222-5d04-9844-b92e078676de | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 3 marzo 2009 il procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di infrazione alla Legge federale sulla protezione delle acque per avere, il 18 agosto 2008, presso la pista di pattinaggio _, ordinato a _ di convogliare ammoniaca in stato gassoso miscelata ad acqua corrente in un pozzo che, a sua volta, defluiva nel riale collegato al fiume _, provocando in tal modo l’inquinamento delle acque con la conseguente moria di almeno 4'000 pesci.
Il procuratore pubblico ne ha, pertanto, proposto la condanna alla pena pecuniaria - sospesa condizionalmente per un periodo di due anni - di fr. 1’200.- (corrispondente a 30 aliquote giornaliere da fr. 40.-) e ad una multa di fr. 700.-, rinviando la parte civile PC 1, al competente foro per le sue pretese di risarcimento.
Contro il decreto di accusa il prevenuto ha sollevato tempestiva opposizione.
B.
In estrema sintesi, i fatti posti alla base del giudizio del giudice della Pretura penale sono i seguenti:
a. RI 1
, di formazione disegnatore d’impianti sanitari con maestria e certificato federale dei veleni per commerciare prodotti chimici per la manutenzione delle piscine, era, all’epoca dei fatti, referente della _, società alla quale il _ aveva affidato, a far tempo dal 2004, tramite mandati diretti, tutti gli interventi di una certa importanza legati alla manutenzione della pista di ghiaccio _.
Per l’esecuzione materiale delle opere l’_ faceva capo alla _, ditta italiana che si occupa di impianti di refrigerazione e surgelazione per tutte le applicazioni del freddo artificiale.
b.
Al fine di ovviare ad una crescente problematica legata all’ostruzione di alcune serpentine dell’impianto di raffreddamento, RI 2, tecnico frigorista alle dipendenze della _ con patente di abilitazione all’impiego di gas tossici e meglio dell’ammoniaca, dopo avere proceduto, il 15 maggio 2008, all’evacuazione dell’ammoniaca liquida dal circuito di raffreddamento, ha provveduto, il 4 giugno 2008, allo svuotamento del residuo gassoso di ammoniaca presente nelle condotte abbattendolo con acqua ed evacuando il tutto direttamente sul posto, mediante impiego di un bidone da 200 litri posizionato accanto al pozzo di scarico della neve nel quale ha fatto convogliare una grande quantità di acqua tramite una manichetta e nel quale è stato inserito il tubo di scarico del gas.
Dopo questa operazione, in data 8 agosto 2008, RI 2 ha proceduto al flussaggio delle tubazioni con aria compressa per cercare di liberare le stesse dal materiale ostruttivo. L’intervento non ha però avuto esito positivo.
c.
Si metteva, pertanto, in atto una soluzione alternativa - già concordata tra RI 1 e i responsabili della pista prima dell’8 agosto 2008 - che consisteva nel liberare le estremità dei collettori a lato della platea e di procedere in quel punto all’immissione di aria compressa previa applicazione di tronchetti.
Dopo un nuovo recupero dell’ammoniaca liquida nel frattempo rifluita nelle condotte, in data 18 agosto 2008, RI 1 raggiungeva a _ gli addetti alla pista _ per l’operazione di svuotamento dei residui gassosi presenti nelle serpentine dell’impianto di raffreddamento al fine di procedere, poi, alla successiva fase di flussaggio.
Durante l’operazione di abbattimento del gas residuo - operazione analoga a quella già effettuata da RI 2 il 4 giugno 2008 - si verificava, verso le ore 14.15, la fuoriuscita di ammoniaca con le note conseguenze.
C.
Dopo il dibattimento, con sentenza del 14 gennaio 2010, il giudice della Pretura penale - statuendo sull’opposizione - ha confermato l’imputazione figurante nel decreto d’accusa condannando RI 1 alla pena pecuniaria - sospesa condizionalmente per un periodo di due anni - di fr. 1’200.- (corrispondente a 30 aliquote da fr. 40.-) e ad una multa di fr. 700.- oltre che al pagamento delle tasse e spese giudiziarie di complessivi fr. 1'860.-.
In esito allo stesso dibattimento, il giudice ha prosciolto RI 2 dall’imputazione d’infrazione alla Legge federale sulla protezione delle acque per avere, il 4 giugno 2008, convogliato ammoniaca in stato gassoso miscelata ad acqua corrente nel pozzo presente nei pressi della pista di ghiaccio di _, difettando l’accertamento di un danno e della messa in pericolo concreta delle acque.
D.
Avverso la predetta sentenza è insorto il condannato con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data 15 gennaio 2010.
Nella motivazione scritta, presentata il 24 febbraio 2010, egli sostiene che i presupposti fattuali e giuridici della sua qualifica di autore mediato non sono stati rettamente valutati dal primo giudice e chiede, pertanto, che la sentenza impugnata venga annullata.
E.
Con osservazioni 15 marzo 2010 il procuratore pubblico chiede che il ricorso, per quanto ricevibile, venga respinto.
Con osservazioni 18 marzo 2010 anche la parte civile chiede la reiezione del gravame. | Considerando
in diritto:
1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) nella misura in cui l’accertamento dei fatti è censurabile unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP), ritenuto inoltre che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 5, 134 I 153 consid. 3.4 pag. 156133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2.
Il ricorrente, innanzitutto, solleva una censura giusta l’art. 288 lett. c CPP, sostenendo che il primo giudice ha accertato in modo
“lacunoso, incompleto e contraddittorio”
il suo ruolo di persona con conoscenze tecniche superiori a quelle di _ e, dunque, di supervisore dei lavori di manutenzione della pista.
2.1.
Determinandosi sul ruolo effettivo ricoperto da RI 1 nell’ambito dell’attività della pista di ghiaccio di _, il primo giudice ha, dapprima, osservato che dalle sue stesse dichiarazioni, nonché da quelle di RI 2, del responsabile della pista _ e del municipale del _, emerge in modo inequivocabile che l’imputato
“era la persona di fiducia alla quale la locale società di pattinaggio (...) faceva capo ogni qualvolta vi era un problema tecnico di una certa importanza ed entità finanziaria”
. In simili circostanze - continua il primo giudice -
“egli si adoperava per proporre soluzioni, contattare le autorità cantonali preposte, procurare materiale per l’esecuzione di talune operazioni, fungeva da intermediario con la ditta _ (alla quale sottoponeva preventivamente le opere da realizzare ai fini di quantificare in seconda battuta le offerte da sottoporre al Comune tenuto conto dei costi esposti da _ per le sue prestazioni) predisponeva gli interventi di quest’ultima e sovraintendeva alla loro esecuzione. È senz’altro sintomatico il fatto che egli era sempre presente, in un momento o in un altro, in occasione degli interventi effettuati dalla _”
(sentenza, consid. 10 pag. 9-10).
Continuando con gli accertamenti relativi al ruolo avuto da RI 1 nella vicenda, il primo giudice ha rilevato che dall’offerta 5 giugno 2008, allestita in relazione alla problematica delle serpentine e sulla quale figura l’indicazione “_”, risulta che l’imputato si occupava anche della direzione lavori, ritenuto oltretutto che egli, per le sue prestazioni, richiedeva al Comune una maggiorazione del 20% dell’offerta della _. A mente del primo giudice, il ricorrente si è occupato della direzione lavori anche per quanto attiene all’intervento di risanamento delle serpentine avvenuto il 18 agosto 2008, oggetto del presente procedimento. In effetti - spiega il primo giudice - nell’ambito dell’offerta del 5 giugno 2008, RI 1, pur non garantendo il successo dell’intervento di spurgo,
“si era impegnato a fornire tutte le prestazioni necessarie, partendo dalla ricerca e proposta di soluzioni e facendo poi capo agli specialisti necessari”
(sentenza, consid. 10-11, pag. 10-11).
Al proposito il primo giudice, determinandosi sulla tesi della Difesa secondo cui l’operazione qui in esame difettava di un qualsivoglia rapporto contrattuale, ha rilevato che il ricorrente, indipendentemente dalla formalizzazione di una nuova offerta, proseguiva l’opera per la quale era stato incaricato dal Comune di _ il 17 giugno 2008 sulla base dell’offerta 5 giugno 2008 (sentenza, consid. 15 pag. 16-17).
A sostegno di questa sua conclusione il presidente della Pretura penale, sulla scorta delle deposizioni di _ e di RI 2, ha ancora osservato che il tipo di intervento da eseguire in caso di insuccesso del primo tentativo di flussaggio era già stato preventivamente esposto e condiviso. Sintomatico in questo senso - ha spiegato - è il fatto che il ricorrente, informato dell’insuccesso del primo tentativo di spurgo, anziché disinteressarsi della questione, si è subito incontrato con il responsabile della pista _ per accordarsi sul da farsi (sentenza, consid. 11-12 pag. 11-12).
Concentrandosi, poi, su quanto avvenuto il 18 agosto 2008, ovvero il giorno in cui si è verificato l’inquinamento delle acque del fiume _, il primo giudice ha rilevato come le dichiarazioni dell’imputato - secondo cui egli, quel giorno, si era recato a _ al solo scopo di rilevare le misure dei tronchetti e secondo cui, al suo arrivo in loco, l’azione di svuotamento era già in corso - non risultano per nulla credibili. In effetti - spiega - se veramente il ricorrente avesse unicamente voluto rilevare la misura dei tronchetti (operazione che, per sua stessa ammissione, richiedeva
“da 30 a 45 minuti”
), non si comprende perché egli, come da lui stesso dichiarato, si è trattenuto presso la pista di ghiaccio dalle 9.30 alle 12.00/12.30. La giustificazione addotta da RI 1 - rileva ancora il primo giudice - ovvero quella di essere rimasto a chiacchierare con gli addetti della pista, appare anche poco credibile, se solo si considera che il ricorrente ha ammesso, da un lato, di essere entrato in sala macchine e, avendovi notato un rubinetto bypass che presentava una sporgenza sospetta, di avere telefonato a RI 2 per sincerarsi che tutto fosse a posto e, dall’altro, di aver suggerito a _ di aprire in misura più importante il rubinetto che convogliava ammoniaca nel pozzo (sentenza, consid. 13 pag. 14).
A detta del primo giudice, il ruolo focale avuto da RI 1 nell’operazione del 18 agosto 2008 è poi confermato dal promemoria da lui allestito il giorno seguente, da cui, in particolare, risulta come _ hanno atteso il suo arrivo per iniziare l’operazione di evacuazione del gas, ciò che conforta le convergenti deposizioni degli stessi addetti della pista (sentenza, consid. 14 pag. 14-15).
Sulla scorta degli elementi testé elencati, il primo giudice ha concluso che RI 1, il 18 agosto 2008, ha partecipato all’intervento di evacuazione dei residui di ammoniaca gassosa, prestandosi per dirigere personalmente le operazioni (sentenza, consid. 15 pag. 16-17).
Quanto al ruolo avuto nella vicenda da _, il presidente della Pretura penale - dopo aver rilevato che il primo era, da pochi mesi, responsabile del piano di pulizia della pista e il secondo era impiegato a metà tempo per i mesi invernali quale tuttofare e nei rimanenti mesi quale volontario su chiamata - ha accertato come gli stessi nemmeno avevano assistito (se non nelle fasi iniziali) alla precedente operazione di spurgo avvenuta il 4 giugno 2008 e come, dunque,
“non avevano le necessarie competenze”
(sentenza, consid. 14 pag. 16).
2.2.
Dopo avere ricordato la ripartizione dei compiti delle persone coinvolte nelle operazioni di spurgo ed evidenziato, in particolare, come fosse la _ che, per il tramite di RI 2, si occupava direttamente dell’impianto di raffreddamento della pista di ghiaccio, il ricorrente sostiene che egli non disponeva
“di conoscenze particolari e sufficienti per poter imporre la propria volontà ad _”
. Diversamente - continua il ricorrente - mal si comprenderebbe perché la _ era solita ricorrere ai servizi della _ e alla presenza di RI 2.
RI 1 sostiene, poi, che la stessa sentenza impugnata afferma che
“non è possibile ritenere che egli fosse il consulente generale per ogni e qualsiasi questione si ponesse in relazione alla pista”
e che il suo compito, quale persona di fiducia del Comune, era semplicemente di fungere da intermediario con la ditta _ per predisporre eventuali interventi (ricorso, pag. 7-8).
A detta del ricorrente, da queste circostanze emerge assai chiaramente che non esistono elementi per ritenere che egli disponesse di conoscenze particolari e sufficienti per poter imporre la propria volontà ad _, né per ritenere che i due addetti alla pista riconoscessero in lui la persona che doveva partecipare, direttamente ed attivamente, ad ogni operazione di manutenzione dell’impianto di raffreddamento.
RI 1 sostiene ancora che la superiorità cognitiva andava in verità riconosciuta a RI 2 ed a _, quest’ultimo addetto principale alla manutenzione della pista e membro del gruppo di lavoro interdisciplinare che aveva partecipato alle analisi sfociate poi in una perizia sui rischi legati all’impianto di raffreddamento (ricorso, pag. 8-9).
2.3.
Così argomentando il ricorrente dimentica i limiti di un ricorso per cassazione e, in luogo di confrontarsi con gli accertamenti operati dal primo giudice e spiegare perché gli stessi sarebbero manifestamente insostenibili, si diffonde in considerazioni di stampo appellatorio perorando la sua tesi secondo cui egli, a differenza di RI 2 e _, non disponeva di conoscenze specifiche in materia di impianti di raffreddamento, motivo per cui non poteva fungere da supervisore delle operazioni di manutenzione della pista di _.
Ma anche volendo prescindere dalla manifesta inammissibilità del ricorso, si osserva che l’accertamento del ruolo di supervisore avuto da RI 1 nella vicenda – e in particolare del fatto che era lui a dirigere i lavori e a guidare autorevolmente i due operai - non è dipeso dall’esame puntuale delle sue conoscenze tecniche in materia di impianti di raffreddamento. Determinante in questo senso è stata piuttosto la circostanza, compiutamente accertata dal primo giudice e non contestata dal ricorrente, secondo cui RI 1 era la persona di fiducia della società di pattinaggio e che, nella veste di responsabile della direzione lavori, ha sempre seguito, in prima persona, tutte le operazioni di spurgo delle condotte, incluso l’intervento messo in atto il 18 agosto 2008 durante il quale egli ha, peraltro, dispensato direttive e rassicurazioni ai due addetti della pista che si occupavano di abbattere l’ammoniaca residua.
3. RI 1
sostiene, poi, che a torto il primo giudice ha ritenuto che _ hanno agito come strumenti sprovvisti di volontà o, quantomeno, non colpevolmente.
3.1.
Il presidente della Pretura penale, dopo aver ricordato che si è in presenza di un autore mediato non solo quando l’autore diretto agisce senza volontà, ma anche qualora egli agisce senza intenzione o senza la coscienza di agire illecitamente e l’autore mediato ne è a conoscenza o provoca in lui un errore sull’illiceità, ha dapprima osservato che _ non avevano seguito nella sua integralità la prima operazione di spurgo messa in atto da RI 2 il 4 giugno 2008 (e non avevano, dunque, le necessarie competenze). Ciò posto egli ha rilevato che, a fronte delle rassicurazioni sulla pericolosità dell’ammoniaca fornite a _ dalle persone di fiducia - in un caso dal tecnico frigorista RI 2 e nell’altro da RI 1 (che _ chiamava “ingegnere”) -
“occorre ritenere che essi erano convinti della bontà dell’operazione di svuotamento, pur avendo nutrito qualche dubbio”
(sentenza, consid. 16 pag. 17-18).
3.2.
Nel suo gravame, il ricorrente osserva che la sentenza impugnata è arbitraria in quanto non analizza minimamente il dolo di _ e, semmai, lo fa prescindendo dalle chiare risultanze istruttorie. A mente di RI 1, la consapevolezza e, quantomeno il dolo eventuale di _ - la cui qualifica di autori diretti non è contestata - emergono dalle dichiarazioni dei diretti interessati, crassamente ignorate dalla sentenza impugnata.
In particolare, il ricorrente rileva come sia evidente, ritenuta la loro presenza in occasione del primo intervento di spurgo messo in atto dal tecnico frigorista RI 2 il 4 giugno 2008, che _ abbiano capito - al più tardi quel giorno - che manovrare una sostanza come l’ammoniaca era operazione rischiosa per cui l’assunzione di precauzioni era necessaria e come, dunque, non si possa non ritenere che, quantomeno per dolo eventuale essi abbiano partecipato all’azione delittuosa (ricorso, pag. 10).
RI 1 osserva, poi, che la sua tesi è rafforzata dalle dichiarazioni rilasciate degli stessi _ in occasione del dibattimento. _, spiega il ricorrente, ha affermato di occuparsi da oltre 25 anni della pista di ghiaccio, ciò che sicuramente gli ha permesso di rendersi conto dei pericoli relativi all’utilizzo di ammoniaca. D’altra parte - rileva ancora il ricorrente - egli ha ammesso di avergli chiesto se l’immissione di ammoniaca nell’acqua non avrebbe creato problemi alla flora e alla fauna, dimostrando così di essere conscio dei rischi che l’operazione comportava. Dal canto suo - continua i ricorrente - _ ha riferito di avere avuto paura nel gestire il rubinetto dell’ammoniaca e di avere deciso, unitamente a _, di allacciare anche una manichetta per far affluire ulteriore acqua nel pozzo, dando così atto della sua conoscenza dei meccanismi di abbattimento della concentrazione di ammoniaca al fine di renderla innocua (ricorso, pag. 11-12).
Infine il ricorrente rimarca come già solo il fatto per cui il primo giudice è giunto alla conclusione che _ hanno
“nutrito qualche dubbio”
sulla bontà dell’operazione di svuotamento indichi come, in realtà, essi abbiano agito per dolo eventuale, ciò che esclude la qualifica di autore mediato attribuitagli dal primo giudice. Egli - conclude - doveva semmai essere giudicato quale istigatore o complice dell’evento delittuoso (ricorso, pag. 13).
3.3.
L’autore mediato è colui che si serve di un’altra persona come strumento privo di volontà o almeno sprovvisto d’intenzione colpevole, alfine di fargli compiere il reato prospettato (DTF 120 IV 17 consid. 2d; sentenza del TF del 29 marzo 2010 6B_8/2010 consid. 1.2.1). Per ammettere l’esistenza di un autore mediato occorre, dunque, che l’autore diretto non abbia agito con dolo (Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Zurigo 2008, ad vor art. 24 n. 4; Forster, Basler Kommentar, Strafrecht I, Basilea 2007, ad vor art. 24 n. 30 secondo cui, diversamente, entrano in considerazione la complicità o la correità).
Giusta l’art. 12 cpv. 2 CP, commette con intenzione un crimine o un delitto chi lo compie consapevolmente e volontariamente. Basta, a tal fine, che l’autore ritenga possibile il realizzarsi dell’atto e se ne accolli il rischio. La seconda frase dell’art. 12 cpv. 2 CP definisce la nozione di dolo eventuale (DTF 133 IV 9 consid. 4) che sussiste laddove l’agente ritiene possibile che l’evento o il reato si produca e, cionondimeno, agisce, poiché prende in considerazione l’evento nel caso in cui si realizzi e lo accetta pur non desiderandolo (DTF 134 IV 26 consid. 3.1.2; sentenza 6B_656/2009 del Tribunale federale, consid. 5.2).
Ciò che l’autore sapeva, voleva o ha preso in considerazione sono questioni di fatto (DTF 130 IV 58 e rinvii
) e i relativi accertamenti operati in prima sede vincolano questa Corte - come, del resto, il Tribunale federale - riservato il caso di arbitrio (art. 288 lett. c CPP). La nozione di dolo eventuale è, invece, una questione di diritto. Ritenuto che il dolo (eventuale), quale fatto interiore, può essere accertato solo in base ad elementi esteriori, in quest’ambito le questioni di fatto e di diritto sono strettamente connesse tra di loro e coincidono parzialmente (DTF 133 IV 1 consid. 4.1). Il quesito giuridico di sapere se l’autore abbia agito con dolo eventuale può essere risolto solo valutando i fatti accertati dal primo giudice e da cui questi ha dedotto, rispettivamente negato, l’elemento soggettivo. Con riferimento al concetto giuridico di dolo eventuale, la Corte di cassazione e revisione penale (al pari del Tribunale federale) può, pertanto, esaminare liberamente se sono state valutate correttamente le circostanze, in base alle quali è stato accertato che l’agente ha preso in considerazione, ossia ha accettato (rispettivamente non ha accettato) l’evento o il reato (
DTF 130 IV 58
consid. 8.5). In mancanza di confessioni, il giudice può, di regola, dedurre la volontà dell’interessato fondandosi su indizi esteriori e sulle regole dell’esperienza. Può inferire la volontà dell’autore da ciò che questi sapeva, laddove l’eventualità che l’evento si produca era tale da imporsi all’autore, in modo che si possa ragionevolmente ammettere che lo abbia accettato (
DTF 133 IV 222 consid. 5.3; 130 IV 58
consid. 8.4). Tra gli elementi esteriori da cui è possibile dedurre che l’agente ha accettato l’evento illecito nel caso che si produca figurano, in particolare, la gravità della violazione del dovere di diligenza e la probabilità, nota all’autore, della realizzazione del rischio, il movente e la modalità con cui l’atto è stato commesso (
DTF 125 IV 242
consid. 3c in fine e rinvii; STF 6B_519/2007 del 29 gennaio 2008, consid. 3.1). Quanto più grave è tale violazione e quanto più grande tale rischio, tanto più fondata risulterà la conclusione che l’agente, malgrado i suoi dinieghi, aveva accettato l’ipotesi che l’evento considerato si realizzasse. La conclusione per cui l’autore ha accettato il risultato non può, tuttavia, essere dedotta dal semplice fatto che egli ha agito sebbene fosse consapevole del rischio della sopravvenienza del risultato, in quanto si tratta di un elemento comune al dolo eventuale e alla negligenza cosciente (
DTF 130 IV 58
consid. 8.4).
3.4.
Come visto, il presidente della Pretura penale ha accertato che _, pur avendo nutrito qualche dubbio,
“erano convinti della bontà dell’operazione di svuotamento”
e che, dunque, essi - rassicurati da RI 2 e da RI 1 sulla pericolosità dell’operazione d’abbattimento dell’ammoniaca - non hanno agito con l’intenzione di causare un inquinamento delle acque (e nemmeno hanno accettato che tale risultato potesse realizzarsi).
La tesi del primo giudice, ancorché esposta in maniera estremamente sintetica e non molto chiara, resiste alle censure proposte dal ricorrente.
Innanzitutto si osserva, infatti, che il ricorrente col suo gravame si limita perlopiù a sostenere che _ erano consapevoli della pericolosità dell’ammoniaca (fatto peraltro di comune conoscenza), dimenticando che la conclusione per cui essi avrebbero accettato il fatto che l’ammoniaca potesse causare l’inquinamento delle acque (e avrebbero dunque agito per dolo eventuale) non può essere dedotta da una tale semplice constatazione (cfr.
DTF 130 IV 58
consid. 8.4, secondo cui la consapevolezza del rischio è un elemento che, a sé stante, non caratterizza il dolo eventuale).
D’altra parte, nemmeno la circostanza per cui _ ha deciso, unitamente a _, di allacciare una manichetta per fare affluire ulteriore acqua nel pozzo (cfr. verbale di audizione di _ allegato al verbale del dibattimento, pag. 2), è un elemento dal quale è possibile dedurre che gli addetti alla pista abbiano accettato la realizzazione del reato. La decisone di aggiungere acqua nel pozzo rappresenta, infatti, una precauzione supplementare dettata dalla logica considerazione per cui la pericolosità dell’ammoniaca diminuiva aumentando il flusso d’acqua che la diluiva, e non, come sostiene il ricorrente, dalla conoscenza dei meccanismi di abbattimento dell’ammoniaca. Tale modo di agire non può che confortare l’ipotesi per cui gli stessi addetti alla pista hanno fatto tutto quanto in loro potere (andando oltre alle direttive della persona che supervisionava l’operazione) per scongiurare un inquinamento delle acque.
In queste condizioni, dunque, non è possibile ritenere che _ - peraltro ripetutamente rassicurati dal ricorrente (cfr. verbale di _ del 18 agosto 2008 secondo cui
“io chiesi pure al RI 1 se non vi fosse pericolo (...), lo stesso ci rispose negativamente e cioè che, diluita nell’acqua l’ammoniaca sarebbe stata innocua”
; cfr. verbale di audizione di _ allegato al verbale del dibattimento, pag. 2 secondo cui
“a un certo momento abbiamo chiesto a RI 1 se andava bene e _ ha ancora tirato qua la storia del pH. RI 1 ha risposto che non occorreva controllare l’acidità”
) - abbiano accettato l’ipotesi che si potesse verificare un inquinamento dell’acqua che dal pozzo confluiva nel fiume _.
Ne discende che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, _, durante l’operazione che ha portato all’inquinamento del fiume _, non hanno agito con dolo (eventuale).
Anche su questo punto, pertanto, il ricorso deve essere disatteso.
Solo di transenna è ancora il caso di osservare che l’ammissione della tesi ricorsuale non avrebbe comunque liberato RI 1 dalle sue responsabilità penali. L’eventuale accertamento di un dolo da parte di _, infatti, avrebbe semplicemente comportato una costruzione giuridica diversa con il ricorrente nella veste di coautore. In questo senso il ricorso ha sbagliato obiettivo.
4.
Pertanto, ritenuto come le conclusioni del primo giudice secondo cui _non hanno agito intenzionalmente, ma come strumenti sprovvisti di volontà, poiché indotti in errore dalle direttive e dalle rassicurazioni di RI 1 che fungeva da responsabile dei lavori, abbiano resistito alle censure ricorsuali, la condanna dello stesso ricorrente quale autore mediato di infrazione
alla Legge federale sulla protezione delle acque merita conferma
.
5.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza e sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b080b610-5108-5f59-ba4e-45a228a6704f | in fatto ed in diritto
che il _ il giudice della Pretura penale Siro Quadri ha emanato una sentenza di condanna a carico di PI 2, dichiarandolo in particolare autore colpevole d’infrazione lieve alle norme della circolazione (art. 90 cifra 1 LCStr) (inc. _);
che la summenzionata sentenza è nel frattempo passata in giudicato;
che con la presente istanza il IS 1, nell’ambito di un procedimento amministrativo riguardante la revoca della licenza di condurre di PI 2, postula a questa Corte la trasmissione, in copia, del verbale del dibattimento _ di cui all’incarto penale _, nel frattempo archiviato;
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico e PI 2 non si oppongono alla richiesta;
che l
’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel caso in esame è certamente data una connessione tra il procedimento penale sfociato nella sentenza di condanna _ (inc. _), passata in giudicato, e il procedimento amministrativo pendente presso il IS 1 (inc. _), poiché entrambi i procedimenti traggono le loro origini dalla medesima fattispecie: l’incidente della circolazione stradale avvenuto in territorio di _, sull’autostrada _, il _;
che la richiesta è dunque fondata su un interesse giuridico legittimo dell’autorità istante ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG che prevale sugli interessi personali di PI 2.
che di conseguenza, il verbale del dibattimento _ (inc. _) viene trasmesso, in copia, all’autorità istante unitamente alla presente decisione;
che l’istanza è accolta ai sensi delle precedenti considerazioni;
che dato l’obbligo di assistenza tra autorità amministrative e penali, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b09d2efa-06f3-5e5b-834c-7f68e01ad765 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito di quanto accaduto il _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) a carico di PI 2, _, sfociato nel decreto di accusa 21.10.2013 mediante il quale il procuratore generale lo ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuto (tra l’altro) colpevole di guida in stato di inattitudine (alcol), guida in stato di inattitudine (medicamenti), infrazione alle norme della LCStr, elusione di provvedimenti per accertare l’inattitudine alla guida e inosservanza dei doveri in caso d’infortunio in relazione all’incidente della circolazione stradale avvenuto il _ ed ha proposto la sua condanna di cui al DA _.
Il surriferito decreto è passato in giudicato il 19.11.2013 (a seguito del ritiro dell’opposizione del 25.10.2013).
2.
Con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – l’autorità istante chiede di poter accedere agli atti istruttori inerenti all’incidente della circolazione stradale avvenuto il _ avente quale protagonista PI 2.
A sostegno della sua istanza precisa in particolare che il 25.06.2013 il Municipio è stato informato (dal Ministero pubblico) dell’apertura di un procedimento penale a carico di PI 2, _ del IS 1, per titolo di infrazione alle norme della circolazione, elusione di provvedimenti per accertare l’incapacità alla guida e inosservanza dei doveri in caso d’infortunio, e ciò a seguito dell’incidente della circolazione avvenuto il _, in territorio di _, in Via _ [cfr. doc. CRP 1.a; cfr. anche scritto PG 25.06.2013 (AI 3 – inc. MP _)]. Di conseguenza con risoluzione no. _ IS 1 ha aperto un’inchiesta disciplinare a carico di PI 2, che è stata immediatamente sospesa fino al termine del procedimento penale. Nel frattempo l’autorità istante è venuta a sapere dallo stesso interessato che il procedimento penale in questione è sfociato in un decreto divenuto esecutivo. Da qui la presente istanza.
3.
Come esposto in entrata, il procuratore generale si rimette al giudizio di questa Corte. PI 2, dal canto suo, non si oppone alla richiesta.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
Nella fattispecie in esame – ritenuti i motivi addotti nella presente richiesta e la finalità per cui è chiesta la compulsazione degli atti – si deve, di principio, ammettere l’esistenza di un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG dell’autorità istante prevalente sugli interessi personali di PI 2, imputato nel procedimento penale di cui all’incarto MP _ sfociato nel DA _, nel frattempo passato in giudicato.
In effetti, sia il procedimento penale, sia quello disciplinare, traggono le loro origini dalla medesima fattispecie, ovverossia l’incidente della circolazione avvenuto il _ avente quale protagonista PI 2. Gli atti istruttori dell’incarto penale MP _ sono dunque certamente utili al IS 1 ai fini del procedimento disciplinare pendente dei confronti di quest’ultimo.
A ciò aggiungasi che PI 2 non si è opposto alla richiesta.
Considerato che il decreto di accusa ingloba un capo d’imputazione che concerne un’altra fattispecie (inc. MP _), questa Corte autorizza il sindaco e/o il segretario comunale del IS 1 ad esaminare, presso il Ministero pubblico, gli atti istruttori limitatamente all’incarto _ riguardante l’incidente della circolazione stradale del _ (come richiesto), concordando i tempi di accesso con il procuratore generale compatibilmente con i suoi impegni.
Il sindaco e/o il segretario comunale sono, se del caso, autorizzati a fotocopiare gli atti utili alle loro incombenze.
Va da sé che il sindaco, il segretario comunale e gli altri membri del IS 1 sono tenuti al segreto d’ufficio. Inoltre i dati raccolti possono essere utilizzati soltanto nell’ambito della procedura disciplinare a carico di PI 2.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Stante la particolarità della fattispecie, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b1585164-c3a3-5f32-b900-5da7310a3b4c | in fatto: A.
Con decreto di accusa 23 maggio 2007, il sostituto procuratore pubblico del Canton Ticino ha ritenuto RI 1 autore colpevole di:
- infrazione alla LF sul domicilio e la dimora degli stranieri per avere a _, nel periodo 26 febbraio-3 aprile 2007, quale gerente/affittacamere favorito il soggiorno di almeno 12 cittadine straniere - che sapeva esercitare attività lucrativa abusiva - fornendo loro a pagamento un alloggio presso il _ (art. 23 cpv. 1 LDDS);
- contravvenzione alla citata legge, per avere, sempre nella sua qualità di gerente dell’affittacamere _ , impiegato un numero imprecisato di cittadine straniere - tra cui le donne di cui si è riferito sopra - sapendo che non erano autorizzate a lavorare in Svizzera poiché prive dei permessi richiesti (art. 23 cpv. 4 LDDS).
In applicazione della pena, è stata proposta la condanna di RI 1 a 90 aliquote giornaliere di fr. 90.- ciascuna per un totale di fr. 8'100.-, pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, e alla multa di fr. 3'000.-.
B.
Statuendo sull’opposizione sollevata da RI 1, con sentenza 8 luglio 2008, il giudice della Pretura penale lo ha assolto da entrambe le imputazioni.
C.
Con sentenza 8 maggio 2009, la CCRP ha parzialmente accolto il ricorso per cassazione inoltrato dal sostituto procuratore pubblico avverso la decisione di prima istanza. Pur confermando il proscioglimento di RI 1 dall’imputazione di contravvenzione all’art. 23 cpv. 4 LDDS, essa lo ha dichiarato autore colpevole di infrazione all’art. 23 cpv. 1 LDDS, rinviando gli atti alla Pretura penale per nuovo giudizio sulla commisurazione della pena e sulle spese di prima sede (cfr. sentenza CCRP inc. n. 17.2008.46).
D.
Adito da RI 1 con ricorso in materia penale, subordinatamente con ricorso sussidiario in materia costituzionale, con sentenza 18 agosto 2009 il Tribunale federale ha dichiarato il rimedio inammissibile, ritenuto come la sentenza impugnata non rappresenti una decisione finale né una decisione parziale ed, in ogni caso, difettando i requisiti per impugnare una decisione pregiudiziale o incidentale (sentenza TF, inc. 6B_510/2009).
E.
Con sentenza 14 aprile 2010, pertanto, il giudice della Pretura penale ha proceduto a una nuova commisurazione della pena, condannando RI 1 alla pena pecuniaria di 70 (settanta) aliquote giornaliere di fr. 60.- (sessanta) cadauna, per un totale di fr. 4'200.- (quattromiladuecento), pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, e alla multa di fr. 1’000.- con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento la pena sostitutiva è fissata in 17 (diciassette) giorni (art. 106 cpv. 2 CP). Lo ha, inoltre, condannato al pagamento della tasse e spese giudiziarie di complessivi fr. 400.-.
F.
Avverso la predetta sentenza è insorto il condannato con dichiarazione di ricorso alla CCRP di data 19 aprile 2010. RI 1, nella sua motivazione scritta, presentata il 21 maggio 2010, chiede, in via principale, l’annullamento della decisione impugnata, in via subordinata la trasmissione degli atti al giudice della Pretura penale per nuovo giudizio previa audizione (contradditorio) delle persone indicate nel decreto di accusa, considerate testimoni a suo carico e in via ancora più subordinata il contradditorio orale davanti alla CCRP e la possibilità di controinterrogare le tre citate persone, e l’accoglimento del ricorso nel merito. In ogni caso, protesta tasse, spese, ripetibili e ogni indennità.
G.
Non sono state presentate osservazioni al ricorso.
H.
In occasione del pubblico dibattimento del 15 settembre 2010 il ricorrente si è riconfermato nelle censure esposte nel gravame, postulando l’annullamento della sentenza impugnata.
Il procuratore pubblico ha per contro domandato la reiezione del gravame, nella misura della sua ricevibilità, rimettendosi al prudente giudizio della Corte per quel che concerne la censura riguardante l’ammontare di tasse e spese giudiziarie. | Considerando
in diritto: 1.
Unitamente al ricorso, RI 1 ha prodotto (per la prima volta) il rapporto di intervento datato 12 aprile 2010 della polizia Cantonale, Gendarmeria di _, indirizzato al Comando della polizia cantonale, concernente l’intervento effettuato dalla polizia il 25 febbraio 2010 ore 17.00 presso l’esercizio pubblico _ (doc. 3). Sennonché, davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale non sono ammissibili documenti né altri mezzi di prova nuovi. Tale divieto è sempre stato ribadito dalla giurisprudenza (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; CCRP, sentenza del 20 marzo 1989 in re P., consid. 1.2; CCRP, del 18 febbraio 2000 in re F., consid. 1; del 26 aprile 2000 in re I., consid. 1; del 6 maggio 2003 in re R., consid. 2; CCRP, sentenza del 12 dicembre 2006, inc. n. 17.2005.51/52, consid. 2), un ricorso per cassazione dovendo essere giudicato sulla base dello stesso materiale processuale vagliato in prima sede. Ciò posto, tale documento, in quanto esibito solo con il ricorso, va pertanto estromesso dagli atti.
2.
Al punto A del memoriale ricorsuale, il ricorrente lamenta anzitutto un vizio essenziale di procedura giusta l’art. 288 lett. b CPP, come pure, in subordine, un arbitrario accertamento dei fatti all’origine della sua condanna ex art. 23 cpv. 1 LDDS, asserendo che è la seconda volta che egli giunge davanti a questa Corte, senza che egli abbia potuto controinterrogare le tre cittadine straniere menzionate nel decreto di accusa, di cui egli avrebbe favorito il soggiorno illegale in Svizzera, sapendo che esse esercitavano attività lucrativa abusiva presso l‘esercizio pubblico/affittacamere _ , di cui era gerente. La mancata audizione di queste tre persone - prosegue il ricorrente - ha condotto ad un arbitrario accertamento dei fatti e, quindi, ha influito in modo decisivo sulla sua condanna. Ora, nella misura in cui si avvale di argomenti del genere e, più precisamente, nella misura in cui si diffonde in considerazioni con le quali si propone, in definitiva, di contestare il giudizio di colpevolezza operato da questa Corte nella sua decisione 8 maggio 2009 (inc. n. 17.2008.46), il gravame si rileva manifestamente inammissibile. Giacché l’insorgente omette di considerare che la sentenza del giudice della Pretura penale qui impugnata verteva, e doveva vertere, unicamente sulla commisurazione della pena e sugli oneri processuali di prima sede. In altri termini, le obiezioni ricorsuali - riprese in seguito al punto D del ricorso con riferimento ad una pretesta violazione del diritto federale che sarebbe stata commessa nei suoi confronti - volte a rimettere in discussione la condanna ex art. 23 cpv. 1 LDDS da parte di questa Corte, sfuggono a disamina nell’ambito del presente procedimento ricorsuale. Se del caso, esse potranno essere (ri)presentate al Tribunale federale dopo l’emanazione del presente giudizio (art. 93 cpv. 3 LTF). Ciò posto, non entra nemmeno in considerazione la prospettata audizione davanti alla CCRP delle tre cittadine straniere indicate nel decreto di accusa; richiesta che del resto è contraria al citato divieto di addurre nuove prove e nuovi mezzi di prova davanti alla CCRP (v. consid. 1 che precede).
3.
Il ricorrente si duole, dipoi, di un’errata applicazione del diritto sostanziale riferita ad un presunto arbitrario accertamento dei fatti, che avrebbe influito sulla commisurazione della pena a suo carico. La nuova decisione - puntualizza l’insorgente - viola l’accertamento dei fatti, dato che essa si fonda su nuovi fatti non accertati e, d’altra parte, ritiene a torto che la sentenza di rinvio della CCRP sia già passata in giudicato, benché non lo sia ancora. Il che - prosegue il ricorrente - ha comportato una violazione del principio della presunzione di innocenza in merito al rimprovero mossogli dal primo giudice di avere continuato a lavorare presso il medesimo datore di lavoro, risultando strano che il Pretore non fosse informato dell’allegato 3 al ricorso. Fatto sta - rileva sempre il ricorrente - che nella sentenza impugnata gli si fa esplicitamente carico di avere continuato a lavorare nonostante la condanna della CCRP, ricordandogli perfino che non gli compete di interpretare la legge a suo piacimento. Non essendo la sentenza della CCRP passata in giudicato - reitera nel fare valere il ricorrente - la tesi pretorile viola la presunzione di innocenza. Nonostante tale giudizio, il primo giudice disponeva pur sempre di libero spazio di apprezzamento per la commisurazione della pena. Libero apprezzamento - obietta l’insorgente - che è stato però influenzato da due elementi che all’evidenza traspaiono dall’impugnata sentenza e che non sono corretti: la disattenzione della presunzione di innocenza, che deve valere fino a quando sulla questione non si è pronunciato il Tribunale federale, ergo la non giustificazione dei rimproveri mossigli a pag. 5 della sentenza impugnata; il riferimento del primo giudice al fatto che l’esercizio pubblico _ sarebbe luogo di “meretricio”. Il decreto di accusa - rileva il prevenuto - è del 23 maggio 2007 e i fatti appurati sono quelli, al massimo, stabiliti con la prima sentenza. Sennonché - osserva il ricorrente - il primo giudice si è fondato su fatti posteriori a lui noti su cui non ha dato al condannato la possibilità di difendersi, rispettivamente su un proprio personale pensiero. Certo, il prevenuto ha presentato le regolari copie di permessi di persone che esercitano presso il _. Questa circostanza, sempre a suo giudizio, dimostrerebbe però semmai il contrario, ovvero che tali persone sono regolarmente notificate e iscritte. In ogni modo - sempre secondo il ricorrente - rimproverandogli di avere continuato a lavorare colà, senza condanna definitiva, oppure basandosi su fatti nuovi e ignoti, la sentenza impugnata viola la procedura. Ne consegue che l’addebito e l’affermazione secondo cui il locale continua ad essere per causa del prevenuto zeppo di persone clandestine, hanno influito sulla commisurazione della pena: la motivazione fornita al riguardo consente infatti di ritenere che il giudice ha valutato simili fatti in modo aggravante. Da qui l’imperativo di annullare il dispositivo di condanna inerente alla pena o di procedere ad una sua adeguata riduzione.
4.
Secondo l’art. 296 CPP, la Corte di cassazione e di revisione penale riforma la sentenza quando ha sufficienti elementi per il giudizio. In caso contrario, rinvia la causa alla competente autorità del merito. In quest’ultimo caso, l’autorità chiamata a giudicare nuovamente deve porre a fondamento della propria decisione i considerandi di diritto della sentenza di cassazione (cfr. per analogia la procedura valida per il Tribunale federale:
mutatis mutandis
, art. 273ter vPP che mantiene la validità anche sotto l’egida della nuova LTF; cfr. messaggio concernente la revisione totale dell’organizzazione giudiziaria federale del 28 febbraio 2001, FF 2001 3901; cfr. anche sentenza CCRP del 25 maggio 2010, inc. 17. 2009.51, consid. 1.2 con riferimento a sentenza CCRP del 19 aprile 2010, inc. 17.2010.8, consid. 1).
In concreto, il giudice della Pretura penale era dunque tenuto a conformarsi a quanto stabilito da questa Corte con decisione 8 maggio 2009 in merito alla colpevolezza del ricorrente e ad emettere un nuovo giudizio unicamente sulla commisurazione della pena e sulle spese di prima sede (cfr. sentenza CCRP, inc.17.2009.46, dispositivi n. 1 e 2).
5.
Premesso che al momento dei fatti il ricorrente era il gerente delle stanze del _ e, dunque, il responsabile delle stesse e che fra i suoi ruoli vi era quello di accogliere i clienti della stanze e di compilare la relativa “notifica di arrivo” per la Polizia (sentenza, consid. 3, pag. 4), il giudice della Pretura penale ha anzitutto ricordato che al dibattimento l’imputato si è avvalso di argomenti che contrastano in modo netto quanto precisato dalla CCRP nella sua decisione di rinvio in merito al comportamento che gli affittacamere muniti di patente devono adottare nella propria attività e relativamente agli obblighi di controllo imposti agli stessi (sentenza, consid. 4 pag. 4). RI 1 - ha puntualizzato il primo giudice - ha preteso di non essere tenuto a verificare se una cliente che chiede una camera esercita poi la prostituzione, dal momento che se ha i documenti e paga, secondo le istruzioni ricevute, egli non ha altri obblighi, per poi soggiungere che non deve partire dal presupposto che la persona in causa esercita quel particolare lavoro, che può del resto anche essere esercitato fuori dal locale, ritenuto che egli non può controllare quello che fanno, e che al bar ha occasione di vedere le ragazze senza però poterle riconoscere, tanto da accorgersi che sono quelle della camera soltanto il giorno successivo (sentenza, consid. 4 pag.5). Sennonché - ha stigmatizzato il giudice - tale pensiero, oltre a non risultare credibile per quanto attiene alla riconoscibilità delle prostitute al loro arrivo e al bar adiacente alle camere affittate, è del tutto incurante delle direttive imposte dalla CCRP e non costituisce di certo un’attenuante (sentenza, consid. 4 pag. 5). RI 1 - ha fatto presente il pretore - era, infatti, perfettamente consapevole del fatto che ospitare e dare alloggio a persone straniere prive del permesso di lavoro è stato definito illegale dalla stessa CCRP. E il prevenuto - ha proseguito il giudice - era pure consapevole che l’infrazione può essere commessa anche con semplice dolo eventuale. Nonostante ciò, sempre stando alla sentenza impugnata, egli ha reiterato nel sostenere quanto da lui sempre dichiarato, ossia che, a suo avviso, non vi è nulla di anomalo nel ragionamento da lui fatto, secondo cui il titolare della licenza dell’esercizio pubblico non è tenuto a verificare l’attività che le sue ospiti esercitano nelle stanze affittate. Trattasi però - secondo il giudice - di un’attitudine incurante della normativa vigente e della sentenza della CCRP che lo ha condannato, ciò che impone forzatamente di dedurre che le dichiarazioni delle autorità non hanno alcun effetto sul soggetto (sentenza, consid. 4, pag. 5).
Ciò posto - ha concluso il pretore – RI 1 non può giustificarsi con le proprie opinioni personali sull’interpretazione della legge, così come non può discolparsi con il fatto che intende ricorrere fino all’ultima istanza contro le sentenze a lui dirette. Al momento attuale, non può nemmeno prevalersi del fondato diritto di ospitare le clienti, così come da lui ipotizzato, non potendo ritenere maggiormente fondata la sua tesi rispetto a quella della CCRP. La colpa di RI 1 - secondo il giudice - non può perciò definirsi lieve alla luce anche della sua posizione giuridica, legata all’attività di gerente del locale pubblico in questione e della sua, non certo esemplare, collaborazione con l’autorità inquirente. Nell’espletare la sua attività lucrativa, il prevenuto ha violato anche gli obblighi specifici validi in ambito di esercizi pubblici di garantire l’ordine, la quiete e il buon costume dell’attività che gestisce e delle immediate vicinanze di zone sensibili e abitate, omettendo di notificare alle autorità il fatto che le donne straniere, che lui sapeva o doveva presumere essere sprovviste della necessaria autorizzazione, vi esercitavano un’attività lucrativa. RI 1 - sempre secondo il Pretore - ha dipoi esercitato a scopo di lucro la sua attività, ciò che gli ha consentito di conseguire un salario, ancorché non elevato (sentenza, consid. 5, pag. 5-6). Da qui la condanna alla pena pecuniaria di 70 aliquote giornaliere di fr. 60.- per un totale di fr. 4'200.-, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, e a una multa di fr. 1'000.-.
6.
Contrariamente a quanto preteso nel ricorso, tale motivazione è sostanzialmente conforme al contesto che risulta dalla decisione di rinvio alla quale il primo giudice era tenuto ad attenersi. Consapevole di affittare le camere a donne che esercitavano la prostituzione (e ci mancherebbe altro) e sapendo, o comunque dovendo presumere che lo facevano senza essere autorizzate a lavorare in Svizzera, RI 1, nella sua posizione di garante, non poteva infatti contare di liberarsi dalle sue responsabilità notificando semplicemente alla polizia la presenza nel motel delle donne straniere quali turiste. RI 1, lo si ripete, era invece tenuto a notificare alle autorità tutte quelle situazioni per lui riconoscibili in contrasto con la legge che si realizzavano nell’esercizio pubblico di cui era gerente, tra cui il fatto che persone, che per l’appunto sapeva o doveva presumere essere sprovviste della necessaria autorizzazione, vi esercitavano un’attività lucrativa (la prostituzione) non autorizzata. Ne consegue che nella misura in cui il primo giudice ha considerato tale comportamento - sfociato nella trasmissione all’autorità di una falsa indicazione con la notifica alla polizia dei semplici soggiorni turistici, che in realtà erano invece dei soggiorni destinati all’esercizio di un’attività lucrativa (esercizio della prostituzione, checché ne dica il ricorrente con argomenti risibili) - nella commisurazione della pena per i fatti all’origine della sua condanna, le obiezioni ricorsuali, volte in buona sostanza a riscrivere la sentenza impugnata nel merito, vanno disattese. Per contro, e su questo punto il ricorrente ha ragione, non può invece meritare tutela la filippica - invero improvvida - del primo giudice indirizzata al prevenuto per avere questi nel corso del dibattimento reiterato nel contestare la condanna per infrazione all’art. 23 cpv. 1 LDDS (tanto da preannunciare un ulteriore ricorso al riguardo), incurante della normativa vigente e persino della sentenza che lo ha condannato; ciò che consentirebbe, secondo lo stesso giudice, di forzatamente dedurre che le dichiarazioni delle autorità non abbiano alcun effetto. Giacché aggravare la pena per non avere il soggetto supinamente accettato la condanna inflittagli da questa Corte - e sulla quale dovrà pronunciarsi il Tribunale federale, se adito dal ricorrente - rispettivamente per non avere lo stesso prevento riconosciuto i propri torti, stizzendo chi era chiamato a giudicarlo, esula in modo manifesto dal rinvio disposto da questa Corte nella sua sentenza dell’ 8 maggio 2010, avente per oggetto i fatti di cui al decreto di accusa e non i comportamenti successivi del soggetto. Su questo punto il ricorso va perciò accolto.
D’altra parte – così come già stabilito da questa Corte in un caso analogo (cfr. sentenza CCRP 25 maggio 2010, inc. 17.2009.51) – la sua posizione di garante è un presupposto oggettivo per il riconoscimento del reato e non può essere ritenuta una circostanza aggravante la sua colpa. Parimenti, non può essere considerato che egli ha delinquito per lucro, non potendo essere considerato tale il salario percepito per la sua attività di gerente: esso gli è dovuto dalla società di cui egli era dipendente in forza del contratto di lavoro e non può essere considerato provento di un’attività illegale, quale sarebbe stato, ad esempio, una ricompensa da parte delle prostitute o di terzi per l’omissione della loro notifica all’autorità. Pertanto, si impone una riduzione della pena (sospesa condizionalmente) da 70 aliquote di fr. 60.- cadauna a 40 aliquote dello stesso importo, ossia da fr. 4'200.- a fr. 2’400.-, cui va aggiunta la multa di fr. 1’000.-.
7.
Il ricorrente impugna, infine, il dispositivo n. 3 della sentenza pretorile che lo condanna al pagamento delle tasse e spese giudiziarie di complessivi fr. 400.-. Assevera, in estrema sintesi, che nel primo processo il giudice della Pretura penale aveva cifrato tali oneri in fr. 400.- (
recte
: in fr. 900.-, dato che ha aumentato di fr. 500.- la tassa di giustizia per motivazione scritta della sentenza), caricandoli però interamente allo Stato (proscioglimento del prevenuto da entrambe le imputazioni di cui al decreto di accusa). Il secondo processo - prosegue l’insorgente - non ha portato a misure istruttorie, ritenuto in ogni modo che esiste perfino una discrepanza tra il dispositivo di condanna al pagamento di fr. 400.- e la distinta spese, che arriva a un totale di fr. 625.- (sentenza, pag. 7). Premesso che dovrebbe comunque valere il dispositivo e non la distinta, il ricorrente rimprovera al primo giudice di avere aumentato la tassa di giustizia da fr. 200.- a fr. 1’000.- e le spese da fr. 200.- a fr. 400.- (v. distinta spese, sentenza, pag. 7). Di questi fr. 1'000.- di tassa di giustizia, 450.- fr sono stati accollati al condannato, mentre che dei fr. 300.- delle spese giudiziarie, fr. 175.- sono stati a sua volta messi a suo carico. Si è così passati da fr. 200.- a fr. 1’000.- per le tasse di giustizia e da fr. 200.- a fr. 300.- per le spese giudiziarie, con un onere a suo carico di fr. 625.- (fr. 450.- + fr. 175.-). Tenuto conto del fatto che nel secondo processo si trattava solo di commisurare la pena, un aumento del genere - sempre secondo il ricorrente - non si giustifica affatto, specie ove si consideri che esso non è nemmeno stato motivato. Tale aumento - conclude il ricorrente - non può che essere interpretato come una sorta di punizione indiretta nei suoi confronti, parzialmente vincitore.
8.
Nel considerando n. 6 della sentenza impugnata, il giudice della Pretura penale ha rilevato che, per quanto attiene alle tasse e alle spese di giustizia e al relativo riparto, va considerato che il decreto di accusa è stato ritenuto fondato per quanto attiene all’imputazione più grave (infrazione all’art. 23 cpv. 1 LDDS). Occorre però rilevare - ha proseguito il giudice - che la prima sentenza è stata cassata dalla CCRP, così che i relativi costi del procedimento precedente devono essere accollati allo Stato. In definitiva - ha concluso il Pretore - le tasse e spese caricate dal Ministero pubblico vanno sopportate dall’accusato in ragione di tre quarti e dallo Stato in ragione di un quarto; lo stesso deve valere per quanto attiene alla tasse e spese del secondo processo, mentre che invece quelle del primo processo riformato dalla CCRP vanno posti a carico dell’accusato unicamente per un quarto.
Tale motivazione - invero aggrovigliata - presenta d’acchito un’evidente contraddizione nella misura in cui il giudice della Pretura penale, dopo avere caricato allo Stato i costi del procedimento precedente a seguito dell’annullamento della sentenza 8 luglio 2009 da parte della CCRP, afferma che “
invece quelle del primo processo riformato dalla CCRP vanno poste a carico dell’accusato unicamente nella misura di 1⁄4
” (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 6). Ma v’è di più. Come correttamente rilevato nel gravame, lo stesso giudice è incorso in un’ulteriore contraddizione quantificando nel dispositivo di condanna (n. 3) in complessivi fr. 400.- gli oneri processuali a carico del prevenuto, benché nella distinta tali oneri siano stati cifrati invece in complessivi fr. 625.- (fr. 450.- + fr. 175.-). La questione non ha tuttavia da essere approfondita, dal momento che il primo giudice non aveva valido motivo per quantificare - in modo, come visto, peraltro contradditorio - gli oneri processuali, sommando tassa di giustizia e spese processuali riferite a entrambi i procedimenti, così da portare la tassa di giustizia di
fr. 700.- (fr. 200.- + l’ingiustificato aumento di fr. 500.- per la motivazione scritta della sentenza; v. sentenza dell’8 luglio 2008, pag. 10) a fr. 1'000.- (fr. 450.- + fr. 550.-; v. sentenza impugnata, distinta spese, pag. 7) e la spese giudiziarie da complessivi
fr. 200.- (primo processo, v. sentenza 8 luglio 2008, pag. 10) a complessivi fr. 300.- (fr. 175.- + fr. 125.-; v. sentenza impugnata, distinta spese, pag. 7). Egli doveva, infatti, soltanto stabilire - tenuto conto anche dell’art. 15 cpv. 2 CPP, a mente del quale se fu pronunciata la cassazione della sentenza impugnata, lo Stato sopporta le spese posteriori all’atto che l’ha determinata - in che misura gli oneri processuali, allora quantificati in complessivi fr. 400.- (l’aumento di fr. 500.- della tassa di giustizia per motivazione scritta non poteva più entrare in considerazione), andavano ripartiti a carico del prevenuto e dello Stato con la sentenza sulla fissazione della pena. Orbene, considerato che il prevenuto è stato assolto dalla seconda imputazione (contravvenzione alla legge federale concernente il domicilio la dimora degli stranieri, art. 23 cpv. 4 LDDS), con conseguente riduzione della pena prospettata nel decreto di accusa, la somma di fr. 400.- di cui al dispositivo n. 3 della sentenza impugnata (corrispondente, ora, alla tassa di giustizia di fr. 200.- e alle spese giudiziarie di fr. 200.-, come nel primo giudizio), va addebitata per metà al prevenuto e allo Stato per il rimanente. Entro questi limiti, il ricorso va pertanto accolto. Per quanto riguarda invece le ripetibili di prima sede (quantificate nel primo processo in fr. 500.-) esse vanno proporzionalmente ridotte, per tenere conto della condanna di cui al dispositivo n. 1. A questo titolo lo Stato verserà pertanto a RI 1 (assistito anche nel secondo processo dal suo legale) ripetibili ridotte, ovvero fr. 300.- (art. 9 cpv. 6 CPP).
9.
Gli oneri processuali relativi al presente giudizio seguono la soccombenza, ossia sono posti carico del ricorrente (le cui doglianza sono state in buona parte dichiarate inammissibili) in ragione di due terzi, mentre che per il rimanente sono posti a carico dello Stato (art. 15 CCP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b25d8b4a-b8a8-5be1-abc8-bd6da15b1085 | in fatto
a.
Con atto d’accusa 6.5.2008, l’allora procuratore pubblico
Manuela Minotti Perucchi ha posto in stato d’accusa dinanzi alla Corte delle assise criminali PI 26 e PI 27 per i titoli di reato di truffa, falsità in documenti ed appropriazione indebita
(ACC _).
b.
In data 15.2.2013, la Corte delle assise criminali ha condannato gli imputati alle pene di ventiquattro mesi di detenzione per PI 26 e di venti mesi di detenzione per PI 27, siccome ritenuti colpevoli di truffa aggravata, appropriazione indebita e falsità in documenti (sentenza 15.2.2013, p. 17, inc. TPC _). Entrambi gli imputati sono stati condannati ad un risarcimento equivalente in favore dello Stato di CHF 450'000.-- ciascuno (dispositivo 5.1.2. e 5.2.2.), ed a versare, in solido, ai ventisette accusatori privati importi per complessivi CHF 2'969'191.10. La Corte delle assise criminali ha inoltre confiscato
“(...) prestazioni assicurative della polizza d’assicurazione sulla vita (...) presso la _; conto di libero passaggio (...) presso _; fr. 146'517.55 depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 26 e
“(...) fr. 211'700.-- depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 27. I risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2. e 5.2.2. sono stati assegnati, previo soddisfacimento di tasse e spese di giustizia,
“(...) in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[PI 24]
, 8.4
[PI 25]
, 8.12
[_]
, 8.25
[RE 1]
e 8.26
[RE 1]
(...)”
(sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
La sentenza 15.2.2013 è passata in giudicato.
c.
Con scritto 16.9.2013 il presidente della Corte delle assise criminali, giudice Marco Villa, ha disposto le assegnazioni a favore di ulteriori cinque accusatori privati oltre quelli già riconosciuti nella sentenza 15.2.2013, che si erano annunciati dopo l’emanazione di quest’ultima (scritto 16.9.2013, inc. TPC _).
d.
Contro tale decisione sono insorti i primi accusatori privati a cui erano stati assegnati i risarcimenti compensatori nella sentenza 15.2.2013,
contestando nella sostanza le modalità di assegnamento adottate dal presidente della Corte. A loro dire le assegnazioni disposte nella sentenza di merito del 15.2.2013 avrebbero acquisito forza di cosa giudicata, e sarebbero state, di conseguenza, vincolanti, e non ulteriormente modificabili. Inoltre, nessuna cessione a favore dello Stato sarebbe intervenuta da parte di altri accusatori privati. I reclamanti hanno oltre a ciò censurato una violazione del diritto di essere sentito.
e.
Con sentenza 8.10.2013 questa Corte ha accolto i gravami sopraindicati annullando la decisione 16.9.2013 in quanto adottata dal solo presidente della Corte delle assise criminali, e non dalla stessa. Ha inoltre constatato una violazione del diritto di essere sentito in quanto il presidente, prima di prendere la propria decisione, non aveva intimato le richieste di assegnazione e non aveva dato, almeno a chi aveva già avanzato simili richieste precedentemente, la possibilità di esprimersi (sentenza 8.10.2013, inc. CRP _).
f.
Dopo aver accordato a tutti gli accusatori privati un termine per confermare la cessione allo Stato della quota relativa al loro credito nei confronti di PI 26 e PI 27 (scritto 6.12.2013, doc. 36, inc. TPC _), e dopo aver ricevuto gli scritti di risposta, la Corte delle assise criminali ha emanato la decisione di assegnazione 18.2.2014. La Corte ha affermato che i valori confiscati al momento del passaggio in giudicato della sentenza di merito 15.2.2013 ammontavano a CHF 358'217.55. Ha inoltre informato che
“(...) con scritto 23.7.2013 della _ Assicurazioni, le prestazioni assicurative relative alla polizza vita (...) di pertinenza di PI 26 non sono esigibili e che neppure lo sono attualmente gli averi della previdenza professionale presso Banca _ (...), sempre di pertinenza di PI 26 (...)”
e che
“(...) i condannati si sono impegnati a proseguire i versamenti al Tribunale penale cantonale per il risarcimento degli accusatori privati e, facendo fede ai loro impegni, hanno versato ad oggi (...) l’ulteriore importo di fr. 51'200.- (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 3). La Corte delle assise criminali ha inoltre citato la dottrina e la giurisprudenza in merito all’art. 73 CP (assegnamenti al danneggiato) affermando che
“(...) dal momento che né in sede d’istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata debita informazione sul contenuto dell’art. 73 CP alle parti lese sprovviste di rappresentante legale, le richieste degli AP (...), con cessione allo Stato della relativa quota del loro credito, vanno accolte e, pertanto, anche a loro va assegnato proporzionalmente al loro credito l’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza (...). (...) al momento del suo passaggio in giudicato la sentenza 15.2.2013 non era in tutti i suoi punti esecutiva, stante l’impegno di versamenti futuri – nel frattempo effettivamente avvenuti – da parte dei condannati e stante la non esigibilità delle prestazioni assicurative relative alla polizza vita e degli averi della previdenza professionale di PI 26 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5 s., inc. TPC _). La Corte ha dunque proceduto all’assegnazione dell’importo confiscato ad ogni singolo accusatore privato per la quota parte di sua spettanza.
g.
Contro tale decisione sono nuovamente insorti i primi accusatori privati a cui erano stati assegnati i risarcimenti compensatori nella sentenza 15.2.2013. A loro dire la decisione impugnata avrebbe violato l’art. 73 CP, nella misura in cui, la sentenza di merito del 15.2.2013 sarebbe regolarmente passata in giudicato e sarebbe diventata esecutiva. In particolare sarebbe diventato esecutivo il dispositivo che attribuiva i risarcimenti equivalenti agli unici cinque accusatori privati che avrebbero validamente e tempestivamente formulato istanza di assegnazione.
h.
Con sentenze 6.8.2014 questa Corte ha accolto i gravami sopraindicati annullando la decisione 18.2.2014. Essa ha, in particolare, constatato che la sentenza 15.2.2013 era passata in giudicato; pertanto le assegnazioni avvenute posteriormente non potevano essere considerate (sentenza 6.8.2014, inc. CRP _; inc. CRP _).
i.
La Corte delle assise criminali ha dunque emanato la decisione di assegnazione 26.11.2014. In concreto essa ha stabilito che per i cinque accusatori privati sopraindicati
“(...) le rispettive richieste di assegnazione sono già state decise con la sentenza 15.2.2013 passata in giudicato e, per quanto concerne l’importo di fr. 358'217.55 di cui ai punti 11.1.3 e 11.2.1 del dispositivo, a ciascuno di loro va dunque assegnata la quota parte di sua spettanza in funzione delle indennità riconosciute in sentenza ai punti 8.3, 8.4, 8.12, 8.26 del dispositivo, mentre che l’importo di fr. 70'200.- pervenuto successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, nella misura in cui non è ancora intervenuta alcuna assegnazione, va assegnato anche agli altri AP istanti (...) in funzione delle indennità riconosciute in sentenza (...)”
(sentenza 26.11.2014, p. 5 s., inc. TPC _).
l.
Contro tale decisione insorge ora il qui reclamante. Egli afferma che:
“(...) In qualità di accusatore privato per i danni inflittimi dagli imputati, giunti in tribunale dopo più di dieci anni dai fatti, giudicati finalmente colpevoli e condannati a risarcire le parti danneggiate, mi aspettavo che la sentenza venisse applicata e che ogni accusatore venisse risarcito totalmente della cifra subita come danno secondo la ripartizione proporzionale comunicata il 15 febbraio 2013. (...). Dopo l’intervento del Procuratore Pubblico che chiese “...la confisca e l’assegnazione ai danneggiati delle liquidità poste sotto sequestro...” nel verbale delle Assise Criminali al punto 8 si legge la condanna degli imputati al versamento delle indennità a tutti gli AP elencati in seguito tra cui al punto 8.19 fr. 67'125.- al sottoscritto. Ora, avendo ricevuto una nuova ripartizione dei risarcimenti che smentisce ciò che venne stabilito dalla sentenza del 15.02.13 firmata ancora dalla stessa Corte e dalle medesime persone (...) mi chiedo che valore abbia avuto tutto lo svolgimento del processo se poi le conclusioni vengono smentite dalle stesse persone. Chiedo pertanto che tutto quanto stabilito dalla sentenza del 15.02.13, compreso il risarcimento agli accusatori privati, sia riconsiderato e che l’assegnazione stabilita il 26 novembre 2014 venga annullata e che si proceda secondo le assegnazioni del 18 febbraio 2014 (...)”
(reclamo 9/10.12.2014).
m.
Delle ulteriori argomentazioni, così come delle successive osservazioni, si dirà, se necessario, in corso di motivazione. | in diritto
1.
1.1.
L’art. 73 cpv. 3 CP dispone che i Cantoni debbano prevedere una procedura semplice e rapida per decidere sugli assegnamenti qualora non fosse possibile deciderli nella sentenza penale. Il testo di questo capoverso è sostanzialmente identico a quello del previgente art. 60 cpv. 3 vCP. È più che probabile che l’entrata in vigore del Codice di procedura penale federale (CPP) abbia di fatto reso superfluo detto capoverso. Di modo che, per determinare le norme procedurali applicabili, ci si deve orientare sul CPP.
1.2.
Nella presente fattispecie, questa Corte ritiene applicabili le norme degli art. 363 ss. CPP, relative alle decisioni giudiziarie indipendenti successive (
N. Schmid
, StPO Praxiskommentar, 2. ed., art. 378 CPP n. 2). Caratterizzando in tal modo la procedura, la via d’impugnazione è quella del reclamo a questa Corte (Commentario CPP –
M. Mini
, art. 393 CPP n. 18).
1.3.
Il gravame, inoltrato il 9/10.12.2014 contro la decisione di assegnazione 26.11.2014, è dunque tempestivo e proponibile. Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate. RE 1, quale accusatore privato, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP, avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio (BSK StPO – M. ZIEGLER, 2. ed., art. 382 CPP n. 4; PC CPP – L. MOREILLON / A. PEREIN–REYMOND, art. 382 CPP n. 5).
Il reclamo è, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
In data 15.2.2013, la Corte delle assise criminali ha condannato gli imputati alle pene di ventiquattro mesi di detenzione per PI 25 e di venti mesi di detenzione per PI 26, siccome ritenuti colpevoli di truffa aggravata, appropriazione indebita e falsità in documenti (sentenza 15.2.2013, p. 17, inc. TPC _). Entrambi gli imputati sono stati condannati ad un risarcimento equivalente in favore dello Stato di CHF 450'000.-- ciascuno (dispositivo 5.1.2. e 5.2.2.), ed a versare, in solido, ai ventisette accusatori privati importi per complessivi CHF 2'969'191.10 (dispositivo 8.). Tra questi accusatori privati risulta anche RE 1, con un credito di CHF 67'125.-- (dispositivo 8.19.).
2.2.
I risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2. e 5.2.2. (CHF 450'000.--) sono stati assegnati, previo soddisfacimento di tasse e spese di giustizia,
“(...) in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[PI 23]
, 8.4
[PI 24]
, 8.12
[_]
, 8.25
[PI 27]
e 8.26
[PI 28]
(...)”
(dispositivo 13.).
2.3.
Al momento del passaggio in giudicato della sentenza 15.2.2013, i valori confiscati ammontavano a CHF 358'217.55 (dispositivo 11.1.3. e 11.2.1.) (sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
3.
3.1.
Giusta l’art. 73 CP se in seguito a un crimine o a un delitto, alcuno patisce un danno non coperto da un’assicurazione e si deve presumere che il danno o il torto morale non saranno risarciti dall’autore, il giudice assegna al danneggiato, a sua richiesta, fino all’importo del risarcimento o dell’indennità per torto morale stabiliti giudizialmente o mediante transazione: a. la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato; b. gli oggetti e i beni confiscati o il ricavo della loro realizzazione, dedotte le spese; c. le pretese di risarcimento; d. l’importo della cauzione preventiva prestata. Il giudice può tuttavia ordinare questi assegnamenti soltanto se il danneggiato cede allo Stato la relativa quota del suo credito.
3.2.
Conformemente al testo di legge, gli assegnamenti sono concessi al danneggiato unicamente a sua richiesta. Quando più danneggiati possono pretendere un risarcimento, è dovere di ciascuno di loro farne domanda al giudice competente. Quest’ultimo dovrà tener conto unicamente dei danneggiati che avranno espressamente formulato la richiesta sulla base dell’art. 73 CP. La dottrina sostiene che il giudice deve rendere attento il danneggiato alla possibilità offerta dall’art. 73 CP, almeno nei casi in cui quest’ultimo non ha delle conoscenze giuridiche sufficienti o non è assistito da un avvocato. Anche la giurisprudenza ammette un dovere di informazione da parte del giudice quando il danneggiato non è pratico nella materia giuridica o non è assistito da un patrocinatore (cfr. decisione TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013; sentenza TF 6B_190/2010 del 16.7.2010; BSK Strafrecht I – F. BAUMANN, 3. ed., art. 73 CP n. 20).
In virtù del principio dell’economia processuale l’assegnamento deve essere deciso, di principio, già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP a contrario). I Cantoni devono prevedere una procedura semplice e rapida nel caso in cui gli assegnamenti non fossero possibili già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP). Una tale procedura è possibile nel caso in cui il danneggiato, che postula l’assegnamento giusta l’art. 73 CP, si annunci posteriormente. Per esempio nel caso in cui la confisca degli oggetti e i beni ai sensi degli artt. 69-72 CP sia già stata ordinata o quando la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato sia già stata acquisita dall’autorità competente. Una decisione ulteriore è tuttavia possibile nel caso in cui i beni in questione non siano già stati oggetto di una decisione di assegnamento, cresciuta in giudicato, in favore di altri danneggiati (decisione TF 6B_53/2009 del 24.8.2009).
4.
4.1.
Considerate la dottrina e la giurisprudenza sopraindicate, e le sentenze di questa Corte del 6.8.2014 (inc. CRP _; inc. CRP _), la Corte delle assise criminali, con decisione di assegnazione 26.11.2014, ha così deciso di assegnare l’importo di CHF 358'217.55 disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza 15.2.2013 (previa deduzione di tassa e spese di giustizia) agli accusatori privati PI 23, PI 24, _, PI 27 e PI 28, proporzionalmente alle loro indennità riconosciute in sentenza (decisione 26.11.2014, p. 6, inc. TPC _).
4.2.
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi in merito con sentenze 6.8.2014 (inc. CRP _; inc. CRP _). Essa in tale circostanza ha infatti affermato che l’assegnazione deve essere ordinata contemporaneamente alla decisione di merito giusta l’art. 73 cpv. 3 CP, come è avvenuto nel caso in esame. Un’assegnazione posteriore può infatti essere effettuata unicamente nel caso in cui non sia già avvenuta alcuna assegnazione passata in giudicato in favore di altri danneggiati (sentenza TF 6B_53/2009 del 24.8.2009 consid. 2.6; sentenza TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013 consid. 3.1.) o se i beni pervengono dopo. Nel caso in esame nella sentenza 15.2.2013 la Corte delle assise criminali ha assegnato a PI 24, PI 25, RE 1, RE 1 e alla _ i risarcimenti compensatori (dispositivo 13.). La sentenza è passata in giudicato. Determinante è il solo carattere definitivo ed esecutivo della decisione di assegnazione ai cinque accusatori privati, ossia la sentenza di merito 15.2.2013 della Corte delle assise criminali. L’Autorità ha dunque deciso di assegnare l’importo di CHF 358'217.55 disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza 15.2.2013 (previa deduzione di tassa e spese di giustizia) agli accusatori privati sopraindicati.
Ciò è dunque già stato stabilito nelle sentenze 16.8.2014 di questa Corte, contro le quali peraltro RE 1 non ha posto reclamo.
4.3.
La Corte delle assise criminali, con decisione di assegnazione 26.11.2014, ha inoltre assegnato l’importo supplementare di CHF 70'200.--, pervenuto successivamente al passaggio in giudicato della sentenza 15.2.2013, a tutti gli accusatori privati, in funzione delle indennità riconosciute in sentenza; fra questi anche a RE 1 per un importo di CHF 1'861.05 (decisione di assegnazione 26.11.2014, p. 6 s., inc. TPC _).
4.4.
Il qui reclamante afferma che questa
“(...) nuova ripartizione dei risarcimenti (...) smentisce ciò che avvenne stabilito dalla sentenza del 15.02.13 (...)”
(reclamo 9/10.12.2014). Tuttavia si rileva come la decisione di assegnazione 26.11.2014 non muta (e pertanto non smentisce) in alcun modo l’ammontare delle indennità dovute dai condannati agli accusatori privati e riconosciute nella sentenza 15.2.2013. A RE 1 sono in particolare stati riconosciuti CHF 67'125.-- (dispositivo 8.19., sentenza 15.2.2013, inc. TPC 72.2008.55). Quest’ultimo avrà dunque diritto a tutti gli ulteriori importi/averi che diverranno esigibili e a tutti gli ulteriori versamenti effettuati dai condannati al Tribunale penale cantonale, sempre in proporzione al suo credito, fino a concorrenza di CHF 67'125.--.
4.5.
In queste circostanze, la decisione di assegnazione 26.11.2014 della Corte delle assise criminali è meritevole di tutela ed il reclamo deve essere quindi respinto.
5.
Il gravame è respinto. Tassa di giustizia, spese e ripetibili sono poste a carico dell’insorgente, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
b298b83a-bf64-5324-9380-df9a1df3bd49 | in fatto ed in diritto
1.
1.1.
A seguito di una segnalazione del 10.01.2008
, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) a carico del sedicente _, successivamente identificato in un cittadino _, sfociato nel decreto di accusa 3.07.2009 mediante il quale l’allora procuratore pubblico Giuseppe Muschietti lo ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole ripetuta falsità in certificati, ripetuta falsità in documenti, ripetuto conseguimento di una falsa attestazione e ripetuta violazione della LCSl (commessa e tentata), e meglio come ivi descritto (DA _).
Con sentenza 15.11.2010, statuendo sull’opposizione interposta il 20/21.07.2009 dall’imputato, il giudice della Pretura penale Siro Quadri lo ha dichiarato autore colpevole di falsità in certificati, falsità in documenti, conseguimento fraudolento di una falsa attestazione e delitto contro la LCSl e lo condannato ad una pena pecuniaria e al pagamento della tassa e delle spese giudiziarie (inc. _).
La predetta sentenza è passata in giudicato il 31.05.2011.
1.2.
Per quanto interessa la presente fattispecie, nell’ambito del surriferito procedimento penale, segnatamente in data 30.05.2008 IS 1, alle dipendenze della _, è stato interrogato in qualità di denunciato dall’allora procuratore pubblico
"
(...) nell’ambito della raccolta di informazioni avviata, per l’ipotesi di reato denunciata di truffa, subordinatamente di violazione della Legge federale sulla concorrenza sleale, in punto alla cessione di crediti a _, _, da parte di tali _, _, e _, _, per l’iscrizione di persone fisiche e giuridiche in sedicenti “pagine aziendali”
"
(suo verbale d’interrogatorio 30.05.2008, p. 1, AI 14 – inc. MP _).
È in particolare emerso che il 6.11.2007 tra la _, rappresentata da IS 1, e il sedicente _, è stato stipulato un contratto di mandato [mediante il quale quest’ultimo ha conferito alla predetta fiduciaria, rispettivamente a IS 1, il mandato di assumere in via fiduciaria e a determinate condizioni la carica di AU della _], e un
"
contratto fiduciario
"
(AI 15 – inc. MP _)].
Con ordine di perquisizione e sequestro 12.06.2008 (trasmessa alla _) l’allora procuratore pubblico ha ordinato il sequestro dell’intera documentazione inerente, tra l’altro, alla _ e di ogni avere patrimoniale a lei riconducibile, essendo emerso che il sedicente _ ha esibito una carta d’identità _ contraffatta presso la _ (in relazione ai summenzionati contratti) e dinanzi a un pubblico notaio (in relazione alla stesura degli atti di costituzione della (già) _). Inoltre la _, agente come vettore offshore di raccolta presso terze persone e società di iscrizioni a sedicenti annuari, risultava cessionaria per l’incasso di crediti delle parti lese (AI 38 – inc. MP _; cfr. anche sentenza 15.11.2010, inc. _ – AI 12 e verbale del dibattimento 15.11.2010, inc. _ – AI 11).
A seguito di ciò, in data 17.06.2008 IS 1 ha postulato alla Pretura di _ di dichiarare lo scioglimento della _ e di essere nominato quale suo liquidatore
(decreto cautelare 22.08.2008 della Pretura di _, doc. CRP 2.a).
Con decreto 22.07.2008 il pretore di _ ha ordinato lo scioglimento della _, con sede a _, ed ha designato quale liquidatore il suo socio e gerente IS 1 (decreto cautelare della Pretura di _ 22.08.2008, doc. CRP 2.a; estratto RC del Canton Ticino).
2.
Con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dalla Pretura penale a questa Corte – IS 1, in qualità di liquidatore della _ in liquidazione, chiede di ottenere la trasmissione della documentazione a suo tempo acquisita agli atti nel surriferito procedimento penale (in sostanza tutti i documenti bancari) allo scopo di effettuare le registrazioni contabili della citata società, essendo stata effettuata, senza preavviso alcuno, una tassazione d’ufficio per l’anno 2008 ed essendogli stata concessa una proroga per la consegna del dossier fiscale 2008 (istanza
18/25.10.2013,
doc. CRP 1.a; decreto cautelare 22.07.2008 della Pretura di _, doc. CRP 2.a; documentazione varia, doc. CRP 2.b).
Come esposto in entrata, la Pretura penale non ha presentato osservazioni in merito alla richiesta.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nella fattispecie qui in esame – alla luce di quanto sopra esposto – appare, di principio, adempiuto un interesse giuridico legittimo
ex art. 62 cpv. 4 LOG
da parte di IS 1, in qualità di liquidatore della _ in liquidazione
(già _ e _)
,
ad esaminare la documentazione necessaria (in particolare i documenti bancari) riguardante
la citata società
dell’incarto
_ (composto anche dall’inc. MP _),
potendo essere indubbiamente utile per effettuare le registrazioni contabili della medesima e tutelare la società in sede fiscale.
Nella ponderazione degli interessi delle parti in gioco, in particolare a tutela degli interessi privati e della sfera personale dell’imputato e delle altre parti coinvolte nel procedimento penale in questione e, in ossequio al diritto di essere sentito, IS 1 potrà esaminare presso la Pretura penale l’incarto _ [composto anche dall’incarto MP _ (un cubo e una scatola)], limitatamente alla documentazione inerente alla _ (in liquidazione) [tra cui vi è in particolare l’AI 15 (scritto 31.05.2008 dell’avv. _ con la documentazione ivi annessa), l’AI 41 (scritto 13.08.2008 della _ e la relativa scatola), l’AI 53 (documentazione bancaria), AI 61 (documentazione bancaria) e l’AI 76 (documentazione bancaria) dell’inc. MP _], concordando i tempi di accesso con i collaboratori della cancelleria compatibilmente con i loro impegni.
IS 1
è, se necessario, autorizzato a fotocopiare i documenti utili per le sue incombenze.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico di chi le ha occasionate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b2bdfe3b-1bbf-5c8a-afba-34a2e336a567 | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia/querela 20.08.2013 sporta da _ nei confronti di IS 1 in relazione ai fatti accaduti il 2.06.2013, in territorio di _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di quest’ultima per le ipotesi di reato di ingiuria, discriminazione razziale e atti contro la pubblica incolumità
(inc. MP _) sfociato nel decreto di abbandono emanato il 21.02.2014 dal procuratore pubblico Fiorenza Bergomi (ABB _);
che avverso il suddetto decreto non è stato presentato reclamo a questa Corte giusta i combinati art. 322 cpv. 2 CPP e 393 ss. CPP: il medesimo è dunque regolarmente passato in giudicato;
che con la presente istanza IS 1 chiede di ottenere la trasmissione del summenzionato decreto;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare il procuratore pubblico e l’accusatrice privata del procedimento penale in questione, nel frattempo archiviato, essendo la qui istante stata parte (in qualità di imputata) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (in qualità di imputata) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – nonostante abbia omesso di indicare i motivi alla base della sua richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, dell’ABB _ (passato in giudicato) emanato il 21.02.2014 a suo carico, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessata personalmente in veste di parte;
che il postulato decreto le è comunque già stato inviato dopo la sua emanazione (cfr. intimazione);
che di conseguenza il decreto di abbandono 21.02.2014 (ABB _) viene trasmesso, in copia, all’istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stata parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b34499d5-4b49-58e0-bf43-7417812249cc | in fatto ed in diritto
1.
1.1.
Il 22.08.2005 la PI 2
, con sede a _ (di seguito PI 2)
, attiva nel campo dell’intermediazione e della consulenza finanziaria, ha acquistato il 72% del pacchetto azionario della _, con sede a _, attiva nell’ambito della gestione finanziaria, di cui (in quel periodo) era presidente PI 3.
La PI 2 e PI 3 hanno contestualmente sottoscritto una convenzione in cui sono stati in particolare pattuiti i termini della fusione per assorbimento della _, l’assunzione di PI 4, figlio di PI 3, alle dipendenze della PI 2 e una clausola con un impegno di confidenzialità e di divieto di concorrenza in capo ad PI 3.
Nel mese di dicembre 2009 PI 3 ha permutato 28 azioni di sua proprietà (corrispondente al 28% dell’intero capitale sociale) di _ con il 6% delle azioni della PI 2.
La PI 2, con effetto dall’1.01.2010, ha ripreso gli attivi e i passivi della _, la quale è stata cancellata dal registro di commercio il 29.03.2010.
Dal mese di giugno 2010 i rapporti tra la PI 2 e PI 3 si sono incrinati.
Il 20.07.2010 PI 3 ha dato le sue dimissioni dalla carica di membro del CdA della PI 2, cui sono seguite le dimissioni del figlio PI 4 e di due segretarie amministrative.
1.2.
In data 17.09.2010 il pretore del distretto di _, Francesco Trezzini, su istanza promossa il medesimo giorno dalla PI 2 contro PI 3 ha in particolare fatto obbligo, in via supercautelare, a quest’ultimo
"
(...) di astenersi nel modo più assoluto dal sollecitare la clientela gestita dalla società a revocare il mandato di gestione, dal prestare qualsiasi consulenza e/o apporto clientela, anche a titolo gratuito, a banche, società finanziarie o gestori patrimoniali operanti sulla piazza svizzera o italiana e più in generale dal compiere qualsiasi atto di concorrenza diretta o indiretta alla società o pregiudizievole per il patrimonio, la redditività e la reputazione di quest’ultima.(...)
", sotto la comminatoria dell’art. 292 CP (copia decreto 17.09.2010, p. 1 e 2, _, doc. 15 annesso
alla denuncia/querela penale 13/14.10.2010, AI 1 – inc. ABB _).
1.3.
Con esposto 13/14.10.2010 la PI 2 ha sporto denuncia/querela penale nei confronti di PI 3 e del di lui figlio PI 4 per le ipotesi di reato di disobbedienza a decisioni dell’autorità (art. 292 CP) e violazione della LCSl (art. 4 e art. 23 LCSl).
La denunciante/querelante ha in sostanza sostenuto che i denunciati/querelati avrebbero indotto alcuni suoi clienti ad abbandonare la società allo scopo di gestire personalmente i loro averi in violazione dell’art. 12 della convenzione 22.08.2005, delle norme sulla concorrenza sleale (art. 4 in relazione all’art. 23 LCSl) e del decreto pretorile 17.09.2010 (_
) ai sensi dell’art. 292 CP.
Ha in particolare evidenziato "
(...) la strana coincidenza tra la fuga di clientela e la costituzione qualche settimana prima di una nuova società di gestione patrimoniale, tale _, _, amministrata dal signor PI 5, persona ben conosciuta al qui denunciato PI 3
" (denuncia/querela penale
13/14.10.2010, p. 4, AI 1 – inc. ABB _).
1.4.
In data 30/31.12.2010, richiamando il contenuto della sua denuncia/querela 13/14.10.2010, la PI 2 ha presentato un’ulteriore denuncia penale nei confronti di PI 1, di PI 4 e di PI 5 (il quale è presidente con diritto di firma individuale della _, con sede a _, società costituita il _, il cui scopo è l'amministrazione e la gestione di patrimoni per conto di terzi, la consulenza, lo svolgimento di ogni operazione finanziaria e di intermediazione) per l’ipotesi di reato di appropriazione indebita.
A suo dire PI 3 e suo figlio PI 4 non avrebbero riconsegnato alla società tutta la documentazione in loro possesso nel momento in cui avevano cessato la loro collaborazione, riferendosi in particolare a certificati azionari inerenti a società gestite dalla stessa PI 2, i quali sarebbero verosimilmente stati sottratti e trasmessi ad PI 5 senza autorizzazione rispettivamente sarebbero stati consegnati brevi manu ai clienti senza autorizzazione e senza comunicazione alla PI 2 (la quale li custodirebbe fiduciariamente in qualità di depositaria per conto degli stessi clienti).
1.5.
Esperiti i necessari atti istruttori, in data 24.06.2011 il procuratore pubblico, giusta l’art. 318 cpv. 1 CPP, ha comunicato alle parti l’imminente chiusura dell’istruzione penale, prospettando l’emanazione di un decreto di abbandono giusta gli art. 319 ss. CPP.
1.6.
Con sentenza 13.09.2011 (inc. _) il pretore della Pretura del distretto di _, Francesco Trezzini, ha confermato il decreto supercautelare del 17.09.2010, assegnando parimenti un termine di novanta giorni alla PI 2 per proporre l’azione di merito.
1.7.
Il 6.12.2011 il patrocinatore di PI 2 ha trasmesso al procuratore pubblico un referto peritale di medesima data, chiedendo l’estensione dell’istruzione a carico di PI 3 al reato di amministrazione infedele ex art. 158 cifra 1 CP, avendo a suo dire violato le sue incombenze derivanti dalla sua funzione di amministratore nella sua veste di direttore di _ rispettivamente di direttore e membro di PI 2 (art. 717 cpv. 1 CO), quantificando il presunto danno subito in circa CHF 1'100'000.-- / 1'200'000.-- come indicato nella perizia.
1.8.
In data 23.12.2011 il procuratore pubblico ha decretato l’abbandono del procedimento penale nei confronti di PI 3, di PI 4 e di PI 5 per i reati di appropriazione indebita, amministrazione infedele, disobbedienza a decisioni dell’autorità e violazione alla LCSl (ABB _).
1.9.
Contro il summenzionato decreto la PI 2 ha presentato reclamo a questa Corte, che lo ha respinto, per quanto ricevibile, con decisione 13.08.2012 (inc. CRP _).
1.10.
La PI 2 ha impugnato la decisione di questa Corte con ricorso al Tribunale federale, che – nella misura della sua ammissibilità – lo ha respinto (decisione TF _ del _).
2.
Con scritto 4/5.02.2014 – a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG – la IS 1 postula la trasmissione dell’incarto penale ABB _, nel frattempo archiviato. Il medesimo è stato richiamato con il consenso del pretore e delle parti ai fini dell’istruttoria delle cause civili ordinarie di cui agli incarti _ e _ – promosse con petizione 12.12.2011 da PI 2 contro PI 3, postulando la sua condanna al pagamento dell’importo di CHF 10 milioni oltre accessori, rispettivamente con petizione 30.08.2012 contro PI 4 e PI 5, chiedendo la loro condanna al pagamento della somma di CHF 5 milioni oltre accessori, fondando, in entrambe le procedure, la sua pretesa su un’asserita responsabilità contrattuale e delittuale – per le motivazioni contenute negli scritti degli avv. PR 1, avv. PR 2 e avv. PR 4 (istanza 4/5.02.2014, doc. CRP 1 e copia scritti datati 24.01.2014, doc. CRP 1.a, 1.b e 1.c e copia scritto 29.01.2014, doc. CRP 1.d ivi annessi).
Dai predetti scritti emerge in particolare che vi sarebbe una stretta connessione tra i due procedimenti civili pendenti presso la Pretura istante e l’incarto penale richiamato, avendo la PI 2, a sostegno della sua tesi in ambito civile, ripreso i medesimi elementi fattuali esposti in sede penale.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
4.
Nella fattispecie in esame – ritenuti in particolare il contenuto dell’incarto penale ABB _ e le motivazioni addotte nella presente richiesta – appare sia data una stretta connessione tra i procedimenti civili pendenti presso la Pretura istante (_e _) e quello penale nel frattempo archiviato (inc. ABB _): tutti e tre i procedimenti traggono le loro origini dal medesimo complesso dei fatti. Le parti coinvolte in entrambe le sedi sono inoltre le stesse: PI 2, attrice nei procedimenti civili, era accusatrice privata in quello penale, mentre PI 3 rispettivamente PI 4 ed PI 5, convenuti in ambito civile, avevano assunto la veste di imputati nel procedimento penale di cui all’incarto ABB _ nel frattempo archiviato.
Ne discende che gli atti istruttori dell’incarto penale richiamato potrebbero, in effetti, avere una loro rilevanza ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile. È pertanto adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza l’incarto penale _ viene trasmesso, in originale, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero pubblico, al più tardi, a procedimento civile concluso.
5.
La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b45ec977-272d-504e-a257-63dbddc16dcc | in fatto: A.
L’11 settembre 2007, il Presidente della Pretura penale ha dichiarato RI 1 autore colpevole di ripetuta complicità in truffa e di ripetuta falsità in documenti e lo ha condannato a una pena pecuniaria di 35 aliquote giornaliere di fr. 310
.–
, per un totale di fr. 10
850
.–
, la cui esecuzione è stata sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e a una multa di fr. 2
000
.–
, fissando a 20 giorni la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento. RI 1 è stato inoltre condannato al pagamento delle tasse e spese di giustizia.
In relazione alla ripetuta complicità in truffa, a RI 1 è stato rimproverato di avere, nel periodo compreso tra maggio 1995 e gennaio 1997, nella sua veste di direttore sanitario della Clinica psichiatrica _, facente capo al dr. med. _, allo scopo di procacciare a quest’ultimo un indebito profitto, ripetutamente assecondato il dr. med. _ e le strutture a lui facenti capo nell’ingannare con astuzia gli assicuratori sociali e in particolare i funzionari delle casse malati preposti al pagamento delle fatture, così da indurli a compiere atti pregiudizievoli del patrimonio di terzi, consistenti in particolare nel pagamento di fatture per prestazioni medico-sanitarie fittizie.
L’inganno astuto si è configurato avendo RI 1 personalmente partecipato all’allestimento di documentazione medica (quale rapporti di entrata/uscita pazienti e richieste di copertura assicurativa per le casse malati), attestante dati inveritieri relativi a prestazioni in realtà mai fornite che sarebbero state idonee a comprovare – anche a fronte di controlli – degenze e prestazioni in realtà mai avvenute.
Quanto al reato di ripetuta falsità in documenti, RI 1 è stato condannato per avere, nel periodo tra maggio 1995 e gennaio 1997, nella sua qualità di direttore sanitario presso la Clinica psichiatrica _, a scopo di indebito profitto altrui, segnatamente per assecondare le malversazioni indicate per il reato di complicità in truffa, formato, in un imprecisato numero di occasioni, ma almeno quattro, documenti falsi, da lui poi anche firmati personalmente. I documenti medici fittizi erano tali da comprovare, contrariamente al vero, la degenza dei pazienti coinvolti nella struttura medica e giustificare così le relative fatture alle casse malati.
B.
Con sentenza del 3 novembre 2008, questa Corte ha respinto, in quanto ammissibile, il ricorso per cassazione interposto da RI 1 contro la sentenza di prima istanza. In sostanza, la CCRP ha ritenuto che fossero dati sia gli elementi oggettivi che soggettivi della ripetuta complicità in truffa e che a ragione il primo giudice ha reputato adempiuta la fattispecie penale di falsità in documenti in luogo di falso certificato medico.
C.
Contro la sentenza appena citata RI 1 è insorto al Tribunale federale con ricorso in materia penale
. Ha lamentato un accertamento inesatto dei fatti nonché la violazione del diritto e ha postulato il suo proscioglimento dall’accusa di ripetuta complicità in truffa e di ripetuta falsità in documenti.
Con sentenza del 9 aprile 2009 il Tribunale federale ha parzialmente accolto in quanto ammissibile il ricorso in materia penale presentato da RI 1,
annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa all’autorità cantonale per nuovo giudizio ai sensi dei considerandi
(sentenza 6B_991/2008). In particolare l’Alta Corte federale ha prosciolto l’imputato dal reato di falsità in documenti (art. 251 CP).
Ciò ripristina la litispendenza del processo davanti a questa Corte. | Considerando
in diritto:
1.
Secondo l’art. 107 cpv. 2 LTF se il Tribunale federale
accoglie il ricorso, giudica esso stesso nel merito o rinvia la causa all’autorità inferiore affinché pronunci una nuova decisione. Può anche rinviare la causa all’autorità che ha deciso in prima istanza.
Nel caso in cui il Tribunale federale annulli una sentenza e rinvii la causa per nuovo giudizio all’autorità cantonale, quest’ultima deve porre a fondamento della propria decisione i considerandi di diritto della sentenza di cassazione (cfr.
mutatis mutandis
, art. 277
ter
cpv. 2 vPP).
Benché gli articoli 66 vOG e
277
ter
capoverso 2 vPP non siano stati ripresi nella nuova normativa federale, è evidente che l’autorità cui la causa è rinviata deve, per principio, fondare la nuova decisione sui considerandi della decisione del Tribunale federale (
Messaggio concernente la revisione totale dell’organizzazione giudiziaria federale del 28 febbraio 2001
, FF
2001 3901). I punti che non sono stati toccati rimangono acquisiti (DTF 121 IV 109 consid. 7 pag. 128 con richiami).
2.
Nella misura in cui questa Corte aveva dichiarato inammissibili o respinto le censure di arbitrio volte dal ricorrente all’accertamento dei fatti e alla valutazione delle prove da parte del giudice della Pretura penale, la sentenza del 3 novembre 2008 ha quindi acquisito carattere definitivo, il ricorso in materia penale presentato da RI 1
su alcuni di questi punti al Tribunale federale essendo stati a sua volta dichiarati inammissibili (sentenza 6B_991/2008, consid. 1). A tale riguardo il sindacato del primo giudice non può più, dunque, essere rimesso in discussione.
Nemmeno in diritto può essere più discussa la condanna – in quanto tale – inerente il reato principale di complicità in truffa (art. 25 e 146 CP; consid. 2). Nemmeno la pretesa violazione del principio della celerità è stato accolta dal Tribunale federale (consid. 4).
3.
Per contro, l’Alta Corte ha ritenuto che
la condanna per falsità in documenti ai sensi dell’art. 251 CP ha violato il diritto federale. Applicabile era, per contro, il reato di falsità in certificato medico ai sensi dell’art. 318 CP, reato nel frattempo prescrittosi.
a)
Premettendo di non essersi mai pronunciato sulla relazione esistente tra il reato di falso certificato medico (art. 318 CP) e quello di falsità in documenti (251 CP), l’Alta Corte federale ha passato in rassegna la dottrina e la giurisprudenza esistente in merito ai due articoli (consid. 3.4.2 e 3.4.3). Il Tribunale federale ha spiegato di avere in passato
confermato la condanna per falsità in documenti ai sensi dell’art. 251 CP di medici che avevano rilasciato false ricette mediche (sentenza 6P.6/2007 del 4 maggio 2007 consid. 9) o falsi fogli di malattia (
DTF 103 IV 178
), senza tuttavia vagliare i casi alla luce dell’art. 318 CP. Il rapporto tra gli art. 251 e 318 CP non è stato esaminato neppure – ha precisato la Corte federale – nell’ambito della sentenza 6B_152/2007 relativa alla condanna di un medico per falso certificato medico (consid. 3.4.1).
Il Tribunale federale ha quindi ribadito che l’art. 318 CP costituisce una disposizione speciale e privilegiata rispetto all’art. 251 CP. Il falso certificato medico è una forma particolare di falsità in documenti, ma la pena comminata per questo reato speciale è più lieve. Il legislatore – ha sottolineato il Tribunale federale – ha così sottratto il falso certificato medico alla severità dell’art. 251 CP (consid. 3.4.2).
Per effettuare il discrimine tra l’art. 251 e l’art. 318 CP occorre quindi fondarsi unicamente – ha sottolineato il Tribunale federale – sulla natura del documento inveritiero e sulla veste in cui l’autore dell’infrazione agisce. Qualora il documento sia un certificato medico e l’autore agisca in qualità di medico, dentista, veterinario o levatrice, solo l’art. 318 CP può trovare applicazione e il reato di falsità in documenti dell’art. 251 CP non può essere preso in considerazione neppure a titolo sussidiario.
b)
Il Tribunale federale ha spiegato che nella fattispecie
il ricorrente ha agito nella sua veste di medico. I documenti da lui sottoscritti avevano quale scopo quello di sollecitare una prestazione dalle casse malati ed erano quindi atti a ledere importanti e legittimi interessi di terzi. Gli scritti in questione contengono la diagnosi, indicano la terapia intrapresa e gli ulteriori trattamenti da farsi o indicano la durata della degenza e l’incapacità di lavoro del paziente.
Trattasi pertanto – ha concluso l’Alta Corte federale – di certificati medici ai sensi dell’art.
318 CP. In simili circostanze, solo il reato di falso certificato medico poteva essere rimproverato a RI 1
.
La sua condanna per falsità in documenti giusta l’art. 251 CP ha violato così il diritto federale. La sentenza impugnata è quindi stata annullata e la causa rinviata alla CCRP per nuova decisione sulla pena, atteso che, come già evidenziato dalla stessa CCRP, il reato di cui all’art. 318 CP è prescritto.
4.
Giusta l'art. 296 cpv. 1 CPP, in caso di accoglimento del ricorso la Corte di cassazione e di revisione penale riforma la sentenza quando ha sufficienti elementi per il nuovo giudizio. In caso contrario rinvia la causa alla competente Corte del merito, composta di altri giudici e giurati, a meno che la cassazione sia stata pronunciata unicamente per insufficiente motivazione della sentenza o che il primo giudice debba unicamente ricommisurare la pena (art. 296 cpv. 2 CPP).
5.
In concreto, si tratta solo di ricommisurare la pena sulla base della nuova situazione, ossia senza la condanna per falsità in documenti ai sensi dell’art. 251 CP.
Ora, per entrambi i reati (complicità in truffa e falsità in documenti) il ricorrente era stato condannato al pagamento di 35 aliquote giornaliere di fr. 310.– ciascuna (sospesa condizionalmente) e a una multa di fr. 2
000.–. Visto il proscioglimento dall’imputazione di ripetuta falsità in documenti, si giustifica esimere il condannato dal pagamento della multa, ulteriori riduzioni di pena non essendo immaginabili, oltretutto se si considera che il reato più grave di ripetuta complicità in truffa è stato confermato dal Tribunale federale, e che comunque il ricorrente sarebbe stato condannato anche sulla base dell’art. 318 CP se il reato non fosse prescritto nel frattempo. Ne consegue perciò che il dispositivo n. 2/2.1 di condanna della sentenza impugnata deve essere annullato.
Ne discende che RI 1 è condannato solo al pagamento di 35 aliquote giornaliere di fr. 310.– per un totale di fr. 10
850.– (pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni).
6.
Poiché il ricorrente risulta vincente solo parzialmente a fronte delle numerose censure sollevate (prosciolto dall’imputazione di falsità in documenti), gli oneri del giudizio odierno vanno posti a carico del ricorrente in ragione di due terzi e per il rimanente a carico dello Stato (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP e 15 cpv. 2 CPP). Lo Stato rifonderà inoltre al ricorrente fr. 500.– a titolo di ripetibili ridotte. Per quanto riguarda gli oneri di primo grado, va mantenuta la proporzione applicata in questa sede ossia due terzi a carico dell’accusato e un terzo a carico dello Stato. Per le ripetibili di prima sede, per contro, spetta – dandosene il caso – all’imputato inoltrare un’istanza ai sensi degli art. 317 segg. CPP alla Camera dei ricorsi penali. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b4ac44b8-a8c1-52bb-a169-cac77b50be04 | in fatto: A.
Con decreto di accusa 21 settembre 2009, il procuratore pubblico ha dichiarato RI 1 autore colpevole di tratta di esseri umani per avere, a _ nel corso del mese di maggio/giugno 1998 - agendo in correità con PI3, PI4, PI2, PI1 e PI5 - come offerente, intermediario o destinatario, fatto commercio di un essere umano a scopo di sfruttamento sessuale, e meglio anticipando a PI5 fr. 10'000.-, capitale messo a disposizione dai soci dell’allora _, affinchè quest’ultima reclutasse in _ 5/6 ragazze, le accompagnasse, anticipando le spese del viaggio, in Ticino presso il _, dove dovevano dedicarsi all’esercizio della prostituzione, come poi effettivamente verificatosi.
Il procuratore pubblico ha, pertanto, proposto la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 90 aliquote giornaliere da fr. 110.- ciascuna (corrispondenti a complessivi fr. 9'900.-), da dedursi il carcere preventivo sofferto di 42 giorni, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, oltre alla multa di fr. 10'000.- e al pagamento di tasse e spese.
Il decreto d’accusa proponeva, inoltre, la devoluzione allo Stato dell’illecito profitto conseguito - e meglio, di fr. 71'824.10 - già sequestrato, dedotto il pagamento di multa, tassa e spese.
B.
Statuendo sull’opposizione presentata dall’accusato in data 23/30 settembre 2009, con sentenza 11 novembre 2010 il giudice della Pretura penale ha confermato il decreto d’accusa, condannando RI 1 autore colpevole di tratta di esseri umani ex art. 182 cpv. 1 CP.
In applicazione della pena, il primo giudice ha condannato l’imputato alla pena pecuniaria di 90 aliquote giornaliere da fr. 110.- ciascuna (corrispondenti a complessivi fr. 9'900.-), da dedursi il carcere preventivo sofferto di 42 giorni, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, oltre alla multa di fr. 10’000.- e al pagamento di tasse e spese.
Il giudice della Pretura penale ha, inoltre, ordinato la devoluzione allo Stato dell’illecito profitto di fr. 71'824.10, dedotto il pagamento di multa, tassa e spese.
Nel medesimo giudizio, il primo giudice ha, invece, prosciolto PI1 e PI2 dal medesimo capo d’accusa.
PI4 non aveva interposto opposizione al decreto d’accusa nei suoi confronti, mentre il procedimento nei confronti di PI5 è stato disgiunto a causa dello stato di salute dell’imputata.
Nei confronti di PI3, invece, la Pretura penale ha constatato la propria incompetenza a statuire.
C. RI 1
ha
inoltrato tempestiva dichiarazione di ricorso contro la sentenza del primo giudice. Nei motivi del gravame, presentato il 27/28 dicembre 2010, il ricorrente postula l’annullamento della pronuncia di prime cure e il suo proscioglimento.
D.
Il procuratore pubblico e PI1 non hanno presentato osservazioni.
Con scritto 13 gennaio 2011, PI2, senza svolgere particolari osservazioni, ha dichiarato di rimettersi al giudizio di questa corte. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP TI - applicabile in forza dell’art. 453 CPP fed. - il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (lett. a e b), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2.
Il ricorrente censura, in primo luogo, la reiezione da parte del primo giudice dell’eccezione di prescrizione.
2.1.
In relazione all’eccezione di prescrizione sollevata da RI 1
,
il primo giudice ha ritenuto che la tratta di esseri umani “
non può essere definita alla stregua dei reati minori, ma deve essere considerata un crimine, dato che il legislatore, diversamente per quanto attiene ai delitti, non ha fissato un tetto massimo per la pena legalmente prevista
”, essendo infatti possibile comminare una pena superiore ai tre anni (consid. 7, pag. 8). Pertanto, “
data anche la gravità del reato (che concerne la dignità e la libertà di una persona)
”, il primo giudice ha concluso che ad esso deve applicarsi il termine di prescrizione di quindici anni di cui all’art. 97 cpv. 1 lett. c CP (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 8).
2.2.
Il ricorrente censura il ragionamento del primo giudice, che a suo parere non costituisce una vera e propria argomentazione giuridica ma solo “
un apprezzamento personale circa la gravità del reato
” (ricorso, pag. 4). Secondo il ricorrente, la distinzione fra crimini e delitti nel codice penale è ininfluente ai fini della determinazione del termine di prescrizione, in quanto l’unica forma di pena privativa di libertà prevista dal codice per entrambi i tipi di reato è oggi la detenzione. Per la prescrizione, dunque - continua - “
non conta il tipo di pena comminata (reclusione o detenzione) ma la comminatoria concretamente fissata
” dalla legge (ricorso, pag. 5).
Considerando, dunque, che esiste un’unica forma di pena privativa di libertà e fondandosi, da un lato, sull’interpretazione letterale del testo dell’art. 97 cpv. 1 lett. b CP (“
l’azione penale si prescrive in quindici anni, se per il reato è comminata una pena detentiva superiore a tre anni
”), il ricorrente sostiene che nel caso concreto si debba applicare il termine di prescrizione settennale dell’art. 97 cpv. 1 lett. c CP, ciò che implica la caduta in prescrizione delle accuse nei suoi confronti (ricorso, pag. 6).
Il ricorrente aggiunge, infine, che, anche volendo considerare la gravità oggettiva del reato, il termine di sette anni non è di poco conto e deve, pertanto, essere ritenuto del tutto adeguato (ricorso, pag. 7).
2.3.
Giusta l’art. 182 cpv. 1 CP chiunque, come offerente, intermediario o destinatario, fa commercio di un essere umano a scopo di sfruttamento sessuale, di sfruttamento del suo lavoro o di prelievo di un suo organo, è punito con una pena detentiva o con una pena pecuniaria. Il reclutamento di un essere umano per i medesimi scopi è parificato alla tratta.
In base all’art. 97 cpv. 1 CP, l’azione penale si prescrive
- in trent’anni se per il reato è comminata la pena detentiva a
vita (lett. a);
- in quindici anni, se per il reato è comminata una pena
detentiva superiore a tre anni (lett. b);
- in sette anni, se per il reato è comminata un’altra pena (lett. c).
Comminata è, ai sensi di tale disposizione, la pena massima prevista - in astratto - dalla norma penale per un fatto corrispondente alla definizione legale del reato di cui trattasi (DTF 136 IV 117 consid.
4.3.3.2; 108 IV 41, consid. 2a; 102 IV 203 consid. 3; Trechsel et al., Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 2008, ad art. 97 CP, n. 1; Kolly, Commentaire Romand, ad art. 97 n. 49).
2.4.
Se è vero che, almeno per quel che concerne la determinazione del termine di prescrizione, la distinzione fra delitti e crimini ex art. 10 CP (e, di riflesso, fra detenzione e reclusione) ha perso di portata pratica dopo la riforma della parte generale del codice penale, il ragionamento del primo giudice merita comunque conferma.
Come visto, la legge non fissa un tetto massimo alla pena che può essere comminata nei casi di tratta di esseri umani ex art. 182 cpv. 1 CP. Pertanto, giusta l’art. 40 CP, essa può arrivare sino ad un massimo di vent’anni (cfr. Corboz, Les infractions en droit suisse, Vol. I, 3. ed. 2010, ad art. 182 CP, n. 14; Trechsel, op. cit., ad art. 182 CP, n. 6).
Poco importa, dunque, che il reato possa essere sanzionato anche con una pena detentiva inferiore ai tre anni poichè la pena massima prevista in astratto per il reato - solo criterio determinante secondo dottrina e giurisprudenza ai fini della determinazione del termine di prescrizione - è manifestamente superiore a tre anni.
Di conseguenza, in applicazione dell’art. 97 cpv. 1 lett. b CP, il termine di prescrizione applicabile nel caso concreto è di quindici anni (cfr. in tal senso Delnon/Rüdi, Basler Kommentar StGB II, 2. ed. 2007, ad art. 182 CP, n. 39).
Ciò permette di concludere che - come già stabilito dal primo giudice - l’azione penale nei confronti di RI 1 non era prescritta al momento della celebrazione del dibattimento. Su questo punto il gravame deve pertanto essere disatteso.
3.
Il ricorrente censura gli accertamenti del primo giudice relativi al consenso delle vittime della tratta, in particolare l’accertamento relativo alla loro condizione di “vulnerabilità”.
3.1.
Il primo giudice ha, dapprima, esposto la giurisprudenza del Tribunale federale in tema di tratta di esseri umani, sottolineando, in particolare, il principio secondo cui il reato può essere commesso anche nei casi in cui la vittima ha dato il proprio consenso poiché tale consenso può essere viziato a ragione di una particolare situazione di debolezza della vittima (sentenza impugnata, consid. 9-10, pag. 9-10).
Il giudice di prime cure ha riferito che non è rilevante “
il fatto di non conoscere nulla, all’infuori del luogo d’origine
” delle vittime della tratta, alfine di determinare la loro situazione di vulnerabilità: tale loro situazione è, infatti, provata da “
importanti indizi
” convergenti (sentenza impugnata, consid. 18, pag. 15).
In primo luogo, il pretore ha precisato che già il fatto che, per far giungere in Svizzera le ragazze, fosse necessario pagare loro il biglietto aereo e fornire loro dell’
argent de poche
che alla frontiera dimostrasse una certa loro disponibilità finanziaria “
lascia supporre con una certa sicurezza che queste donne si trovassero in uno stato di indigenza tale da rendere il loro consenso a prostituirsi viziato e quindi inefficace
” (sentenza impugnata, consid. 18, pag. 15).
Un ulteriore indizio che non può essere trascurato - ha continuato il primo giudice - è il fatto che
“le ragazze vittime della tratta provenivano da un Paese che, soprattutto in quegli anni, si trovava in una situazione sociale ed economica di estrema precarietà”
(sentenza impugnata, consid. 18, pag. 15).
A tale riguardo il giudice di prime cure ha fatto riferimento ad uno studio del mese di marzo 2000 del dr. _, commissionato dal Consiglio di Stato, dal titolo “Fotografia della prostituzione nel Cantone Ticino”, da cui si evince, in particolare, che le ragazze attive nei bar-alberghi (tipo il _) erano prevalentemente persone che soggiornavano senza permesso di lavoro e che giungevano in Svizzera attraverso organizzazioni internazionali e locali e che il ricorso al reddito della prostituzione era un passo obbligato per molte ragazze dei Paesi del blocco sovietico, dapprima in patria e poi all’estero, ritrovatesi senza reddito a seguito dello sfaldamento della struttura sociale di tali Stati e del loro fallimento economico e politico dopo la caduta del muro di Berlino (sentenza impugnata, consid. 19, pag. 15-16). Il primo giudice ha sottolineato che dal rapporto emergeva anche che il numero di ragazze provenienti dalla _ superava di gran lunga quello delle altre ragazze, e che “
la tipica modalità con cui venivano adescate prevedeva un reclutamento attraverso delle compatriote che spesso erano anche le compagne dei gestori dei locali in Ticino
” (sentenza impugnata, consid. 19, pag. 16).
Per il primo giudice non vi erano, pertanto, dubbi sul fatto che
“anche quelle 5 o 6 ragazze adescate da PI5 fossero nelle stesse identiche condizioni di tutte le altre ragazze che in quegli anni giungevano in Svizzera sacrificando il loro onore e la loro dignità per guadagnare quei soldi che al loro Paese non avrebbero mai visto”
(sentenza impugnata, consid. 19, pag. 16).
3.2.
Secondo il ricorrente, è arbitrario e contrario al principio
in dubio pro reo
l’accertamento riguardante la vulnerabilità delle 5/6 ragazze vittime del reato, in quanto “
nulla si conosce della situazione personale o altro di queste 5 o 6 ragazze, all’infuori del luogo d’origine
”, ovvero la _ (ricorso, pag. 8). Il primo giudice - prosegue il ricorrente - ha, perciò, riconosciuto la sua colpevolezza sulla base di un criterio astratto (la provenienza delle ragazze), senza accertamenti sulla concreta situazione economica di quest’ultime (ricorso, pag. 8). Il riferimento alla ricerca condotta per conto del Consiglio di Stato nel marzo 2000 (di cui peraltro non vi è traccia agli atti) - prosegue il ricorrente - é inidonea a comprovare, in concreto, lo stato di vulnerabilità delle ragazze lettoni coinvolte nella fattispecie (ricorso, pag. 9).
3.3.
Già sotto l’egida del previgente art. 196 CP, in caso di tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, il Tribunale federale aveva precisato che i presupposti del reato sono adempiuti quando viene pregiudicato il diritto all'autodeterminazione nel campo sessuale della persona interessata (DTF 129 IV 81, consid. 3.1; 128 IV 117, consid. 4a). Precisato che ciò è dato esclusivamente quando un essere umano è sfruttato come vera e propria mercanzia (in particolare, quando é tenuto all'oscuro di ciò che l'attende, se poco informato o se, per altre ragioni, è incapace di difendersi), il TF ha spiegato che la questione di sapere se la libertà sessuale sia lesa deve essere decisa in funzione delle circostanze concrete ritenuto come il consenso formale della vittima non basti ad escludere il reato e che imperativo è verificare se tale consenso sia effettivamente libero da costrizioni (DTF 129 IV 81, consid. 3.1; 128 IV 117, consid. 4a; 126 IV 225 consid. 1d).
Secondo il TF, i presupposti del reato sono, di regola, adempiuti nel caso di giovani prostitute provenienti dall'estero, se il loro consenso è viziato: per potere escludere con la massima certezza una qualsiasi relazione di dipendenza o vulnerabilità atta ad intaccare il loro libero consenso, le autorità devono verificare con un'attenzione accresciuta le condizioni, in particolare sociali ed economiche, in cui le donne accettano di essere arruolate per prostituirsi (DTF 128 IV 117, consid. 4b; 126 IV 225 consid. 1d).
Il consenso non è effettivo, ma viziato, se viene sfruttata una situazione di vulnerabilità, che può derivare da condizioni economiche o sociali difficili o da rapporti di dipendenza personale e/o finanziari costrittivi: in assenza di una qualsiasi vulnerabilità, non sussiste reato poiché, dato l'incontestato diritto all'autodeterminazione nel campo sessuale, non sussiste bene giuridico da proteggere (DTF 128 IV 117, consid. 4b/cc).
Perché non vi sia tratta di esseri umani va accertato che il diritto all'autodeterminazione sessuale della persona interessata non è stato pregiudicato, ossia va accertata l’assenza di una qualsiasi forma di abuso, minaccia o sfruttamento di una situazione di vulnerabilità (DTF 128 IV 117, consid. 4c). Il consenso formalmente dato deve corrispondere all’effettiva volontà delle prostitute che devono essere state adeguatamente informate sul loro destino ed essere state coscienti di quello che le aspettava e devono avere potuto decidere senza essere influenzate da condizioni di debolezza o d’incertezza (DTF 128 IV 117, consid. 4c).
La nozione di consenso deve, dunque, essere interpretata in modo restrittivo tenendo conto dei molteplici rapporti di dipendenza in cui le vittime possono trovarsi, soprattutto se straniere (DTF 128 IV 117, consid. 4c; 126 IV 225 consid. 1c). Nel caso di persone che lasciano il loro paese e vanno all'estero per prostituirsi, il consenso effettivo deve essere ammesso con estrema prudenza poiché il rischio di sfruttamento di una situazione di povertà è particolarmente acuto (DTF 128 IV 117, consid. 4c). Secondo il Tribunale federale, un'attenzione particolare è necessaria quando si è in presenza di donne e bambini provenienti dai paesi in via di sviluppo e dai paesi dell'Europa centrale e orientale (DTF 128 IV 117, consid. 5b, nel caso si trattava della _). I presupposti del reato sono, perciò, di regola adempiuti nel caso di giovani prostitute consenzienti provenienti dall’estero, se il consenso è motivato da condizioni economiche precarie (DTF 129 IV 81, consid. 3.1; 128 IV 117, consid. 4b-c). L’alta Corte ha recentemente ribadito tali principi (STF del 29 aprile 2010, inc. 6B_81/2010, consid. 4.1. e 4.2).
Riesaminando la sua precedente giurisprudenza, il Tribunale federale ha considerato che la nozione di tratta di esseri umani deve essere estesa anche al caso di chi arruola all'estero giovani donne in situazione di vulnerabilità, organizza la loro venuta in Svizzera e le ingaggia (indifferentemente che egli agisca con l'aiuto di un intermediario prezzolato o direttamente) affinché si prostituiscano nel suo postribolo: il solo fatto di arruolare, trasportare o trasferire può già essere costitutivo di tratta (DTF 128 IV 117, consid. 6d/cc).
3.3.1.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006, consid. 3.4.1) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato (DTF 133 I 149 consid. 3.1 con rinvii). E’, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1).
Secondo la giurisprudenza, per essere annullata una sentenza deve essere inoltre arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 135 V 2 consid. 1.3; DTF 133 I 149 consid. 3.1, 132 I 13 consid. 5.1, 131 I 217 consid. 2.1, 129 I 8 consid. 2.1, 173 consid. 3.1).
Il precetto
in dubio pro reo
è un corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia il riparto dell'onere probatorio. Per quanto attiene alla valutazione delle prove il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo con cui si è verificata la fattispecie medesima. Il precetto non impone che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento.
Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (STF 13 maggio 2008, inc. 6B.230/2008, consid. 2.1; STF 19 aprile 2002, inc. 1P.20/2002, consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a; 124 IV 86 consid. 2a; 120 Ia 31 consid. 4b). Sotto questo profilo il precetto
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 133 I 149; DTF 120 Ia 31 consid. 4b).
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7.05.2003 6P.37/2003 consid. 2.2).
3.4.
Le censure del ricorrente non possono essere accolte.
Il primo giudice si è chinato sulla questione di sapere se il consenso delle ragazze lettoni a recarsi in Svizzera per prostituirsi fosse effettivo, ovvero libero da costrizioni, oppure viziato. Conformemente alla giurisprudenza del Tribunale federale appena evocata - in base alla quale il consenso effettivo di ragazze che si recano all'estero per prostituirsi deve essere ammesso con estrema prudenza, visto l’importante rischio di sfruttamento di una situazione di povertà (in particolare se oggetto della tratta sono donne provenienti da Paesi dell'Est quali la _) - e sulla scorta di alcuni indizi giudicati importanti e convergenti, il primo giudice ha concluso che le ragazze coinvolte si trovavano in una situazione di particolare vulnerabilità e che, dunque, il loro consenso non poteva essere ritenuto libero.
In primis
, il giudice di prime cure ha considerato che queste ragazze non disponevano dei soldi necessari per pagarsi il viaggio né di un importo di denaro contante (definito “
argent de poche
” dalle persone coinvolte nei fatti) sufficiente a dimostrare una loro minima autonomia finanziaria all’arrivo in Svizzera. Tale accertamento non è contestato in sé.
Contrariamente a quanto affermato nel gravame, il primo giudice, dunque, non si è basato unicamente sulla nazionalità delle ragazze coinvolte per determinare la loro situazione di particolare vulnerabilità. L’indigenza delle ragazze è stata dedotta dal fatto che il prezzo del biglietto per il viaggio aereo per raggiungere la Svizzera è stato interamente anticipato dagli autori (poiché le ragazze non potevano permetterselo) e dal fatto che ad esse è stata pure fornita una piccola somma (“
argent de poche
”) che desse l’apparenza - al momento del loro arrivo in Svizzera - di una loro autonomia finanziaria.
Ciò che prova, appunto, che le ragazze versavano in una più che difficile situazione economica.
Se è vero che, al di là di questo aspetto, nulla è dato di sapere sulle condizioni individuali delle ragazze, non si può comunque sostenere che le circostanze in questione siano state arbitrariamente considerate come indizi della precaria situazione economica di quest’ultime o, altrimenti detto, della loro vulnerabilità.
Non è peraltro nemmeno arbitrario considerare, come ha fatto il primo giudice, la nazionalità delle ragazze quale ulteriore indizio della loro vulnerabilità.
Sebbene appaia censurabile la scelta del giudice di prime cure di dilungarsi in considerazioni tratte da uno studio commissionato dal Cantone che non è stato versato agli atti, è altresì vero che - come riconosce il ricorrente nel suo gravame - alcune circostanze che il primo giudice ha dedotto dal rapporto possono essere ritenute fatti notori. Non solo il fatto che “
alla base della prostituzione ci siano motivazioni d’ordine economico
” e il fatto che “
la situazione socioeconomica del nostro Paese è migliore di quella di tanti altri Paesi, anche vicini
” (cfr. ricorso, pag. 9), come sostiene il ricorrente, ma anche e soprattutto il fatto che la caduta del muro di Berlino ha comportato, negli Stati dell’ex blocco sovietico, lo sgretolarsi della preesistente struttura politica ed economica, con le inevitabili conseguenze sociali in termini di disoccupazione e di povertà. Lo stesso Tribunale federale nella DTF 128 IV 117 si è confrontato con un caso concernente ragazze provenienti dalla _ che venivano in Svizzera a prostituirsi per sfuggire ad una situazione di povertà e ha stabilito che, in tali casi, il consenso effettivo deve essere ammesso con estrema prudenza siccome tali ragazze “
non potevano tra l’altro ragionevolmente rappresentarsi un quadro completo di quello che avrebbero vissuto una volta sul suolo elvetico
” (consid. 5c). Anche se, preso a sé stante e slegato da ogni altro accertamento fattuale, il luogo di provenienza delle ragazze non può costituire un elemento di valutazione certo per determinare le condizioni economiche e sociali delle vittime, è indubbio che esso può, invece, entrare in considerazione quale importante indizio in una valutazione globale della fattispecie, senza che ciò denoti arbitrio di sorta, né violazione del principio
in dubio pro reo
, né ancora rovesciamento dell’onere della prova.
Le critiche del ricorrente relative all’accertamento delle condizioni di vulnerabilità delle vittime non possono, dunque, essere condivise.
Il gravame su questo punto cade, dunque, nel vuoto.
4.
Il ricorrente sostiene, in seguito, che il solo fatto di avere anticipato delle spese di viaggio a donne già convinte di esercitare meretricio non costituisce reato in quanto non vi è nessuna indebita limitazione della libertà personale della prostituta, siccome “
le donne sapevano perfettamente ed erano consenzienti circa l’attività che avrebbero svolto una volta giunte al _
”, e non vi sono elementi che permettano di fare dubitare della loro consapevolezza in tal senso (ricorso, pag. 10).
La censura cade nel vuoto.
In effetti, sostenendo che non vi può essere tratta di esseri umani poiché le donne erano consenzienti, il ricorrente, da un lato, dimostra di non avere compreso i principi giurisprudenziali posti dal Tribunale federale (secondo cui non ci si può accontentare di un consenso formale, lo stesso dovendo essere valutato in maniera rigorosa alla luce della situazione concreta della vittima) e, dall’altro lato, argomenta discostandosi dalle constatazioni di fatto del primo giudice (appena vagliate da questa Corte che non ha ravvisato arbitrio) che ha ritenuto il consenso delle vittime della tratta non effettivo e, dunque, inefficace.
Anche su questo punto il gravame non merita tutela.
5.
Il ricorrente contesta la sentenza impugnata in relazione alla determinazione dell’elemento soggettivo.
5.1.
Nella sentenza impugnata il primo giudice ha accertato, sulla base delle dichiarazioni di PI3, RI 1, PI4 e PI2, ovvero di quattro dei cinque soci fondatori della _, che non vi era dubbio che già dal momento della costituzione della Sagl tutti i soci - fra cui anche RI 1 - “
intendessero dare avvio ad una attività connessa alla prostituzione
”, il loro scopo essendo proprio quello di “
gestire il _ come un postribolo
” (sentenza impugnata, consid. 11, pag. 10).
Il giudice di prime cure ha, poi, accertato - fondandosi sulle dichiarazioni di PI3 secondo cui era stato proprio RI 1 a lanciare l’idea nel corso di una riunione fra soci, siccome la sua conoscente PI5, cittadina lettone, aveva la possibilità di agire in tal senso - che “
non v’è dubbio nemmeno sul fatto che le prime 5/6 ospiti del _ siano giunte in questo locale per mezzo di una chiara operazione di reclutamento messa in atto dalla dirigenza _ direttamente in _
”, paese che conosce una condizione di grave povertà (sentenza impugnata, consid. 12, pag. 10). Anche
PI4 (marito della nipote del ricorrente) ha affermato che PI3 e RI 1 erano perfettamente al corrente dell’operazione (
sentenza impugnata, consid. 15, pag. 13)
.
Sulla scorta di tali risultanze - poi confermate da RI 1 stesso - il giudice di prime cure ha concluso che “
il reclutamento delle ragazze era ben organizzato
” (sentenza impugnata, consid. 12, pag. 11).
Di RI 1 dunque, secondo il primo giudice -
“è stato dimostrato ampiamente che fosse a conoscenza, anzi che fosse proprio lui la mente dell’operazione di reclutamento in _”
, ovvero del viaggio in _ di PI5 con i soldi della _ al preciso scopo di reclutare ragazze da far prostituire al _ (sentenza impugnata, consid. 15, pag. 13).
5.2.
Il ricorrente contesta l’aspetto soggettivo del reato imputatogli. A suo avviso, la sentenza impugnata
non contiene alcun riferimento concreto al “
come l’accusato avrebbe potuto sapere della situazione socio economica delle citate ragazze
” (ricorso, pag. 11). Viste le lacune probatorie - conclude il ricorrente - non può entrare in considerazione nemmeno l’ipotesi di un dolo eventuale (ricorso, pag. 11).
5.3.
L’art. 182 CP è un reato intenzionale. Il dolo eventuale è sufficiente: non occorre che l’autore sappia con certezza che le vittime sono destinate, ad esempio, allo sfruttamento sessuale, ma è sufficiente che egli prenda in considerazione questa eventualità (Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, ad art. 182 n. 5; Delnon/Rüdi, op. cit., ad art. 182 n. 32 e cit.). L’autore deve ugualmente almeno prendere in considerazione l’illecita limitazione della libertà, rispettivamente la situazione di vulnerabilità della vittima e il suo sfruttamento (Delnon/Rüdi, op. cit., ad art. 182 n. 32).
5.3.1.
Quanto l’autore di un reato sa, vuole o accetta è una questione di fatto (DTF 128 I 177 consid. 2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3a pag. 63, 125 IV 242 consid. 3c pag. 252, 119 IV 1 consid. 5a pag. 3; 118 IV 167 consid. 4; 110 IV 20 consid. 2 pag. 22, 74 consid. 1c pag. 77 con rinvii). Sulla questione di sapere se una persona ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all'evento delittuoso, quindi, questa Corte nell’ambito di un ricorso per cassazione può rivedere gli accertamenti del primo giudice soltanto sotto l’angolo dell’arbitrio (per analogia, sul piano federale: Wiprächtiger in: Geiser/Münch, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con i richiami alla nota 182; Corboz, Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246; STF 9.4.2009 6B_1004/2008).
5.4.
Il primo giudice ha accertato che RI 1, non soltanto era a conoscenza del reclutamento delle ragazze in _, ma era proprio la mente di tutta l’operazione messa in atto proprio allo scopo di far giungere le ragazze in Svizzera affinché si prostituissero.
Il primo giudice ha accertato, sulla scorta delle dichiarazioni di PI3 riportate nella sentenza impugnata, che RI 1 aveva la possibilità di concretizzare questa sua idea attraverso una conoscente - PI5, anch’essa lettone ma sposata con un cittadino italiano e domiciliata con il marito a _ - che si sarebbe recata al suo paese d’origine per reclutare le ragazze anticipando loro le spese del viaggio. RI 1 ha dichiarato che “
sono stata io a contattarla
[PI5, ndr.]
e poi presentarla a PI3 affinché si attuasse la mia idea
” (sentenza impugnata, consid. 13, pag. 11). PI3 ha affermato che era “
chiaro che queste ragazze che venivano da noi per esercitare la prostituzione, non avevano mezzi propri sufficienti nemmeno per comprarsi il biglietto di andata
” (sentenza impugnata, consid. 12, pag. 11).
Sulla scorta di tali accertamenti, non può essere certamente ritenuto arbitrario considerare adempiuti, come concluso dal primo giudice, i presupposti soggettivi del reato. Non è, infatti, decentemente sostenibile che RI 1 non abbia avuto piena consapevolezza di quanto PI3 ha candidamente ammesso. Del resto, se ciò non fosse, non si capisce perché RI 1, insieme ai compagni, abbia finanziato l’arrivo delle ragazze nei modi descritti.
Anche su questo punto il gravame va, pertanto, respinto.
6.
Il ricorrente censura in seguito la presa in considerazione delle risultanze istruttorie pre-dibattimentali.
6.1.
Nella sentenza impugnata il giudice di prime cure ha ritenuto che non vi sono dubbi “
sulle intenzioni e modalità deplorevoli con cui la dirigenza _ ha gestito il suo postribolo
” (consid. 19, pag. 16). Il
modus operandi
della dirigenza della _ si deduce - ha continuato il primo giudice - “
in maniera ancor più inconfutabile
” dalle risultanze pre-dibattimentali (il cui utilizzo non è stato contestato dalla difesa) che dimostrano che le prostitute venivano reclutate “
direttamente nel loro Paese (_), facendo loro proposte “allettanti”, organizzando e finanziando loro il viaggio per la Svizzera per poi ritrovarsi a lavorare presso il Motel in condizioni di dipendenza e di sfruttamento assolutamente inaccettabili
” (sentenza impugnata, consid. 20, pag. 16). Sulla scorta delle testimonianze di PI6 (cittadina lituana che ha soggiornato al _), di _ (pure ospiti del Motel), di _ (ex cameriere dell’esercizio pubblico), di _ (frequentatore del Motel che ha stretto amicizia con alcune ragazze) e di _ (che ha fatto arrivare diverse ragazze dell’Est nei vari postriboli ticinesi), il primo giudice ha accertato che RI 1 si comportava come un vero padrone con le ragazze, obbligandole a condizioni di lavoro squalificanti, se non addirittura disumane (sentenza impugnata, consid. 20, pag. 17-18).
6.2.
Il ricorrente rimprovera al primo giudice di essersi fondato su alcune dichiarazioni “
ben poco credibili
” rese da terzi, senza prima valutarne la fondatezza (ricorso, pag. 15-16).
All’utilizzo di tali prove - continua - egli non si è opposto unicamente perché si tratta di materiale del tutto irrilevante: le “
illazioni
” di PI6 , in particolare - precisa il ricorrente - non hanno alcuna attinenza con gli elementi costitutivi del reato di tratta di esseri umani ma, tutt’al più, con altri reati di cui egli non è stato accusato (ricorso, pag. 15).
Il ricorrente lamenta di non essere mai stato confrontato con le dichiarazioni di PI6 , altrimenti
“le avrebbe subito contestate, come fatto in sede di dibattimento, e a fronte di una chiara accusa avrebbe portato elementi contrari pertinenti”
(ricorso, pag. 17).
Il ricorrente critica, inoltre, che il primo giudice non abbia dato rilievo anche alle dichiarazioni di altre ragazze attive in prima persona al Motel (_), che non gli hanno rivolto alcuna rimostranza mentre PI6 ha parlato di cose apprese
de relato
(ricorso, pag. 17). Secondo il ricorrente, quest’ultima aveva un chiaro interesse personale a riferire agli inquirenti illazioni nei confronti di RI 1, ovvero “
l’aspettativa di poter restare in Svizzera
”, chiaramente espressa a verbale (ricorso, pag. 18).
Continuando, RI 1 precisa di essere - in contrasto con quanto riferito da PI6 - persona incensurata, che si è sempre comportata bene, che ha avuto “
una sola esperienza nel mondo dei postriboli
”, dopodiché è tornato alle sue precedenti occupazioni (ricorso, pag. 18).
Infine, il ricorrente rileva che sulla base degli atti - in particolare, dei verbali assembleari della società - risulta, semmai, che era PI3 ad avere una gestione autoritaria del Motel e che lui spesso lo rimproverava per questo e lo invitava a “
non stressare le ragazze
”. La versione dei fatti accertata in sentenza deve, dunque - conclude il ricorrente - essere ritenuta “
poco verosimile
” (ricorso, pag. 19).
6.3.
Per quel che concerne la credibilità delle testimonianze che il primo giudice ha evocato al consid. 20 della sentenza impugnata, le critiche del ricorrente si rivelano di matrice appellatoria. RI 1 nel suo gravame si limita, infatti, a rimproverare al primo giudice di non averne valutato la fondatezza, ma egli stesso non indica - salvo per PI6, di cui si dirà - alcun motivo atto a rimettere in discussione la credibilità dei testimoni presi in considerazione. Nel sostenere che le versioni dei testimoni sarebbero poco verosimili in quanto emerge dai verbali assembleari che era RI 1 ad aver chiesto al socio di “non stressare” le prostitute, il ricorrente argomenta liberamente, dimenticando i limiti di un ricorso per cassazione e, pertanto, argomenta in modo irricevibile. Anche sostenere che il comportamento di RI 1 dopo i fatti contrasti con la descrizione che i testimoni menzionati nella pronuncia impugnata hanno fornito di lui non giova al ricorrente, la critica essendo di stampo appellatorio.
Per quanto attiene, invece, all’asserito interesse di PI6 a riferire agli inquirenti cose false, la critica è al limite del temerario: non si vede, infatti, come la realizzazione del desiderio della teste di rimanere in Svizzera possa essere favorita dal fatto di riferire agli inquirenti presunte illazioni sul comportamento di RI 1 con le ospiti del Motel.
La critica del ricorrente concernente il fatto di non essere mai stato confrontato prima del dibattimento con le dichiarazioni di PI6 cade nel vuoto. In effetti, egli, non soltanto non si è mai opposto all’utilizzo delle risultanze predibattimentali, ma, soprattutto, non ha mai chiesto che la teste venisse sentita in contradditorio (cfr. ricorso, pag. 17).
Corrisponde al vero che le modalità con cui egli trattava le ragazze che si prostituivano nel _ non sono rilevanti nella determinazione degli elementi oggettivi del reato di tratta di esseri umani. Esse non gli sono, peraltro, nemmeno state contestate nel decreto d’accusa, per cui una sua condanna sulla scorta di tali comportamenti avrebbe violato il principio accusatorio.
Il primo giudice non ha tuttavia evocato tali condizioni per fondare la condanna, che ha ritenuto giustificata già sulla base di altri elementi di cui si è detto ai considerandi precedenti, ma quale elemento rilevante per commisurare la colpa dell’accusato.
In ciò, egli non ha violato il diritto federale: il Tribunale federale ha infatti sancito, nella già citata DTF 128 IV 117, che l’autonomia di cui le giovani donne godono nell’esercizio della loro attività è di rilevanza nell’ambito della commisurazione della pena (consid. 5c).
Pertanto, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata merita conferma.
7.
In esito all’attuale sentenza e in base al principio della soccombenza si giustifica di caricare gli oneri processuali al ricorrente. Non si assegnano ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b4be7561-2a16-5d47-8a69-d6e221dfe61d | in fatto ed in diritto
che il 7.04.2005 l’allora procuratore pubblico Monica Casalinuovo ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1, detenuto dal 18.04.2001 al 19.04.2001, siccome ritenuto colpevole di ripetuta ricettazione giusta l’art. 160 cifra 1 cpv. 1 CP, in relazione ai fatti avvenuti a _, a _ e a _, nel periodo compreso tra il 21.03.2001 e il 9.04.2001, ed ha proposto la sua condanna alla pena di venti giorni di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, rinviando la parte civile al competente foro per le sue eventuali pretese civili, e meglio come descritto nel DA _;
che il suddetto decreto è passato in giudicato il 9.05.2005;
che con la presente istanza IS 1 chiede di ottenere la trasmissione, in copia, del citato decreto;
che a suffragio della sua istanza precisa di aver richiesto un visto presso l’Ambasciata _ di _, essendo intenzionato ad andare negli _ il 29.12.2012 e che la stessa Ambasciata vuole conoscere il contenuto del decreto di accusa emanato a suo carico il
7.04.2005 (DA _);
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti coinvolte nel procedimento penale in questione nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di accusato) al medesimo;
che l’
art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di accusato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, del decreto di accusa 7.04.2005 (DA _), poiché l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che egli necessita di questo documento nell’ambito della procedura di rilascio di un visto a suo favore per gli _ (partenza prevista il 29.12.2012);
che di conseguenza il decreto di accusa richiesto viene trasmesso, in originale, all’istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b4bfafb7-2ea2-5300-aa11-c2dac78b39b8 | in fatto: A.
Con sentenza del 18 marzo 2003, emanata nelle forme contumaciali, la presidente della Corte delle assise correzionali di Bellinzona, sedente in Lugano, ha riconosciuto _ autore colpevole di ripetuta violazione della legge federale sugli stupefacenti per avere, come titolare di un negozio di canapa, acquistato, trasportato o coltivato e ripetutamente venduto al dettaglio, fra l'aprile del 1997 e l'ottobre del 1999, circa 15 kg di marijuana in sacchetti da 5 g a fr. 25.– pur conoscendo l'uso che ne sarebbe stato fatto.
B.
Contro tale sentenza _ ha introdotto il 24 marzo 2003 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 28 aprile 2003, egli chiede l'annullamento del giudizio impugnato e il rinvio degli atti a un'altra Corte delle assise correzionali per nuovo giudizio. Il ricorso non è stato oggetto di intimazione. Il 6 maggio 2003 _ ha trasmesso inoltre alla Corte la copia di un certificato medico rilasciatogli il 30 aprile 2003 dal dott. _, psichiatra e psicoterapeuta a Bellinzona. | Considerando
in diritto: 1.
Un ricorso per cassazione non può essere volto contro una sentenza contumaciale, di cui va chiesta previamente la revoca (art. 316 CPP). Il ricorso può essere diretto nondimeno contro la dichiarazione di contumacia e vertere sulla questione di sapere se il giudice abbia deciso a ragione o a torto di procedere in assenza dell’accusato (Rep. 1982 pag. 194 con la sentenza del Tribunale federale parzialmente riprodotta in calce; CCRP, sentenza del 1° settembre 1995 in re H., consid. 1). A tale proposito il gravame del ricorrente è pertanto ammissibile.
2.
Davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale non sono ammissibili documenti né altri mezzi di prova nuovi. Tale divieto è sempre stato ribadito dalla giurisprudenza (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; CCRP, sentenza del 20 marzo 1989 in re P. consid. 1.2; del 18 febbraio 2002 in re F. consid. 1; del 26 aprile 2002 in re I. consid. 1; del 6 maggio 2003 in re R. consid. 2; del 18 agosto 2004 in re G. consid. 1), un ricorso per cassazione dovendo essere giudicato sulla base dello stesso materiale processuale vagliato in prima sede. La copia del certificato medico prodotto per la prima volta in questa sede non può dunque entrare in linea di conto ai fini del giudizio, tanto meno dopo che il termine per motivare il ricorso per cassazione era ormai decorso.
3.
Il ricorrente si duole che la presidente della Corte lo abbia dichiarato a torto contumace, rimproverandole di non avere aggiornato il dibattimento sebbene egli l'avesse informata il 12 marzo 2003 che, in considerazione di quanto attestava il 14 febbraio 2003 il suo medico curante (act. TPC 9), non gli sarebbe stato possibile presentarsi in aula. Così facendo, la prima giudice avrebbe violato la legge. Appena il suo stato di salute lo consentirà, gli dovrà pertanto essere dato modo di partecipare a un nuovo processo con l'intervento degli assessori giurati.
4.
Come risulta dalla sentenza impugnata, prima del dibattimento l'accusato aveva prodotto un certificato del 14 febbraio 2003 in cui il dott. _, psichiatra e psicoterapeuta, attestava un suo “profondo stato ansioso-depressivo, agitazione psicomotoria, somatizzazioni d'ansia, vissuti di esasperazione ed impotenza nei confronti di questa situazione che egli considera ingiusta, vessatrice, persecutoria oltre ogni dire”. La presidente della Corte, accertato che lo specialista si riferiva al “vissuto” dell'accusato nei confronti del procedimento penale, ha ritenuto non giustificarsi un rinvio del dibattimento, rilevando che se tale stato sussisteva in modo così acuto tre anni e mezzo dopo l'arresto, poco verosimilmente la situazione sarebbe cambiata nei mesi successivi (sentenza, consid. 1). Quanto al fatto che l'accusato si rifiutasse di rinunciare ai giurati, ciò non ostava alla celebrazione del processo, l'art. 39 LOG consentendo di procedere senza giurati in caso di contumacia. E siccome nella fattispecie l'accusato non aveva dato seguito alla citazione regolarmente notificatagli e il Procuratore pubblico non accettava giusta l'art. 229 cpv. 4 CPP di considerarlo assente giustificato, nulla ostava all'emanazione del giudizio contumaciale (sentenza, loc. cit.).
5.
A parere del ricorrente la presidente della Corte, sapendo che avrebbe dovuto convocare agli assessori giurati non solo in caso di rinvio del dibattimento, ma anche nel caso in cui avesse autorizzato l'accusato a rimanere assente (art. 229 cpv. 4 CP), ha fatto sì che il Procuratore pubblico si opponesse a quest'ultima ipotesi, in modo da procedere nelle forme contumaciali. Già per questo motivo la dichiarazione di contumacia risulta arbitraria e va annullata. La censura, invero malevola, non è fondata. La presidente della Corte ha dichiarato l'accusato contumace perché ha ritenuto che i motivi di impedimento alla comparsa indicati nel certificato medico del 14 febbraio 2003 fossero destinati a durare e perché, il certificato medico essendo stato prodotto dopo la notifica delle citazioni al processo, alla presenza dell'accusato si sarebbe potuto rinunciare solo con l'assenso del Procuratore pubblico (art. 229 cpv. 4 CP). Che la presidente della Corte abbia sollecitato il Procuratore all'intransigenza non risulta. D'alto lato il ricorrente deve imputare tale situazione anche alla sua passività. Benché patrocinato, infatti, egli ha comunicato alla presidente della Corte di non poter comparire al dibattimento solo pochi giorni prima del processo. Dall'act. TPC 3 si desume tuttavia che già il 14 febbraio 2003 egli sapeva di doversi presentare il 18 marzo 2003 al dibattimento. E il certificato medico è di quello stesso 14 febbraio 2003 (act. TPC 9). Avesse agito con solerzia, avrebbe potuto instare a norma dell'art. 229 cpv. 1 CP per la dispensa dalla comparizione evocando “preminenti ragioni”.
6.
Secondo il ricorrente, il certificato medico prodotto non attesta – comunque sia – un suo impedimento duraturo, il medico curante descrivendo unicamente il suo stato piscopatologico al momento in cui il certificato è stato redatto. Ciò non giustificava un processo contumaciale giusta l'art. 237 cpv. 3 CPP, men che meno con l'effetto di sottrargli la possibilità di vedersi giudicare da una Corte con assessori giurati. Avesse avuto perplessità, la prima giudice avrebbe dovuto convocare il medico per spiegazioni. In realtà essa ha evitato approfondimenti per evitare di dover concedere un rinvio del dibattimento e far intervenire poi i giurati, e ciò proprio quando “un adeguato sostegno” avrebbe a lui permesso di partecipare a un dibattimento successivo. A norma dell'art. 237 cpv. 2 lett. a CPP un rinvio del processo avrebbe pertanto dovuto essergli accordato. Donde la necessità di annullare la dichiarazione di contumacia.
7.
Ci si potrebbe interrogare anzitutto se al proposito il ricorso sia ammissibile. Dagli atti non risulta infatti che il ricorrente abbia formalmente chiesto un rinvio del processo (art. 237 cpv. 2 lett. a CPP). Egli si è limitato il 12 marzo 2003 a informare la presidente Corte che non sarebbe comparso in aula, allegando il noto cetificato medico, e il 17 marzo 2003 ha comunicato che non avrebbe rinunciato agli assessori giurati (act. TPC 11). Nemmeno all'inizio del dibattimento egli risulta avere insistito per un rinvio. Sia come sia, la presidente della Corte si è chiesta d'ufficio se fossero dati gli estremi per prorogare il dibattimento. La questione non merita dunque altra disamina. Ora, il certificato medico del 14 febbraio 2003 è così redatto:
Il mio paziente presenta un grave stato psicopatologico caratterizzato da un prodondo stato ansioso-depressivo, agitazione psicomotoria, somatizzazioni d'ansia, visstuti di esasperazione ed impotenza nei confronti di questa situazione che egli considera ingiusta, vessatrice, persecutoria oltre ogni dire.
Il complesso e grave quadro clinico presentato dal sig. _ mi induce a rilasciare il presente scritto allo scopo di sensibilizzare le autorità competenti e chiedendo alle stesse che il paziente possa essere esonerato dal dover presenziare al procedimento penale in oggetto.
Ciò, ripeto, per motivi strettamente clinici e – in particolare – per tutelare l'equilibrio psicosociale del paziente e la sua incolumità.
In simili condizioni la presidente della Corte poteva senz'altro reputare che, se erano ancora così acuti a tre anni e mezzo dall'arresto, gli scompensi psichici descritti dal medico fossero destinati a durare, dato che traevano origine dall'ansia, dall'agitazione, dall'esasperazione e dall'impotenza correlati al procedimento penale stesso. A ogni nuova citazione, in altri termini, l'accusato avrebbe provato le medesime sofferenze e depressioni, ciò che induceva ragionevolmente a ravvisare i presupposti dell'art. 237 cpv. 3 CPP e, quindi, la possibilità di procedere in assenza di lui. Interrogare il medico curante non avrebbe avuto senso, il certificato essendo chiaro e univoco. Certo, il ricorrente potrà anche superare un giorno le difficoltà che il medico ha ricondotto alla litispendenza dell'azione penale. In tal caso basti ricordare che egli potrà chiedere la revoca della condanna (art. 316 CPP) ed esigere l'indizione di un processo con l'intervento degli assessori giurati.
8.
Gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b52fd209-ec6c-55b0-b31f-de4b579b9541 | in fatto: A.
Con sentenza del 12 aprile 2001 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha riconosciuto _ autore colpevole di violenza e minaccia contro le autorità e i funzionari, come pure di danneggiamento. Egli ha accertato che il 14 marzo 1998, durante una manifestazione organizzata a Lugano dal “Centro occupato autogestito Il Mulino” l'imputato ha danneggiato una videocamera Sony (proprietà della polizia cantonale) con cui il caporale _ stava registrando alcune fasi della manifestazione. In applicazione della pena, il presidente della Corte ha condannato _ a 10 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente con un periodo di prova di due anni, e a risarcire allo Stato del Cantone Ticino la somma di fr. 680.50 per il danno causato alla videocamera.
B.
Contro la sentenza di assise _ ha inoltrato il 13 aprile 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 23 maggio successivo, egli chiede il proscioglimento da ogni imputazione o quanto meno, in subordine, il proscioglimento dall'imputazione di violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari oppure, in via ancor più subordinata, la riduzione della pena inflittagli. Il ricorso non è stato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente rimprovera al presidente della Corte di assise di avere violato l'art. 285 CP riconoscendolo colpevole di violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari. Afferma in sintesi di essersi limitato, durante la nota manifestazione, a proteggere la sua sfera privata, non volendo egli essere ripreso dalla telecamera di uno sconosciuto. Ora, quel che l'autore di un reato sa o non sa, quello che vuole o l'eventualità delittuosa cui egli consente è una questione di fatto (DTF 121 IV 92 consid. 2b con rinvii). La Corte di cassazione e di revisione penale è abilitata però a rivedere gli accertamenti di prima sede solo con cognizione circoscritta all'arbitrio (art. 288 lett. c e 295 CPP). Arbitrario non significa poi discutibile, contestabile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile o in aperto contrasto con gli atti (DTF 126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a). Per motivare una censura di arbitrio non basta quindi criticare la decisione impugnata, né contrapporle una propria versione degli eventi, per quanto preferibile. Occorre invece spiegare per quale ragione l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove della prima Corte siano manifestamente insostenibili, si trovino in chiaro contrasto con gli atti o contraddicano in modo urtante il sentimento di giustizia e di equità (DTF 125 II 10 consid. 3a, 124 I 86 consid. 2a, 123 I 1 consid. 4a, 122 I 61 consid. 3a). Secondo giurisprudenza, inoltre, una sentenza incorre nell'annullamento quando è arbitraria non solo nella motivazione, ma anche nel suo risultato (DTF 125 II 129 consid. 5b, 124 II 166 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a, 122 I 253 consid. 6c con rinvii).
2.
Stando alla sentenza impugnata, il ricorrente ha colpito la telecamera con la mano mentre l'agente _ stava riprendendo la manifestazione. A prescindere dalla qualifica giuridica del gesto – ha rilevato il primo giudice – è pacifico che il ricorrente ha agito contro un pubblico funzionario, impedendogli di assolvere il proprio compito e integrando così le condizioni oggettive dell'art. 285 CP. Tale conclusione non è censurata nel gravame. Quanto all'aspetto soggettivo, sempre stando alla sentenza di primo grado, l'imputato sapeva o almeno doveva presumere dalle circostanze che la persona aggredita era un agente di polizia in borghese che agiva nell'ambito delle sue funzioni. Il ricorrente, infatti, aveva già conosciuto l'agente, essendo stato da lui interrogato il 14 marzo 1998. Il funzionario, inoltre, si trovava dietro il cordone della polizia, in mezzo ad altri agenti, e filmava con una videocamera da professionista senza le scritte di alcuna rete televisiva. Appare perciò insostenibile, ha concluso la prima Corte, che, oltrepassando per di più il cordone di polizia, egli non avesse capito che la persona che lo filmava era un agente in civile (sentenza, pag. 7).
3.
Invano si cercherebbe di sapere perché tale accertamento sarebbe arbitrario, termine al quale peraltro l'impugnativa nemmeno accenna. Il ricorrente critica il giudizio impugnato come se si rivolgesse a un'autorità munita di pieno potere cognitivo e contrappone semplicemente la sua opinione a quella del primo giudice come se adisse una Corte di appello, ciò che è inammissibile. Ricordata la confusione che regnava durante la manifestazione, egli si limita a descrivere la scena dal suo punto di vista, domandandosi come avrebbe potuto aggredire l'uomo se questi si fosse effettivamente trovato dietro un cordone di agenti e ponendosi interrogativi sulla credibilità dei colleghi di lui. La natura appellatoria di un esposto del genere risulta evidente. Donde la palese inammissibilità del ricorso.
4.
Il ricorrente insorge pure contro la condanna per danneggiamento. Richiamando le argomentazioni che precedono, egli asserisce che nell'imminenza della reazione non ha assolutamente pensato né accettato con dolo eventuale di danneggiare l'apparecchio, ma che con il proprio gesto intendeva unicamente distogliere la telecamera dalla propria direzione. Di nuovo il ricorrente si limita a contrapporre il proprio punto di vista a quello del giudice di merito. Quest'ultimo ha accertato che, sferrando un colpo alla camera, l'imputato ha voluto o comunque preso in considerazione che l'apparecchio, notoriamente delicato, cadesse a terra e si danneggiasse (sentenza, pag. 8). Incombeva pertanto all'accusato dimostrare perché tale accertamento sarebbe arbitrario. Egli non adempie tale obbligo. Ancora una volta il ricorso sfugge perciò a un esame di merito e va dichiarato inammissibile.
5.
Il ricorrente si duole infine della pena inflittagli, definendola eccessivamente severa per rapporto al fatto di essersi limitato a una reazione legittima di fronte alla ripresa indebita da parte di uno sconosciuto, ciò che per finire gli è costato un ricovero in ospedale, una commozione cerebrale e una ferita al capo. Ancora una volta però il ricorrente fonda il ricorso su considerazioni che non trovano riscontro negli accertamenti della sentenza impugnata. Secondo il presidente della Corte egli ha assalito un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, arrecando proditorio danno alla di lui incolumità senza essere provocato. Tanto più che egli partecipava a una manifestazione non autorizzata. Non poteva perciò accampare scusanti nei confronti di un atto d'autorità limitato a una mera ripresa filmata (sentenza, pag. 8). Ora, condannando il ricorrente a 10 giorni di detenzione per violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari (art. 285 CP) e per danneggiamento (art. 144 CP), il primo giudice ha emanato fors'anche un verdetto severo, ma non ha ecceduto nel proprio potere di apprezzamento. Quanto al preteso ricovero in ospedale, tale circostanza riguarda una fase successiva dell'azione, quando il ricorrente si è ferito nella colluttazione avvenuta in seguito, dopo essersi dato alla fuga (sentenza, pag. 5). E per tale episodio egli è stato prosciolto dall'imputazione di cui all'art. 285 CP (sentenza, consid. 7).
6.
Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile, il ricorso si rivela manifestamente infondato (art. 291 cpv. 1 CPP). Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP).
Pr questi motivi,
visto sulle spese l'art. 39 lett. d LTG, | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b6bc873e-e377-5150-854a-be45d6266f8e | ritenuto che, in considerazione dell’esito del gravame, non sono state chieste osservazioni;
letti ed esaminati gli atti;
considerato
in fatto
a
. Con risoluzione 8.5.2009 la Sezione della circolazione ha inflitto a RE 1, agente di polizia, una multa di CHF 200.--, oltre alla tassa di giustizia ed alle spese, perché, a _, il 5.12.2008, “
alla guida della vettura _
(autoveicolo di polizia)
non osservava una segnalazione semaforica rossa indicante “fermata”, s’inoltrava in un’intersezione e collideva con un autoveicolo sopraggiungente da destra
” (art. 3, 27 cpv. 1, 36 cpv. 2 e 90 cifra 1 LCStr, art. 14 cpv. 1 ONC, art. 68 cpv. 1 OSStr).
La decisione in questione (n. _) menzionava che essa poteva essere impugnata con ricorso alla Pretura penale.
b
. Con giudizio 21.11.2011, prolato giusta le norme procedurali della legge di procedura per le contravvenzioni del 19.12.1994 (vLPContr) [art. 453 cpv. 1 CPP], il presidente della Pretura penale ha respinto il ricorso 27.5.2009 di RE 1.
Ha ritenuto, considerato che non sussisteva alcun ragionevole dubbio che il semaforo era rosso per il ricorrente quando aveva impegnato l’intersezione, che il di lui comportamento fosse stato non rispettoso della prudenza imposta dalle particolari circostanze e che quindi non si poteva riconoscergli la giustificazione dell’art. 100 cifra 4 LCStr. Avrebbe dovuto azionare gli avvisatori sonori ben prima di quello che aveva fatto, nonostante circolasse nel mezzo della notte, e ridurre ulteriormente la velocità, stante che la stessa, al momento di impegnare l’intersezione, era prossima ai 40 km/h, a maggior ragione poiché la visibilità era scarsa a causa dell’illuminazione artificiale, della pioggia e della presenza di edifici i quali impedivano di accertarsi per tempo dell’arrivo di altri veicoli, e a causa del fondo bagnato (inc. _).
Il presidente della Pretura penale ha indicato che la decisione poteva essere impugnata con ricorso in materia penale al Tribunale federale (art. 78 ss. LTF), entro trenta giorni dalla notificazione.
c
. Con sentenza 31.5.2012 l’Alta Corte, autorità adita da RE 1 con ricorso in materia penale contro la citata decisione, ha dichiarato inammissibile l’impugnativa (inc. TF _).
Ha reputato, ricordato il significato di “
tribunale superiore
” a’ sensi dell’art. 80 cpv. 2 LTF (tribunale che ha giurisdizione su tutto il territorio cantonale e che non è sottoposto a nessun’altra autorità giudiziaria: un ricorso ad un’istanza cantonale superiore contro una sua decisione è escluso in tutti gli ambiti che gli competono), che – sebbene la giurisdizione della Pretura penale si estendeva sull’intero territorio cantonale e che in materia contravvenzionale le sue decisioni erano definitive – essa non poteva essere considerata “
tribunale superiore
”. Le sue decisioni, giusta gli art. 41 cpv. 1 e 2 e 63 cpv. 2 vLOG, in vigore fino al 31.12.2010, potevano infatti essere impugnate davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale. Un ricorso ad un’istanza cantonale superiore contro i giudizi della Pretura penale non era pertanto escluso in tutti gli ambiti di sua competenza. Anche secondo il CPP la Pretura penale non si sarebbe pronunciata quale istanza cantonale unica a’ sensi dell’art. 80 cpv. 2 terza frase LTF: una sua decisione in materia di contravvenzioni sarebbe stata impugnabile con appello alla Corte di appello e di revisione penale. Il ricorso in materia penale presentato da RE 1 non poteva di conseguenza essere esaminato nel merito.
L’indicazione errata dei rimedi di diritto contenuta nella sentenza impugnata non poteva avere per effetto di creare una via diretta di ricorso al Tribunale federale, altrimenti non subito aperta.
Ha poi esaminato se il gravame fosse concepibile quale ricorso sussidiario in materia costituzionale, ritenendolo parimenti inammissibile in difetto della condizione di “
tribunale superiore
”.
L’Alta Corte ha concluso che, in ragione del diritto federale (art. 80 cpv. 2 e 130 cpv. 1 LTF), il caso doveva essere previamente sottoposto al giudizio di un tribunale superiore. Spettava al Cantone adeguare il sistema dei mezzi di impugnazione alle esigenze della LTF. Ha rilevato, a titolo abbondanziale, che – in assenza dei necessari adattamenti legislativi – l’art. 80 cpv. 2 LTF poteva fondare direttamente la competenza di un tribunale superiore.
d
. Con gravame 18/19.6.2012 RE 1 postula che l’istanza di restituzione dei termini sia accolta e che di conseguenza gli sia concesso un nuovo termine di trenta giorni per impugnare la sentenza 21.11.2011 del presidente della Pretura penale rispettivamente che il contestuale reclamo sia considerato tempestivo.
Chiede poi che – in accoglimento del reclamo –, in via principale, la decisione 21.11.2011 del presidente della Pretura penale sia annullata e, in via subordinata, che la citata decisione sia annullata e che gli atti siano rinviati all’autorità inquirente per un’eventuale disamina della violazione dell’art. 100 cifra 4 LCStr.
Il reclamante, riassunte le sentenze 21.11.2011 del presidente della Pretura penale e 31.5.2012 del Tribunale federale, rileva di essere stato privato, di fatto, di una possibilità di ricorso, ciò che giustificherebbe la presentazione dell’istanza di restituzione dei termini davanti alla Corte dei reclami penali, in analogia a quanto prevedrebbe il CPP sulla base dell’indicazione del Tribunale federale in relazione all’art. 80 cpv. 2 LTF. Non potrebbe essergli addebitata alcuna colpa per non avere tempestivamente inoltrato ricorso davanti a questa Corte. Non avrebbe potuto sapere che l’Alta Corte non si riteneva più competente a giudicare direttamente ricorsi contro decisioni della Pretura penale emanate dopo l’1.1.2011, bensì unicamente contro decisioni emanate prima di tale data. Il pregiudizio da lui sofferto, non essendo il Tribunale federale entrato nel merito della sua impugnativa, sarebbe palese.
Delle ulteriori argomentazioni si dirà, se del caso, in seguito. | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal Codice o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 18/19.6.2012, con cui chiede
la restituzione dei termini per impugnare la decisione 21.11.2011 del presidente della Pretura penale e l’annullamento di detta sentenza (inc. _), è tempestivo con riferimento sia all’art. 396 cpv. 1 CPP (dieci giorni) sia all’art. 94 cpv. 2 CPP (trenta giorni).
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1,
quale imputato che intende impugnare la decisione che lo ha condannato, è pacificamente legittimato, giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP, avendo un interesse giuridicamente protetto, a presentare istanza di restituzione dei termini per aggravarsi contro la sentenza di condanna, che parimenti contesta.
Il presupposto della competenza di questa Corte a pronunciarsi sulla restituzione dei termini attiene invece al merito stesso della controversia, ossia concerne il quesito a sapere se questa Corte possa esprimersi sull’istanza di restituzione dei termini per censurare la decisione del presidente della Pretura penale.
2
. 2.1.
La questione della competenza di questa Corte sulla menzionata tematica è da verificare d’ufficio giusta l’art. 39 cpv. 1 CPP (secondo cui le autorità penali esaminano d’ufficio la loro competenza e, se necessario, rimettono il caso all’autorità competente).
2.2.
L’art. 94 CPP – che disciplina i presupposti per la restituzione di un termine – prevede, al cpv. 1, che la parte che – non avendo osservato un termine – ha subito un pregiudizio giuridico importante e irrimediabile possa chiederne la restituzione; a tal fine deve rendere verosimile di non avere colpa dell’inosservanza.
L’istanza va motivata e presentata per scritto entro 30 giorni dalla cessazione del motivo dell’inosservanza all’autorità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso. Entro lo stesso termine occorre compiere l’atto omesso (cpv. 2).
La decisione, emanata da detta autorità in procedura scritta (art. 94 cpv. 4 CPP), è di regola impugnabile, alla giurisdizione di reclamo, con reclamo a’ sensi degli art. 393 ss. CPP (BSK StPO – J. STEPHENSON / G. THIRIET, art. 393 CPP n. 10; BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 73; ZK StPO – A. KELLER, art. 393 CPP n. 16; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 94 CPP n. 14).
Non sono tuttavia impugnabili, segnatamente, le decisioni del giudice dei provvedimenti coercitivi (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 75), le decisioni delle autorità di ricorso (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 76) e le decisioni dei tribunali di primo grado che hanno ammesso la restituzione del termine, nell’ipotesi in cui siano dati i presupposti degli art. 65 cpv. 1 e 393 cpv. 1 lit. b CPP (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 77).
2.3.
2.3.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 CPP il reclamo può essere interposto contro: a. le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni; b. i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali dei tribunali di primo grado, sono eccettuate le decisioni ordinatorie; c. le decisioni del giudice dei provvedimenti coercitivi, nei casi previsti dal CPP.
Il reclamo è nondimeno inammissibile, in applicazione dell’art. 394 CPP: a. se è proponibile l’appello; b. contro la reiezione, da parte del pubblico ministero o delle autorità penali delle contravvenzioni, di istanze probatorie che possono essere riproposte senza pregiudizio giuridico dinanzi al tribunale di primo grado.
2.3.2.
Il reclamante chiede la restituzione dei termini per impugnare la decisione 21.11.2011 del presidente della Pretura penale, che è stata emanata, giusta l’art. 453 cpv. 1 CPP, secondo le norme procedurali della legge di procedura per le contravvenzioni del 19.12.1994. Il presidente della Pretura penale ha dunque funto, nel caso in esame, da autorità di ricorso (art. 4 cpv. 1 vLPContr). Ha deciso, dopo lo scambio delle osservazioni (art. 10 cpv. 2 vLPContr), in procedura scritta (art. 12 cpv. 2 vLPContr). Ed ha infine intimato la decisione motivata (art. 14 cpv. 1 vLPContr).
Si trattava dunque, di tutta evidenza, di una decisione di merito, che poneva fine, in tutto, al procedimento contravvenzionale.
In queste circostanze, è manifesto che competente a decidere il ricorso contro detto giudizio non può essere questa Corte, che – come ben risulta dai combinati art. 393 e 394 CPP – non è l’autorità che si pronuncia nel merito delle vertenze, ossia che si esprime sulla colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato.
Tema dell’impugnativa di RE 1 è invece proprio la questione a sapere se – nel merito – si sia reso colpevole di violazione di norme della circolazione stradale, come reputato dal presidente della Pretura penale nel suo giudizio 21.11.2011.
Questa decisione non può quindi essere impugnata con reclamo a’ sensi degli art. 393 ss. CPP: questa Corte è incompetente.
2.3.3.
Ora, considerato che l’istanza di restituzione dei termini deve essere presentata, giusta l’art. 94 cpv. 2 CPP, all’autorità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso, l’incompetenza di questa Corte ad emettere la decisione di merito sulla controversia si ripercuote, inevitabilmente, anche sulla di lei competenza a stabilire la restituzione dei termini: la Corte dei reclami penali non può evidentemente decidere la restituzione di un termine per inoltrare un gravame su cui non può determinarsi.
L’istanza di restituzione dei termini è perciò irricevibile, con conseguente irricevibilità pure delle richieste intese all’annullamento del giudizio 21.11.2011 del presidente della Pretura penale.
3
. Si pone, dunque, la questione a sapere a chi debba essere trasmessa l’impugnativa 18/19.6.2012 del qui reclamante.
3.1.
Questa Corte, nel giudizio 9.5.2012 (inc. CRP 60.2012.75), era stata chiamata a pronunciarsi su una fattispecie analoga.
Anche in quel caso il Tribunale federale (decisione TF 6B_746/2011 del 28.11.2011) aveva ritenuto inammissibile il gravame di un imputato condannato dal presidente della Pretura penale, che aveva prolato la sua decisione giusta le norme procedurali della legge di procedura per le contravvenzioni del 19.12.1994 (art. 453 cpv. 1 CPP). Questa Corte ha trasmesso gli atti alla Corte di appello e di revisione penale sostenendo che spettava a lei stabilire se il presidente della Pretura penale, che si era pronunciato giusta la vLPContr, potesse essere considerato “
tribunale di primo grado
” secondo gli art. 398 ss. CPP, questione di non semplice soluzione vista l’entrata in vigore del CPP con le relative modifiche legislative cantonali.
Ha, infine, rilevato che, sebbene gli atti inerenti all’istanza di restituzione dei termini venivano inviati alla Corte di appello e di revisione penale, era controverso – in dottrina – se competente ad esprimersi su una simile istanza fosse il collegio o il suo presidente (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 59; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 94 CPP n. 11; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 94 CPP n. 12). La Corte, esaminata d’ufficio la sua competenza a decidere in merito, avrebbe dunque rimesso, se del caso, gli atti al suo presidente (art. 39 cpv. 1 CPP).
La Corte di appello e di revisione penale, con decisione 13.6.2012, ha accolto la domanda di restituzione del termine (inc. CARP 17.2011.126).
3.2.
Questa Corte, in considerazione delle precedenti argomentazioni, che valgono evidentemente anche per il caso in esame, ritiene dunque di trasmettere alla Corte di appello e di revisione penale l’impugnativa 18/19.6.2012 di RE 1, con la quale chiede la restituzione dei termini per contestare la decisione 21.11.2011 del presidente della Pretura penale Marco Kraushaar e contestualmente l’annullamento della decisione medesima.
Il Tribunale federale, nel suo giudizio 31.5.2012 (inc. TF 6B_6/2012 consid. 2 in fine), sembra peraltro fare riferimento alla Corte di appello e di revisione penale quale “
tribunale superiore
”: “
A titolo abbondanziale, va nondimeno rilevato che, in assenza dei necessari adattamenti legislativi, l’art. 80 cpv. 2 LTF può fondare direttamente la competenza di un tribunale superiore (...)
”. Detta Corte è infatti la sola autorità superiore che decide il merito.
4
. Il gravame è irricevibile. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Non si assegnano ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
b7657713-52ec-5e41-86ca-cc1754ed1555 | in fatto: A.
Sabato 31 agosto 2002 _ ha partecipato a una festa di nozze a _. Dopo l'aperitivo al “Grotto _ ”, durante il quale sostiene di avere bevuto due bicchieri di vino bianco, egli si è trasferito con gli altri invitati al ristorante _, dove ha cenato bevendo – a suo dire – altri due bicchieri di vino bianco e mezzo bicchiere di rosso. Verso le 00.30 del 1° settembre 2002 egli ha lasciato l'esercizio pubblico per raggiungere, con la Opel “Astra” di suo fratello, il rustico della sua fidanzata a _. Lì si trovavano, per il fine settimana, anche sua madre e il di lei marito. Se non che, giunto in territorio di _, nell'affrontare una curva verso sinistra ad una velocità dichiarata inferiore a 60 km/h, egli ha perso la padronanza del veicolo, ha invaso la corsia opposta, delimitata da una linea di sicurezza, ed è andato a collidere con la barriera laterale sinistra. In seguito al contraccolpo la vettura si è spostata nuovamente sulla normale corsia di marcia, arrestandosi al centro della stessa.
B.
Sotto l'effetto dello spavento, _ ha tentato di telefonare alla madre con il suo cellulare, ma invano. Così egli ha attraversato a piedi una galleria, oltre la quale è riuscito a chiamarla. Essa è partita insieme con il marito in suo soccorso, accompagnandolo al rustico in automobile e dicendogli che avrebbero provveduto a ricuperare il veicolo danneggiato e ad avvertire la polizia. Tornati sul luogo dell'incidente, essi hanno visto che taluni agenti, informati da terzi, erano già sul posto, di modo che hanno fatto ritorno al rustico, accordandosi nel senso che il marito della madre, _, avrebbe assunto la responsabilità del l'infortunio e si sarebbe autodenunciato. Dopo una prima verbalizzazione presso la gendarmeria di _, però, _ ha ammesso che la sua confessione era volta a coprire _. Gli agenti di polizia si sono pertanto recati a _, dove _ ha subito ammesso di essere stato la causa dell'incidente. Egli ha pure dichiarato che, dopo avere raggiunto il rustico verso le ore 03.30, per alleviare lo spavento aveva bevuto tre bicchieri di vino rosso e un cognac, coricandosi verso le 04.00. Dal prelievo del sangue al quale egli è stato sottoposto dopo l'interrogatorio è risultato un tasso di alcolemia, al momento dell'incidente, compreso tra 1.56 e 2.10 g/kg. Tenuto conto dell'alcool assorbito tra il momento dell'incidente e il prelievo (0.60 g/kg), il valore di alcolemia è stato determinato tra 0.96 e 1.59 g/kg.
C.
Con decreto di accusa del 25 novembre 2002 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di circolazione in stato di ebrietà, infrazione alle norme della circolazione e inosservanza dei doveri in caso di infortunio, infliggendogli una pena detentiva di 75 giorni sospesi condizionalmente per 4 anni e una multa di fr. 1'200.–. Egli ha pure revocato il beneficio della sospensione condizionale a una pena di 30 giorni di detenzione decretata contro l'accusato il 27 novembre 2000 per circolazione in stato di ebrietà. Statuendo su opposizione dell'accusato, con sentenza del 25 febbraio 2003 il giudice della Pretura penale ha invece assolto _ dall'accusa di circolazione in stato di ebrietà e lo ha condannato a una multa di fr. 1'000.– per infrazione alle norme della circolazione, oltre che per inosservanza dei doveri in caso di infortunio.
D.
Contro il predetto giudizio il Procuratore pubblico ha inoltrato il 26 febbraio 2003una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 4 aprile 2003 egli chiede la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un altro giudice della Pretura penale per nuovo giudizio o, in via subordinata, un aggravamento della pena inflitta all'accusato. Nelle sue osservazioni del 5 maggio 2003 _ propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura a norma dell'art. 288 lett. c CPP non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
2.
Stando agli accertamenti del Giudice della Pretura penale, durante l'aperitivo e la cena della festa nuziale l'accusato aveva bevuto in tutto quattro bicchieri di vino bianco e mezzo bicchiere di vino rosso (consid. D). Per quanto riguarda le bevande alcoliche ingerite dopo l'incidente, l'accusato aveva dichiarato che, non avendo trovato nel rustico dei parenti bicchieri da 1 dl, aveva usato un bicchiere per l'acqua da 1.5 o 2 dl, riempiendolo tre volte con vino rosso (per un quantitativo stimato in circa 4.5 dl) e in seguito, per un po' meno della metà, con del cognac (consid. 2). L'istruttoria non avendo approfondito questo punto, il primo giudice si è dipartito dalla versione più favorevole all'accusato, quantificando il vino rosso ingerito tra le ore 03.30 e le 04.00 in 4.5 dl e il cognac in circa 0.5 dl (consid. 4). E siccome l'accusato pesa 80 kg, egli ha determinato in 0.97 g ‰ il tasso alcolemico dovuto a tali bevande. Ammettendo,
nuovamente nell'ipotesi più favorevole all'accusato, una fase di assorbimento di 120 minuti, per il giudice di merito la fase di espulsione di 0.1 g ‰ l'ora era iniziata alle ore 06.00 (consid. 4), sicché alle 07.00 il tasso doveva corrispondere a 0.87 g ‰ e alle 07.40 (ora del prelievo) a 0.80 g ‰. Deducendo dal tenore minimo della perizia (1.56 g ‰) 0.80 g ‰ (e non 0.60 g ‰, come sosteneva l'accusa), si ottiene un tasso di alcolemia, al momento dell'incidente (ore 02.30), di 0.76 g ‰. Donde la non punibilità dell'interessato (consid. 4).
3.
A mente della pubblica accusa l'assoluzione dell'accusato dall'imputazione di circolazione in stato di ebrietà è arbitraria nella misura in cui il giudice ha determinato il tasso di alcolemia sulla base di parametri assolutamente aleatori, fondandosi unicamente sulla versione fornita in aula dall'accusato. Il Procuratore pubblico sottolinea che, in occasione del prelievo del sangue e anche nel verbale di polizia, l'interessato aveva indicato la quantità di alcool ingerito dopo l'incidente in tre bicchieri di vino rosso e un bicchiere di cognac. Tali dati non sono mai stati messi in discussione, tant'è che l'analista chimico si è basato su di essi per stabilire il tasso di alcolemia al momento critico e il decreto di accusa già tiene conto delle deduzioni operate nella perizia. Arbitrariamente inoltre il primo giudice ha applicato, per il Procuratore pubblico, il principio
in
dubio pro reo
a semplici affermazioni addotte dall'accusato al dibattimento sulla pretesa capienza dei bicchieri per l'acqua. Né spettava al giudice improvvisarsi analista chimico e calcolare il tasso di alcolemia, trattandosi di un accertamento specialistico che va eseguito da un laboratorio autorizzato e riconosciuto dall'autorità federale.
4.
A torto il Procuratore pubblico censura di arbitrio l'accertamento del primo giudice riguardo alla capienza del bicchiere usato dall'accusato per bere vino e cognac fra le ore 03.30 e le 04.00. Certo, il fatto di credere all'imputato quando ha asserito che, non avendo trovato nel rustico un bicchiere da 1 dl, aveva bevuto da uno di quelli comunemente usati per l'acqua, da 1.5 o 2 dl, può forse apparire opinabile. Se non che, proprio per la mancanza di un'istruttoria predibattimentale più approfondita su questo punto, l'accertamento non può sicuramente dirsi insostenibile. Ai fini del giudizio ci si deve quindi fondare sull'accertamento che l'accusato ha bevuto in quel lasso di tempo 4.5 dl di vino rosso e circa 0.5 dl di cognac.
5.
Per giurisprudenza, in casi normali il giudice può calcolare l'alcolemia nel sangue al momento dei fatti senza far capo a un perito, partendo dal momento in cui è avvenuto il prelievo (DTF 116 IV 239 consid. 2 pag. 241). La fattispecie in esame non configura tuttavia un “caso normale”, già per la circostanza che dopo l'infortunio l'accusato ha bevuto ancora 4.5 dl di vino rosso e circa 0.5 dl di cognac. Oltre a ciò, il primo giudice ha determinato in 0.97 g ‰ il tasso di alcolemia causato dalle citate bevande fondandosi sul peso dell'accusato (80 kg) e addizionando 0.67 g ‰ a 0.30 g ‰, ma senza che sia dato di capire quali siano i criteri del calcolo. Sulla provenienza dei dati, intanto, tutto si ignora. Perché poi tre bicchieri di vino rosso da 1.5 dl provochino un tasso di alcolemia di 0.67 g ‰ e 0.5 dl di cognac corrispondano a un tasso di 0.30 g ‰ mal si comprende. Per di più, non è detto che l'alcolemia causata da bevande diverse possa determinarsi semplicemente addizionando i tassi causati dall'una e dall'altra bevanda. Anzi, nella pratica i calcoli possono rivelarsi assai complessi e nel dubbio vanno affidati a uno specialista (
Bussy/ Rusconi
, Commentario LCStr, 3a
edizione, 1996, n. 2.4 a ad art. 91, pag. 692). Sotto questo profilo la sentenza impugnata non resiste perciò alla critica di arbitrio.
6.
A mente del Procuratore pubblico, indipendentemente dal censurato proscioglimento, il giudice ha irrogato una pena eccessivamente mite, e quindi arbitraria oltre che contraria ai dettami del diritto federale. In effetti -prosegue- egli ha riservato in sentenza una sola frase sulla commisurazione della pena, senza dare motivazione alcuna sui criteri adottati per giustificarla. Quest'ultima censura si rivela fondata.
a)
Per l'art. 63 CP il giudice commisura la pena alla colpa del reo, tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui.
b)
Per diritto federale incombe al giudice di merito esporre, nei motivi della sua decisione, gli elementi essenziali relativi all'atto o all'autore da egli considerati, in modo che sia dato di verificare l'esame di tutti gli aspetti determinanti e la loro valutazione, sia in senso attenuante o aggravante. Il giudice di merito può passare sotto silenzio gli elementi che, senza abuso o eccesso di apprezzamento, gli paiono senza importanza o di peso trascurabile. Egli non è tenuto nemmeno a esprimere in cifre o in percentuali l'importanza accordata a ogni elemento considerato. Deve giustificare tuttavia la pena inflitta, permettendo di seguire il ragionamento da egli adottato (DTF 127 IV 101 consid. 2c pag. 104 con richiami; CCRP, sentenza del 20 maggio 2003 in re Ministero Pubblico c./ M. consid. 3). In concreto il giudice della Pretura penale ha così motivato l'entità della pena inflitta riguardo alla condanna per infrazione alle norma della circolazione: “L'infrazione dev'essere così confermata e sanzionata con la multa, atteso tra l'altro che all'accusato nemmeno può essere addebitata una velocità eccessiva nella circostanza" (consid. 5); e per quanto concerne l'inosservanza dei doveri in caso di infortunio: "Anche in questo caso la condanna alla pena pecuniaria appare congruamente commisurata alle colpe ed alle circostanze personali del reo" (consid. 8 in fine). Ora, sapere se – come afferma il Procuratore pubblico – con tale sanzione il primo giudice abbia irrogata una pena eccessivamente mite e quindi arbitraria presuppone una disamina degli elementi considerati ai fini della decisione.
c)
Nel caso specifico il giudice di merito si è limitato a infliggere una multa di fr. 1'000.–, come si è visto, perché l'accusato andava assolto dall'accusa di circolazione in stato di ebrietà. Non consta però che il giudice abbia considerato l'insieme dei fattori preposti dall'art. 63 CP alla commisurazione della pena. Nulla si evince dalla sentenza impugnata, ad esempio sulla gravità della colpa, sul peso della precedente condanna del 27 novembre 2000 a una pena detentiva di 30 giorni, sospesi condizionalmente per un periodo di prova di 4 anni, cumulata con una multa di fr. 1'200.–, per circolazione in stato di ebrietà, infrazione alle norme della circolazione e inosservanza dei doveri in caso di infortunio, sulla reale incidenza del proscioglimento rispetto alla pena proposta dal Procuratore pubblico nel decreto di accusa, sull'incidenza del concorso delle infrazioni oggetto della condanna sull'ammontare della multa (art. 68 n. 1 cpv. 2 CP) e sulle effettive condizioni economiche del soggetto (art. 48 n. 2 CP).
7.
Se ne conclude che, in accoglimento del ricorso del Procuratore pubblico, gli atti vanno rinviati a un altro giudice della Pretura penale (art. 296 cpv. 2 CPP) perché statuisca di nuovo sull'accusa di circolazione in stato di ebrietà e sulla commisurazione della pena riferita alle condanne per infrazione alle norme della circolazione stradale e per inosservanza dei doveri in caso di infortunio e, dandosene il caso, anche alla condanna per guida in stato di ebrietà, compresa l'eventuale revoca della sospensione condizionale della durata di 4 anni concessa alla pena detentiva di 75 giorni per circolazione in stato di ebrietà, infrazione alle norme della circolazione e inosservanza dei doveri in caso di infortunio di cui al decreto di accusa del 25 novembre 2002 del Procuratore pubblico e, infine, sulla tassa di giustizia e sulle spese quantificate in fr. 650.– (sentenza, pag. 11).
8.
Dato l'esito del giudizio, gli oneri processuali vanno a carico dello Stato (art. 15 cpv. 2 CPP). L'imputato avendo postulato a torto la reiezione del ricorso, non si giustifica di attribuirgli ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b79cee2f-836f-5142-b5c2-20c71c622ca3 | in fatto: A.
Il 23 e 24 settembre 2002 si è svolta a _ la sagra della vendemmia. Attorno alle ore 2.20 della notte del 24 settembre una pattuglia della polizia cantonale formata dal sergente _ e dall'appuntato _ è stata sollecitata a intervenire per il danneggiamento di una vetrina presso l'Ospedale _ ad opera di alcuni giovani. Poco prima di giungere sul posto alla pattuglia è stato segnalato che vicino all'autosilo dell'ospedale era appena avvenuto un altro danneggiamento. I due agenti si sono quindi recati subito all'autosilo, dove hanno constatato che la barriera d'ingresso era per terra a pezzi. Nell'autosilo essi hanno poi notato un'automobile che si accingeva a partire con tre giovani a bordo. Intercettato il veicolo, essi hanno controllato l'identità degli occupanti, decidendo di condurre questi ultimi al posto di polizia cantonale di _ per accertamenti. Secondo gli agenti, i tre giovani apparivano inequivocabilmente sotto l'influsso dell'alcol; due di loro, _ e _, avrebbero anche assunto un atteggiamento aggressivo, insultando gli agenti in modo pesante e opponendo resistenza.
B.
Al posto di gendarmeria il detentore della vettura e terzo componente del gruppo, _, è risultato avere un tasso alcolemico dell'1.85%. Per evitare che si mettesse alla guida, gli agenti gli hanno ritirato le chiavi dell'automobile, la patente e la licenza di circolazione. Preso atto che i tre giovani respingevano ogni addebito in merito ai danneggiamenti ed esperite alcune verifiche, gli agenti di polizia hanno deciso di non trattenerli oltre e di non redigere verbali. Essi li hanno invitati a rincasare e a tornare nel pomeriggio per ritirare le chiavi del mezzo. A loro richiesta i tre sono poi stati condotti dagli agenti all'autosilo per prelevare dalla vettura gli effetti personali.
C.
Anziché rincasare, i tre giovani si sono ripresentati nell'atrio della gendarmeria, esigendo le chiavi dell'automobile. Ottenuta risposta negativa, _ e _ hanno alzato la voce e proferito insulti all'indirizzo della polizia. Ne è seguita una situazione confusa, sul cui svolgimento gli agenti e i tre giovani hanno fornito versioni contrastanti. Secondo questi ultimi, l'aiutante _ sarebbe giunto nell'atrio con altri due agenti e avrebbe spinto all'esterno _ e _, mentre _ sarebbe uscito da solo. _ e _ avrebbero però opposto resistenza, protestando per il trattamento ricevuto, al che gli agenti avrebbero persistito nel tentativo di spingerli fuori, provocando nuove reazioni verbali. Una volta all'esterno, l'aiutante _ avrebbe rifilato uno o due schiaffi e alcuni calci a _. _, dal canto suo, avrebbe tentato di aiutare l'amico, senza riuscirvi a causa dell'intervento degli altri due agenti. _ e _ si sarebbero infine allontanati di corsa, inseguiti dall'aiutante _, che avrebbe raggiunto _, costretto a fermarsi per una caduta. _ lo avrebbe di nuovo malmenato, percuotendolo con alcuni scapaccioni e con un calcio all'anca. Dopo di che, _ sarebbe tornato nell'atrio della gendarmeria in cerca dell'amico _; fallito il tentativo, sarebbe uscito e si sarebbe seduto ai tavolini del prospiciente bar insieme con _. I due sarebbero però stati subito raggiunti dal sergente _ e dall'appuntato _. Mentre _ si è messo all'inseguimento di _, _ se la sarebbe presa con _, schiaffeggiandolo, facendolo cadere per terra e colpendolo con alcuni calci. Gli agenti di polizia coinvolti nell'operazione hanno riferito dal canto loro, ancorché in modo non sempre concordante, di essersi comportati secondo necessità, negando di avere colpito con calci e schiaffi uno dei giovani.
D. _
si è recato il 24 settembre 2000 al pronto soccorso dell'Ospedale _, dove gli sono state diagnosticate contusioni e escoriazioni multiple, oltre alla sospetta perforazione del timpano destro. Il dott. _, primario dell'ospedale, ha certificato di averlo visitato il 26 settembre 2000, riscontrando una grossa perforazione fresca, poi operata il 29 settembre successivo. A suo parere, la patologia riscontrata e i sintomi manifestati dal paziente risultano compatibili con la dinamica dei fatti da questi descritta. Il 27 ottobre 2002 _ ha querelato l'aiutante _ e un altro agente della polizia cantonale non identificato per lesioni semplici e vie di fatto.
E.
Con decreto di accusa del 31 gennaio 2001 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di lesioni semplici per avere, il 24 settembre 2000, colpito con schiaffi e intenzionalmente cagionato un danno fisico a _, provocandogli la perforazione traumatica della membrana timpanica destra. Non senza disconoscere che l'accusato ha agito in seguito a ingiusta provocazione, egli ne ha proposto la condanna a 3 giorni di arresto sospesi condizionalmente. Statuendo su opposizione di _, con sentenza del 5 giugno 2002 il Pretore della giurisdizione di _ ha confermato l'imputazione e la proposta di pena contenute nel decreto di accusa.
F.
Contro la sentenza appena citata _ ha introdotto il 5 giugno 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta presentata il 4 luglio successivo egli chiede l'annullamento della sentenza impugnata. Con osservazioni del 31 luglio 2002 il Procuratore pubblico propone di respingere del ricorso. Identica conclusione formula la parte civile _ nelle sue osservazioni del 4 agosto 2002. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 cpv. 1 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 127 I 54 consid. 2b pag. 56, 126 I 168 consid. 3a pag. 170, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 125 II 10 consid. 3a pag. 15) o fondato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 128 I 177 consid. 2.1 pag. 182, 275 consid. 2.1, 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
2.
Secondo il ricorrente la sentenza impugnata è arbitraria perché nel descrivere la fattispecie il Pretore ha attribuito a _ una versione dei fatti diversa da quella esposta nella querela. Egli sottolinea che al momento di denunciare la polizia questi non aveva preteso di avere avvertito dolori all'orecchio dopo essere stato – a suo dire – colpito e malmenato all'esterno del bar, ma si era limitato a lamentare dolori per le percosse a lui inferte dall'aiutante _ in seguito al primo inseguimento. La censura è destinata all'insuccesso. È vero che nella querela _ non ha menzionato dolori all'orecchio per il fatto di essere stato ripetutamente colpito al capo, già dolorante per i manrovesci ricevuti, dall'accusato (act. 1, punto 6), affermando ciò solo in occasione dell'interrogatorio del 1° dicembre 2000 (act. 4, pag. 3). Il Pretore tuttavia non ha mancato di vagliare la questione. Accertato che vi era stato effettivamente contatto fisico tra i due e che, come risultava dal certificato medico, già il giorno dei fatti _ risultava soffrire di una sospetta perforazione del timpano destro (oltre che di contusioni ed escoriazioni multiple), egli ha escluso che il danno all'orecchio si riconducesse al primo scontro di _ con l'aiutante di polizia _. A mente sua, se la lesione si fosse prodotta durante quella colluttazione, con ogni verosimiglianza la vittima non sarebbe stata più in grado di correre ancora per centinaia di metri, di cui parte in salita, con _ alle calcagna. Sempre secondo il Pretore, non è plausibile nemmeno che il forte dolore all'orecchio lamentato dalla vittima si ricolleghi al secondo intervento dello stesso _, dopo che questi aveva raggiunto il querelante. Quest'ultimo non ha mai preteso in effetti di avere provato dolore all'orecchio in quel momento e, se ciò fosse, egli non sarebbe certo tornato al posto di gendarmeria per ingiuriare gli agenti. Che la fattispecie si sia svolta in altro modo, ha continuato il Pretore, si deduce anche dalla descrizione puntuale fatta il 25 aprile 2001 dal querelante nel verbale di confronto (act. 16), ove ha riferito che quando si è trovato a contatto con il querelato egli si è protetto il capo con le mani. Anche il certificato medico del dott. _, ha concluso il primo giudice, parla di trauma comprensivo del condotto uditivo, ciò che consente di ritenere come lo schiaffo ricevuto sulla mano che proteggeva l'orecchio abbia provocato una compressione del condotto uditivo, causando la lesione del timpano. Ora, il ricorrente non si confronta con tali considerazioni, né tanto meno spiega perché il Pretore sia trasceso in arbitrio escludendo che la lesione all'orecchio (non contestata) sia da mettere in relazione con i due energici interventi dell'aiutante _ e che la lesione sia dovuta alle percosse subite da _ durante il successivo contatto fisico con lui. Su questo punto il ricorso si dimostra finanche irricevibile per carenza di motivazione.
3.
Il ricorrente assevera che la sentenza impugnata è intrinsicamente contraddittoria e pertanto arbitraria poiché, dopo avere accertato due contatti fisici con agenti di polizia (lett. C), ha rilevato che i contatti erano tre, ossia due con l'aiutante _ e uno con l'accusato. Egli non trae però alcuna conclusione dall'argomento, limitandosi a sottolineare una flagrante contraddizione su un punto rilevante per il giudizio, cioè sul numero delle occasioni in cui la vittima può avere riportato la lesione del timpano. Egli non illustra tuttavia per quali ragioni il Pretore avrebbe arbitrariamente accertato i fatti o valutato arbitrariamente le prove ritenendo, per finire, che _ sia stato coinvolto in tre distinti episodi: due scontri con l'aiutante _ (lett. B) e uno con l'accusato. Il solo richiamo all'infelice passaggio figurante nella sentenza impugnata (lett. C), comunque chiarito più avanti, non è sufficiente per dimostrare arbitrio nel risultato. Ancora una volta il ricorso va dichiarato pertanto inammissibile.
4.
Secondo il ricorrente la sentenza è arbitraria nella misura in cui conclude che la lesione al timpano riportata da _ sia stata provocata dal suo intervento. A suo parere, nessuno degli argomenti a sostegno di tale conclusione resisterebbe alla censura di arbitrio e al rispetto del principio
in dubio pro reo
. Ora, il precetto
in dubio pro reo
(sulla nozione di arbitrio si veda il consid. 1) è il corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia la ripartizione dell'onere probatorio. Per quanto riguarda l'onere probatorio, esso impone alla pubblica accusa di provare la colpevolezza dell'imputato e non a quest'ultimo di dimostrare la propria innocenza. Al proposito la Corte di cassazione e di revisione penale fruisce – come il Tribunale federale – di libero esame (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 40, 124 IV 86 consid. 2a pag. 87). Per quanto attiene invece alla valutazione delle prove, il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie. Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi teorici sono sempre possibili; il principio è disatteso quando il giudice penale avrebbe dovuto nutrire sulla colpevolezza, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, dubbi rilevanti e insopprimibili (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38). Sotto questo profilo il principio
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40).
a)
Il ricorrente rimprovera di nuovo al primo giudice di essere caduto in arbitrio per avere accertato che _ avrebbe sempre sostenuto di avere avvertito dolore all'orecchio dopo essere entrato in contatto con lui all'esterno del posto di polizia, ribadendo che _ ha preteso ciò unicamente nel verbale del 1° dicembre 2000. Già si e visto però che, da sé sola, un'obiezione del genere è inadatta a sostanziare una critica di arbitrio (consid. 2). Non giova quindi ripetersi.
b)
Stando al ricorrente, il Pretore sarebbe incorso in ulteriore arbitrio argomentando che, se il timpano si fosse lesionato durante la prima colluttazione con _, _ non sarebbe stato in grado di correre per centinaia di metri e che, fosse la lesione consecutiva al secondo scontro con _, _ non sarebbe tornato a inveire contro gli agenti. A suo giudizio il Pretore avrebbe integrato gli estremi dell'arbitrio anche rilevando che la descrizione degli eventi data dal querelante durante il confronto del 25 aprile 2001 (ossia quella di essersi protetto l'orecchio con le mani) trova riscontro nel certificato medico che attesta un trauma comprensivo del condotto uditivo. Il ricorrente omette di spiegare però in che consistano i pretesi arbitri. Egli non dimostra, in particolare, la manifesta insostenibilità della conclusione secondo cui vi sono più indizi a favore del racconto del querelante (ancorché nella versione successiva alla querela: act. 4 pag. 3), rispetto all'ipotesi – sorretta soltanto da dubbi astratti – che il danno al timpano si sia potuto verificare durante le concitate fasi precedenti l'ultimo contatto con lui.
Né si deve trascurare che la vittima non ha mai preteso di avere avvertito dolore all'orecchio in seguito agli schiaffi ricevuti dall'aiutante _. Anzi, fino al contatto con il ricorrente egli ha mantenuto comportamenti che non denotano sicuramente quelli di una persona affetta da scompensi fisici. Per di più, il dott. _ ha ritenuto la lesione compatibile con la dinamica descritta dal paziente (sentenza, pag. 20). Credendo alla vittima quando essa ha affermato, sebbene in sede istruttoria, di avere sentito il dolore solo dopo essere stata schiaffeggiata dal ricorrente mentre si proteggeva l'orecchio con la mano, e ritenendo che la compressione del condotto uditivo si sia prodotta in quella circostanza, il Pretore non ha abusato del proprio potere di apprezzamento. Nemmeno si può seriamente sostenere (ricorso, pag. 12 lett. c) che il giudizio di colpevolezza violi il precetto
in dubio pro reo
. Il Pretore non ha infatti condannato il ricorrente perché non avrebbe fornito la prova della propria innocenza né lo ha riconosciuto colpevole quantunque una valutazione non arbitraria delle risultanze del processo lasciasse rilevanti e insopprimibili dubbi. Anche sotto questo aspetto il ricorso risulta perciò privo di consistenza.
5.
Dato l'esito del giudizio, gli oneri processuali sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP), che rifonderà a _, il quale ha presentato osservazioni al ricorso per il tramite di un legale, un'indennità di fr. 500.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b7ea98fe-ef5b-5ce8-933e-38fd953183d9 | in fatto ed in diritto
che a seguito di una segnalazione del 27.07.2011 da parte di un medico, è stato aperto un procedimento penale a carico di PI 2 per le ipotesi di reato di minaccia, atti sessuali con fanciulli, molestie sessuali e violazione del dovere d’assistenza o educazione ai danni dei suoi due figli minorenni _ e _
(inc. MP _) sfociato nel decreto di abbandono 4.02.2013 emanato dal procuratore pubblico Moreno Capella (ABB _);
che adita da IS 1, per il tramite del suo allora patrocinatore avv. _, il 17.06.2013 questa Corte ha respinto il suo reclamo 22/25.02.2013 (inc. CRP _);
che la decisione 17.06.2013 di questa Corte non è stata impugnata dinanzi al Tribunale federale ed è dunque passata in giudicato;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza ex art. 62 cpv. 4 LOG, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1, in nome e per conto della sua assistita IS 1 (cfr., al proposito, copia procura del 9.01.2014 annessa all’istanza
31.01./4.02.2014, doc. CRP 1.a),
chiede di ottenere l’autorizzazione ad accedere agli atti del surriferito procedimento penale;
che a sostegno della sua richiesta precisa di essere intenzionato a domandare la riapertura del procedimento penale in questione, e ciò sulla base di nuovi fatti e nuovi mezzi di prova e in applicazione dell’art. 323 CPP, apportando le sue motivazioni in merito (cfr., nel dettaglio,
istanza
31.01./4.02.2014, doc. CRP 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, imputato nel procedimento penale di cui all’incarto MP _
sfociato nell’ABB _ del 4.02.2013 (passato in giudicato)
, essendo la qui istante stata rappresentante legale ai sensi dell’art. 106 cpv. 2 CPP dei suoi figli minorenni _ e _, presunte vittime dei reati ipotizzati;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (in qualità di rappresentante legale dei minori _ e _ ex art. 106 cpv. 2 CPP) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 rispettivamente del suo nuovo patrocinatore, avv. PR 1, giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG, ad ottenere l’autorizzazione ad esaminare gli atti dell’incarto penale sfociato nell’ABB _, poiché il procedimento penale, nel frattempo archiviato, ha interessato personalmente i di lei figli in veste di presunte vittime;
che a ciò aggiungasi che il patrocinatore della qui istante è intenzionato a richiedere la riapertura del procedimento penale,
avendo apparentemente a disposizione nuovi fatti e nuovi mezzi di prova ai sensi dell’art. 323 CPP;
che di conseguenza l’avv. PR 1 è autorizzato ad esaminare presso il Ministero pubblico tutti gli atti istruttori del procedimento penale sfociato nell’ABB _, concordando i tempi di accesso con il procuratore pubblico Moreno Capella, compatibilmente con i suoi impegni;
che il legale è, se del caso, autorizzato a fotocopiare gli atti utili per le sue incombenze;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1, in nome e per conto dei suoi figli minorenni, già stata parte al procedimento penale di cui all’incarto ABB _, nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b7fd62d4-e6a9-59bb-b4e4-b8689d5b76df | in fatto ed in diritto
che il _, verso le ore _, in territorio di _, si è verificato un incidente della circolazione stradale avente quali protagonisti PI 2 (_), conducente dell’autovettura _, targata TI _, e _, (_), che era in sella al motoveicolo _, targato _, il quale a seguito dell’impatto con la predetta automobile è deceduto sul posto;
che con decisione 2.11.2009 il procuratore pubblico ha abbandonato il procedimento penale promosso a carico di PI 2 per titolo di omicidio colposo e di grave infrazione alle norme della circolazione (ABB _);
che il successivo gravame 13.11.2009 intitolato
"
atto di accusa (proposta)
"
è stato dichiarato irricevibile dall’allora Camera dei ricorsi penali (inc. CRP _);
che il 19.4.2010 il Tribunale federale ha respinto – per quanto ammissibile – il ricorso in materia penale 26/27.1.2010 presentato dai proponenti contro la predetta sentenza (inc. _);
che con istanza 7/8.6.2010 PI 3 e PI 4 hanno postulato la revoca del decreto di abbandono 2.11.2009 (ABB _) e la promozione dell’accusa (ai sensi del CPP TI) nei confronti di PI 2 per omicidio colposo (art. 117 CP) e grave infrazione alle norme della circolazione (art. 90 cifra 2 LCStr) (inc. CRP _);
che con giudizio 19.8.2010 – non impugnato – l’allora Camera dei ricorsi penali ha respinto la predetta domanda di revoca (inc. CRP _);
che con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte
– la IS 1 chiede di ottenere la trasmissione del decreto di abbandono 2.11.2009 (ABB _);
che a suffragio della sua richiesta precisa che
"
(...) nel tentativo di incasso delle spese sostenute dallo Stato per porre rimedio all’inquinamento del manto stradale avvenuto in occasione dell’incidente citato a margine, le assicurazioni della signora PI 2 e del defunto _, rifiutano l’addebito delle spese sostenendo entrambe la colpa è da imputare alla controparte
" e di necessitare delle motivazioni che stanno alla base del decreto di abbandono "
(...). Per poter decidere circa l’imputazione dei costi di intervento dei pompieri (...)
" (istanza 29.02./16.03.2012);
che, come esposto in entrata, PI 2 e PI 3 e il di lei figlio PI 4, non si oppongono alla richiesta;
che il procuratore pubblico, dal canto suo, non ha formulato osservazioni in merito;
che l
’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che
nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella sua richiesta e la finalità per la quale chiede la trasmissione del decreto di abbandono 2.11.2009 (ABB _) – è pacifico l’interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG dell’autorità istante prevalente sui diritti personali di PI 2, di PI 3 e di PI 4, i quali peraltro non si sono opposti alla domanda, potendo il suo contenuto essere utile per valutare chi debba effettivamente sopportare i costi cagionati dall’intervento dei pompieri riguardo all’incidente verificatosi il _;
che di conseguenza il decreto di abbandono 2.11.2009 (ABB _) viene trasmesso, in copia, all’autorità istante unitamente alla presente decisione;
che stante la natura dell’autorità richiedente e della presente istanza, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b89ae1c1-aa28-5d62-8f80-a48502741734 | in fatto: A.
Con sentenza 28 gennaio 2009, la Corte delle assise criminali ha dichiarato RI 1 autore colpevole di:
-
atti sessuali con fanciulli per avere, il 7 giugno 2008, presso il parco del _, baciato sulla bocca, sul viso e sul ventre PC 1, nata il 26.4.1994;
-
violenza carnale, per avere, il 7 giugno 2008, presso il parco del _, rendendola inetta a resistere, costretto PC 1 a subire la congiunzione carnale;
-
infrazione alla LF sugli stupefacenti per avere, il 7.6.2008, detenuto, procurato e messo a disposizione della marijuana per una fumata collettiva con PC 1 e una sua amica minorenne;
-
contravvenzione alla LF sugli stupefacenti per avere, senza essere autorizzato, il 7 giugno 2008, consumato della marijuana.
In applicazione della pena, la Corte ha condannato RI 1 alla pena detentiva di 3 anni e 10 mesi e a versare alla PC fr. 15.000.- quale risarcimento del torto morale subìto e fr. 7676,40 per spese legali.
B.
In sintesi, i fatti accertati dalla Corte di prime cure sono i seguenti.
1.
Dai considerandi della sentenza dedicati alla descrizione della vita dell’imputato, si apprende che RI 1 (10.9.1989), cittadino iraniano di etnia curda, è giunto in Svizzera quale richiedente l’asilo nel dicembre 2006 senza documenti d’identità e che, al momento del giudizio di prima sede, la sua domanda d’asilo era ancora inevasa.
Continuando nella lettura, si apprende, poi, come l’imputato abbia dato della sua storia versioni discordanti che collimano fra loro unicamente sul fatto che dispone di una ridotta scolarità, che non ha appreso alcuna professione e che, prima di fuggire dall’Iran, egli era dedito al commercio di filmati pornografici scaricati da internet (attività illecita in
_
).
Si apprende, poi, come RI 1 da noi non abbia mai lavorato e come la Corte non abbia ritenuto credibili le sue affermazioni di avere inutilmente (siccome privo di un permesso di lavoro) cercato un’occupazione poiché egli “
non ha saputo sostanziare in alcun modo queste ricerche”
mentre dall’inchiesta emerge “
un diverso svolgimento delle sue giornate, trascorse in prevalenza a
_
”
cercando di fare la conoscenza di giovani ragazze al dichiarato scopo di trovare una donna che, sposandolo, gli permettesse di rimanere in Svizzera (sentenza, consid. 2 e 3 pag. 8 e 9).
2.
Venendo ai fatti di cui all’atto di accusa, la Corte ha accertato come la mattina del 6 giugno 2008 PC 1 (nata il 26 aprile 1994) si sia allontanata (senza permesso: cfr. trascrizione dell’audizione di PC 1 pag. 1; AI13, verbale 26.6.2008
_
) dall’Istituto
_
dove era collocata. Giunta a
_
, la ragazza incontrò _ , un’ex-compagna di scuola. Insieme, le due ragazze incontrarono, poi, l’accusato che _ già conosceva. I tre decisero di recarsi alla stazione FFS per acquistare della marijuana (_ aveva 50.- fr. che voleva destinare a tale acquisto). Siccome alla stazione non trovarono quanto volevano, i tre si diressero al vicino parco del
_
dove l’accusato riuscì a procurarsi un po’ di marijuana - “
a suo dire, regalatagli da uno spacciatore arabo
” (sentenza, consid. 9 pag. 12) – che, sùbito, fumarono insieme.
3.
Secondo la Corte di prime cure, lo spinello fumato incise “
pesantemente in senso negativo sulla lucidità
” di PC 1 (sentenza consid. 11 pag. 13).
Su questa questione, la Corte, dopo avere ricordato che _ l’aveva vista “
molto stona
”, che l’altra amica (_) ha pure detto di averla vista “
proprio stona (...) era pallida e parlava in modo confusionale
” e che
_
(direttore
_
cui PC 1 si rivolse quella sera) ha riferito che la ragazza “
era molto confusa, parlava con la bocca impastata e il racconto era frammentario
” ed ha detto di avere constatato che “
era alterata, confusa, sonnolenta, rallentata nell’esprimersi
”, ha “
ritenuto attendibile il racconto di PC 1 al riguardo delle proprie condizioni dopo l’assunzione dello stupefacente, accertando come essa sia stata dapprima addirittura semi incosciente e sia rimasta ancora per ore in stato confusionale, visibilmente alterata”
(sentenza consid. 11 pag. 13, 14 e 15).
4.
Secondo quanto accertato dalla prima Corte, dopo avere fumato lo spinello, l’accusato e PC 1 giocarono “
a guardarsi negli occhi”
per poi “
forse per iniziativa della stessa PC 1”
baciarsi ripetutamente davanti ad _. Dopo un po’ – secondo la Corte, “
per vergogna nei confronti dell’_ che rideva di loro
” - l’accusato chiese ad PC 1 di appartarsi. Insieme, i due si allontanarono di una ventina di metri e raggiunsero il retro della torretta
“dove non potevano essere visti da _”
(sentenza consid. 12 pag. 15).
Secondo l’ipotesi accusatoria confermata dalla prima Corte, in quel luogo, l’imputato costrinse PC 1 a subire la congiunzione carnale.
Poi, “
PC 1 e l’accusato sono (...) tornati da
_
, abbracciati”
e, visto che aveva iniziato a piovere forte, i tre hanno deciso di tornare alla stazione FFS.
“Il prevenuto ed PC 1 hanno camminato abbracciati in quel modo sino in stazione”
dove, insieme, sono entrati nel negozio _ per acquistare
“qualcosa da mangiare e da bere”
(sentenza consid. 14 pag. 17).
Usciti dal negozio, _ se ne andò per i fatti suoi, lasciando l’amica in compagnia dell’imputato. Subito, però, alla coppia si accodarono un’amica di PC 1 (
_
) ed altre due ragazze e, insieme, andarono al buffet della stazione per bere qualcosa.
PC 1 e _ andarono insieme alla toilette. In quel luogo, PC 1 disse all’amica di essere stata violentata dall’imputato all’autosilo _.
L’imputato,
“visto il prolungarsi dell’assenza di PC 1”
raggiunse le due ragazze nella toilette “
anche per avvisare che era prossima la partenza del treno per _ che egli intendeva prendere con PC 1”
. Poi, tutti insieme, lasciarono il buffet e, all’esterno, le ragazze si separarono dall’uomo e raggiunsero
“la zona delle scuole del _, sottostante la stazione delle FFS, dove le tre amiche di PC 1 non hanno ritenuto inadatto alla situazione fumarsi uno spinello
” (sentenza consid. 16 pag. 18).
In seguito, PC 1 ha inviato due SMS a
_
(direttore dell’Istituto
_
dove era stata collocata per circa 5 anni prima di essere trasferita allo
_
) in cui diceva di avere “
fumato troppo
” e di essere stata violentata. _ chiamò subito la ragazza “
constatandone lo stato confusionale e tentando invano di farsi dire dove essa si trovasse con esattezza
” (sentenza consid. 16 pag. 18).
Poco dopo, PC 1 raggiunse l’abitazione di _ (che aveva, nel frattempo, chiesto l’intervento della polizia) cui riferì “
della violenza subita nei medesimi termini riferiti da _
” (sentenza consid. 17 pag. 19).
La stessa sera, PC 1 è stata sottoposta ad esame medico (sentenza consid. 18 pag. 18).
5. RI 1
è stato arrestato il 9 giugno 2008.
Sin dal suo primo interrogatorio, l’uomo ha negato di avere costretto PC 1 a subire la congiunzione carnale. In particolare, alla domanda volta a sapere “
se aveva fatto sesso
” con la ragazza, ha risposto “
sesso, sesso no, baciare così si
” (AI3 pag. 4). Nel suo secondo interrogatorio (avvenuto il 12 giugno 2008), l’imputato ha raccontato con maggiori dettagli quanto fatto con _, precisando – a sostegno della sua tesi secondo cui lui non aveva costretto la ragazza a nulla che lei non volesse – che, nel tragitto dal parco
_
alla stazione lui ed PC 1 avevano camminato abbracciati, che si erano ancora baciati e che avevano continuato a farlo anche all’interno del negozio _.
In seguito, nel verbale 30 luglio 2008, l’accusato, nuovamente ribadendo agli inquirenti la sua tesi, ha precisato che
“il filmato del
_
può dimostrare che io non l’ho violentata perché dentro il negozio ci siamo baciati
” (AI 14 pag. 5).
Le riprese video dell’interno del negozio non sono state acquisite agli atti perché “
al momento della richiesta, non erano più disponibili le registrazioni del pomeriggio del 7 giugno 2008
”
. (sentenza consid. 15 pag. 17; cfr. rapporto di segnalazione 10.11.2008).
I due dipendenti del negozio _ che erano in servizio il 7 giugno 2008 sono stati sentiti soltanto il 29 agosto 2008 e il 15 settembre 2008 – cioè, “
parecchio tempo dopo”
i fatti
(sentenza consid. 15 pag. 17) – e non hanno confermato le affermazioni dell’accusato.
C. RI 1
ha
presentato, il 29 gennaio 2009, dichiarazione di ricorso contro la sentenza 28.1.2009, che lo ha, in particolare, dichiarato autore colpevole di violenza carnale.
Egli ha motivato la sua dichiarazione di ricorso con l’allegato presentato il 20 marzo 2009.
Sostenendo l’arbitrio nell’accertamento dei fatti e l’errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti alla base della sentenza, egli ha chiesto, in via principale, con l’annullamento dei dispositivo 1.1., 1.2., 2.1., 2.2. e 2.3., il suo proscioglimento dalle accuse, eventualmente, il rinvio degli atti ad una nuova Corte per un nuovo giudizio.
In via subordinata, egli ha chiesto il riconoscimento di una scemata imputabilità e la condanna alla pena detentiva di 2 anni e 6 mesi.
D.
Il procuratore pubblico, con scritto 25 marzo 2009, senza svolgere particolari osservazioni, ha chiesto la reiezione del gravame.
E.
La parte civile, con osservazioni 14 aprile 2009, ha postulato la reiezione del gravame nella misura in cui esso fosse ritenuto ricevibile. | Considerando
in diritto:
1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 cpv. 1 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti
estremi di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c e 295 cpv. 1 CPP).
Perché un accertamento possa essere definito arbitrario, non è sufficiente che esso sia manchevole, discutibile o finanche inesatto. E’ necessario che esso sia manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 132 I 13 consid. 5.2 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag., 219, 129 I 173 consid. 3 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30; 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 132 I 13 consid. 5.2 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, DTF 128 I 177 consid. 2.1 pag. 182, 275 consid. 2.1; 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
Il principio "in dubio pro reo" è un corollario della presunzione d'innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 n. 2 CEDU e 14 cpv. 2 Patti ONU II. Esso trova applicazione sia nell'ambito della valutazione delle prove sia in quello della ripartizione dell'onere probatorio. Per quanto riguarda l'onere probatorio, esso impone alla pubblica accusa di provare la colpevolezza dell'imputato e non a quest'ultimo di dimostrare la propria innocenza. Al proposito la Corte di cassazione e di revisione penale fruisce – come il Tribunale federale – di libero esame (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 40, 124 IV 86 consid. 2a pag. 87).
Riferito alla valutazione delle prove - cui nel caso di specie il ricorrente si richiama - esso significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione oggettiva del materiale probatorio, sussistano dubbi che la fattispecie si sia verificata in quel modo. La massima non impone che l'amministrazione delle prove conduca a una certezza assoluta di colpevolezza. Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili, né una certezza assoluta può essere pretesa: il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (DTF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41; 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38).
Sotto questo profilo il principio "in dubio pro reo” ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 41). Il giudice non incorre nell'arbitrio quando le sue conclusioni non corrispondano alla versione dell'istante e siano comunque sostenibili nel risultato. Una valutazione unilaterale dei mezzi di prova viola per contro il divieto dell'arbitrio. Un giudizio di colpevolezza può poggiare, mancando testimonianze oculari o prove materiali inoppugnabili, su indizi atti a fondare il convincimento del tribunale (DTF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2).
2.
Nel suo allegato, il ricorrente ha sostenuto che la Corte è caduta in arbitrio nell’accertamento di numerosi fatti, in particolare nell’accertamento secondo cui, dietro la torretta, vi fu un rapporto sessuale con penetrazione.
Dal canto suo, la PC ha sostenuto che le censure ricorsuali sono di chiara matrice appellatoria e che, pertanto, il ricorso va, per la sua maggior parte, dichiarato irricevibile.
2.a.
Procedendo all’accertamento di quanto avvenuto dietro la torretta, la Corte di prime cure ha, dapprima, sottolineato come l’accusato abbia detto “
che non vi sarebbe stato alcun rapporto sessuale con PC 1
”
e che “
i due si sarebbero solo baciati ed avrebbero parlato
” e come, solo successivamente, egli abbia precisato “
di avere baciato PC 1, di essere stato abbracciato a lei e di avere toccato la sua testa e la sua schiena mentre che non avrebbe toccato le di lei parti intime
” ed ancora, soltanto in seguito, abbia ammesso di averne forse toccato la pancia, ma soltanto perchè “
la maglietta che ella indossava era corta
” e come, infine, abbia escluso “
oltre ad ogni ipotesi di atto sessuale, di averla baciata sull’addome
” (sentenza consid. 13 pag. 16).
In seguito, la Corte ha rilevato come PC 1 abbia, invece, dichiarato che “
il prevenuto, approfittando delle sue predette condizioni alterate, l’ha appoggiata alla parete della torretta e, sorreggendola, le ha slacciato i pantaloni e, quindi, nonostante la sua (flebile) opposizione, l’ha violentata in piedi stando di fronte a lei”
(sentenza consid. 13 pag. 16).
Prima di procedere alla valutazione della credibilità delle versioni dei fatti rese dai due protagonisti della vicenda, la Corte ha elencato i risultati degli esami cui PC 1 è stata sottoposta rilevando, dapprima, come all’esame visivo siano stati riscontrati arrossamenti su entrambi i fianchi all’altezza del pube, oltre ad un livido (anteriormente) e un arrossamento (posteriormente) sulla gamba sinistra e come l’esame del blu di toluidina abbia rilevato microlesioni sui genitali esterni “
senza possibilità di attribuirle ad uno specifico rapporto sessuale”
. Continuando, la Corte ha aggiunto che “
il prelievo effettuato sulla parte esterna della vagina
” esaminato dall’Istituto di medicina legale ha “
rilevato, oltre al DNA di PC 1, minime quantità (geringste Spureri) di DNA maschile, tali da non potersi escludere la loro appartenenza all’accusato
” ritenuto come, in seguito, sia stato precisato che la probabilità che il DNA lì rinvenuto sia dell’accusato è 1400 volte superiore a quella dell’appartenenza ad un altro soggetto maschile.
La Corte ha, poi, aggiunto che “
la ricerca di DNA all’interno della vagina ha dato risultato negativo, per il che si è rinunciato all’esame del prelievo effettuato dalla cervice”
e che “
in nessuno dei campioni esaminati (come nemmeno sui vestiti di PC 1) sono state trovate tracce di sperma
” (sentenza consid. 19 pag. 20).
Discutendo i risultati di tali analisi mediche, la Corte ha concluso che “
la valutazione delle risultanze delle indagini mediche e scientifiche conduce ad accertare che esse non smentiscono la versione dei fatti di PC 1, mentre che sono insanabilmente in contraddizione con quanto sostenuto dall’accusato”
poiché, secondo la versione da questi sostenuta,
“non vi sarebbe motivo per cui il suo DNA si possa trovare sull’addome di PC 1. Tolto, forse, un tocco involontario per il motivo che la maglietta era corta, egli nega, in effetti, di avere baciato l’addome della ragazza, mentre che essa l’ha affermato durante la visita medica”
. Inoltre e soprattutto – continua la prima Corte – la versione dell’accusato non fornisce alcuna valida spiegazione per la presenza del suo DNA sulla parte esterna della vagina di PC 1. E – proseguono i primi giudici – “
gli altri predetti elementi oggettivi, gli arrossamenti sui fianchi e la positività all’esame blu di toluidina (...) sono compatibili con l’ipotesi di un frettoloso rapporto sessuale, consumato in piedi, afferrando e sostenendo con vigore una vittima (del peso di ca 70 kg) quasi totalmente debilitata dall’assunzione dello stupefacente e che, pertanto, stenta a reggersi in piedi
” (sentenza consid. 20 pag. 20 e 21).
Sul mancato ritrovamento, non soltanto di sperma, ma anche di tracce di DNA all’interno della vagina, la Corte di prime cure, rispondendo ad una contestazione della Difesa secondo cui “
sin dall’inizio del coito vi sarebbe fuoriuscita di liquido seminale
”, ha affermato che
“premessa l’assenza di ogni fondamento scientifico della tesi addotta (...) in procedimenti come quello in esame il raffronto della credibilità delle affermazioni di presunta vittima e presunto autore costituisce prova sufficiente delle circostanze fattuali litigiose”.
La Corte ha continuato il suo argomentare per respingere l’obiezione della Difesa aggiungendo che “
il senso della disponibilità di sempre più accurati metodi di indagine scientifica non è quello di aggravare il carico probatorio dell’accusa sino a porle obbligo di dimostrare anche dal profilo scientifico l’inoppugnabilità dell’imputazione, ma solamente quello di fornire a chi è chiamato a giudicare dei riscontri tali da permettere di confortare o escludere il fondamento delle rispettive tesi di parte”.
Pertanto – ha proseguito la Corte – “
la prova scientifica così letta non sconfessa per nulla le affermazioni della giovane (ed anzi le conforta) mentre che nuoce in maniera irreparabile alla credibilità del prevenuto, già vacillante
”. Ciò detto, la Corte, cercando ragioni che possano giustificare il mancato ritrovamento del DNA dell’accusato all’interno della vagina di PC 1, ha affermato che “
ve ne possono essere diverse compatibili con la tesi accusatoria e migliori dell’errato sillogismo difensivo, quali l’eventualità che all’interno della vagina non si sia depositato DNA di RI 1 nonostante il contatto sessuale (in tal senso il riscontro per cui anche le tracce all’esterno erano minime) oppure quella per cui l’eventuale modica presenza di DNA in quella zona sia stata lavata via allorché PC 1 ha urinato nelle ore intercorse tra i fatti in discussione e la visita medica
” (sentenza consid. 21 pag. 22 e 231).
Procedendo, poi, alla valutazione delle due versioni dei fatti, la Corte ha sottolineato come il racconto di PC 1 sia risultato credibile poiché
“deposto in maniera lineare, priva di contraddizioni
” ritenuto che “
lo stato alterato
” della ragazza, la “
notevole riduzione delle capacità sensoriali causata dall’assunzione dello stupefacente
” ne giustifica “
la natura frammentaria”.
Inoltre – ha aggiunto la Corte – tutto quanto raccontato dalla ragazza “
ha trovato conferma nelle parole dei testi (...) e non risulta smentito da alcuna altra risultanza d’inchiesta
” (sentenza consid. 22 pag. 23).
A questa prima considerazione, la Corte di primo grado ha aggiunto che “
le parti potenzialmente non congruenti della sua versione, ed in specie il fatto che essa non abbia detto nulla alla _ e si sia ulteriormente accompagnata con l’RI 1 sino in stazione , come pure il fatto che la _ nulla abbia percepito dell’avvenuta violenza, sono (...) ampiamente spiegabili proprio con il predetto stato alterato di PC 1 (...) e con lo stato comunque parzialmente alterato anche della _”
ritenuto, inoltre, che non può essere “
escluso nemmeno un possibile legittimo timore di PC 1 per la persistente presenza dell’accusato (in tal senso la deposizione _) ed è assodato (stante il vuoto probatorio al riguardo del passaggio dei tre all’interno del negozio _) che non appena PC 1 ha avuto una concreta opportunità di rivelare la violenza subita e di affrancarsi della presenza dell’accusato essa, seppure ancora molto stordita, l’ha prontamente colta chiedendo l’aiuto di _
” (sentenza consid. 22 pag. 24).
Nemmeno il fatto che PC 1 abbia detto alla _ di essere stata violentata all’interno dell’autosilo _ ha scosso la Corte: essa ha ritenuto la cosa “irrilevante”, anzi “
indicativa dello stato confusionale sfruttato dal prevenuto”
e altrettanto irrilevante ha considerato il fatto che l’_ ha detto di non avere sentito PC 1 dire che voleva chiamare l’ambulanza (sentenza consid. 22 pag. 24).
Per contro, l’imputato è apparso “
privo di credibilità agli occhi della Corte”
poiché “
risulta avere mentito sulle circostanze (...) della conoscenza dell’età di PC 1, della somministrazione dello stupefacente alle due ragazze, del suo effetto su PC 1”
(sentenza consid. 22 pag. 24) nonché su una serie di altre circostanze indicate nei primi considerandi della sentenza.
2.b.
Dapprima, in riferimento evidente, pur se implicito, alla valutazione di credibilità dell’imputato, nel ricorso si sostiene che la Corte è caduta in arbitrio ravvisando un’incongruenza fra il suo dichiararsi omosessuale e il suo dichiarato desiderio di trovare una donna da sposare per poter così rimanere in Svizzera.
L’argomentazione della Corte è – secondo il ricorrente – “
priva di fondamento”
poiché
“è risaputo che un gran numero di persone omosessuali risultano sposate con figli”
e, per lui,
“il matrimonio non è altro che un mezzo per ottenere il permesso di soggiornare legalmente nel nostro paese
” (ricorso pag. 2)
2.c.
La Corte di prime cure, nel considerando in cui ha trattato dell’interesse dell’imputato per le donne, ha rilevato che l’imputato, più volte, aveva dichiarato di voler trovare una donna
“che poi riesca a farmi ottenere un documento per restare in Svizzera (...) salvo poi contraddirsi asserendo, in risposta alla domanda se la presunta vittima dello stupro gli piacesse fisicamente, che “non mi piacciono le donne, in qualsiasi forma fisica siano” tentando la difficile conciliazione fra il più volte manifestato (e attestato da terzi) interesse per le ragazze e la dichiarata omosessualità. Di questa , però, nell’incarto non c’è traccia
” (sentenza consid. 3 pag. 9).
2.d.
Come sostenuto dal ricorrente, rilevare l’esistenza di una “
difficile conciliazione”
fra l’essere omosessuale e – per usare le parole della Corte - “
il più volte manifestato interesse per le ragazze
” significa non avere dato alle dichiarazioni dell’imputato il senso che ad esse, prese nel loro complesso, va dato sulla scorta di una lettura attenta, oggettiva e non unilaterale.
Nella misura in cui RI 1 ha ripetutamente dichiarato di essere alla ricerca di una donna da sposare allo scopo di ottenere il permesso per rimanere in Svizzera, non vi è contraddizione – né logica né fattuale - fra la ricerca di una ragazza da sposare e il pretendere d’essere o l’essere omosessuale.
Pertanto, utilizzare una simile argomentazione nel contesto della valutazione della credibilità delle dichiarazioni dell’imputato e in quello più generale dell’accertamento dei fatti significa cadere in errore.
Tuttavia, da quest'incongruenza - relativa soltanto ad uno degli elementi considerati dalla Corte come indiziante la non credibilità dell'accusato - non può essere dedotto nulla di decisivo per il giudizio.
2.e.
Continuando nel suo esposto, il ricorrente sostiene che la Corte non poteva, senza cadere in arbitrio, ritenere credibile la versione dei fatti data da PC 1 nonostante le numerose sue contraddizioni.
Rileva, peraltro, che, se gli inquirenti avessero verificato tempestivamente le sue dichiarazioni riguardo i baci e gli abbracci scambiati con PC 1 all’interno del negozio _, non si sarebbe, ora, di fronte al “
vuoto probatorio
” di cui la Corte parla al consid. 22 della sentenza ma si sarebbe di fronte all’evidenza di un’altra delle circostanze che, insieme al comportamento tenuto dalla ragazza prima e dopo l’essersi appartata con RI 1 dietro la torretta, depongono contro la tesi di una violenza carnale.
Inoltre, censura d’arbitrio le considerazioni fatte dalla Corte di prime cure riguardo i risultati delle analisi mediche.
Rileva, dapprima, come incomprensibilmente la Corte non abbia tratto le dovute conclusioni dal fatto che su nessuno dei campioni esaminati – e, fra questi, vi sono gli abiti della ragazza ed anche le mutande dell’imputato – sono state trovate tracce di sperma.
Continua, poi, sottolineando come la Corte sia caduta in arbitrio ritenendo non soltanto irrilevante, ma anzi confortante, il racconto di PC 1, il mancato ritrovamento di DNA maschile all’interno della vagina della ragazza. Questo perché “
è notorio e scientificamente dimostrato che in un rapporto sessuale con penetrazione
” – anche se l’eiaculazione è avvenuta all’esterno della vagina – “
rimangono tracce di sperma (contenute nel liquido seminale) e di DNA all’interno della vagina”
.
In effetti – continua il ricorrente – “
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, si ribadisce che il liquido seminale, prodotto dalle vescichette seminali situate sopra la prostata, contiene sufficienti spermatozoi per procurare una gravidanza; tale liquido seminale fuoriesce e viene emesso all’interno della vagina dopo pochi secondi dalla penetrazione
.” Pertanto – prosegue il ricorrente – se vi fosse stato un rapporto con penetrazione, anche se con eiaculazione fuori dalla vagina così come al racconto della ragazza, si sarebbero dovute trovare all’interno della vagina tracce di DNA e di sperma così come attestato dal dott. _ nello scritto prodotto al dibattimento (doc dib. 2) in cui si legge che tali tracce si ritrovano per un lungo tempo, e nei recessi, anche dopo lavaggi ed abluzioni, anche fino a 3 giorni o più. A proposito dello scritto del dott. _, il ricorrente precisa che, “
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, l’attestazione del dott. _ non si riferisce unicamente all’ipotesi di un’eiaculazione all’interno della vagina, ma anche all’emissione di sperma contenuto nel liquido seminale
” (ricorso pag. 4).
Infine, il ricorrente censura di arbitrio la considerazione della Corte secondo cui il mancato ritrovamento di tracce di DNA all’interno della vagina può essere spiegato con il fatto che le tracce lasciate da RI 1 potrebbero essere state lavate via allorché PC 1 ha urinato nello ore intercorse tra i fatti in discussione e la visita medica.
Questa affermazione – sostiene il ricorrente – “
è grossolanamente errata: essa ignora clamorosamente le conoscenze di base dell’apparato urinario femminile. Ogni donna sa che urinando non viene toccata la parte interna della vagina. L’uretra femminile mette in comunicazione la vescica urinaria e il vestibolo della vagina; pertanto, l’urina emessa non può penetrare in vagina in nessun modo. L’urina viene eliminata direttamente all’esterno senza alcun contatto con le strutture vaginali
” (ricorso pag. 4).
2.f.
La Corte di prime cure ha accertato che PC 1 ha dichiarato che RI 1, “
l’ha violentata in piedi stando di fronte a lei”
(sentenza consid. 13 pag. 16).
Quest’accertamento è arbitrario.
La ragazza, nella sua unica deposizione, non ha detto quanto ritenuto dalla Corte.
PC 1, in realtà, di quanto successo dietro la torretta, ha detto quel che segue:
"
E poi siamo andati lì, alla torre, dietro quella torre lì, che erano forse duecento metri, cento metri di distanza da lei, dietro. E lui ha cominciato a baciarmi ancora e poi ho sentito che cominciavo a crollare e andava sempre peggio, non capivo più niente, e poi lui vedevo che continuava a baciarmi e tutto. Fino a che ho cominciato a crollare proprio giù: Lui vedevo che mi teneva un po’ e continuava però a baciarmi fino a che gli ho detto “
chiama l’ambulanza perché non mi sento bene”.
Poi lui mi ha detto “
si, si la chiamo”
E ho visto che cominciava a slacciarsi i pantaloni. Poi dopo sono andata via di nuovo e poi quando ho ripreso un po’...ho guardato, lui stava ... no gli ho detto “
chiama l’ambulanza”
poi lui invece stava ... mi stava slacciando a me i pantaloni, l’ho ... sono riuscita a dirgli di no, però, sai non era un no, non riuscivo bene a parlare (incomprensibile) no, così, no? E lui ha detto: “
ok” ,
la prima volta. Poi dopo ho aperto di nuo... cioè sono andata via ancora, poi ho aperto gli occhi , poi ho visto che mi stava tira... era ... la cintura era già slacciata, la mia, poi gli ho detto di no, di chiamare l’ambulanza. E lui dopo: “
si, si”
Poi un’altra volta sono andata via, poi sono ritornata e gli ho detto “
chiama l’ambulanza perché non sto per niente bene”
. E lui eh... penso che era già venuto. E però era un po’ lontano, penso che non è venuto dentro. Perché l’ho visto lontano, che ..ehm... non so come spiegare. Praticamente stava sborrando di fuori, così, no? (trascrizione audizione PC 1 8.6.2008 2 in fine e 3)
Poi, rispondendo alle domande dell’interrogante, PC 1 ha detto:
"
dopo siamo andati a fare il giro, ha cominciato a baciarmi, ma lì ho cominciato a crollare.
I: E co.. e come ti ha baciato?
V: Beh, un po’ in .. (incomprensibile) viso, in bocca, anche sulla pancia, e poi non mi ricordo più (incomprensibile) non lo so. Perché dopo era il momento che sono svenuta, un po’ così.
I: Ehm... il bacio su..ehm bocca, con o senza lingua?
V: Penso con la lingua, si.
I: Poi mi dici che ogni tanto andavi via: “sono andata via”. Che cosa intendi dire con questo?
V: E che sono come svenuta, cioè vedevo tutto bianco, vedevo tutto che girava, però non vedevo più niente, cioè... nero e bianco
(...)
I: Poi, tu dici che hai visto che lui... non ti è venuto dentro, giusto?
V: No, quello che ho vi... mmm ... non sono sicura, però io ho visto, così di sfuggita, che stava sborrando di fuori” (trascrizione audizione PC 1 8.6.2008 6 in fine e 7).
Dunque, la ragazza non ha detto che RI 1 le ha inserito il pene nella vagina.
Dopo avere parlato di baci, PC 1 ha soltanto detto di avere visto l’uomo slacciare i suoi pantaloni e, poi, quelli di lei e, quindi, di averlo visto “
un po’ lontano
” che “
praticamente stava sborrando di fuori
” precisando, poi, di avere solo “
visto, così, di sfuggita
– senza, peraltro, essere sicura -
che stava sborrando di fuori”.
Di un inserimento del pene in vagina la ragazza non ha parlato.
Nelle sue considerazioni , la Corte ha attribuito “
la natura frammentaria del racconto di PC 1
”
– cioè, il non detto – alla “
notevole riduzione delle capacità sensoriali causata dall’assunzione dello stupefacente”
(sentenza consid. 22 pag. 23).
Indipendentemente dall’accertamento – che lega questa Corte – secondo cui quello spinello ebbe sulle capacità sensoriali della ragazza un effetto devastante, non si può che constatare che PC 1 non ha parlato di penetrazione.
Non ha detto né di avere sentito né di avere visto RI 1 inserirle il pene nella vagina.
La ragazza – stando al suo racconto – ha unicamente visto RI 1 “
cominciare a slacciarsi i pantaloni
”, poi lo ha visto mentre stava slacciando a lei i pantaloni e, infine, lo ha visto, ma “
un
po’ di sfuggita”
e senza esserne sicura, “
lontano
” (o “
un po’ lontano
”) – cioè, non vicino a lei – mentre stava eiaculando “
di fuori
”.
Null’altro.
Dedurre da queste affermazioni – le sole fatte dalla ragazza sul momento topico – che PC 1 ha detto di essere stata violentata – ciò che, in diritto, presuppone la penetrazione, cioè l’inserimento del pene nella vagina – è arbitrario perché equivale a dare alle parole della ragazza un significato che ad esse non può oggettivamente essere dato.
E’ vero che, nella toilette del
_
PC 1 ha detto a _ di essere stata violentata da RI 1, che più tardi, la ragazza ha ripetuto di essere stata violentata a
_
e, più tardi ancora, quella stessa sera lo ha ripetuto agli inquirenti e ai medici che l’hanno visitata.
Ma, nella misura in cui, per sua stessa ammissione, nella sua audizione avvenuta l’8 giugno 2008, cioè il giorno successivo, descrivendo quanto accaduto dietro la torretta, PC 1 ha raccontato tutto quel che ha percepito e/o visto di quella situazione, forza è concludere che con quel “
mi ha violentato
” la ragazza non ha fatto altro che qualificare i fatti che ricordava.
Ora, i fatti che PC 1 stava qualificando con quel
“mi ha violentata”
possono essere soltanto quelli descritti perché lei – a quel momento come in seguito - non ne ricordava altri poiché non ne aveva visto né percepito altri.
E i fatti descritti da PC 1 – i soli che lei ha visto e percepito come accaduti – non comprendono, al di là del loro soggettivo carico emotivo, la penetrazione del pene in vagina.
E, ancora, non va dimenticato che PC 1 ha dato quella qualifica ai fatti che ricordava in un contesto emotivamente esasperato e mentre era – secondo gli accertamenti della Corte di prime cure - in stato confusionale.
Senza ulteriori elementi indizianti, ai fatti descritti dalla stessa protagonista nulla può essere aggiunto – nemmeno per colmare quelle che la Corte di prime cure ha ritenuto essere lacune dovute alla riduzione delle sue capacità sensoriali - senza cadere in arbitrio.
Non è, inoltre, nemmeno possibile dedurre, senza cadere in arbitrio, che ci sia stata un’introduzione del pene in vagina dal fatto che RI 1 – sempre stando al racconto della ragazza - ha slacciato i pantaloni di entrambi: lo slacciare i pantaloni, in contesti simili a quelli descritti, non necessariamente ha come seguito un rapporto sessuale con penetrazione.
Inoltre, va osservato che, stando al racconto della ragazza, RI 1 ha eiaculato quando era “
lontano
” o “
un po’ lontano da lei
”.
Né gli inquirenti né i primi giudici hanno ritenuto necessario chiedere alla ragazza di precisare cosa volesse dire con quei termini.
Pertanto, quei termini bisogna prenderli per il loro significato letterale e immediato e accertare che – secondo la versione data dalla stessa ragazza (e volendo dimenticare quel “
di sfuggita
” e “
non sono sicura
”) - RI 1 ha eiaculato mentre era lontano o almeno un po’ lontano da lei.
Questa lontananza spaziale – provata anche dal fatto che non sono state trovate tracce di sperma nemmeno sui vestiti di PC 1 - depone contro l’ipotesi di una penetrazione.
Va, qui, precisato che le considerazioni sul luogo in cui sarebbe avvenuta – secondo la ragazza - l’eiaculazione di RI 1 non tengono ancora conto del fatto che la stessa PC 1, rispondendo alle domande dell’interrogante su tale questione, ha detto di non essere sicura di quel che aveva visto e che, comunque, lo aveva visto solo di sfuggita (trascrizione audizione PC 1 8.6.2008 7).
Pertanto, considerando lo stato di alterazione sensoriale in cui versava la ragazza (così come accertato dalla Corte di prime cure) e considerando che non sono state trovate tracce di sperma su nessuno dei campioni esaminati (e, fra questi, vi erano anche le mutande dell’imputato) non è peregrino chiedersi se quel che ha visto PC 1 fosse davvero un’eiaculazione.
Nemmeno le analisi mediche e specialistiche effettuate hanno rilevato elementi probanti o indizianti una penetrazione.
Non sono state trovate, all’interno della vagina di _, tracce di sperma.
Quand’anche fosse corretta la tesi della Corte di prime cure secondo cui questo è del tutto compatibile con un’eiaculazione fuori dalla vagina, rimane il fatto che non è stata ritrovata all’interno della vagina nessuna traccia di sperma.
Se questo – sempre nella misura in cui la tesi della prima Corte fosse corretta - non può essere considerato una prova della non avvenuta penetrazione, nemmeno può essere considerata prova del contrario.
Ma non solo.
All’interno della vagina di PC 1 non è stata trovata alcuna traccia di DNA maschile.
Al di là delle considerazioni manifestamente errate – e, dunque, arbitrarie - della prima Corte sul lavaggio delle tracce di DNA con l’urina, rimane il fatto che le ricerche effettuate non hanno trovato tracce oggettive di penetrazione.
Pertanto, l’unica conclusione che può – senza arbitrio – essere tratta dai risultati negativi della ricerca di tracce di DNA all’interno della vagina è che non sono stati trovati elementi a comprova dell’ipotesi accusatoria dell’avvenuta introduzione del pene in vagina.
A questo si aggiunge – quale “prova negativa” – che non sono state trovate tracce di DNA di PC 1 sulle mutande indossate dall’accusato.
Nemmeno è idoneo a provare l’avvenuta penetrazione il ritrovamento di tracce minime di DNA attribuibili all’imputato all’esterno della vagina, e meglio sugli organi genitali esterni (o nelle loro prossimità).
Tale ritrovamento prova soltanto che c’è stato un contatto fra una parte del corpo di RI 1 (mani, bocca o pene) e gli organi genitali esterni della ragazza.
Non prova, invece, che c’è stata penetrazione.
Né è in alcun modo determinante il risultato solo “leggermente positivo” (doc dib 3) all’esame al blu di toluidina: la presenza di microlesioni sui genitali esterni può essere dovuta ad un’infinità di cause (può bastare a causarne qualsiasi lieve sfregamento).
Né possono essere idonei a provare l’avvenuta penetrazione gli arrossamenti riscontrati sui fianchi. Si tratta con evidenza di indizi non univoci. Tali segni possono – come ha sostenuto la Corte – “
essere compatibili con l’ipotesi di un frettoloso atto sessuale consumato in piedi
”. Ma possono essere altrettanto compatibili con molte altre ipotesi.
In ogni caso, da soli non bastano a provare l’ipotesi accusatoria confermata dalla Corte.
Quest’assenza di elementi oggettivi comprovanti la penetrazione si somma all’assenza di dichiarazioni – sui fatti e non sulle interpretazioni ex post – della presunta vittima.
In concreto, il quadro probatorio sul punto focale si caratterizza, non soltanto dalla mancanza di dichiarazioni della presunta vittima circa una penetrazione ma, anche, dalla mancanza di riscontri oggettivi di quanto la ragazza non ha dichiarato ma che, invece, la pubblica accusa, prima, e la Corte di primo grado, poi, hanno ritenuto.
Due assenze non possono – senza arbitrio – essere considerate una presenza.
Due elementi negativi (nessuna dichiarazione e nessuna traccia) non ne fanno uno positivo.
Da quanto precede deriva che l’accertamento dell’avvenuta penetrazione della vagina con il pene – elemento costitutivo, insieme all’azione coercitiva, del reato di violenza carnale – non può essere fondato, senza arbitrio, sulle dichiarazioni della ragazza e sui risultati delle ricerche di tracce di sperma e DNA effettuate.
Certamente, RI 1 ha mentito affermando di non avere toccato le parti intime di PC 1.
Lo prova il ritrovamento di tracce del suo DNA sugli organi genitali esterni della ragazza (la spiegazione difensiva secondo cui il DNA dell’imputato sarebbe stato trasportato dalla ragazza stessa o dalla pioggia non può essere ritenuta l’ipotesi più probabile).
Tuttavia, questa menzogna non può certamente bastare a fondare l’accertamento dell’introduzione del pene in vagina.
Pertanto, forza è concludere che, agli atti, non vi è alcun elemento a sostegno della tesi dell’avvenuta penetrazione.
La diversa conclusione della Corte di prime cure è, con evidenza, frutto di una lettura manifestamente insostenibile perché unilaterale del materiale istruttorio da parte della Corte che ha acriticamente sposato l’ipotesi accusatoria.
Dopo avere accertato la grave alterazione delle capacità sensoriali della ragazza dovute all’assunzione di stupefacente e averne accertato lo stato di “
semi incoscienza
” prima – cioè, subito dopo avere fumato – e, poi, lo stato confusionale protrattosi per ore con visibili alterazioni (sentenza consid. 11 pag. 15), la Corte non ne ha tratto le conclusioni dovute. Cioè, da questi accertamenti la Corte non ha derivato – come invece avrebbe dovuto - l’obbligo di esaminare con estrema cautela e prudenza le dichiarazioni della ragazza.
Valutando la credibilità delle dichiarazioni della ragazza, la Corte ha ritenuto il fatto che PC 1 ha raccontato a _ di essere stata violentata nell’autosilo di via _ indicativo dello stato confusionale della ragazza (“
sfruttato dal prevenuto
”) ma lo ha ritenuto irrilevante per l’esame di credibilità.
E’ certamente vero che quelle dichiarazioni di PC 1 – così come le altre che non sono state confermate (per es, quella sul chiamare l’ambulanza: trascrizione audizione PC 1 8.6.2008 pag. 3 e AI12 pag. 1) - erano il frutto del suo stato confusionale.
Ma che ciò sia irrilevante è certamente sbagliato.
Uno stato confusionale che porta a confondere i luoghi non può certamente essere considerato irrilevante per l’esame di credibilità del racconto fatto dalla persona che presenta un simile stato.
E’, al contrario, una circostanza estremamente rilevante per l’esame di credibilità poiché certamente non tutte le dichiarazioni di una persona che, in stato confusionale, riferisce di fatti vissuti in un momento in cui le sue capacità sensoriali erano alterate corrispondono ad una corretta descrizione della realtà.
Non considerare un simile elemento nella valutazione di credibilità delle dichiarazioni significa cadere nell’arbitrio.
In concreto, appare evidente che lo stato confusionale in cui PC 1 versava, unito all’esasperazione emotiva verosimilmente legata al vissuto di difficili esperienze precedenti, l’hanno portata ad elaborare i suoi ricordi di quel che era accaduto alcune ore prima in modo da vivere, soggettivamente, come una violenza dei fatti che – sulla scorta delle sue stesse dichiarazioni – non possono essere oggettivamente qualificati come una violenza carnale.
Forza è, dunque, constatare che senza dichiarazioni della presunta vittima sui fatti topici e senza elementi oggettivi, cioè senza nulla che possa essere ritenuto indiziante o probante di una penetrazione, la Corte ha fondato la condanna di RI 1 per violenza carnale semplicemente sulla dichiarazione della ragazza di essere stata violentata, cioè sulla qualifica (“
sono stata violentata
” ) fatta da una ragazza in evidente stato confusionale di situazioni vissute in stato di alterazione delle capacità sensoriali.
La Corte ha, poi, interpretato le “
parti potenzialmente non congruenti della versione
” di PC 1 (sentenza consid. 22 pag. 23), cioè le parti non congruenti con l’ipotesi di una violenza carnale – ed indizianti, non di menzogne di PC 1, ma di una sua soggettiva rielaborazione in un profondo stato confusionale di fatti vissuti in un momento di alterazione sensoriale – in modo manifestamente unidirezionale e, pertanto, arbitrario.
In quest’interpretazione, la Corte ha spiegato il fatto che l’amica _ “
nulla abbia percepito dell’avvenuta violenza
” con lo “
stato comunque parzialmente alterato anche dell’_
” (sentenza consid. 22 pag. 23 in fine e 24) dimenticando che, poco prima, aveva accertato che la ragazza aveva fatto solo un paio di tiri “
per il motivo che faceva schifo (...) ciò che al dibattimento essa la spiegato non con la cattiva qualità della sostanza, che anzi produceva il consueto effetto, ma per il motivo che essa era digiuna ciò che le ha reso sgradevole l’assunzione dello stupefacente (..) di modo che sarebbero stati l’accusato ed PC 1 a dividersi il fumo
” (sentenza consid. 10 pag. 12 in fine e 13) e che, perciò, _ non poteva certamente essere alterata al punto da non percepire nulla di una violenza avvenuta a pochi passi da lei (cfr. fotografie in atti) o, perlomeno, nulla di uno stato estremamente sofferente dell’amica.
Sempre in quest’interpretazione unidirezionale e unilaterale delle risultanze istruttorie, la Corte ha ritenuto il fatto che PC 1 si sia ulteriormente accompagnata all’imputato ampiamente spiegabile con il suo stato alterato e con “
un possibile legittimo timore
” della ragazza “
per la persistente presenza dell’accusato
” (sentenza consid. 22 pag. 25).
Ma ritenere “
un possibile timore della ragazza
” è arbitrario.
Nulla, agli atti, infatti, permette di trarre una simile conclusione.
PC 1 non ha mai detto di essere stata intimorita dall’uomo e dagli atti non emergono elementi da cui si possa dedurre, con una certa attendibilità, che la ragazza provava un tale sentimento nei suoi confronti. Basti pensare che _, raccontando di come si svolse il rientro dal parco alla stazione FFS ha detto (confermando la versione dell’imputato) che “
durante questo tragitto PC 1 e
_
erano abbracciati (...) è stato lui ad abbracciarla per primo, poi lei ha contraccambiato mettendo il suo braccio attorno ai suoi fianchi
” (AI 12 pag. 2). E’ evidente che mettere le mani attorno ai fianchi di un uomo ricambiandone l’abbraccio non è un atteggiamento tipico di chi prova paura. Né - a onor del vero – é un atteggiamento tipico di una persona che ha bisogno di sostegno per camminare come _, ad un certo punto, ha detto e come la Corte ha ritenuto (sentenza consid. 14 pag. 17).
D’altra parte, nemmeno _ – dalla cui deposizione si evincerebbe, secondo la Corte, il timore di PC 1 per l’accusato (consid. 22 pag. 24) – ha dato elementi oggettivi su cui fondare una tale deduzione: la ragazza si è limitata a parlare di sue sensazioni soggettive
(“era un uomo che non mi aveva ispirato alcuna fiducia ... mi aveva stupito il fatto che PC 1 potesse essere in sua compagnia sia perché era molto più grande di lei e sia perché come ho detto mi sembrava una persona poco per bene...”
, AI 15 e AI 7) senza riferire di fatti che possano fondare almeno l’ipotesi di un sentimento di paura provato da PC 1.
Nemmeno, infine, negli atti si ritrovano elementi a sostegno di comportamenti minacciosi o violenti dell’imputato.
Inoltre, non può non essere rilevato che le argomentazioni difensive meritavano una risposta più seria.
Nella misura in cui non è nemmeno stata adombrata l’ipotesi dell’utilizzo di un preservativo, l’obiezione relativa al mancato ritrovamento di tracce di sperma, ma soprattutto al mancato ritrovamento di tracce di DNA all’interno della vagina andava approfondita, se del caso, con l’ausilio di un perito.
L’argomentazione della Difesa secondo cui, sin dall’inizio del rapporto sessuale, il membro maschile emette dei liquidi (muco lubrificante o liquido seminale) per cui anche un coitus interruptus (penetrazione con eiaculazione all’esterno della vagina) lascia, in ogni caso, delle tracce di DNA, non poteva essere liquidata con un giudizio lapidario – e superficiale - di assenza di fondamento scientifico (sentenza consid. 21 pag. 22).
Infatti, se è vero che il ritrovamento di tracce di DNA (o il non ritrovamento) può dipendere, anche, dalla tecnica utilizzata o dalla sua messa in atto più o meno corretta (Delfin, Madrid, Tan, De Ungria, Y-STR analysis for detection and objective confirmation of child sexual abuse, PMID: 15565297 pubblicato in
www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed
), è anche vero che, in concreto, tracce di DNA dell’imputato sono state ritrovate su altre parti del corpo della ragazza, ciò che depone sia per la bontà della tecnica utilizzata che per la correttezza della sua messa in atto.
Inoltre, è anche vero che la presenza di secrezioni pre-eiaculatorie sembra essere riconosciuta in medicina come la regola (cfr. , per esempio, Zukerman, Weiss, Orvieto, Does preejaculatory penile secretion originating from Cowper’s gland contain sperm? PMID: 12762415 pubblicato in
www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed
) ed è, comunque, altrettanto vero che tracce di DNA si ritrovano anche grazie ai residui di cellule epiteliali (che, evidentemente, possono essere lasciati durante un rapporto sessuale con penetrazione senza preservativo).
La questione – di principio, rilevante per il giudizio - meritava, quindi, un approfondimento di natura specialistica.
Il ricorso ad un perito avrebbe, poi, permesso alla Corte di evitare di cadere nel manifesto errore di sostenere che eventuali tracce di DNA in vagina possono essere state “
lavate via allorché PC 1 ha urinato nelle ore intercorse tra i fatti in discussione e la vista medica
” (sentenza consid. 21 pag. 23), tesi questa in aperto contrasto con l’anatomia femminile.
In conclusione, non essendovi elementi a sostegno dell’ipotesi di una penetrazione, il ricorrente va assolto dal reato di violenza carnale.
Vista tale conclusione, può essere lasciata senza approfondimento la questione del mancato accertamento da parte della Corte di prime cure dell’atto coercitivo che costituisce l’altro elemento costitutivo della violenza carnale.
2.g.
Il ricorrente ha chiesto anche di essere assolto dall’imputazione di atti sessuali con fanciulli (in relazione ai baci scambiati con PC 1).
Tale richiesta non è, però, motivata.
Soltanto di transenna, nel ricorso si fa riferimento all’età apparente di PC 1 (punto 9 pag. 6) senza però nulla dedurre da quelle brevi considerazioni in relazione al reato di cui all’art 187 CP e senza confrontarsi con quanto sostenuto, al riguardo, in sentenza.
Pertanto, su questo punto, il ricorso è irricevibile.
3.
Da quanto precede discende che, in accoglimento parziale del ricorso, va annullato il dispositivo 1.2. della sentenza impugnata e il ricorrente deve essere prosciolto dall’imputazione di violenza carnale.
Annullato è, pure, di conseguenza il dispositivo di condanna del ricorrente al pagamento alla PC di fr. 15.000.- quale risarcimento del torto morale nonché di fr. 7.676,40 per spese legali.
Annullato deve essere, pure, in conseguenza, il dispositivo no. 2.1. relativo alla pena.
Ritenuto che per le condanne – non toccate da questo giudizio – per atti sessuali con fanciulli (per avere baciato PC 1, minore di 16 anni, sul viso, sulla bocca e sul ventre) nonché per infrazione e contravvenzione alla LFStup potrebbe essere adeguata una pena pecuniaria (cfr. sentenza non pubblicata del 13.5.2008 [6B.541/2007]) e siccome nell’incarto non vi sono gli elementi necessari alla sua commisurazione, gli atti vanno rinviati ad una nuova Corte delle assise correzionali (anziché ad una Corte delle assise criminali), affinché renda, su questa questione, un nuovo giudizio.
La nuova Corte deciderà anche nuovamente sull’importo da assegnare alla PC quale risarcimento del torto morale subito e quale rimborso delle spese legali.
Sarà facoltà della nuova Corte decidere se imputare ad RI 1, in applicazione dell’art. 250 CPP, quali atti sessuali con fanciulli ex art. 187 CP (eventualmente, altro reato di cui la nuova Corte dovesse ritenere dati i presupposti), i toccamenti degli organi genitali esterni accertati dalla presenza di tracce di DNA dell’imputato in tale zona e non indicati nell'atto d'accusa.
All’accusato dovrà, comunque, essere garantito il diritto di essere sentito e quindi anche di proporre prove a scarico sgorgante dall'art. 9 Cost. (cfr. DTF 119 Ia 139 consid. 2e con richiami di dottrina e giurisprudenza; CCRP, sentenza del
7 luglio 2004 in re V.F, consid, 7; CCRP, sentenza del 28 aprile 2005 in re D.D.D, M.G e I.M., consid. 8b);
CCRP, sentenza del 21 ottobre 1999 in re B., consid. 2c).
Gli oneri processuali di prima sede (fr. 1200.-) vanno posti a carico dello Stato.
Sulle ripetibili di prima sede, per contro, spetterà al ricorrente adire la Camera dei ricorsi penali.
Gli oneri processuali del presente giudizio sono posti interamente a carico dello Stato che rifonderà al ricorrente
fr. 1.500.- per ripetibili ridotte. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b8eabf64-e0cc-5415-943d-60b86022e7cf | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia sporta da _ nei confronti di _ per l’ipotesi di reato di appropriazione indebita giusta l’art. 138 CP
in relazione ad una pietra (topazio giallo naturale) depositata presso la cassetta di sicurezza di un istituto bancario, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato dapprima nel decreto di accusa 21.02.2005 mediante il quale l’allora procuratore pubblico Maria Galliani ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale _ siccome ritenuto colpevole di appropriazione indebita giusta l’art. 138 cifra 1 CP "
per avere, nel periodo dal 1° dicembre 2003 al 21 maggio 2004, a _, in qualità di cointestatario unitamente a _ (...) della cassetta di sicurezza no. _ aperta presso la _, _, allo scopo di procacciarsi un indebito profitto, indebitamente disposto della pietra topazio giallo naturale, del peso di 274,8 g pari a 1'374 carati e del valore oscillante tra i frs. 700.-- ed i frs. 6'000.-- (...), depositata nella citata cassetta di sicurezza e quindi a lui affidata dal proprietario _, trasferendo la stessa nel dossier titoli della relazione bancaria _ aperta presso la _, _, a lui intestata
" ed ha proposto la sua condanna alla pena di un mese di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, all’espulsione dal territorio svizzero per un periodo di tre anni, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni (art. 55 vCP), al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, ordinando parimenti il dissequestro e la restituzione alla parte civile _ della citata pietra (DA _);
che avverso il suddetto decreto _, per il tramite del suo allora patrocinatore avv. _, ha presentato formale opposizione, riservandosi nondimeno la facoltà del suo ritiro qualora fosse stato possibile trovare un accordo con la parte civile (scritto 3/4.03.2005, doc. A – inc. MP _);
che con sentenza 21.06.2005 il presidente della Pretura penale Marco Kraushaar ha derubricato l’imputazione a carico di _ nel reato di appropriazione semplice giusta l’art. 137 cifra 2 CP, ha stralciato dai ruoli il procedimento penale per ritiro della querela (avendo le parti concluso un accordo il 23.05.2005), ha restituito l’incarto penale al procuratore pubblico per quanto di sua competenza e ha parimenti ordinati il dissequestro e la restituzione a _ (dopo il passaggio in giudicato della sentenza) della pietra topazio sequestrata il 7.06.2004 (inc. _ della Pretura penale);
che il 4.07.2005 l’allora procuratore pubblico ha ordinato all’istituto bancario il relativo dissequestro (scritto PP 4.07.2005, inc. MP _);
che con la presente istanza (datata 28.07.2014, spedita il 29.07.2014 e ricevuta da questa Corte il 4.08.2014) l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto della sua assistita IS 1, la trasmissione (in copia) della summenzionata sentenza emanata a carico di suo padre, _, deceduto a _, il _;
che a sostegno della sua richiesta il legale precisa in particolare che IS 1 è erede legittima di
┼_
, che sarebbe nel di lei interesse sapere se nei confronti del padre deceduto sono state emanate delle sentenze di condanna, potendo tale circostanza comportare eventuali debiti di natura pecuniaria trasmissibili agli eredi e che la sua assistita ha trovato un’ordinanza di apertura datata 17.05.2005 inerente all’incarto _ a carico del padre;
che a comprova della circostanza l’avv. PR 1 ha prodotto la procura conferitagli da IS 1 (in originale), la copia della carta d’identità di IS 1, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà datata 20.06.2014 (da cui emerge che IS 1 è effettivamente erede legittima di
┼_
, deceduto il _), il certificato di morte datato 6.12.2012 e la copia dell’ordinanza di apertura 17.05.2005 (cfr., nel dettaglio, istanza
29.07./4.08.2014 e documentazione ivi annessa, doc. CRP 1);
che questa Corte ha deciso di non interpellare _, parte civile (ai sensi del previgente CPP TI) al procedimento penale di cui sopra nel frattempo archiviato, essendo stato il padre della qui istante accusato (ai sensi del previgente CPP TI) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta e la documentazione prodotta in questa sede – appare dato un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG della qui istante, in qualità di erede legittima di
┼_
, ad ottenere copia della sentenza richiesta emanata nei confronti di quest’ultimo;
che dall’incarto _ della Pretura penale emerge in particolare che il 23.05.2005 le parti hanno trovato un accordo circa il debito di
€
200'000.-- dell’accusato (_) nei confronti della parte civile (_), il destino della pietra preziosa e del predetto procedimento penale, nel frattempo archiviato (inc. _ della Pretura penale);
che trattasi dunque di informazioni potenzialmente utili alla qui istante (rispettivamente al suo patrocinatore) per valutare la situazione debitoria del defunto in relazione ai suoi eredi, e ciò in particolare con riferimento al destino dei
€
200'000.-- di cui all’accordo concluso il 23.05.2005;
che in siffatte circostanze l’accordo 23.05.2005 (accompagnato dallo scritto datato 2.06.2005 dell’avv. _ indirizzato alla Pretura penale), il verbale del dibattimento 21.06.2005 e la sentenza 21.06.2005 (inc. _ della Pretura penale)
vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore della qui istante unitamente alla presente decisione;
che la tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico di chi le ha occasionate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b8f1d921-8c19-5b24-996c-4a21c73e46a8 | in fatto:
A.
Con sentenza del 21 febbraio 2002 la Corte delle assise criminali in Mendrisio ha dichiarato _ autori colpevoli di infrazione aggravata alla legge federale sugli stupefacenti per avere, in correità fra loro e con altri, detenuto in isole del mare dei Caraibi (segnatamente _) e trasportato a _ (Florida) – fra il dicembre del 1990 e la fine del 1991 – almeno 1000 kg di cocaina, di cui 40 kg consegnati a terzi e il resto finiti nelle mani di sconosciuti. Inoltre _ e _ sono stati dichiarati autori colpevoli dello stesso reato per avere, sempre in correità fra loro e con altri, compiuto a _ atti preparatori intesi al trasporto e alla consegna di ulteriori 1000 kg di cocaina tra la primavera del 1995 e l'ottobre – rispettivamente l'aprile – del 1997. In applicazione della pena, la Corte delle assise criminali ha condannato:
– _ a 12 anni di reclusione, aggiuntivi a una pena di 25 giorni di detenzione inflittagli il 26 gennaio 2000 dall'uditore del Tribunale di divisione 12 per omissione del servizio;
– _ a 14 anni di reclusione e alla rifusione allo Stato di fr. 5000.– in risarcimento compensatorio per l'illecito profitto conseguito;
– _ a 9 anni di reclusione.
Computato a tutti il carcere preventivo sofferto, la Corte ha ordinato la confisca del conto _ intestato ad _ (alias _) e _ presso la _, confermando il sequestro conservativo in vista del risarcimento compensatorio dei conti _ e _ intestati a _ presso la _, come pure del conto corrente postale _ intestato a _ medesimo. La Corte ha ordinato invece il dissequestro del conto n. _ intestato a _ presso la Banca _.
B.
Per quanto riguarda il primo traffico, la Corte di assise ha accertato che all'inizio del 1990 _ aveva telefonato a _, il quale si trovava sul lavoro a _ o al suo domicilio di _, proponendogli – su incarico di un certo _ – di partecipare a un trasporto di stupefacenti per mezzo di un panfilo (“_”, immatricolato a Jersey) dalle Antille alla Florida. _ aveva accettato e _ lo aveva messo relazione con il referente dei fornitori colombiani della droga, _, in modo da concordare direttamente le modalità del trasporto. Secondo la Corte, _ sapeva – quanto meno con dolo eventuale – di prendere parte a un importante traffico di cocaina (sebbene pretendesse di avere creduto a un traffico di marijuana), l'ammontare del compenso promessogli (US$ 1 400 000) non lasciando dubbi. E siccome aveva bisogno di un aiutante, _ si era rivolto a _, che versava in ristrettezze finanziarie, incontrandolo un paio di volte a _ (ancorché _ sostenesse di avere ricevuto da _ una sola telefonata, dalla Martinica al suo domicilio di _) per prospettargli un compenso – a suo dire – di US$ 700 000, pari alla metà del proprio, nel caso in cui avesse collaborato. La Corte non è stata in grado di escludere, ad ogni modo, che in questa prima fase dell'operazione a _ fosse stato adombrato un mero contrabbando di pietre preziose (non punibile in Svizzera) e che la mercede offertagli non eccedesse in realtà US$ 160 000.
Sta di fatto che nel febbraio del 1991, una quindicina di giorni dopo essere stato interpellato, _ ha raggiunto a Port-de-France (prefettura della Martinica) _, il quale nel frattempo aveva ricuperato il panfilo, che si trovava ormeggiato presso l'isola di Guadalupa. Insieme con lui egli ha poi navigato fino all'isola caribica di Saint Lucia, dove entrambi hanno soggiornato due o tre giorni. Una notte, verso le ore 23, dopo che _ aveva conversato in spagnolo con terzi via radio, essi hanno preso il largo, incontrando a circa un chilometro dalla costa due motoscafi bimotore, dai quali una decina di uomini ha scaricato – aiutata da _ e _ – pesanti pacchi, nascondendoli in due finti serbatoi del carburante appositamente ricavati dietro i contenitori dell'acqua (da 2400 litri), sui lati della _. _ ha ammesso di avere capito allora che il commercio non riguardava pietre preziose di contrabbando, bensì cocaina. In seguito i due hanno navigato per due giorni con il carico di stupefacente (che la Corte ha stimato in almeno 1000 kg) fino all'isola di Saint Martin/Sint Marteen. Di lì _ è rientrato in Europa con l'aereo, mentre _ è rimasto sull'isola dal 18 al 26 febbraio 1991 e ha poi proseguito verso Fort Lauderdale (a nord di Miami), dov'è giunto il 5 marzo 1991. Durante le soste a terra _, che in quel periodo abitava a Miami Beach, ha mantenuto i contatti con _ per conto di _, proprietario del panfilo. L'imbarcazione è poi stata ricoverata per alcuni mesi in un cantiere nautico di Miami con il carico a bordo.
Ai primi di luglio del 1991 _ ha comunicato a _ che era giunto il momento di scaricare la merce. _ è partito così dalla Svizzera alla volta di Miami. Anche _ è arrivato in Florida il 12 luglio 1991. Lì _ ha chiesto a _ di procurargli una casa provvista di attracco, lungo un canale collegato all'oceano. _ ha adempiuto l'incarico dietro compenso di US$ 20 000, appigionando sotto falso nome una villetta su un canale a Fort Lauderdale. Attraccatavi davanti la _, qualche giorno dopo – alla presenza di _ – _ e _ hanno scaricato la cocaina, depositandola nottetempo nel garage dell'abitazione. Se non che, quella stessa notte essi sono stati sorpresi nel sonno da quattro o cinque individui armati che, fattisi passare per agenti di polizia, hanno sfondato la porta, li hanno percossi, minacciati di morte e immobilizzati, portandosi via quasi tutto lo stupefacente. Liberatosi, _ ha telefonato a _ e ad _. Quest'ultimo, apparentemente poco sorpreso dell'accaduto, ha ordinato a _ di consegnare lo stupefacente residuo, ciò che _ ha fatto, caricando la cocaina rimanente (due pacchi da 20 kg ognuno, stando alla Corte di assise) su un pick up preso a nolo, lasciato poi a disposizione di _ e _, i quali lo attendevano sul posteggio di un supermercato a Miami. _, rientrato frettolosamente in Europa, non risulta avere partecipato a tale consegna. Per le sue prestazioni _ ha poi ricevuto da _, invece dell'importo promessogli (US$ 1 400 000), solo US$ 80 000, con i quali un paio di mesi dopo ha rimunerato _, rimettendogli la somma in occasione di un incontro al proprio domicilio di _.
C.
Il secondo traffico giudicato dalla Corte di assise è cominciato quattro anni dopo, nella primavera del 1995, quando _ ha telefonato a _, il quale si trovava una volta ancora a _ o al suo domicilio di _, per proporgli un nuovo trasporto di cocaina mediante la _, nel frattempo reimmatricolata (prudenzialmente), sempre a Jersey, _. _ ha subito interpellato per telefono _, che si trovava a _ e che – ancora in difficoltà economiche – ha accettato di mettersi a disposizione, pur sapendo fin dall'inizio, questa volta, che il traffico riguardava cocaina. Così nell'autunno del 1995 _ si è recato in Venezuela e di lì in Colombia, dove ha incontrato _ e il capo dei fornitori di cocaina, soprannominato “_ ” (il capo, appunto). In seguito _ e _ hanno soggiornato tre volte in Florida (nel febbraio del 1996, nel dicembre del 1996 e nel febbraio del 1997) per rimettere in sesto la _, che si trovava in una marina presso Miami e che abbisognava di riparazioni importanti (compreso il ripristino dei due ricettacoli occulti, turati nel frattempo con materiale sintetico). In occasione del primo viaggio (febbraio del 1996) _ non ha riperito il panfilo, ma ha ricevuto da _, per l'esecuzione dei lavori, l'equivalente di US$ 70 000 o 80 000 (US$ 100 000 secondo _). Nel gennaio del 1997, inoltre, egli ha aperto un conto bancario (_presso la _) sul quale sono pervenuti accrediti da parte di _ per US$ 59 000, di cui US$ 40 000 girati da _ a _, il quale aveva aperto a sua volta un conto bancario a Miami per ricevere il denaro necessario alla preparazione del panfilo.
Nell'aprile del 1997, dopo avere compiuto un nuovo viaggio in Venezuela per ottenere invano altro denaro da _, _ ha rinunciato a proseguire l'impresa, insoddisfatto del trattamento economico riservatogli dai colombiani (con i quali aveva avuto anche un litigio) e si è limitato a mantenere contatti con _ (fatto giudicato dalla Corte di assise senza apprezzabile rilievo penale). _ invece ha continuato l'opera, facendo capo in sostituzione di _ a _ di _, capitano di lungo corso conoscente di _, retribuito US$ 200 giornalieri e tenuto all'oscuro di tutto. Dall'aprile all'ottobre del 1997 _ ha poi fatto la spola tra la Svizzera e Miami 7 o 8 volte, recandosi anche a Bogotá nel maggio di quell'anno, a rapporto da _, e in Venezuela nel luglio o agosto successivo, dove ha conosciuto il comandante cui sarebbe stato affidato il panfilo (un nominato _, alias _, cittadino americano). Dal Venezuela egli è stato condotto anche in Colombia, dove ha incontrato “El Jefe” per definire i termini del trasporto di cocaina, vedendosi prospettare un compenso pari a quello promesso (ma non versato) a _ per lo sfortunato traffico del 1990/91. La Corte di assise ha dedotto perciò che _ dovesse aspettarsi un trasporto di 1000 kg di cocaina. In seguito _ ha collaborato con l'equipaggio della _, al comando di _, liberando totalmente – sull'isola di Bimini, nelle Bahamas – i nascondigli dello scafo dalla schiuma al poliuretano con cui erano stati occlusi e insieme con _ ha pure ispezionato una casa a Pompano Beach (sobborgo di Fort Lauderdale) destinata a ricevere il carico. Nell'ottobre del 1997 però anch'egli ha abbandonato l'operazione, sentendosi sorvegliato e temendo di essere scoperto. Dopo di allora egli si è limitato a mantenere contatti per posta elettronica con _ (fatto giudicato dalla Corte di assise senza apprezzabile rilievo penale).
Il ripristino della _ è stato ultimato perciò alla fine del 1997 o all'inizio del 1998 senza _ né _. Tanto meno i due hanno collaborato, per finire, al trasporto vero e proprio della cocaina, cominciato il 15 aprile 1998 (quando il panfilo ha lasciato l'ormeggio per compiere varie tappe nei Caraibi) e conclusosi il 25 maggio 1998, quando l'imbarcazione è arrivata a Fort Laurendale e l'intero equipaggio è stato tratto in arresto, la polizia marittima (che sorvegliava l'imbarcazione da 15 mesi) avendo rinvenuto nello scafo 1982 kg di cocaina con un grado di purezza medio del 92%. _, nonostante la collaborazione fornita agli inquirenti statunitensi (donde sono emersi i nomi di _ e di _, che hanno portato all'apertura dell'inchiesta in Svizzera), è stato condannato alla fine del 1999 da una Corte distrettuale della Florida del Sud (United States District Court, Southern District of Florida) a 235 mesi di carcere e a 5 anni di libertà vigilata dopo la scarcerazione.
D.
Sulla base dei fatti appena riassunti la Corte delle assise criminali ha ritenuto che _, _ e _ hanno agito, nel quadro delle rispettive attribuzioni, in qualità di correi, sia nel primo traffico sia – _ escluso – nel secondo, ancorché limitato ad atti preparatori. La quantità di droga trafficata bastando a connotare un'infrazione aggravata alla legge federale sugli supefacenti, la Corte ha rinunciato ad analizzare l'ulteriore aggravante del reato in banda. Ha approfondito invece il problema della prescrizione relativa al primo traffico, escludendo l'applicabilità del diritto federale degli Stati Uniti o delle leggi dello Stato della Florida (che avrebbero comportato la prescrizione del reato in 5, rispettivamente 7 anni), poiché a mente sua l'illecito configura un'infrazione unica alla legge federale sugli stupefacenti e denota una relazione significativa con il territorio svizzero, onde l'applicabilità del diritto elvetico. Ciò che del resto – ha soggiunto la Corte – varrebbe anche per il secondo traffico, sebbene al riguardo non si pongano problemi di prescrizione. Quanto all'aspetto soggettivo, tutti gli imputati sono stati ritenuti agire con piena consapevolezza e intenzionalità. Né si riscontrava desistenza spontanea dal secondo traffico, l'abbandono dell'operazione da parte di _ e _ non essendo avvenuto per motivi interiori. Ne è conseguita, in sintesi, la conferma integrale dell'atto dell'accusa.
Nella commisurazione delle pene la Corte di assise ha considerato anzitutto l'enorme quantità di cocaina trafficata la prima e, in base a quanto _ e _ potevano aspettarsi, anche la seconda volta. A _ la Corte ha riconosciuto nondimeno l'attenuante del lungo tempo trascorso (ma non agli altri due imputati, che nel frattempo avevano nuovamente delinquito partecipando al secondo traffico) e a _ quella del sincero pentimento, come proponeva il Procuratore pubblico. Ponderati gli elementi a favore e a scapito di ciascuno di loro, la Corte è giunta alla conclusione che a _ andassero inflitti 14 anni di reclusione, a _ 12 (il quale senza l'attenuante se ne sarebbe verosimilmente visti irrogare almeno 15) e a _ 9 (che senza l'attenuante avrebbe dovuto contare su una pena di almeno ai 12 anni). La Corte non ha condannato invece _ all'espulsione, la pubblica accusa non avendone dimostrato i presupposti. Ha rinunciato anche a pronunciare nei confronti di _, “ampiamente insolvente”, l'obbligo di un risarcimento compensatorio, applicato invece a _ nella misura di fr. 5000.–. Ha confiscato infine il conto intestato ad _ (alias _) e _ presso la _, “non esistendo alcun motivo lecito in virtù del quale _ dovrebbe possedere del denaro presso l'_ ”. Sui conti di _ è stato conservato il sequestro conservativo a tutela del noto risarcimento compensatorio.
E.
Contro la sentenza di assise _, _ e _ hanno introdotto il 22 febbraio 1992 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella rispettiva motivazione, presentata il 3 aprile 2002, essi chiedono di annullare la sentenza impugnata e di proscioglierli da tutti i capi d'imputazione. _ postula altresì, in subordine, l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un'altra Corte delle assise criminali per nuovo giudizio nel senso dei considerandi. Nelle sue osservazioni del 29 aprile 2002 il Procuratore pubblico propone di respingere i ricorsi. Il 18 novembre 2002 _ ha inoltrato al presidente della Corte di cassazione e di revisione penale un'istanza di libertà provvisoria, sollecitando la propria scarcerazione in pendenza di ricorso. Con osservazioni del 3 dicembre 2002 il Procuratore pubblico conclude per il rigetto dell'istanza. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 cpv. 1 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 127 I 54 consid. 2b pag. 56, 126 I 168 consid. 3a pag. 170, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 125 II 10 consid. 3a pag. 15, 125 I 166 consid. 2a pag. 168) o fondato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
II. Sul ricorso di _
2.
Il ricorrente definisce arbitrario anzitutto l'ammontare del compenso che la Corte di assise ha accertato essergli stato promesso da _ per le due operazioni. Nel primo caso la mercede offertagli non eccedeva – egli sostiene – US$ 80 000 e nel secondo caso non poteva essere diversa (memoriale, pag. 4, punto 2 primo capoverso e pag. 63, lett. a). La Corte di assise ha accertato – come detto – che per il traffico del 1990/91 _ affermava di avere prospettato al ricorrente una retribuzione di US$ 700 000, ma non è stata in grado di escludere che la somma proposta non eccedesse in realtà US$ 160 000 (sentenza, pag. 40 in fondo). Il che corrispondeva a quanto lo stesso ricorrente aveva dichiarato agli inquirenti (US$ 80 000 per il carico e altrettanti per lo scarico dell'imbarcazione: sentenza, pag. 40 in alto e 41 in alto), come pure a quanto il Procuratore pubblico gli rimproverava nell'atto di accusa (pag. 3: “compenso di circa
US$ 160 000”). Perché l'accertamento della Corte di assise, fondato sulle affermazioni del ricorrente medesimo, sarebbe arbitrario egli non spiega, limitandosi ad allegare verbali inconcludenti.
Quanto al secondo traffico, la Corte ha accertato che il ricorrente aveva pattuito direttamente con i fornitori colombiani un compenso di US$ 1 500 000 da spartire con il comandante del panfilo e con le altre persone coinvolte nel trasporto, come egli stesso aveva dichiarato agli inquirenti (sentenza, pag. 66 verso il basso). La Corte non ha accertato quanto sarebbe toccato precisamente all'interessato, limitandosi a sottolineare “la prospettiva di conseguire un importante guadagno” (sentenza, pag. 67 in alto). Nella misura in cui pretende che il suo compenso sarebbe stato di soli US$ 80 000 perché esso doveva situarsi “nel medesimo ordine di cifre di quello promesso, ma non corrisposto, per lo sfortunato (...) trasporto del 1991” (sentenza, loc. cit.), il ricorrente cerca di equivocare sui termini. Il medesimo ordine di cifre accertato dalla Corte si riferiva infatti a quello complessivo di US$ 1 400 000 promesso per il primo traffico a _ (sentenza, pag. 37). Che poi _ si sia visto consegnare solo US$ 80 000 nulla muta. Lo stesso ricorrente ammette del resto che, secondo il comandante del panfilo, egli avrebbe dovuto ricevere almeno US$ 400 000 (memoriale, pag. 63). Rimproverare arbitrio alla prima Corte per non avere accertato che il profitto si sarebbe limitato a US$ 80 000 è quindi fuori luogo.
3.
A parere del ricorrente è arbitrario considerare i due incontri da lui avuti con _ a _ nel 1990 (rispettivamente la telefonata da lui ricevuta a _: sentenza, pag. 42 in alto) come un atto costitutivo di reato, poiché a quel momento egli si prefigurava un traffico di pietre preziose, non di stupefacenti (memoriale, pag. 4, punto 2 secondo capoverso e pag. 67, lett. b). Se non che, il ricorrente confonde fatti e diritto. Sapere se l'atto incriminato sia costitutivo di reato è una questione di diritto, che andrà esaminata in tale ambito. Questione di fatto è sapere se, al momento in cui si è detto disponibile al primo traffico, il ricorrente credesse effettivamente di partecipare a un contrabbando di pietre preziose (contrariamente a quanto asseriva _, che pretendeva di avergli parlato di un carico di marijuana). Nel dubbio, la Corte si è dipartita dalla prima ipotesi (sentenza, pag. 42 in alto), rilevando che – comunque fosse – l'atto di accusa imputava unicamente a _ di avere inteso trasportare “merce”, scoprendo solo in seguito che si trattava di stupefacenti. Il che non bastava a integrare un atto punibile (sentenza, pag. 41, 13a riga dal basso). Per quanto riguarda l'aspetto di fatto, dunque, al riguardo il ricorso è finanche senza oggetto.
4.
Arbitrario sarebbe altresì, per il ricorrente, l'accertamento stando al quale nel 1991 _ gli ha consegnato la rimunerazione per il primo traffico (US$ 80 000) a _. A mente sua tale fatto sarebbe giuridicamente senza rilievo, ai fini del reato importando il compenso che i trafficanti colombiani hanno dato a _, a Miami, nel luglio o nell'agosto del 1991. Quanto _ gli ha poi riversato in Svizzera sarebbe irrilevante (memoriale, pag. 4, punto 2 terzo capoverso e pag. 67, lett. c). Ancora una volta però il ricorrente confonde fatti e diritto. Sapere se l'importo di US$ 80 000 rimessogli da _ a _ sia una cosiddetta azione successiva non punibile (
mitbestrafte Nachtat
), com'egli asserisce, è una questione di diritto, non di fatto. Il problema andrà esaminato dunque in quella sede.
5.
Alla Corte di assise il ricorrente rimprovera di avere messo arbitrariamente sullo stesso piano il suo operato con quello degli altri due imputati, tanto nel primo quanto nel secondo traffico. Egli ribadisce di avere avuto “un ruolo parziale e secondario”, asserendo che “le conclusioni della Corte di assise sulla correità, sull'organizzazione e sulla banda (...) sono pesantemente contraddette dalla dovizia di particolari su quanto successo in entrambi i trasporti” (memoriale, pag. 7, punto 2 quarto capoverso e pag. 67, lett. d). Ora, nella misura in cui si riferisce all'accertamento dei fatti, la doglianza è irricevibile per carenza di motivazione. In un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio non basta pretendere che le constatazioni della Corte di assise siano “pesantemente contraddette dalla dovizia di particolari su quanto successo”. Occorre indicare almeno quali constatazioni sarebbero arbitrarie e con quali atti di causa esse risulterebbero in aperto contrasto. Nella misura per contro in cui il ricorrente nega la sua qualifica di correo o di appartenente a una banda, la questione è di diritto e andrà esaminata in quel contesto.
6.
Il ricorrente critica come arbitrario l'accertamento della sua partecipazione alla consegna della cocaina ai trafficanti, a Miami, ciò che nemmeno l'atto di accusa gli imputa (memoriale, pag. 7, punto 2 quinto capoverso e pag. 68, lett. e). Una volta di più, tuttavia, il ricorso è senza oggetto. La Corte di assise non ha accertato infatti che _ abbia preso parte alla consegna dei (rimanenti) 40 kg di cocaina a _ e _ sul posteggio del noto supermercato a Miami. Al contrario: ha precisato espressamente che “non vi sono altri riscontri della presenza del _ in questo frangente, ed in effetti l'atto di accusa non gli addebita espressamente la partecipazione alla consegna dello stupefacente” (sentenza, pag. 52, consid. 23 in principio). Al proposito il ricorso non merita quindi altra considerazione.
7.
Arbitrio il ricorrente scorge altresì nel fatto di essere stato considerato “partecipe ad un'organizzazione del traffico, quando tutti gli atti processuali provano che ha sempre e solo ubbidito agli ordini e non era autorizzato a prendere iniziative” (memoriale, pag. 7, punto 2 sesto capoverso e pag. 68, lett. f). Così argomentando, l'interessato travisa ulteriormente fatto e diritto. Quanto egli contesta, in realtà, non sono gli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza di assise, bensì la qualifica giuridica del suo ruolo in base a tali accertamenti. Tant'è vero ch'egli non impugna siccome arbitrario alcun fatto preciso, ma si limita a ribadire la sua funzione subordinata, nel primo e nel secondo traffico. Si rilevi in ogni modo che, nella misura in cui pretende di avere scoperto la vera natura della merce trasportata nel 1991 solo al momento di scaricare il panfilo, il ricorrente cerca una volta ancora di equivocare. Certo, la Corte di assise ha ricordato che a quel momento egli era consapevole di trafficare cocaina (sentenza, pag. 49 consid. 22 prima frase), ma nella sentenza figura riprodotto un verbale del 14 settembre 2000 in cui lo stesso ricorrente ammetteva esplicitamente di avere scoperto la vera natura del trasporto già mesi prima, al largo dell'isola di Saint Lucia, quando i pacchi erano stati caricati sull'imbarcazione (sentenza, pag. 44 verso il basso: “Non ho creduto comunque nemmeno a questa versione, convinto che si trattasse di cocaina”). Per il resto, come detto, le argomentazioni del ricorrente riguardano l'applicazione della legge, non l'accertamento dei fatti.
8.
Arbitrari sarebbero dipoi, per il ricorrente, “gli accertamenti sulla motivazione che lo ha indotto a desistere dagli atti preparatori nell'ottobre del 1997” (memoriale, pag. 14, punto 2 settimo capoverso e pag. 68, lett. g). Egli fa valere di avere continuato nella preparazione della _ dopo la defezione di _ solo per denaro e per timore, rinunciando anch'egli dopo avere constatato l'impossibilità di convincere gli altri a lasciar perdere. L'assunto non è serio. Lo stesso ricorrente ha dichiarato al Procuratore pubblico – come ha accertato la Corte di assise – di avere desistito “perché si sentiva sorvegliato e perché riteneva concreto il rischio di essere scoperto dagli inquirenti” (sentenza, pag. 78 consid. 41.2). Gli stralci di verbale invocati nel ricorso non dicono altro. Anzi, confermano che la paura non è il motivo per cui il ricorrente ha continuato l'opera dopo il ritiro di _, ma il motivo che lo ha indotto a demordere. Ch'egli abbia tentato di dissuadere “gli altri” a recedere è una tesi addirittura immaginaria, priva di qualsiasi riscontro finanche nei passaggi di verbale evocati. Da questi si desume tutt'al più che, ritiratosi _, il ricorrente ha proseguito nel ripristino del panfilo lasciandosi “trascinare dalla necessità di soldi” (ricorso, pag. 77 e 78). Donde la conclusione della Corte di assise , secondo cui “il motivo a delinquere è [stato] anche per il _ quello del facile guadagno di molto denaro” (sentenza, pag. 86 in alto). Mal si comprende dove si ravviserebbe arbitrio in tali considerazioni.
9.
Infine il ricorrente si duole di arbitrio perché la Corte di assise gli ha rimproverato di avere negato la qualifica di “atti preparatori” (art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup) a quanto da egli compiuto nel quadro del secondo traffico (sentenza, pag. 69 consid. 37.2). Egli obietta di avere contestato tale qualifica solo per gli atti anteriori al luglio del 1991, ovvero alla sua trasferta in Colombia (memoriale, pag. 14, punto 2 ottavo capoverso e pag. 80, lett. h). A questo punto non giova ripetere che il ricorrente fraintende fatti e diritto. Sapere se determinate azioni costituiscano atti preparatori nel senso dell'art. 19 cpv. 1 cpv. 6 LStup non è una questione di fatto, ma con tutta evidenza di diritto, checché sostenga l'uno o l'altro imputato. La contestazione andrà dunque ripresa oltre.
10.
In diritto il ricorrente assevera che il primo traffico è avvenuto interamente negli Stati Uniti, né egli supponeva di dover trasportare cocaina al momento in cui _ lo ha interpellato. La sua accettazione nell'ambito di una chiamata telefonica ricevuta dalla Martinica configura tutt'al più un atto preparatorio e non fonda la competenza delle autorità svizzere, mentre il pagamento della mercede è avvenuto a Miami, nelle mani di _, non delle sue. Per di più, l'atto di accusa nemmeno gli rimprovererebbe tale circostanza. Applicabile sarebbe pertanto l'art. 19 cpv. 4 LStup, che prevede la doppia punibilità dell'illecito, non data nella fattispecie, giacché il reato è prescritto sia in virtù del diritto federale degli Stati Uniti sia per le leggi dello Stato della Florida. Per tacere del fatto che, comunque sia, la sua attività si connoterebbe come quella di un mero complice e non come quella di un correo, non avendo egli partecipato in modo determinante né alla decisione né alla pianificazione né all'esecuzione del reato. Quanto al secondo traffico, la sua attività si è limitata ad atti preparatori, di cui ha rinunciato spontaneamente a proseguire l'esecuzione 8 mesi prima del compimento del reato. E anche per quel che è degli atti preparatori, egli ha sempre agito come un gregario, agli ordini di terzi. Contrariamente a quanto accerta la Corte di assise, poi, i lavori sulla _ sono cominciati nel 1997, non nel 1996. La pena inflittagli sarebbe così eccessiva, a maggior ragione considerando l'attenuante del sincero pentimento (memoriale, pag. 14, punto 3).
a)
Per quanto attiene alla punibilità del reato, la legge svizzera si applica a chiunque commetta un crimine o un delitto in Svizzera (art. 3 cpv. 1 CP). Si ritiene commesso in Svizzera anche un crimine o un delitto avvenuto all'estero, ma di cui in Svizzera si verifichi “l'evento” (art. 7 cpv. 1 CP). D'altro lato non occorre che, per essere commesso in Svizzera, un crimine o un delitto debba essere perpetrato interamente sul territorio nazionale: basta che in Svizzera sia compiuto un suo elemento costitutivo, foss'anche isolato, ma che in relazione con altri concorra a integrare la fattispecie (
Schultz
in: FJS 1210, pag. 3 in alto;
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar, 2a edizione, n. 2 ad art. 7;
Trechsel/Noll
, Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil I, 4a edizione, pag. 50 verso l'alto
; Hurtado Pozo
, Droit pénal, Partie générale, 2a edizione, pag. 131 n. 377). Gli atti preparatori non contano, salvo ove siano essi medesimi punibili (
Hurtado Pozo
, op. cit., pag. 132 n. 378 nota 55). Contano invece alla stessa stregua di atti di partecipazione quelli successivi alla consumazione del reato (
Vollendung
,
consommation
), fino alla sua conclusione (
Beendigung
,
épuisement
). E un illecito non può dirsi “concluso” finché l'autore non abbia raggiunto il proprio scopo (ad esempio quello di assicurarsi l'indebito profitto:
Trechsel
, op. cit., n. 3 all'art. 7 e n. 7 all'introduzione dell'art. 21 CP).
b)
Che una partecipazione al reato possa riscontrarsi anche nella fase meramente conclusiva dell'illecito (
Beendigung
,
épuisement
) è opinione dominante (
Stratenwerth
,
Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil I
, 2a edizione, pag. 98 n. 7 in fine con richiami;
Schultz
, Einführung in den allgemeinen Teil des Strafrechts, vol. I, 4a edizione, pag. 108 in basso;
Trechsel
, op. cit., n. 7 all'introduzione dell'art. 21 CP). A tale indirizzo dottrinale e giurisprudenziale non mancano invero voci critiche.
Albrecht
reputa, in particolare, che dandosi compravendita di stupefacenti il pagamento del prezzo non vada considerato come atto costitutivo del reato, proprio perché a quel momento l'illecito è ormai consumato (
beendet
). Tutt'al più – egli soggiunge – il pagamento va punito, dandosene gli estremi, come riciclaggio di denaro o come finanziamento di ulteriori traffici (Kommentar zum schweizerischen Privatrecht, Art. 19–28 BetmG, Berna 1995, n. 53 in fine ad art. 19). Ugualmente critico
Hurtado Pozo,
secondo cui gli atti commessi dopo la consumazione del reato allo scopo di assicurarsi un indebito vantaggio – ad esempio la riscossione di un assegno ottenuto per mezzo di una truffa – non fanno più parte dell'infrazione (op. cit., pag. 132 n. 378 in fine).
c)
Sta di fatto che, almeno finora, la prassi del Tribunale federale si è attenuta senza discussioni alla dottrina maggioritaria (DTF 106 IV 295 pag. 297, 98 IV 83 consid. 2c pag. 85). Non compete pertanto a questa Corte scostarsene, modificando a sua volta la propria giurisprudenza (CCRP, sentenza del 10 marzo 1994 in re K., consid. 2a). In concreto il ricorrente ha incassato a _ la mercede per le sue prestazioni nell'ambito del primo traffico (US$ 80 000: sentenza impugnata, pag. 54 consid. 24). La perpetrazione nel Ticino di tale elemento costitutivo del reato, ancorché nella fase conclusiva del medesimo, comporta la punibilità dell'intera infrazione in Svizzera giusta l'art. 3 cpv. 1 CP (
Schultz
, op. cit., pag. 103 verso il basso; FJS 1210, pag. 7 punto IV in principio). La circostanza che il pagamento provenisse da _ e non direttamente dai fornitori colombiani nulla toglie alla natura dell'illecito. Decisivo è il luogo dove il ricorrente ha percepito la mercede, non la persona che gli ha consegnato il denaro. Il fatto come tale poi – contrariamente a quanto il ricorrente asserisce – è partitamente enunciato nell'atto di accusa (pag. 3 verso il basso), mentre l'accenno a un'eventuale azione successiva non punibile (
nicht strafbare Nachtat
o, meglio,
mitbestrafte Nachtat
) è di poco sussidio, atti commessi dopo la consumazione del reato allo scopo di assicurarsi un indebito vantaggio rientrando – come detto – nelle previsioni dell'art. 3 cpv. 1 CP fino alla fase conclusiva dell'infrazione. Ciò posto, l'art. 19 n. 4 LStup invocato nel ricorso, che riguarda la punibilità di azioni commesse all'estero, è infruttuoso, il primo traffico dovendo essere considerato siccome commesso in Svizzera.
d)
La Corte di assise sembra fondare la punibilità del ricorrente anche sul fatto che, in vista del primo traffico, costui abbia compiuto in Svizzera atti preparatori passibili di pena (sentenza, pag. 72 in alto). La Corte medesima non ha escluso l'ipotesi, tuttavia, che all'inizio il ricorrente si sia unito a _ solo con l'intenzione di contrabbandare in Florida pietre preziose (sentenza impugnata, pag. 42 in alto). Essa non ha accertato né ch'egli si fosse visto prospettare effettivamente un carico di marijuana (come _ sosteneva: sentenza, pag. 36), né ch'egli abbia acquisito la consapevolezza di partecipare a un trasporto di cocaina prima di avere visto caricare la merce sul panfilo, al largo dell'isola di Saint Lucia (sentenza, pag. 44 verso il basso). Non risultando ch'egli abbia accettato la proposta di _ nell'intento di partecipare a un traffico di droga, l'esistenza di un
dolus superveniens
non basta a far sì che l'infrazione possa essere ritenuta commessa in Svizzera. Potrebbe se mai entrare in linea di conto, come atto preparatorio, l'ulteriore chiamata che il ricorrente ha ricevuto quando è tornato in Florida il 12 luglio 1991 per scaricare il panfilo con _, ma al proposito manca qualsiasi accertamento. Per quanto riguarda il ricorrente, dunque, il primo traffico può essere punito in virtù del diritto svizzero – come detto – perché l'incasso della mercede è avvenuto in Svizzera, non per l'esistenza di atti preparatori in Svizzera da parte di lui. Sotto questo profilo la situazione del ricorrente si distingue da quella di _.
e)
L'esistenza di preparativi in Svizzera giustifica invece la perseguibilità del ricorrente per quanto attiene al secondo traffico (art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup). Lo stesso ricorrente ha dichiarato in effetti di avere accettato a _ l'offerta di _, parlando al telefono con lui, pur nella consapevolezza – questa volta – che il trasporto prospettatogli riguardava cocaina (sentenza, pag. 56 consid. 26). La Corte di assise ha ravvisato in tale intesa un preparativo punibile (sentenza, pag. 72 consid. 39.1 in fine), analogamente al Tribunale federale, che qualifica come preparativo punibile la compravendita di stupefacenti stipulata per telefono, senza riguardo alla questione di sapere chi l'abbia proposta né se la fornitura si sia poi concretata (sentenza inedita 6S.684/2000 del 22 marzo 2001 in re P., consid. 2d). Il ricorrente non insorge contro tale interpretazione, né contesta l'applicabilità dell'art. 3 cpv. 1 CP al secondo traffico. Anzi, egli medesimo ha ammesso di essersi incontrato con _ ancora nell'estate del 1996, a _, appunto per parlare del traffico (sentenza, pag. 56 a metà). In proposito non soccorre perciò dilungarsi.
f)
Il ricorrente asserisce di avere agito sempre e solo come complice, non come correo, tanto nell'uno quanto nell'altro traffico. Ora, autore di un reato è chi riunisce in sé tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell'illecito; complice invece è chi si limita a prestare assistenza all'autore, contribuendo in modo subalterno alla commissione del reato (art. 25 CP). La complicità presuppone l'attività criminosa di un autore principale (DTF 121 IV 109 consid. 3a pag. 119). Agisce come autore – ad esempio – chi intraprende un viaggio in automobile perché alla meta i passeggeri possano rifornirsi di droga (DTF 114 IV 162), chi trasporta droga (DTF 117 IV 58 consid. 1 pag. 60) oppure chi mette attivamente a disposizione di terzi il proprio alloggio per occultarvi supefacenti (DTF 119 IV 266). Agisce in qualità di complice, per contro, chi si limita a concedere l'uso di un veicolo (DTF 113 IV 90 consid. 2a pag. 91) o a soccorrere il conducente di un veicolo guasto pur sapendo che su quest'ultimo è caricata droga (DTF 106 IV 72 consid. 2b pag. 73). Complice è, in sostanza, chi presta atti di assistenza “estremamente limitati” (DTF 115 IV 59 consid. 3 pag. 61). In materia di stupefacenti la figura del complice ha poco spazio, giacché l'art. 19 n. 1 LStup contempla come forme di partecipazione autonoma quasi tutte le azioni di sostegno che in altre fattispecie andrebbero considerate come atti di mera complicità (DTF 119 IV 266 consid. 3a pag. 268). Non solo il trasporto di stupefacenti (art. 19 n. 1 cpv. 3 LStup), ma già la messa in atto di preparativi per il trasporto di stupefacenti configura – ad esempio – una forma di partecipazione autonoma (art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup).
g)
L'opinione del ricorrente, secondo cui egli non avrebbe partecipato in modo determinante né alla decisione né alla pianificazione né all'esecuzione dei traffici è perciò senza rilievo, oltre che inveritiera. Anzitutto, perché in materia di stupefacenti il solo fatto di non avere partecipato in modo determinante alla decisione, alla pianificazione o all'esecuzione del reato non esclude la qualifica di correo, riservata solo a chi compie atti di assistenza “estremamente limitati”. Inoltre, perché nel caso specifico il ricorrente non si è rivelato affatto un modesto gregario. Nel primo traffico egli ha coadiuvato _ a caricare la _ (sentenza, pag. 44 a metà), a trasferire il panfilo dall'isola di Saint Lucia a quella di Saint Martin/Sint Marteen (loc. cit.), a spostare il medesimo da Miami a Fort Lauderdale e a scaricarlo (sentenza, pag. 50). Nel secondo traffico egli ha fatto la spola tra la Svizzera e la Florida per curare le necessarie riparazioni (sentenza, pag. 58 consid. 29), prima come corrispondente di _ (fino all'aprile del 1997), attraverso un conto bancario aperto a Miami per ricevere i fondi destinati alla preparazione del panfilo (sentenza, pag. 61 in basso), e poi autonomamente, ingaggiando l'inconsapevole _ (sentenza, pag. 64 in alto), entrando direttamente in relazione con il referente dei fornitori colombiani _ (sentenza, pag. 61 consid. 31), conoscendo il nuovo comandante del panfilo (sentenza, pag. 65 in fondo), incontrando addirittura “El Jefe”, il capo dei fornitori (sentenza, pag. 66) e ispezionando per finire con il citato comandante _ la casa di Pompano Beach destinata a ricevere il carico (sentenza, pag. 67 consid. 35 in fine). Che i lavori di riparazione al panfilo siano cominciati nel febbraio del 1997 anziché nell'autunno del 1996 (la stessa Corte di assise ha corretto l'imprecisione del consid. 30, pag. 59 seconda riga, alla prima riga di pag. 60) poco sussidia. Prospettare semplice complicità nelle condizioni descritte è a dir poco fuori argomento.
h)
Non è destinata a miglior sorte nemmeno la desistenza che il ricorrente fa valere per avere rinunciato a continuare gli atti preparatori del secondo traffico almeno sette mesi prima che la riparazione del panfilo fosse ultimata. La Corte di assise ha ritenuto che, abbandonando l'impresa solo perché si sentiva sorvegliato e temeva di essere scoperto, il ricorrente non abbia dato prova di desistenza spontanea (sentenza, pag. 78 consid. 41.2). L'opinione è conforme alla dottrina dominante. Alla desistenza da “preparativi” nel senso dell'art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup si applicano, per analogia, i principi degli art. 21 cpv. 2 e 260
bis
cpv. 2 CP (
Albrecht
, op. cit., n. 116 in fine ad art. 19 LStup;
Corboz
, Les principales infractions en droit suisse, vol. II, Berna 2002, pag. 792 n. 125). Siffatti preparativi, invero, non si distinguono apprezzabilmente da tentativi (
Albrecht,
op. cit., n. 115 e 116 in principio ad art. 19 LStup;
Corboz
, op. cit., pag. 772 n. 45 e pag. 773 n. 49). Il giudice può esentare da ogni pena, di conseguenza, l'autore che desista “spontaneamente”. Chi rinuncia a proseguire un preparativo solo perché teme di essere scoperto non si ritiene recedere spontaneamente (
Rehberg/Donatsch
, Strafrecht I, 7a edizione, pag. 111 a metà con nota 119;
Trechsel
, op. cit., n. 9 ad art. 260
bis
CP, ove si menziona anche l'opinione dissenziente di
Schubarth
). Il ricorrente non può dunque contare sul privilegio di simile attenuante.
i)
Nella misura in cui il ricorrente sembra contestare l'aggravante dell'art. 19 n. 2 lett. b LStup, ossia di avere agito come “membro di una banda costituitasi per esercitare il traffico illecito di stupefacenti”, la questione è senza portata pratica, La pena della reclusione o della detenzione non inferiore a un anno, cui può essere cumulata la multa fino a un milione di franchi, si giustifica già – come ha rilevato la Corte di assise – per l'aggravante dell'art. 19 n. 2 lett. a LStup. Chi partecipa a trasporti o a preparativi per trasporti da una tonnellata di cocaina deve sapere con ogni evidenza che una simile quantità di stupefacente “può mettere in pericolo la salute di parecchie persone”. Non giova quindi interrogarsi oltre sull'aggravante della “banda”, la Corte di assise avendo sì ravvisato nei due traffici gli estremi dell'art. 19 n. 2 lett. b LStup (sentenza, pag. 69 consid. 38), ma per finire non avendo più evocato nella commisurazione della pena l'ulteriore pericolosità della banda in sé, vista come associazione a delinquere che corrobora psichicamente e fisicamente gli appartenenti, consentendo loro di superare le remore e impedendo loro di desistere (v.
Trechsel
, n. 16 in principio ad art. 139 CP). La controversia sull'aggravante dell'art. 19 n. 2 lett. b LStup si risolve perciò in una mera questione teorica.
l)
Il ricorrente si duole altresì – come detto – di una pena eccessiva, a maggior ragione considerata l'attenuante del sincero pentimento. Così argomentando, egli disconosce però che nella commisurazione della pena (art. 63 CP) il giudice del merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove la sanzione si ponga fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all'art. 63 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest'ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare un abuso del potere di apprezzamento (DTF 127 IV 10 consid. 2 pag. 19, 123 IV 49 consid. 2a pag. 51, 150 consid. 2a pag. 152 con richiami; cfr. anche 123 IV 107 consid. 1 pag. 109). Quanto ai criteri determinanti per la fissazione della pena, essi figurano in DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289. Il ricorrente definisce “eccessiva” la pena inflittagli, ma non pretende ch'essa esorbiti dal quadro legale, si fondi su criteri estranei all'art. 63 CP, trascuri elementi di valutazione dettati da quest'ultima norma o appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da palesare un abuso di apprezzamento. Egli non spiega nemmeno perché l'attenuante riconosciutagli, che gli ha comportato una riduzione di pena attorno ai tre anni (sentenza, pag. 86 in fondo), non sarebbe stata adeguatamente considerata. Insufficientemente motivato, su questo punto il ricorso si dimostra finanche irricevibile.
11.
Da ultimo il ricorrente afferma, sempre in diritto, che la Corte di assise ha ignorato la sua tesi difensiva, stando alla quale la scoperta del secondo traffico (il quale ha poi permesso di risalire al primo) è frutto di un'inchiesta mascherata da parte della polizia americana. Di ciò egli avrebbe dovuto beneficiare con una riduzione di pena, come prevede la giurisprudenza in materia (memoriale, pag. 80, punto 5). Gli unici due elementi dai quali il ricorrente desume l'esistenza di un agente infiltrato non hanno tuttavia consistenza. Il fatto che _, titolare del cantiere nautico in cui la _ era stata portata a tre riprese per riparazioni tra il 1996 e il 1997 _ abbia rifiutato di rispondere quando gli inquirenti volevano sapere se _ gli avesse precisato quale uso intendesse fare dell'imbarcazione (act. 455, rubrica D, pag. 3 in basso) non indizia alcunché, se non il desiderio dello stesso _ di rimanere estraneo alla vicenda. Che agli inquirenti americani sia giunta nel febbraio del 1997 la notizia secondo cui _ andava dicendo di voler vendere il panfilo per un traffico di stupefacenti (act. 1, pag. 2) ancora non significa che la polizia abbia fatto capo a infiltrati. Tanto meno ove si consideri che _ non si era dichiarato scontento della defezione del ricorrente, il quale a suo avviso “era uno che parlava troppo” (sentenza, pag. 79 nel mezzo). Anche su quest'ultimo punto il ricorso appalesa perciò la sua inconsistenza.
II. Sul ricorso di _
12.
Il ricorrente si diffonde, dopo alcune osservazioni preliminari (memoriale, parte I e II), in una sua propria cronologia dei fatti “pertinenti ed accertati in sede di istruttoria, rispettivamente in sede dibattimentale”, dipartendosi dagli addebiti a lui mossi nell'atto di accusa (parte III, da pag. 3 a pag. 32). L'approccio metodologico non è corretto, ove appena si pensi che la Corte di cassazione e di revisione penale non è una giurisdizione di appello munita di pieno potere cognitivo. Anzi, essa è vincolata agli accertamenti di fatto del giudice del merito (art. 295 cpv. 1 seconda frase CPP), tranne in caso di arbitrio (sopra, consid. 1). Nella misura in cui pretende di ripercorrere i fatti a modo suo, narrando la vicenda dal proprio punto di vista e scostandosi dagli accertamenti della Corte di assise senza motivare l'arbitrio in cui questa sarebbe incorsa, l'interessato si esaurisce in argomentazioni appellatorie, improponibili in un ricorso per cassazione. Ricevibili nel quadro di un tale esposto sono unicamente i passaggi in cui singoli accertamenti della sentenza impugnata siano criticati non solo perché erronei, ma perché inficiati di arbitrio, sempre che dalla motivazione del ricorso risulti l'errore qualificato in cui sarebbe caduta la Corte.
a)
Con riferimento al primo traffico del 1990/91 il ricorrente censura di arbitrio la conclusione della Corte di assise, stando alla quale _ gli ha proposto di partecipare al noto trasporto di stupefacente raggiungendolo per telefono a _ o al domicilio di _ (sentenza, pag. 33 consid. 13). Egli sostiene che in realtà la proposta gli è stata fatta non in Svizzera per telefono, bensì a Miami di persona (ricorso, pag. 10 in basso e 11 in alto). Se non che, gli stessi verbali istruttori invocati dal ricorrente sono menzionati anche dalla Corte di assise, la quale però ha creduto solo a quanto il ricorrente ha dichiarato al Procuratore pubblico dopo il confronto con _, e cioè che la proposta gli era pervenuta telefonicamente (sentenza, pag. 33 in alto). La Corte ne ha dedotto che a quel momento egli poteva solo trovarsi a casa _ o sul posto di lavoro _. Il ricorrente contesta, ma non spiega come possa egli avere raggiunto la Florida l'8 gennaio 1990 (memoriale, pag. 10 in alto; rapporto di polizia, all. 82, rubrica arancione) per incontrare _ – e perché abbia affrontato la trasferta – senza avere prima conferito con lui almeno una volta, da casa o dal posto di lavoro. Nulla induce quindi a ritenere arbitraria la deduzione della Corte di assise.
b)
Arbitrario sarebbe inoltre, secondo il ricorrente, accertare che nell'autunno del 1991 egli ha rimesso a _, per i servigi resi, la somma di US$ 80 000 in occasione di un incontro al proprio domicilio di _ (memoriale, pag. 15 a metà). Mal si comprende tuttavia perché tale accertamento dovrebbe essere arbitrario, lo stesso ricorrente avendo ammesso in modo esplicito tale circostanza davanti al Procuratore pubblico, pur senza essere in grado di rammentare con precisione il luogo del Cantone Ticino in cui è avvenuta la consegna (sentenza, pag. 54 consid. 24). Che il denaro provenisse da _ figura – contrariamente a quanto egli assume – nel medesimo considerando della sentenza impugnata (pag. 54, terza riga in alto). Inconsistente, la censura di arbitrio non merita perciò altra disamina.
c)
Alla Corte di assise il ricorrente rimprovera arbitrio per avere accertato “allo scopo di predisporre la [sua] non credibilità” ch'egli si è recato un'ultima volta in Venezuela allo scopo di ottenere (senza esito) altro denaro da _ prima – anziché dopo – avere cominciato a ripristinare i ricettacoli occulti del panfilo. Egli sottolinea che il viaggio in Venezuela è avvenuto fra il 6 e l'8 gennaio 1997, mentre la parziale e difficile rimozione della schiuma sintetica con cui erano stati chiusi i nascondigli è avvenuta fra 13 e il 18 febbraio 1997 (memoriale, pag. 22 a metà). In realtà i termini malevoli in cui il ricorrente formula la critica nulla sussidiano. La Corte ha accertato in effetti che il ricorrente e _ hanno cominciato a liberare gli interstizi dello scafo nell'autunno del 1996 (seconda trasferta in Florida: sentenza, pag. 59 consid. 30), continuando ancora nel febbraio del 1997 (terza trasferta: loc. cit., pag. 61). Che il viaggio in Venezuela sia intervenuto un mese prima e non un mese dopo la seconda tappa dei lavori poco giova, il ricorrente ammettendo di avere abbandonato il tutto solo più tardi, nell'aprile del 1997 (memoriale, pag. 25 in alto). Quanto al fatto ch'egli non prevedesse di dover trasportare quasi due tonnellate di cocaina, l'argomentazione cade nel vuoto, giacché la Corte di assise non ha accertato ch'egli – né _ del resto – si aspettassero un carico superiore a quello del primo traffico (1000 kg: sentenza, pag. 67 consid. 34 in fine).
d)
Il ricorrente si duole che “sorprendentemente” la Corte di assise non abbia accertato la sua assoluta e definitiva desistenza – al più tardi – a decorrere dal 4 aprile 1997, allorché il panfilo era ancora improprio alla navigazione, e che abbia trascurato di constatare l'intervento di _ in sostituzione di lui (memoriale, pag. 25). La tesi è ai limiti del pretesto. La Corte di assise ha accertato esplicitamente che “a partire dal mese di aprile del 1997 _ (...) effettivamente rinuncia a proseguire nella preparazione del trasporto, limitandosi a mantenere contatti con il _, circostanza, a mente della Corte, priva di reale valenza penale” (sentenza, pag. 62 in fondo). Né la Corte ha minimamente accertato che nell'aprile del 1997 la _ fosse in qualche modo utilizzabile. Quanto a _, la sua presenza in sostituzione del ricorrente è accertata chiaramente a pag. 64 in alto. Soffermarsi oltre su censure simili sarebbe attardarsi invano.
e)
A parere del ricorrente è arbitrario addossargli la responsabilità di avere intrapreso alcunché dopo la sua defezione, tanto più che nell'agosto del 1997 il trasporto di cocaina ancora non era definito ed era “assolutamente privo (...) di termini” (memoriale, pag. 26 in alto). Anche tale argomentazione è inconferente, giacché la Corte di assise non ha più nulla addebitato al ricorrente dopo l'aprile del 1997. Al contrario: ha accertato senza equivoco che i fornitori hanno stabilito direttamente con _ i termini del trasporto (sentenza, pag. 64 consid. 34). Ancora una volta il ricorrente muove alla Corte di assise critiche per torti riconducibili alle sue sole impressioni.
f)
Infine il ricorrente sottolinea – per quel che è delle doglianze più o meno ricollegabili al divieto dell'arbitrio – che solo nell'agosto del 1997 _, _, _ e i fornitori hanno determinato il genere e la quantità dello stupefacente che sarebbe stato oggetto del traffico, come pure i compensi che sarebbero spettati ai vari partecipanti, individuando i componenti dell'equipaggio, le rotte da seguire e i codici di comunicazione da adottare. Arbitrariamente perciò la Corte “si prova nel recuperare, non importa come, la responsabilità del _ attribuendogli l'intenzione di compiere, comunque, atti preparativi per 1000 kg” (memoriale, pag. 30 e 31 in alto). Ora, per quel che è degli accertamenti appena citati, la sentenza non contiene alcunché di diverso, nel senso che in nessun punto del giudizio la Corte di assise ha imputato al ricorrente di avere contribuito a precisare i termini o le modalità del trasporto. Per quel che delle sue responsabilità, il ricorrente cerca piuttosto egli medesimo, “non importa come”, di minimizzarle. Che al momento in cui egli ha desistito dall'impresa il traffico non fosse ancora stato pianificato nei particolari non deve far dimenticare in effetti ch'egli ben sapeva fin dall'inizio – per sua stessa ammissione (sentenza, pag. 55) – a quale trasporto avrebbe partecipato, in specie quale stupefacente avrebbe trasportato (lo stesso del primo traffico), qual era l'imbarcazione da usare (sempre la _) e con che gente avrebbe avuto a che fare (i trafficanti colombiani che la prima volta gli avevano corrisposto US$ 80 000 invece degli 1.4 milioni promessi). Sotto il profilo dell'arbitrio, in definitiva, le tesi del ricorrente risultano destinate all'insuccesso.
13.
In diritto il ricorrente riprende a evocare la propria versione dei fatti, ricominciando dagli anni ottanta (parte IV, punto 6.1.1) per passare poi al primo traffico del 1990/91 (punto 6.1.2) e al secondo del 1995/97 (punto 6.1.3). Ancora una volta però l'approccio metodologico non è corretto. Il potere cognitivo della Corte di cassazione e di revisione penale è, in diritto, quello di verificare se la legge sia stata giustamente applicata ai fatti accertati senza arbitrio in prima sede. Invano si cercherebbe però nei citati punti del memoriale una qualsiasi censura sull'applicazione del diritto. In realtà il ricorrente insiste nel ritenersi legittimato a rimettere in discussione l'intero complesso dei fatti constatati in modo vincolante dal giudice di merito solo perché critica di arbitrio la sentenza impugnata sull'uno o sull'altro punto. Come si è spiegato dianzi, tuttavia, ciò non è ammissibile. Fondato su questioni di fatto, al proposito il ricorso può dunque essere esaminato – una volta di più – nella sola misura in cui singoli accertamenti della sentenza impugnata siano criticati di arbitrio, sempre che dalla motivazione risulti l'errore qualificato in cui sarebbe trascesa la Corte.
a)
Arbitraria sarebbe, secondo il ricorrente, la conclusione della Corte di assise stando alla quale egli avrebbe trasportato cocaina con la _ già nel 1989 nell'ambito di un traffico pressoché identico a quello del 1990/91 contemplato nell'atto d'accusa (memoriale, pag. 35 in alto). La Corte di assise tuttavia ha spiegato con chiarezza che quel trasporto non poteva ritenersi di marijuana (come pretendeva l'imputato), il compenso di US$ 350 000 essendo irragionevole per un traffico di droga leggera (sentenza, pag. 29 consid. 10). Il ricorrente asserisce che tale retribuzione si giustificava perché la relazione diretta tra lui e _ aveva fatto venir meno “un anello intermediario”, cioè _, “che nei precedenti viaggi aveva con tutta evidenza un suo personale tornaconto” (memoriale, pag. 34). Oltre che appellatoria, l'affermazione è inveritiera, ove appena si pensi che – secondo le dichiarazioni dello stesso ricorrente – il traffico del 1989 è stato eseguito proprio su incarico di _ (sentenza, pag. 26 consid. 9), il quale non è quindi stato – per usare i termini del ricorrente – “saltato via”. Prospettare un “arbitrio evidente” in condizioni del genere sfiora la temerarietà.
b)
Il lamentato arbitrio in cui la Corte di assise si sarebbe sospinta accertando che all'inizio del 1990 _ gli ha proposto di partecipare al noto trasporto di stupefacente raggiungendolo per telefono a _ o al domicilio di _ (memoriale, pag. 35) è gia stato escluso (sopra, consid. 12a). Al riguardo non serve ripetersi. Quanto al fatto che il ricorrente abbia interpellato _ a _ o a _ nel preteso intento di contrabbandare pietre preziose (memoriale, pag. 36 in alto), ciò figura a pag. 42 in alto della sentenza impugnata, ove la Corte di assise – nel dubbio – non ha scartato siffatta ipotesi (per tacere del fatto che, secondo lo stesso ricorrente, l'offerta si riferiva non a pietre preziose, bensì a marijuana: sentenza, pag. 36). Il noto pagamento di US$ 80 000 da parte di _, infine (memoriale, pag. 36 in basso), è pacificamente avvenuto a Miami, né la Corte di assise ha accertato che – per avventura – _ abbia mai messo piede in Svizzera.
c)
Il ricorrente fa notare che all'inizio del 1997 _ ha consegnato da sé solo il panfilo alla marina di _ per riparazioni, senza il suo ausilio (memoriale, pag. 37 verso l'alto). Il particolare è di ben poco conto e attiene al mero riparto dei ruoli con _. Per il resto all'inizio del 1997 il ricorrente era ancora pienamente attivo, tant'è che ai primi di gennaio del 1997 si è recato in Venezuela per incontrare _ e che il 27 gennaio successivo ha aperto un conto personale presso la _ per ricevere gli accrediti di _ (sentenza, pag. 61 consid. 31). L'altra doglianza del ricorrente, relativa al periodo in cui egli ha compiuto la trasferta in Venezuela (prima della parziale svuotatura dei ricettacoli nello scafo: memoriale, pag. 37 a metà) è già stata trattata (sopra, consid. 12c), come pure quella della sua consapevolezza circa la portata del traffico cui avrebbe partecipato (sopra, consid. 12f). Da ultimo il ricorrente definisce “incredibile” che la Corte di assise abbia trascurato quanto _ ha dichiarato in via rogatoriale sul conto di _, ovvero che durante l'incontro con “El Jefe” in Colombia (agosto del 1997), cui egli era presente, si era parlato esplicitamente di un traffico di due tonnellate di cocaina e di un compenso per _ e lo stesso _ di un milione di dollari ciascuno (memoriale, pag. 38 in fondo). Mal si comprende tuttavia quale beneficio l'interessato miri a trarre da un simile accertamento. Nella misura in cui sembra pretendere, invero, che nessuna seria cognizione del traffico può essergli imputata fino all'aprile del 1997 (momento della sua desistenza), l'argomentazione è già stata giudicata inconsistente (sopra, consid. 12f).
14.
In diritto – e questa volta realmente sotto il profilo giuridico – il ricorrente contesta in primo luogo che la punibilità dei traffici incriminati soggiaccia agli art. 3 cpv. 1 e 7 cpv. 1 CP, solo l'art. 19 n. 4 LStup essendo a suo avviso applicabile. Se non che, per quanto riguarda il traffico del 1990/91 egli torna a ridiscutere l'accertamento secondo cui _ gli ha proposto di partecipare al trasporto telefonandogli nel Ticino (memoriale, pag. 39 a 43). Su tale questione
di fatto
non occorre tornare (sopra, consid. 12a). Egli contesta anche la rilevanza
giuridica
della telefonata da egli fatta nel 1990 a _, che si trovava a _, e del versamento a _ di US$ 80 000 nel 1991 (memoriale, pag. 43 a 45), ma a torto. Non fa dubbio in effetti che la proposta di partecipare a un trasporto di cocaina, accettata e per di più adempiuta dal destinatario, costituisca un preparativo punibile nel senso dell'art. 19 cpv. 1 n. 6 LStup (sopra, consid. 10e). E alla stessa stregua degli atti preparatori punibili vanno considerati gli atti compiuti nella fase conclusiva dell'illecito (sopra, consid. 10a a 10c). Nell'ambito del primo traffico si può anche trascurare la telefonata del ricorrente a _, che potrebbe avere avuto per oggetto un contrabbando di pietre preziose (sopra, consid. 10d). Rimane il fatto però che il ricorrente ha accettato nel Ticino la proposta telefonica di _ (sopra, consid. 12a) e nel Ticino ha corrisposto a _ US$ 80 000, nell'autunno del 1991, per i servigi resi (sopra, consid. 12b). Nel quadro del secondo traffico egli ha accettato, ancora nel Ticino, la proposta di _ e ha immediatamente telefonato a _, che si trovava a _ per proporgli di collaborare nuovamente. Ora, gli atti preparatori punibili contano come atti di partecipazione al reato (sopra, consid. 10a a 10c): comportano dunque la punibilità dell'intero illecito come se questo fosse stato commesso in Svizzera. E alla stessa stregua degli atti preparatori punibili vanno considerati gli atti compiuti nella fase conclusiva dell'illecito, come la corresponsione di US$ 80 000 nel Ticino a _, nell'autunno del 1991, per i servigi resi nel primo traffico (sopra, consid. 12b). Che il ricorrente avesse incassato la somma a Miami da _ poco importa, il denaro essendo stato da lui rimesso nelle mani del destinatario in Svizzera. L'applicabilità dell'art. 3 cpv. 1 CP, tanto al primo quanto al secondo traffico non fa pertanto dubbio.
Il ricorrente insiste nel sostenere che atti preparatori o atti nella fase conclusiva del reato non bastano a legittimare l'applicabilità degli art. 3 cpv. 1 e 7 cpv. 1 CP (memoriale, pag. 45 a 50). Egli disconosce però che nella fattispecie si trattava di atti preparatori punibili (art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup), non di atti preparatori qualsiasi. Quanto agli atti nella fase conclusiva del reato (
Beendigung
,
épuisement
), l'opinione dominante è quella già riassunta (sopra, consid. 10c). Infine, la teoria accennata dal ricorrente (pag. 49 a metà) – ma anche dalla Corte di assise (sentenza, pag. 70 in fondo) – sui reati di “messa in pericolo astratta” riguarda esclusivamente l'art. 7 cpv. 1 CP, secondo cui si ritiene commesso in Svizzera anche un crimine o un delitto perpetrato all'estero, ma di cui in Svizzera sia verificato “l'evento”, cioè il risultato. Tale norma non ha portata propria nel caso specifico, ove di entrambi i traffici incriminati sono stati commessi, in Svizzera, preparativi o atti conclusivi. Sapere se in Svizzera si sia prodotto anche parte dell'“evento” o se quest'ultimo si sia verificato esclusivamente su territorio estero, dove il reato ha trovato consumazione (sul problema:
Rehberg/Donatsch
, op. cit., pag. 42 a metà), nulla toglie all'applicabilità dell'art. 3 cpv. 1 CP.
15.
Ancora in diritto il ricorrente ribadisce l'inapplicabilità del diritto svizzero con riferimento a un parere giuridico rilasciato il 4 gennaio 2002 dal prof. _ al precedente difensore di _ (in una cartellina trasparente rosa di atti non rubricati prodotti al dibattimento), secondo cui nella fattispecie non sussistono atti criminosi perpetrati in Svizzera, sicché ai due traffici di cocaina si applicherebbe l'art. 19 n. 4 LStup che disciplina la punibilità di reati commessi all'estero (memoriale, pag. 51). A prescindere dal fatto però che – come si evince dal parere medesimo – l'opinione predetta si fonda solo sul rapporto di polizia, il referto non prende posizione sui preparativi punibili né sull'atto conclusivo accertato dalla Corte di assise, ai quali nemmeno fa allusione. Non è pertanto di utilità ai fini del giudizio. Il ricorrente soggiunge che, contrariamente a quanto reputa la Corte di assise (sentenza, pag. 72 consid. 39.3), la doppia punibilità prevista dall'art. 19 n. 4 LStup comprende anche la prescrizione. E siccome il primo traffico risulta prescritto sia in virtù del diritto federale degli Stati Uniti sia per le leggi dello Stato della Florida, da tale capo d'imputazione egli dev'essere prosciolto (memoriale, pag. 51 a 54). Come si è appena visto, nondimeno, l'art. 19 n. 4 LStup non è applicabile né all'uno né all'altro traffico, retti entrambi dall'art. 3 cpv. 1 CP. L'assunto è di conseguenza infruttuoso.
Con riferimento al secondo traffico (memoriale, pag. 54 segg.) il ricorrente sembra contestare che la proposta di _ gli sia giunta nel Cantone Ticino (pag. 56 a metà). Al proposito egli non si confronta però con la motivazione della Corte di assise (sentenza, pag. 54 consid. 25 in principio), né tanto meno la censura d'arbitrio, sicché l'argomentazione risulta d'acchito improponibile. Per il resto egli ribadisce che la telefonata di _ e quella sua a _ sono semplici atti preparatori, senza rilievo per l'applicazione dell'art. 3 cpv. 1 CP (memoriale, pag. 56 e 57), ma dimentica che tali preparativi erano
punibili
, onde l'inconcludenza dell'assunto (sopra, consid. 10a). A giusto titolo il ricorrente ammette invece – non senza aggravare la propria situazione – che l'apertura da parte sua, nel gennaio del 1997, di un conto personale presso la _ per ricevere da _ il denaro necessario alle riparazioni del panfilo “costituisce certo un fatto, quantomeno in apparenza, compromettente dal profilo dell'aggancio di una competenza territoriale autonoma delle autorità svizzere” (memoriale, pag. 57 a metà). Egli cerca invero di sminuire la portata di ciò, soggiungendo che il denaro pervenuto su tale conto è poi stato girato a _ in Florida, ma a prescindere dalla circostanza che dei US$ 59 000 accreditati su quel conto non più di US$ 40 000 risultano essere stati riversati a _ (sentenza, pag. 61 verso il basso), la riscossione in Svizzera di fondi destinati al trasporto di cocaina configura gia di per sé un ulteriore elemento preparatorio del reato, che suffraga la punibilità dell'illecito secondo l'art. 3 cpv. 1 CP. Gli ulteriori accenni del ricorrente all'atto di accusa (memoriale, pag. 57 in basso) sono fuori tema, impugnata essendo la sentenza di merito, non l'atto di accusa. Anche i riferimenti alla punibilità secondo il diritto colombiano e quello americano (memoriale, pag. 58 e 59) non giovano, l'art. 19 n. 4 LStup non essendo applicabile alla fattispecie.
16.
Sostiene il ricorrente che, fosse pur data la punibilità secondo l'art. 3 cpv. 1 CP dei traffici incriminati, la Corte di assise “ha comunque violato il diritto sostanziale (...) nella misura in cui ha ritenuto il ricorrente punibile di atti preparatori per un traffico di cocaina di 1000 kg (1000 kg in meno, cioè, rispetto all'ipotesi accusatoria)” (memoriale, pag. 59 in basso). La doglianza non manca di stupire: intanto non è dato a divedere quale norma del diritto sostanziale avrebbe violato la Corte di assise; in secondo luogo mal si comprende quale beneficio potrebbe mai attendersi il ricorrente da un simile rilievo. Sempre per quanto si riferisce al secondo traffico il ricorrente assevera che, nell'ipotesi in cui fosse applicabile l'art. 3 cpv. 1 CP, non si ravviserebbero in ogni modo atti preparatori punibili (memoriale, pag. 60 segg.). Ora, si può convenire con il ricorrente che atti preparatori punibili presuppongono – in analogia a quanto prevede l'art. 260
bis
cpv. 1 CP per altri reati – una pluralità di azioni concrete tecniche o organizzative, rivolte al medesimo fine, la cui natura ed estensione mostrino come l'autore si accinga a commettere uno dei reati previsti dall'art. 19 n. 1 LStup. Invano egli tenta però di far passare le sue attività nel quadro del secondo traffico come atti che non configurano preparativi nel senso dell'art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup.
È appena il caso di ricordare che, secondo i vincolanti accertamenti della sentenza impugnata, già il primo traffico di cocaina rispondeva a “una collaudata procedura” che abbisognava solo di concordare gli appuntamenti, rendere il panfilo atto alla navigazione e trovare un'abitazione per scaricare la merce (sentenza, pag. 45 in alto). Il ricorrente già conosceva _, che lo aveva rimunerato per un precedente traffico di cocaina nel 1989 (sentenza, pag. 29 a metà), conosceva il panfilo (già usato per il traffico del 1989) e conosceva i luoghi dell'operazione (gli stessi del traffico precedente). Tali accertamenti valgono a maggior ragione per il secondo traffico, nell'ambito del quale il ricorrente già conosceva anche _, che lo aveva affiancato nel primo trasporto. Nella misura in cui sostiene che quanto egli ha compiuto tra il 1995 e il 1997 non connota preparativi a norma dell'art. 19 n. 1 cpv. 6 LStup, il ricorrente non può quindi essere seguito nemmeno da lungi. Egli medesimo ha ingaggiato _, si è recato in Venezuela e in Colombia, ha soggiornato tre volte in Florida, ha ricevuto denaro a più riprese per le riparazioni del panfilo e ha materialmente collaborato all'inizio dei lavori (sentenza, pag. 60 in alto). Che al momento della sua desistenza – non certo preventivata, ma dovuta a motivi contingenti (sentenza, pag. 81 in alto) – non fosse ancora stata definita con precisione la quantità di cocaina da trasportare, i fornitori non disponessero ancora dello stupefacente, i lavori di riparazione fossero ancora in corso poco importa. Quanto il ricorrente egli ha fatto concretamente si iscrive nel contesto di un disegno criminoso chiaro e sperimentato, sorretto da misure tecnico-organizzative la cui natura ed estensione non lascia dubbi sull'intenzione di attuare un ulteriore trasporto di cocaina in violazione dell'art. 19 n. 1 cpv. 3 LStup.
Per quanto riguarda l'aspetto soggettivo degli atti preparatori, il ricorrente asserisce che non può essergli addebitata l'intenzione di trasportare più di 150 kg di cocaina poiché al momento della sua desistenza i ricettacoli del panfilo erano stati liberati solo in misura ridotta (memoriale, pag. 64 in alto). La tesi non è seria, l'intenzione accertata del soggetto essendo quella di partecipare a un traffico analogo al precedente, di 1000 kg (sentenza, pag. 67 in alto). Il ricorrente reitera nell'affermare che la sua disponibilità al trasporto era in realtà simulata (memoriale, pag. 64 in basso). La Corte di assise, valutando diffusamente gli indizi, ha escluso siffatta ipotesi (sentenza, pag. 76 consid. 40.2). Ora, quanto l'autore di un reato sa, vuole o accetta è un dato di fatto (DTF 125 IV 242 consid. 3c pag. 252, 119 IV 1 consid. 5a pag. 3, 110 IV 20 consid. 2 pag. 22, 74 consid. 1c pag. 77 con rinvii). Il relativo apprezzamento quindi può essere criticato solo per arbitrio (sopra, consid. 1). L'interessato ribadisce le proprie giustificazioni, ma non pretende che l'apprezzamento probatorio della Corte di assise sia viziato a tal punto (memoriale, pag. 65 a 68). Tanto meno spiega perché tale convincimento sarebbe, se non arbitrario, quanto meno palesemente insostenibile. Del tutto appellatoria, la sua argomentazione non è dunque ricevibile in un ricorso per cassazione.
17.
Come _, il ricorrente rivendica l'attenuante della desistenza spontanea, affermando di avere rinunciato a continuare nel 1997 “per motivi interni”, perché – come _ – considerava ormai la situazione troppo rischiosa e perché la speranza di ricuperare quanto non aveva incassato nel primo traffico “non sarebbe stata soddisfatta”. La sua uscita di scena inoltre ha ostacolato i trafficanti nel raggiungimento del loro scopo, quanto meno fino alla comparsa di _ (memoriale, pag. 69 a 72). La Corte di assise, come detto, ha accertato invece che il ricorrente ha rinunciato a proseguire l'impresa perché insoddisfatto del trattamento economico riservatogli dai fornitori colombiani, con i quali aveva avuto anche un litigio (sentenza, pag. 79 consid. 41.3). Ora, a prescindere dal fatto che l'interessato non censura di arbitrio l'accertamento citato, quand'anche ci si fondasse sulle tesi esposte nel ricorso gli estremi di una desistenza spontanea non risulterebbero dati. Intanto, come noto, non si ritiene desistere spontaneamente chi rinuncia a continuare solo per i rischi insiti nell'operazione (sopra, consid. 10h). Seppure avesse rinunciato a collaborare perché considerava la situazione troppo rischiosa, il ricorrente non può dunque invocare una desistenza spontanea. In secondo luogo non si ravvisa desistenza spontanea nemmeno laddove l'autore lasci cadere i suoi propositi perché convinto ormai di non poter raggiungere il proprio scopo (DTF 115 IV 121 consid. 2h pag. 129). Spontanea è solo la desistenza, in sintesi, di chi recede dall'intento pur persuaso che, volendo, potrebbe ancora raggiungere l'obiettivo; non spontanea è la desistenza di chi si rende conto di non poter raggiungere l'obiettivo nemmeno volendo (
Rehberg/Donatsch
, op. cit., pag. 111). Consapevole di non poter ricuperare quanto gli era stato promesso per il primo traffico, il ricorrente ha – a suo stesso dire – abbandonato l'impresa. Ciò non configura desistenza spontanea.
18.
Il ricorrente insorge per finire contro l'entità della pena inflittagli, lamentando una disparità di trattamento rispetto alla condanna irrogata a _. Egli ricorda che dopo la sua defezione _ ha compiuto almeno otto trasferte a Miami, si è recato a Bogotá da _, ha ricevuto da quest'ultimo denaro in almeno dieci occasioni, ha reiteratamente incontrato _ anche dopo di allora, ha raggiunto il Venezuela per conoscere _ e poi la Colombia, ha concordato là i particolari del trasporto, ha ripristinato interamente i nascondigli dello scafo e ha attivamente partecipato alla messa a punto del panfilo, consapevole per di più di trafficare non 1000 kg, ma quasi 2000 kg di cocaina (memoriale, pag. 73 a 77). Ora, il potere cognitivo della Corte di cassazione e di revisione penale in materia di commisurazione della pena è già stato ricordato (consid. 10 in fine). In tale ambito un confronto fra due o più casi concreti suole pertanto essere infuttuoso, diverse essendo in ognuno di essi le circostanze oggettive e soggettive che il giudice è tenuto a considerare (DTF 116 IV 292 pag. 294 in alto). Inoltre una certa disuguaglianza tra una condanna e l'altra si spiega normalmente con il principio dell'individualizzazione e non denota per ciò solo un abuso di apprezzamento. Ne segue che questa Corte interviene unicamente sulla commisurazione della pena – come il Tribunale federale – ove il risultato cui è pervenuto il giudice di merito appaia urtante, per rapporto agli argomenti addotti o a precedenti analoghi. Nondimeno, qualora più imputati compaiano davanti allo stesso giudice per accuse fondate sui medesimi fatti, un'eventuale disparità di trattamento deve trovare giustificazione in motivi pertinenti (
Corboz
, La motivation de la peine, in: ZBJV 131/1995 pag. 13 in alto).
Nella fattispecie la questione sarebbe pertanto di sapere se, infliggendo 14 anni di reclusione e 12 a _, la Corte di assise abbia trattato diversamente i due imputati senza il conforto di ragioni pertinenti. Quanto il ricorrente fa valere nel suo memoriale, tuttavia, risulta già di primo acchito inidoneo allo scopo. Le sue allegazioni si limitano in effetti al secondo traffico di cocaina, allorché la stessa Corte di assise ha riconosciuto che “nella seconda operazione egli è stato meno attivo di _ ” (sentenza, pag. 84 verso il basso). Sulla pena a suo carico però ha influito pesantemente anche il primo traffico, nell'ambito del quale egli non contesta di essere stato più attivo di _, così come ha inciso un decennio di vita anteriore dedito al traffico di droga (ciò che non era il caso per _: sentenza, pag. 85 consid. 44 settima riga) e il fatto di avere praticamente introdotto _ nel mondo del crimine (loc. cit., pag. 85 in fondo). _ ha beneficiato inoltre, per rapporto al ricorrente, di attenuanti generiche (la giovane età al momento in cui ha cominciato a delinquere: loc. cit., pag. 85 dodicesima riga) e specifiche (il sincero pentimento: loc. cit., pag. 86). Perché la commisurazione della pena sarebbe il risultato di un abuso del potere di apprezzamento anche tenendo conto dei fattori testé enunciati il ricorrente non spiega. Anche su questo punto, in definitiva, il ricorso dimostra tutta la sua inutile verbosità.
III. Sul ricorso di _
19.
Dopo una lunga premessa (memoriale, pag. 1 a 9) nella quale invoca come titolo di cassazione – oltre all'art. 288 lett. a CPP –anche l'art. 288 lett. c CPP (arbitrio nell'accertamento dei fatti), il ricorrente riunisce per finire tutte le sue censure sotto l'unico titolo di “errata applicazione del diritto quo al luogo di commissione del reato” (pag. 10 segg.). Se non che, già poche righe sotto egli si prevale del divieto dell'arbitrio. In effetti, la prima critica alla sentenza impugnata verte sulla telefonata che egli ha fatto a _ all'inizio del 1990, definita arbitraria perché nulla suffragherebbe l'ipotesi stando alla quale _ si trovava in quel momento a _ o a _. Egli sottolinea che nel gennaio del 1990 _ si trovava con lui a Miami e che, accertando la presenza di _ in Svizzera, la Corte avrebbe dato prova di un chiaro “atteggiamento persecutorio” nei suoi confronti (memoriale, pag. 10 lett. b). L'illazione è a dir poco affrettata, ove appena si consideri che nemmeno il ricorrente cerca di spiegare come _ abbia potuto raggiungerlo in Florida – e perché abbia affrontato la trasferta – nel gennaio del 1990 senza avere parlato con lui nemmeno una volta. Su questo punto il ricorrente nulla dice più di _ (sopra, consid. 12a), né contesta di avere interpellato _ per telefono o mette in discussione il fatto che all'inizio del 1990 _ abitava con la madre a _ e lavorava a _. La conclusione cui è giunta la Corte di assise non può quindi essere ritenuta arbitraria.
20.
Il ricorrente definisce arbitrario anche l'accertamento secondo cui nel 1990 _ ha incontrato _ a _ per proporgli un trasporto di stupefacenti, mentre _ ha solo telefonato a _, che si trovava a _, per prospettargli un contrabbando di pietre preziose (memoriale, pag. 12 lett. c). Esposta per la verità in modo confuso e appellatorio, la critica è – come quella analoga di _ (sopra, consid. 3) – senza rilievo. Nel dubbio, in effetti, la stessa Corte di assise non ha escluso che in questa prima fase dell'operazione a _ fosse stato adombrato un mero contrabbando di pietre preziose e che solo in seguito costui abbia scoperto trattarsi di stupefacenti (sentenza, pag. 42 in alto; v. anche sopra, consid. 7 in fine). Come si è visto, di conseguenza, non si ravvisano atti preparatori di _ in Svizzera nell'ambito del primo traffico (sopra, consid. 10d). A torto il ricorrente insiste perciò nel denunciare un “atteggiamento persecutorio” nei suoi confronti. Si aggiunga che, laddove descrive _ come una sorta di strumento inconsapevole nelle mani di _, fuggito alla prima occasione dal mar dei Caraibi dopo avere scoperto la vera natura del trasporto (memoriale, pag. 15 in basso), il ricorrente dimentica che lo stesso _ è tornato all'opera nel luglio del 1991 – quattro mesi dopo essere rientrato in Svizzera da Saint Martin/Sint Marteen – per scaricare il panfilo a Fort Lauderdale, ben conscio di quanto stava facendo. Il tono polemico del ricorso è quindi, una volta di più, fuori luogo.
21.
Per inciso il ricorrente evoca il parere giuridico del prof. _, il quale reputa che entrambi i traffici di cocaina debbano reputarsi commessi all'estero (memoriale, pag. 16 lett. d). La questione è già stata trattata e il ricorso non contiene ulteriori argomentazioni rispetto a quello di _. Si rinvia perciò al consid. 15.
22.
Ancora dolendosi di “intento persecutorio” in suo odio, il ricorrente sostiene che l'avvenuta consegna di US$ 80 000 a _ da parte di _, nell'autunno del 1991, non ha rilievo ai fini degli art. 3 e 7 CP perché non costituisce la riscossione di un compenso (la quale è di per sé avvenuta a Miami), bensì la mera spartizione dell'illecito profitto (memoriale, pag. 16 lett. e). Ora, per tacere del fatto che secondo la sentenza impugnata _ non risulta avere incassato da _ più di US$ 80 000 (tutti quelli consegnati poi a _), sicché il termine di “spartizione” poco conviene, ai fini dell'art. 7 cpv. 1 CP basta – secondo la dottrina dominante, come si è spiegato – che l'autore di un reato compia in Svizzera un atto destinato ad assicurarsi l'indebito vantaggio consecutivo all'infrazione, e ciò fino alla fase conclusiva del reato, non solo fino alla sua consumazione (sopra, consid. 10c). _ si è assicurato in Svizzera e non a Miami l'indebito vantaggio consecutivo al traffico di stupefacenti (egli stesso ha dichiarato che non avrebbe mai rischiato l'esportazione di denaro dagli Stati Uniti: sentenza, pag. 54 consid. 24). L'argomentazione del ricorso è pertanto infruttuosa.
Tutt'al più ci si potrebbe domandare se il criterio di collegamento con la Svizzera non sia, per un soggetto come il ricorrente (tutto sommato “tagliato fuori” da atti compiuti da un correo solo per assicurarsi l'indebito profitto), puramente casuale. Nella fattispecie non si deve dimenticare però che il primo traffico è stato ritenuto commesso in Svizzera anche per quanto riguarda il ricorrente (e non solo gli altri due coimputati), poiché all'inizio del 1990 egli medesimo aveva telefonato a _ in Svizzera (su incarico di _) per proporre il trasporto di cocaina, offerta che _ ha accettato e che ha dato origine a tutta la vicenda criminosa. Non si può dire pertanto ch'egli si trovi a dover rispondere del proprio operato in un paese completamente fuori dalle sue previsioni. Certo, nel ricorso egli obietta che la sua telefonata del 1990 era intesa solo a sottoporre a _ “l'eventualità di effettuare un trasporto previo accordo che _ avrebbe comunque ancora dovuto trovare con i colombiani” (memoriale, pag. 17 in fondo). L'ipotesi di un'accettazione condizionata non si evince tuttavia dalla sentenza impugnata, né il ricorrente indica un benché minimo riferimento istruttorio a sostegno di tale evenienza. Il rimprovero alla Corte di essere “trascesa nel solito arbitrio” si rivela, dunque, finanche irricevibile per carenza di motivazione.
Il ricorrente opina che la sua punibilità secondo il diritto svizzero è talmente poco fondata da avere indotto nel settembre del 2000 il Procuratore pubblico a sollecitare ripetutamente le autorità statunitensi a concedergli la possibilità per delega di perseguire il ricorrente stesso nel Ticino, segno evidente che si ponevano problemi di doppia punibilità (memoriale, pag. 18 a metà). L'argomentazione è irricevibile, già per la circostanza che la Corte di cassazione e di revisione penale è chiamata a vegliare sulla corretta applicazione del diritto da parte delle autorità giudicanti, non dei magistrati requirenti. Comunque sia, il principio secondo cui va ritenuto commesso in Svizzera non solo un crimine o un delitto perpetrato interamente su territorio nazionale, ma anche un crimine o un delitto di cui sia stato compiuto in Svizzera un elemento costitutivo del reato, suscettibile di concorrere insieme con altri a integrare la fattispecie (sopra, consid. 10a), non esclude conflitti positivi di competenze. Rientrava quindi nella logica più elementare che il Procuratore pubblico intendesse prevenire un perseguimento da parte delle autorità americane a carico del ricorrente per le medesime imputazioni.
23.
Sostiene il ricorrente che a torto la Corte di assise si è riferita alla sentenza pubblicata in DTF 126 IV 255, la doppia punibilità richiedendo che il reato sia perseguibile anche secondo il diritto americano, ciò che non è assolutamente il caso nella fattispecie (memoriale, pag. 19 lett. g, non esistendo alcuna lett. f). Si è visto tuttavia che in concreto il traffico di stupefacenti va ritenuto commesso in Svizzera a norma dell'art. 3 cpv. 1 CP. L'argomentazione cade dunque nel vuoto.
24.
Infine il ricorrente censura la commisurazione della pena inflittagli, sostenendo che il suo ruolo si è limitato a quello di un mero complice, che l'unico compenso da egli percepito è quello di
US$ 20 000 chiesto (ma sul cui ottenimento non v'è prova) per la locazione della casa a Fort Laurendale, ch'egli si è limitato a segnare a _ la possibilità di trasportare stupefacenti, che egli ha solo procurato supporto logistico all'operazione e che la sua presenza nella fase finale del traffico (consegna dei rimanenti 40 kg a _) era intesa solo a verificare i danni provocati dagli individui che si erano introdotti nella villetta per rapinare _ e _. Onde l'esagerazione della pena irrogatagli, da contenere in una sanzione sospesa condizionalmente (memoriale, pag. 20 lett. h). Ora, non fa dubbio che il ricorrente disconosce il potere cognitivo della Corte di cassazione e di revisione penale in materia di commisurazione della pena (sopra, consid. 10 in fine). Già per questa ragione il ricorso andrebbe dichiarato inammissibile.
A parte ciò, i fatti invocati dal ricorrente si scostano da quelli accertati dalla Corte di assise, senza ch'egli ne dimostri l'arbitrio. Intanto il ricorrente non si è limitato a mere segnalazioni: nel 1990 egli ha proposto a _ – né più né meno – di partecipare a un traffico di cocaina, ciò che _ ha accettato (sentenza, pag. 31 in fondo e 37 in fondo). Inoltre egli non si è limitato nemmeno a procurare supporto logistico: ha mantenuto – per sua ammissione – i contatti con _ durante tutto il trasporto dai Caraibi alla Florida durante le soste a terra facendo da tramite a _ (sentenza, pag. 45 consid. 18), ha reperito l'abitazione per lo scarico della merce a Fort Laurendale dietro compenso di US$ 20 000 (sentenza, pag. 48 consid. 21), ha presenziato allo scarico del panfilo (sentenza, pag. 49 consid. 22), ha comunicato ai destinatari della merce l'avvenuto furto da parte dei finti agenti di polizia (sentenza, pag. 51 a metà) e ha assistito alla consegna della cocaina residua sul piazzale del noto supermercato a Miami (sentenza, pag. 53 in basso). Che poi egli si sia interessato dei danni cagionati dai rapinatori all'abitazione o che non abbia percepito un compenso per la collaborazione prestata poco giova. La sua azione non può sicuramente essere qualificata come l'intervento di un complice (sopra, consid. 10f e 10g). Quanto alla commisurazione della pena in sé, il ricorrente non motiva alcun abuso del potere di apprezzamento da parte della Corte di assise, se non sulla base – come detto – di fatti diversi da quelli accertati. Anche su quest'ultimo punto il ricorso è destinato perciò all'insuccesso.
IV. Sulle spese e le ripetibili
25.
Gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). Sono posti perciò a carico dei ricorrenti in ragione di un terzo ciascuno, senza vincolo di solidarietà. Invero il ricorso di _, che per la sua prolissità ha richiesto inutile dispendio di tempo e di energie alla Corte di cassazione e di revisione penale, giustificherebbe una tassa di giustizia più elevata, ma per questa volta si può prescindere – equitativamente – da simile riscossione. I ricorsi essendo votati al rigetto, non si giustifica di attribuire ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP).
V. Sull'istanza di libertà provvisoria
26.
L'emanazione del presente giudizio rende senza oggetto l'istanza di libertà provvisoria (art. 290 cpv. 2 CPP) sottoposta il 18 novembre 2002 da _ al presidente della Corte di cassazione e di revisione penale. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b95b5784-5e55-5db5-8876-cae80f846b1c | in fatto
a.
In data 30.10.2009 la Polizia della Città di _ ha comunicato ad RE 1 (_), cittadino _, che al suo ufficio è pervenuto un rapporto per infrazione alla LCS (recte: LCStr) commessa il 22.10.2009, alle ore 16:30,
in territorio di _
, presso il
"_", per "
(...) aver circolato con l’autoveicolo targato _ marca _ commettendo la/e seguente/i infrazione/i: omettendo di sottoporlo al controllo periodico obbligatorio (ogni 24 mesi) dei gas di scarico. Ultimo controllo di antipolluzione avvenuto il 16.03.2006
" (rapporto di contravvenzione 30.10.2009, inc. _
).
RE 1 è contestualmente stato avvertito della facoltà di presentare eventuali osservazioni scritte entro quindici giorni dall’intimazione del rapporto di contravvenzione e del fatto che trascorso detto termine il rapporto, unitamente alle eventuali osservazioni inoltrate, saranno trasmessi alla Sezione cantonale della circolazione, Ufficio giuridico – servizio multe, per le decisioni di sua competenza.
b.
Il 15.01.2010 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione – visto il rapporto di contravvenzione allestito dalla Polizia comunale di _ in relazione ai fatti accertati il 22.10.2009 in territorio di _ [essendo stato omesso di sottoporre l’autovettura targata _ entro il termine prescritto al controllo delle emissioni dei gas di scarico conformemente alle vigenti disposizioni federali (art. 8 cpv. 2, 57 cpv. 1, 103 e 106 cpv. 1 LCStr; art. 59a cpv. 1 e 96 ONC)], esaminati gli atti e considerato inoltre che non sono state presentate osservazioni in merito al rapporto di contravvenzione 30.10.2009 – ha inflitto ad RE 1 una multa di CHF 500.--, oltre al pagamento della tassa di giustizia di CHF 100.-- e delle spese di CHF 30.-- (risoluzione del 15.01.2010 no. _, inc. _).
RE 1
non ha impugnato la citata risoluzione presso la Pretura penale. La stessa è dunque passata regolarmente in giudicato.
c.
Con decisione 2.10.2012 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione – vista la surriferita risoluzione, constatato il mancato pagamento della multa e lo stato d’insolvenza del contravventore, ritenuti inoltre adempiuti i presupposti per procedere alla commutazione della multa in pena detentiva e in applicazione degli art. 8 cpv. 1 e 2 LPContr, art. 106 cpv. 2-5 CP e art. 363 CPP – ha commutato la multa di CHF 500.-- in cinque giorni di pena detentiva (decisione di commutazione in pena detentiva sostitutiva del 2.10.2012, inc. _).
d.
Con il presente gravame RE 1 insorge dinanzi a questa Corte contro la decisione 2.10.2012 emanata dall’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione.
Il reclamante afferma che la fattispecie in esame trae le sue origini dal fatto che un ausiliario della polizia della Città di _ ha constatato che egli non aveva effettuato il controllo dei gas di scarico per la sua autovettura. Egli gli avrebbe immediatamente comunicato che si trattava di una svista e che avrebbe fatto fare il controllo il giorno seguente. Detto controllo sarebbe poi stato effettivamente eseguito. Ciononostante egli si è visto infliggere ingiustamente una multa di CHF 500.--, importo che sarebbe anche esorbitante vista la sua situazione finanziaria. Sostiene al riguardo di non esercitare alcuna attività lucrativa da oltre dieci anni
"
(...) a seguito di un iter giudiziario kafkiano (...)
" e di abitare presso sua madre, che è anziana. Assevera inoltre di non avere mai percepito alcuna indennità da parte di un ente pubblico o della cassa disoccupazione e di essere nullatenente. Adduce infine che "
(...) la totale mancanza di etica e di morale nell’applicazione di una legge, che è generale e astratta, fa si che dovrei scontare cinque giorni di carcere che, se confermati, farò senza certamente sottrarmi
" e che "
Chiaro deve essere che non sono in condizioni di pagare un simile esorbitante importo e chiedo, anche a tutela della mia anziana madre, che la convocazione per espiare la pena mi sia inviata riservata e personale
" (reclamo 9/10.10.2012).
e.
Come esposto in entrata, la Sezione della circolazione ha comunicato di non avere osservazioni da formulare in merito al presente reclamo. | in diritto
1.
1.1.
L'1.01.2011 è entrato in vigore il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), che disciplina, tra l'altro, la procedura penale in materia di contravvenzioni. L'art. 357 cpv. 1 CPP conferisce in particolare alle autorità amministrative istituite per il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni i poteri del pubblico ministero. La procedura (contravvenzionale) è retta per analogia dalle disposizioni concernenti il decreto d'accusa (art. 357 cpv. 2 CPP).
Compatibilmente alle norme federali, il Cantone Ticino il 20.04.2010 ha emanato una nuova Legge di procedura per le contravvenzioni (LPContr), entrata in vigore l'1.01.2011, che
regola il minimo indispensabile e per il resto rinvia al Codice di procedura penale, anche per le contravvenzioni di diritto cantonale (Commentario CPP – M. MINI, art. 17 CPP n. 3). L'art. 1 cpv. 2 di detta legge ribadisce che la procedura davanti all'autorità amministrativa e alle autorità giudiziarie è retta dal CPP.
1.2.
L'art. 17 CPP, che concerne le autorità penali delle contravvenzioni, stabilisce che la Confederazione e i Cantoni possono affidare il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni ad autorità amministrative.
In virtù del rinvio dell'art. 106 cpv. 2 seconda frase della LF sulla circolazione stradale del 19.12.1958 (LCStr) [secondo cui
"
(...) i Cantoni sono incaricati di eseguire la presente legge. Essi prendono le misure necessarie a tale scopo e designano le autorità cantonali competenti
"] – in Ticino – il Dipartimento delle istituzioni, la Sezione della circolazione e gli organi di polizia, sono di principio le autorità competenti per l’applicazione delle normative in materia di circolazione stradale e di tassa sul traffico pesante commisurata alle prestazioni [art. 1 del Regolamento del 2.03.1999
della legge cantonale di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale, RLACS].
In modo particolare l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione è competente, tra l'altro,
ad istruire e a decidere le contravvenzioni e le denunce previste in materia di circolazione, di polizia ferroviaria e di durata del lavoro e del riposo dei conducenti professionali, salvo nei casi di competenza delle autorità giudiziarie (art. 4 lit. f RLACS).
Secondo l'art. 363 cpv. 2 CPP il pubblico ministero o l'autorità penale delle contravvenzioni che hanno pronunciato rispettivamente in procedura di decreto d'accusa o in procedura di decreto penale emanano anche le decisioni successive. Tra quest'ultime rientrano le decisioni della commutazione delle multe, che dunque – dopo l'introduzione del CPP dall'1.01.2011 – non vengono più emesse dal giudice dell'applicazione della pena, bensì dall'autorità amministrativa che le ha adottate (Messaggio n. 6165 del 21.01.2009 sull'adeguamento della legislazione cantonale all'introduzione del codice di diritto processuale penale svizzero, p. 33).
L'art. 8 cpv. 1 LPContr prevede, infatti, che la multa di cui non è possibile l'incasso è commutata in pena detentiva sostitutiva o in lavoro di pubblica utilità dall'autorità amministrativa che l'ha emanata.
Contro una decisione indipendente successiva pronunciata sotto forma di ordinanza o decreto e, di norma, in procedura scritta è dato reclamo (Messaggio concernente l'unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, in FF 2006 p. 1202).
Per gli
art. 20 cpv. 1 lit. b e 393 cpv. 1 lit. a CPP in combinazione con l'art. 62 cpv. 2 LOG è la Corte dei reclami penali l'autorità competente a giudicare i reclami contro gli atti procedurali e contro le decisioni non appellabili della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni ex art. 17 CPP.
Ne discende dunque la competenza di questa Corte ad esaminare il presente gravame.
1.3.
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.4.
Il reclamo, inoltrato il 9/10.10.2012 contro la decisione 2.10.2012 dell'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione è tempestivo.
RE 1,
quale imputato, destinatario della decisione di commutazione che lo tocca personalmente, direttamente e attualmente nei suoi diritti, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio.
Il gravame è quindi nelle predette circostanze ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l'art. 106 cpv. 1 CP se la legge non dispone altrimenti, il massimo della multa è di CHF 10'000.--.
In caso di mancato pagamento della multa per colpa dell'autore, il giudice ordina nella sentenza una pena detentiva sostitutiva da un minimo di un giorno a un massimo di tre mesi (art. 106 cpv. 2 CP).
Il giudice commisura la multa e la pena detentiva sostitutiva alle condizioni dell'autore, in modo che questi sconti una pena adeguata alla sua colpevolezza (art. 106 cpv. 3 CP).
Per l'esazione e la commutazione si applicano per analogia gli art. 35 e 36 cpv. 2-5 CP (art. 106 cpv. 5 CP).
A tenore dell'art. 8 cpv. 1 LPContr la multa di cui non è possibile l'incasso è commutata in pena detentiva sostitutiva o in lavoro di pubblica utilità dall'autorità amministrativa che l'ha emanata.
2.2.
La commutazione della multa in pena detentiva (art. 106 cpv. 2 CP e art. 106 cpv. 5 CP in combinazione con l’art. 36 cpv. 2 CP) presuppone il mancato pagamento della stessa per colpa dell’autore (art. 106 cpv. 2 CP).
Analogamente all’art. 36 cpv. 3 CP [secondo cui
"
se il condannato non può pagare la pena pecuniaria perché, senza sua colpa, le condizioni determinanti per la commisurazione dell’aliquota giornaliera si sono notevolmente deteriorate dopo la sentenza, egli può chiedere al giudice la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva sostitutiva e proporre in sua vece: a. la proroga del termine di pagamento per ventiquattro mesi al massimo; b. la riduzione dell’importo dell’aliquota giornaliera; oppure c. l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità
"
], il mancato pagamento di una multa non avviene per colpa dell’autore quando la sua capacità contributiva si è considerevolmente aggravata a causa di circostanze a lui non imputabili (BSK Strafrecht I – S. HEIMGARTNER, 2. ed., art. 106 CP n. 17).
3.
3.1.
Ora, RE 1 è rimasto anzitutto silente di fronte al rapporto di contravvenzione 30.10.2009 della Polizia della città di _, non avendo presentato osservazioni in merito.
Egli non ha nemmeno contestato la decisione emanata il 15.01.2010 dall’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione, mediante la quale gli è stata inflitta una multa di CHF 500.-- (oltre al pagamento della tassa di giustizia e delle spese) in relazione ai fatti accertati il 22.10.2009 in territorio di _ (cfr., nel dettaglio, risoluzione del 15.01.2010 no. _, inc. _; consid. b. della presente decisione).
La stessa è dunque inconfutabilmente passata in giudicato.
L’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha poi constatato il mancato pagamento della multa in questione come pure lo stato d’insolvenza di RE 1.
Dal verbale di pignoramento del 25.02.2011, esecuzione no. _, emerge in effetti che il 18.02.2011 il cursore dell’UE non ha accertato beni pignorabili presso RE 1, celibe e domiciliato a _ presso l’abitazione di proprietà di sua madre, e non ha potuto procedere ad un pignoramento del suo salario. Il cursore dell’UE ha inoltre constatato che egli è nullatenente ed è in arretrato con il pagamento della cassa malati e dell’AVS. L’incasso della multa si è rilevato impossibile, essendo stato rilasciato un attestato di carenza beni ai sensi degli art. 115 e 149 LEF per complessivi CHF 900.50 (verbale di pignoramento del 25.02.2011, esecuzione no. _, doc. 4).
Il 2.10.2012 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha quindi deciso di commutare la multa di CHF 500.-- in cinque giorni di pena detentiva, in applicazione dell’art. 206 cpv. 2-5 CP e dell’art. 8 cpv. 1 LPContr.
3.2.
Giova anzitutto rilevare che il reclamante avrebbe dovuto far valere le censure ora sollevate contro l’inflizione della multa e il suo ammontare, al più tardi, impugnando la risoluzione del 15.01.2010 no. _ dinanzi alla Pretura penale, senza attendere che la stessa passasse in giudicato [
"
Faccio notare che il tutto nasce dal fatto che un ausiliario di polizia della città di _ ha costatato che non avevo effettuato il controllo dei gas di scarico per la mia autovettura. Immediatamente gli ho comunicato che trattavasi di una svista e che avrei proceduto il giorno seguente; cosa che è avvenuta. Malgrado quanto sopra, mi sono visto infliggere una multa di ben 500.-- franchi che, vista la mia situazione, era esorbitante oltre che ingiusta. (...)
"
(reclamo 9/10.10.2012)].
A ciò aggiungasi che l’affermazione del reclamante secondo cui
"
(...) da oltre 10 anni, a seguito di un iter giudiziario kafkiano, non esercito alcuna attività lucrativa e vivo presso la mia anziana madre. Non ho mai beneficiato di indennità alcuna da parte dell’ente pubblico o delle casse di disoccupazione e sono nulla tenente
"
(reclamo 9/10.10.2012) comprova che dopo il passaggio in giudicato della suddetta risoluzione (mediante la quale gli è stata, appunto, inflitta una multa di CHF 500.--) la sua situazione finanziaria e personale è rimasta invariata. Non si può dunque ritenere che, dopo l’emanazione della risoluzione del 15.01.2010, la capacità contributiva di RE 1 si sia considerevolmente deteriorata a causa di circostanze a lui non imputabili.
Appare dunque che il mancato pagamento della multa sia ascrivibile allo stesso reclamante, il quale non si è del resto mai attivato per ottenere una rateazione della multa e/o non ha mai chiesto di prorogare i termini di pagamento.
Il fatto poi che sia stato rilasciato un attestato di carenza beni in suo favore e che egli sia nullatenente non può giovare al reclamante, considerato come, secondo la chiara volontà del legislatore, la conduzione di vita ai limiti della/sotto la soglia del minimo esistenziale, non può escludere l’inflizione di una multa (BSK Strafrecht I – A. DOLGE, op. cit., art. 36 CP n. 21).
Ne discende che, a giusta ragione, la Sezione della circolazione ha quindi commutato la multa di CHF 500.-- inflitta a RE 1 in cinque giorni di arresto.
Si evidenzia infine che il qui reclamante in questa sede non si oppone, in realtà, alla decisione di commutazione della multa in pena detentiva [
"
Ciò detto la totale mancanza di etica e di morale nell’applicazione di una legge, che è generale e astratta, fa si che dovrei scontare cinque giorni di carcere che, se confermati, farò senza certamente sottrarmi
"
(reclamo 9/10.10.2012)].
In siffatte circostanze, la
questione non merita ulteriori approfondimenti e la decisione impugnata non può che essere tutelata.
4.
Il reclamo è respinto. La tassa di giustizia e le spese sono poste a carico di RE 1, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
b9ac5eb8-5f46-5745-b84b-8d20b0ea39ba | in fatto: A. _
gestiva sin dal 1994 insieme con la sorella _, nata _, l'agenzia _, che si occupava di trovare e collocare ballerine in vari locali notturni del Cantone. Il primo si occupava di reperire e piazzare le interessate, la seconda curava la parte amministrativa. Dopo qualche anno di collaborazione, tra loro sono sorte divergenze che nel pomeriggio del 14 maggio 1999 sono sfociate in un nuovo alterco. Stando a _, il fratello ha cominciato a spintonarla, minacciando di percuoterla. Per difendersi, essa aveva tentato di dargli una sberla, ma egli l'aveva anticipata e l'aveva colpita con un pugno al viso, oltre che insultarla con epiteti come “puttana”. In aula _ si è giustificato dicendo di avere colpito la sorella con la mano aperta, per difendersi, procurandole involontariamente con l'anello una ferita al volto. L'altro fratello _, che aveva assistito al diverbio, ha dichiarato che le parti si erano insultate a vicenda e che _ aveva reagito, colpendo la sorella al viso con il dorso della mano destra aperta, sull'anulare della quale portava l'anello. _ è stata condotta al pronto soccorso dell'ospedale _, ove le è stata suturata con cinque punti una ferita lacerocontusa sul lato temporale dell'orbita sinistra. Visitata cinque giorni dopo dal dott. _, le è stato riscontrato un ematoma a bernoccolo priorbitale a sinistra. Lo stesso medico ha attestato che la vittima era in stato confusionale e ha diagnosticato un'inabilità al lavoro al 100% per tre settimane circa. Il 19 maggio 1999 egli ha poi tolto i cinque punti di sutura.
B.
Con decreto di accusa del 19 luglio 1999 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di lesioni semplici e di ingiuria. Per la prima imputazione egli lo ha condannato a una multa di fr. 800.–, mentre per la seconda lo ha mandato esente da pena in applicazione dell'art. 177 cpv. 3 CP. Statuendo su opposizione, con sentenza del 14 dicembre 1999 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4, ha confermato le imputazioni e la reciprocità delle ingiurie, mentre per le lesioni semplici ha mandato l'accusato esente da pena, ravvisando un eccesso di legittima difesa.
C.
Contro il giudizio del Pretore _ ha inoltrato il 17 dicembre 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 24 gennaio 2000 egli chiede di essere prosciolto dall'imputazione di lesioni semplici e di annullare il dispositivo di condanna al pagamento della metà degli oneri processuali. Il Procuratore pubblico ha comunicato il 31 gennaio 2000 di rimettersi al giudizio di questa Corte. Nelle sue osservazioni del 16 febbraio 2000 _, costituitasi parte civile, propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
In cassazione è vietato mutare il materiale processuale che ha formato oggetto del primo giudizio. Nuovi documenti o nuove prove non sono quindi ricevibili (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; da ultimo: CCRP, sentenza del 18 febbraio 2000 in re F., consid. 1). L'anello che l'accusato ha asserito di avere mostrato al dibattimento, ma non che non è stato acquisito agli atti, come pure i certificati medici 11 febbraio 2000 del dott. _ e 9 novembre 1999 del dott. _, annessi alle osservazioni della parte civile, non possono dunque essere considerati ai fini del giudizio.
2.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell’arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
3.
Secondo gli accertamenti del Pretore, l'accusato ha reagito a un attacco della sorella, la quale, dopo vicendevoli insulti, l'aveva preso per la maglietta e gli aveva dato una sberla. A quel momento egli aveva reagito, colpendola con il dorso della mano destra (sentenza, consid. 4a). Il primo giudice ha nondimeno ritenuto che l'accusato avesse ecceduto nel suo diritto di difesa, poiché altri mezzi gli avrebbero senz'altro consentito di essere meno violento, immobilizzando la sorella. Le lesioni subite dalla vittima, in effetti, potevano solo essere la conseguenza di un colpo particolarmente incisivo, duro, del tutto esagerato. Né l'accusato poteva soggettivamente accampare scuse, poiché sapeva benissimo di portare alla mano destra un anello “di una certa dimensione” e poiché la mole fisica doveva indurlo a metodi meno energici (sentenza, consid. 4b). Accertato l'eccesso di legittima difesa, il Pretore ha però mandato l'imputato esente da pena, riconoscendogli uno stato di scusabile eccitazione e sgomento provocati dalla vittima (sentenza, consid. 4c).
4.
Il ricorrente censura di arbitrio la sentenza del Pretore laddove questi lo descrive come una persona dal fisico possente e pone a fondamento del giudizio un divario di mole fisica, quando in realtà il primo giudice non ha mai visto la vittima. In merito all'anello, egli sottolinea che le dimensioni e la forma sono del tutto normali. Fa valere inoltre che di fronte all'aggressione prima verbale, poi fisica della sorella, che lo aveva preso per il bavero e lo aveva colpito con uno schiaffo, istintivamente aveva reagito alzando la mano per respingere l'attacco, la sorella essendo in procinto di affibbiargli altre sberle (benché trattenuta dall'intervento dell'altro fratello) e di colpirlo con il ricevitore del telefono. A suo dire, in definitiva, la sorella si è ferita all'arcata sopracci-gliare per fatalità, avanzando con foga verso di lui per colpirlo e urtando, nella concitazione, la sua mano alzata.
Così come sono esposte, le tesi del ricorrente sono palesemente appellatorie, giacché non sostanziano alcun errore qualificato del primo giudice, ma si limitano a dare dell'accaduto una descrizione diversa non solo rispetto a quella accertata nella sentenza, ma anche da quella che emerge dalle risultanze istruttorie. A parte ciò, per quanto riguarda la mole fisica (che il ricorrente chiede alla Corte di cassazione e di revisione penale di accertare, convocandolo), essa non è di rilievo, trattandosi in realtà di stabilire – a prescindere dalla prestanza fisica – se la reazione del ricorrente fosse o no adeguata alle circostanze. Per quanto riguarda l'anello, dal giudizio impugnato risulta che al dibattimento sia il ricorrente sia il fratello lo avevano descritto come “piuttosto grande” (sentenza, consid. 2, pag. 3), di modo che definendolo di “una certa dimensione” il Pretore non è certo incorso in arbitrio. Nessun elemento agli atti suffraga poi l'asserzione del ricorrente, secondo cui la sorella avrebbe tentato di percuoterlo con il ricevitore del telefono. Dalla sentenza impugnata risulta soltanto che, dopo essere stata essa medesima colpita, ancora in stato di eccitazione essa aveva brandito il ricevitore per lanciarlo contro di lui, ma era stata fermata dal fratello _ (consid. 2 e 4a). Ciò è avvenuto tuttavia, come detto, quando costei era già stata raggiunta al volto dal ricorrente con il dorso della mano aperta. Priva di qualsiasi riscontro è infine l'asserzione del ricorrente, stando alla quale la sorella avrebbe battuto il capo contro la mano alzata di lui mentre avanzava con foga per aggredirlo.
5.
L'art. 33 cpv. 2 CP concede al giudice di attenuare la pena secondo il suo libero apprezzamento (art. 66 CP) se chi respinge l'aggressione ha ecceduto i limiti della legittima difesa; se l'eccesso di legittima difesa può essere attribuito a scusabile eccitazione o a sbigottimento, l'imputato va esente da pena. In concreto il ricorrente sostiene che – contrariamente all'opinione del Pretore – non gli si può imputare un eccesso di legittima difesa. L'assunto non ha consistenza. Intanto si è visto che nessun elemento agli atti suffraga l'ipotesi secondo cui il ricorrente avrebbe istintivamente alzato la mano per difendersi. Inoltre, stando ai vincolanti accertamenti del Pretore, seppure con il suo comportamento la vittima avesse assunto un contegno del tutto ingiustificato, il ricorrente non era stato ferito né lamentava alcun danno fisico (consid. 4b). Dopo il reciproco scambio di ingiurie e dopo avere ricevuto uno schiaffo, il ricorrente aveva in realtà reagito colpendo al viso la sorella con il dorso della mano destra, al cui anulare portava l'anello “di una certa dimensione”, ciò che aveva provocato alla vittima le lesioni già descritte. Il che lascia desumere senza arbitrio che il colpo fosse – come reputa il Pretore – particolarmente incisivo, violento, e come tale sproporzionato alle circostanze. Del resto l'accusato si limita, nel ricorso, a porre interrogativi sul comportamento adeguato che avrebbe dovuto assumere, ma non pretende che concretamente gli sarebbe stato impossibile difendersi dall'attacco limitandosi a sollevare la mano, oppure immobilizzando la sorella afferrandola per il braccio o allontanandola con uno spintone. Sulla base degli accertamenti del primo giudice non si può dire pertanto che, ravvisando un eccesso di legittima difesa, la sentenza impugnata violi il diritto federale.
6.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 6 CPP). Alla parte civile, che in questa sede si è valsa di un legale, si giustifica di riconoscere un'indennità per ripetibili, commisurata alla stringatezza delle osservazioni al ricorso (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b9b9d9fa-43c7-5f5d-8903-b7f371125a5e | in fatto: A.
I fatti posti alla base del giudizio 12 febbraio 2008 della Corte delle assise criminali - qui contestato - sono in sintesi i seguenti.
1.
Nel 1998 RI 1, vice presidente e tesoriere della PC 1, responsabile della gestione della liquidità del gruppo PC 1 che all'epoca era al quarto posto sul mercato mondiale dei microchips e contava oltre 30'000 collaboratori alle proprie dipendenze - dopo essere stato introdotto al _ dall’avv. RI 4 (legale della succursale luganese della multinazionale sita in _) e dall’avv. RI 5 (amico fraterno di RI 4, che lavorava presso il _) - propose a A. e B. (responsabili del settore crediti per grandi e medie aziende Ticino ed aziende internazionali del _ ) di appoggiare in _ l’operatività forex della succursale elvetica della multinazionale a condizione che la banca fosse disposta, per alcune di queste operazioni, a peggiorare di qualche punto il prezzo stabilito per l’acquisto o per la vendita di valute. L’eccedenza, rispettivamente il minor introito per ogni operazione di cambio così eseguita, avrebbe dovuto venire restituita, rispettivamente reintegrata a PC 1 attraverso una società terza. I fondi così recuperati sarebbero stati destinati - secondo quanto detto da RI 1 ai dirigenti del _ - da PC 1 per la creazione di
“provviste discrete”
fuori bilancio.
2.
A. e B. furono da subito interessati alla proposta di RI 1: l’acquisizione di un cliente come PC 1 era per il _ un’occasione talmente ghiotta da giustificare anche una violazione delle norme della _ che vietavano alle banche di prestare ai clienti collaborazione attiva per la creazione di fondi fuori bilancio. Vista l’eccezionalità di tale proposta, la sua accettazione richiedeva, tuttavia, le autorizzazioni dei vari profili bancari (compliance, forex e crediti) e una copertura che vestisse “
in modo corretto e plausibile le creste”
(sentenza impugnata consid. 8, pag. 53) che RI 1 chiedeva di fare sui cambi. Il tutto avrebbe, poi, dovuto essere coperto dalla più ampia discrezione che avrebbe favorito - per quanto fu fatto credere ai funzionari di banca - anche la PC 1 stessa poiché
“i due azionisti di maggioranza, essendo società parastatali, non avrebbero accettato l’operazione”
(sentenza impugnata consid. 8, pag. 53).
3.
Dopo avere ampiamente riferito dei dettagli del sistema elaborato sulla scorta delle dichiarazioni di RI 1 e dei diversi funzionari bancari intervenuti (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 45 - 53) e avere riferito della necessità di “
procedere con cautela, ottenere le autorizzazioni dalle superiori istanze del _ e vestire in modo corretto e plausibile le creste che RI 1 chiedeva di poter fare
” (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 53 - 54), la prima Corte ha accertato che il 20.10.1998 si tenne negli uffici del _ un incontro cui parteciparono RI 1, RI 4, B., A. e RI 5.
Rilevato come i funzionari del _ fecero riferimento a questo incontro nello scritto definitivo con cui la banca comunicava alla cliente PC 1 la propria disponibilità a riconoscere ad una società terza (la _ )
“una commissione di intermediazione”
ma precisato che, in realtà, non di ciò si trattava poiché RI 1 aveva sempre chiaramente parlato ai suoi interlocutori di maggiorazione o riduzione dei pips, i primi giudici hanno accertato che in quell’incontro non si poté che parlare della “
proposta di RI 1 così come egli la formulò e così come la intesero sia B. sia A.
” (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 55 - 56).
Pertanto - sempre secondo gli accertamenti della prima Corte contestati in questa sede da RI 4 e da RI 5 - tutti i presenti alla riunione sapevano delle modalità operative proposte da RI 1.
4.
Mentre A. e B. si adoperavano per portare a termine le trattative e formalizzare gli accordi, RI 4 diede mandato all’avv. _ di costituire la “
società terza
” che avrebbe dovuto ricevere dal _ le
“provviste discrete”
.
Il 6.11.1998 venne, così, costituita la _ (qui di seguito _ ) con attribuzione allo stesso avv. _ dei poteri di firma. Giunte le prime autorizzazioni verbali dei vari profili bancari e quella scritta dell’ufficio del compliance (cfr. scritto 27.11.1998 dell’avv. _), il 2.12.1998 vennero firmati a _ i documenti di apertura del conto _ presso il _ .
Quale avente diritto economico del conto venne indicato, a firma di due dipendenti della banca monegasca, l’avv. RI 4 (cui venne, peraltro, conferita procura con firma individuale).
5.
Il 4.12.1998, vennero eseguite in _ le operazioni di apertura del conto PC 1 a firma di RI 1 e di G. (direttore generale della PC 1) e tra il 4 e il 17.12.1998 G. e RI 1 per PC 1 e B. e C. per il _ sottoscrissero il contratto standard per l’operatività delle divise (qui di seguito OTC1).
Contestualmente a questa sottoscrizione, venne inviata/consegnata la lettera-contratto - datata 16.12.1998 - tra il _ e la _ , con cui _ riconosceva alla società - così come
“richiesto”
in occasione e con
“riferimento all’incontro dello scorso 20 ottobre” - “una commissione sotto forma di retrocessione da calcolarsi mensilmente e limitatamente ai contratti su divise stipulati tra il nostro istituto e la PC 1 nella persona del suo vice presidente Dott. RI 1. La commissione corrisponderà ad una percentuale massima pari allo 0,2% del prezzo concordato per ogni singola transazione. L’importo della commissione sarà bonificato, come da istruzioni vostre e della spett. “PC 1”, sul conto intrattenuto dalla vostra società presso il _
in considerazione del fatto che
“grazie al vostro interessamento abbiamo potuto entrare in relazione con la spett. PC 1 società con la quale si prospetta lo sviluppo di un’interessante e redditizia attività specie nel campo delle divise e dei prodotti derivati”.
Un esemplare della lettera-contratto del 16.12.1998 venne trasmesso/consegnato il giorno successivo alla succursale della PC 1, con una lettera accompagnatoria in cui _ confermava a PC 1
(“vi confermiamo
”) la propria disponibilità a riconoscere alla _ una commissione d’intermediazione d’affari da corrispondersi periodicamente così come discusso in occasione dell’incontro tenutosi in _ il 20.10.1998 e concordato nel precitato accordo tra _ e _ .
Così
“vestiti”,
gli accordi conclusi tra RI 1 ed il _ di _ avrebbero permesso a PC 1 di creare delle
“provviste fuori bilancio”
nel contesto di una più generale operatività sui mercati forex.
Al dibattimento, RI 1 ha dichiarato di avere distrutto la lettera con cui il _ informava PC 1 degli accordi raggiunti unitamente alla lettera-contratto datata 16.12.1998 allegata e di non averla portata a conoscenza di nessun organo della PC 1. Neppure i dipendenti che lavoravano negli uffici della PC 1 furono informati delle trattative concluse con il _ .
Questo perché - secondo gli accertamenti della prima Corte - sin dall’inizio, la proposta formulata al _ celava l’intento di RI 1 e di RI 4 di appropriarsi (nella misura del 90% il primo e del 10% il secondo) dei
“fondi discreti”
così creati, in danno della PC 1.
6.
Il nulla osta formale all’operazione venne dato il 12.1.1999 da F., direttore del _ di _ . L’autorizzazione verbale era, comunque, già stata comunicata nel mese di dicembre 1998.
Accanto alla normale operatività forex eseguita dal _ per la PC 1 prese, quindi, avvio anche l’operatività forex
“taroccata”
(ovvero quella finalizzata a creare quelle che sono state impropriamente chiamate “
retrocessioni”
a favore del conto _ in _ ). Come visto sopra, l’attività forex
“taroccata
” prevedeva, in sostanza, che all’atto dell’esecuzione dei contratti sulle divise, D. (cambista del _ ) comunicava (eventualmente dopo una breve trattativa) a RI 1 il prezzo di mercato della divisa da cambiare e RI 1, se del caso, indicava, a sua volta, al cambista di quanti pips lo doveva maggiorare (se comprava) o diminuire (se vendeva). Il cambista eseguiva, quindi, l’operazione e addebitava al conto della PC 1 un importo maggiorato, rispettivamente accreditava su di esso un minor importo rispetto al dovuto. Dopodiché, il cambista calcolava per ogni operazione la differenza tra il prezzo di mercato e quello indicatogli da RI 1 ed allestiva mensilmente un conteggio sulla cui base il _ trasferiva/restituiva al conto della _ presso il _ quanto addebitato in più, rispettivamente accreditato in meno alla PC 1.
7.
La filiale svizzera della PC 1 si appoggiò al _ per la sua operatività forex dal 1999 al 2002.
Il volume di tutte le transazioni, e non solo di quelle
“taroccate”
, fu considerevole.
Nel dettaglio, la prima Corte ha accertato che
nel 1999 (mancando in atti le tabelle per i mesi di gennaio, febbraio e marzo), RI 1 ha cambiato divise per un volume (calcolato per difetto) di fr. 3'484'854'215.- generando, con le transazioni taroccate,
"retrocessioni"
per circa fr. 1'933'000.- (secondo Efin: fr. 2'584'906.-). Nel 2000, RI 1 ha cambiato divise per un volume di fr. 4'662'021'143.- generando, con le transazioni taroccate,
"retrocessioni"
per circa fr. 3'405'000.-. Nel 2001 (mancando in atti le tabelle dei mesi di giugno e di settembre), RI 1 ha cambiato divise per un volume (calcolato per difetto) di fr. 4'532'328'263.- generando, con le transazioni taroccate,
"retrocessioni"
per circa fr. 3'167'000.- (secondo Efin: fr. 3'263'486.-). Nel 2002 (mancando in atti la tabella di agosto), RI 1 ha cambiato divise per un volume (calcolato per difetto) di fr. 6'789'700'588.- generando, con le transazioni taroccate,
"retrocessioni"
per circa fr. 5'529'000.- (secondo Efin: fr. 5'996'689.-).
Complessivamente, quindi, l’attività forex “
taroccata”
ha permesso la creazione di
“retrocessioni”
per un totale di
fr. 15'250'704.-
.
Per quanto attiene al destino di questo importo, la prima
Corte ha accertato che fr. 13'708'000.- (su un totale di fr. 15'250'704.-
“retrocessi”
dal _ alla _ ) furono prelevati direttamente e/o indirettamente da RI 4 e da
lui consegnati a RI 1.
8.
Il modus operandi messo in atto per far rientrare nella mani di RI 1 le
“retrocessioni”
di cui si è detto, vedeva D. tenere un conteggio in apposite tabelle excel di ogni operazione il cui tasso veniva “
taroccato
”. Le tabelle riportavano per ognuna di queste operazioni la data, l’importo acquistato, l’importo venduto, la valuta, il corso società, il corso cliente e l’importo della retrocessione generata da ogni operazione.
La somma complessiva delle retrocessioni per ogni mese indicata in queste tabelle veniva, quindi, bonificata da _ al conto di _ presso _ e, poi, in ragione del 90%, trasferita - ad eccezione della prima che fu appoggiata ad un conto interno del _ - su di un conto nominativo di RI 4 già in essere da lungo tempo sempre in _ , sulla rubrica cliente (conto...).
Tutti i prelievi (salvo tre) vennero eseguiti da RI 4 agli sportelli del _. Ogni volta, RI 4 consegnava l’intero importo prelevato, senza ulteriori formalità, direttamente a RI 1, in genere negli uffici di PC 1 (solo alcune volte, la busta chiusa contenente il denaro venne consegnata da RI 4 alle assistenti di RI 1, sempre negli uffici di _).
Gli altri tre prelevamenti vennero eseguiti rispettivamente dall’avv. H. (il 2.3.2001), da I. (il 9.7.2001) e da RI 5 (il 28.6.2002). I primi due, muniti di procura, consegnarono gli importi prelevati (rispettivamente fr. 396'006 e fr. 104'241.-) a RI 4 che, a sua volta, li rimise a RI 1. Il prelevamento eseguito da RI 5 si rese, invece, necessario a causa dell’assenza per ferie di RI 4 e si concretizzò nella personale consegna della somma di 1'107'000.- a RI 1 in _, dove il tesoriere della PC 1 aveva posteggiato la sua automobile in attesa della consegna dei contanti.
9.
L’operatività forex in _ (“
taroccata”
e non) terminò di fatto il 29.8.2002, anche se già l’8.7.2002 gli organi direttori del _ di _ - con a capo il nuovo direttore E., succeduto alla fine del 2001 ad F. - avevano formalmente ordinato a C. (al quale era stata affidata la gestione del cliente PC 1 dopo la partenza dal _ di A. e di B.) e a D. di bloccare l’attività forex di RI 1. O meglio, a far tempo da inizio luglio 2002, era stata vietata la maggiorazione/riduzione di pips e, quindi, il pagamento delle
“retrocessioni”
.
Questo perché il _ di _ non intendeva più proseguire l’operatività forex comprensiva delle note
“retrocessioni”
per ragioni di trasparenza, di serietà e di un accresciuto rigore etico con cui la banca intendeva condurre la propria attività (cfr. per maggiori dettagli anche il consid. II.7.2.a.).
10.
Dopo avere saputo del divieto di proseguire l’attività forex
“taroccata”,
RI 1 e RI 4 si attivarono per trovare un altro istituto bancario che accettasse di fare quel che _ aveva fatto sin lì. D
opo avere avuto
risposte negative dal Consiglio di amministrazione della _ (banca alla quale RI 1 e RI 4 avevano chiesto di operare beneficiando di una linea di credito che, però, non venne concessa) e da _ (che non disponeva di una struttura sufficiente per l’attività desiderata), il 28 o 29.10.2002, RI 1 e RI 4 incontrarono A. che, nel 2000, era passato alle dipendenze del _ (qui di seguito _ ). Grazie a quest’ultimo, il _ accettò la proposta. L’operatività di RI 1 con questa banca prese avvio (senza che venissero formalizzati accordi scritti) nella prima decade del mese di dicembre 2002 ma cessò dopo “
cinque operazioni poiché RI 1, facendo pressione sul cambista, fissava un prezzo di cambio con un utile per la banca ben superiore rispetto a quello massimo consentito dagli accordi
” (cfr. B17 A., pag. 5 e 6, citati nella sentenza impugnata a pag. 73).
Queste cinque operazioni generarono, per effetto della maggiorazione/riduzione del corso di cambio, un totale di dollari 73'525.-. L’importo venne accreditato con valuta 19.12.2002 al conto “_” ... presso il _ di _ , prelevato in contanti da L. (ADE del conto, titolare di una fiduciaria con uffici a _, conoscente di RI 4), nella misura del controvalore in franchi di US dollari 73'513.- (ovvero fr. 104'756.-) e consegnato dallo stesso L. a RI 4 e da questi a RI 1.
Nel frattempo, il 21.10.2002 RI 4 aveva chiuso il conto intestato alla _ presso il _ e, d’intesa con RI 5, aveva trasferito il 10% rimanente (pari a fr. 472'959.-) su un conto aperto presso la _ intestato sempre alla _ (il cui avente diritto economico indicato era solo RI 4).
11.
Tornando ai fatti relativi all’imputazione principale, la prima Corte ha accertato che, quando seppe che PC 1 era passata alla concorrenza (ovvero che operava con il _ ), C. si agitò molto e, per non perdere l’importante cliente, chiese a P., direttore di _ (una partecipata del _ ; in seguito _), di rilevare l’operatività di RI 1 sulle divise.
C. informò E. delle esigenze di RI 1 di maggiorare/diminuire i pips per costituire
“provviste particolari”
a favore della stessa
PC 1 e della disponibilità di D. di istruire M., cambista in _, sulle relative modalità operative.
In seguito, lo stesso RI 1 assicurò a E. che sarebbe stata la PC 1 la destinataria ultima degli importi che la banca avrebbe dovuto retrocedere in virtù dell’operatività forex dicendogli
“che la PC 1 necessitava di questi fondi per il finanziamento di borse di studio ed in genere per il finanziamento della ricerca”
(cfr. sentenza impugnata, consid. 12, pag. 78).
12.
Stante la disponibilità di massima della _ di rilevare l’operatività forex così come voluta da RI 1, il 20.1.2003 si tenne un incontro in _ alla presenza del direttore E., di RI 4 e di RI 6 (esperto nel ramo finanziario e persona fidata della _ per avere lavorato in precedenza con il vice-direttore generale N. ed operante in _ per altri clienti). La partecipazione di quest’ultimo all’operazione
venne richiesta dalla banca che riteneva indispensabile che l’amministratore della società terza cui andavano le
“retrocessioni”
fosse una persona esperta nel ramo finanziario
“in quanto sarebbe stato difficile giustificare internamente il pagamento di tali retrocessioni ad un avvocato e/o ad una persona che comunque non aveva diritto di operare sui conti della PC 1”
(cfr. sentenza impugnata, consid. 12, pag. 79) anche se, così come era stato detto a RI 6, il suo ruolo
“non era assolutamente quello di gestore patrimoniale”
dovendo egli agire
“
a
titolo privato in qualità di amministratore”
perché così richiestogli da RI 4 e dalla _ (cfr. sentenza impugnata, consid. 12, pag. 80).
RI 6 accettò di fungere da amministratore unico della società che riprese il ruolo della _ in _ , ovvero la _ (in seguito _) non prima, però, di
“
essersi fatto spiegare in lungo e in largo (da E., da RI 4, da RI 5, e financo dal suo "padre lavorativo" N. il quale - secondo quanto ha riferito RI 6 - rimase "evasivo") di cosa si trattava, dopo essersi anche consigliato col padre, titolare di una nota fiduciaria e col socio di lui (...) coinvolgendo però solo se stesso e non le società del padre”
(sentenza impugnata, consid. 12, pag. 83).
13.
In _ la formalizzazione dell’accordo di PC 1 alla distribuzione/retrocessione
“di eventuali commissioni agli aventi diritto”
seguì un iter diverso rispetto a quanto avvenne in _ . In effetti, RI 1, con scritto 27.1.2003 indirizzato al direttore E., propose alla banca l’aggiunta al contratto standard (praticamente uguale a quello che già sottoscritto col _ ) di una clausola - denominata “
11. Volume discounts” -
dal seguente contenuto “
prendiamo atto che _ può accordare al broker come pure ad altre società Volume Discount sulle operazioni effettuate”
precisando, nella sua lettera 27.1.2003, che
"
in questo modo, accettando le condizioni generali, PC 1 accetta pure la distribuzione di eventuali commissioni agli aventi diritto."
E. sottopose questa clausola del contratto (di seguto: OTC2) all’esame dell’avv. RI 5 - all’epoca, capo del _ - che gli suggerì di verificare se RI 1 disponeva di firma individuale precisando che, in caso contrario, sarebbe stata necessaria anche la firma del presidente della PC 1, G. (cfr. appunto manoscritto del 30.1.2003 di E. sulla lettera accompagnatoria di RI 1, documento classato in fascicolo rosso prodotto dall’avv. _ in sede di sua audizione, verbale B7).
Seguendo tale consiglio, E. chiese a RI 1 che il presidente della PC 1 controfirmasse il contratto sulle divise comprensivo della clausola aggiuntiva con cui PC 1 si dichiarava d’accordo alla “
distribuzione di eventuali commissioni agli aventi diritto“.
E ciò, anche se sarebbe bastata la firma di qualsiasi altro collega del board autorizzato, visto che gli organi di PC 1 erano autorizzati a rappresentare la società con firma collettiva a due.
RI 1 sottopose effettivamente a G. il contratto in questione. Tuttavia, in virtù della fiducia che riponeva in RI 1, il presidente della PC 1 firmò l’OTC2 senza leggerlo. Egli non si avvide, quindi, della clausola aggiuntiva
“11. Volume discounts”
(cfr. sentenza impugnata, consid. 12, pag. 81).
14.
Il 31.1.2003 E. e N. per la _ indirizzarono alla società _ una lettera-contratto che, in sostanza, ricalcava il contenuto di quella tra il _ e la _ del 16.12.1998.
Anche in _ i veri accordi tra la banca e la PC 1 - e per essa la _ - vennero così simulati. Non si trattava, infatti, di riconoscere delle commissioni per operazioni forex che non sarebbero state eseguite da
“un broker o da altre società”
visto che ad operare sui cambi anche in _ (come già in _ ) sarebbe stato unicamente RI 1. Si trattava, unicamente, di vestire e rendere plausibile la retrocessione degli importi generati con l’operatività forex
“taroccata”
.
15.
Il 3.2.2003 G. firmò, come detto, il contratto denominato OTC2. Alla stessa data RI 1 e G. firmarono i documenti di apertura del conto 300391 (quello su cui venivano fatti i parzialmente indebiti maggiori addebiti, rispettivamente minori accrediti, a seguito della manipolazione dei corsi).
Il 4.2.2003 RI 1 fu autorizzato ad operare direttamente con la sala mercato di _ . Il giorno successivo il tesoriere della PC 1 passò la prima operazione forex
“taroccata”
.
Il 10.2.2003 RI 6 firmò i documenti di apertura del conto bancario 19793 della _ presso la _ e compilò anche il formulario relativo all’avente diritto economico (cfr. A10) attestando che RI 4 era l’ADE, nonostante sapesse che “
il vero ADE era PC 1 e che RI 4 operava sul conto (sulla base di una procura) ovvero solo fiduciariamente per PC 1”
(cfr sentenza impugnata, consid. 13, pag. 83).
16.
Anche in _ RI 1 eseguì le operazioni forex in totale autonomia secondo le modalità collaudate presso il _.
L’operatività forex di PC 1 in _ si è protratta dal febbraio 2003 al dicembre 2005, ovvero fino al pensionamento di RI 1.
Nel dettaglio, la Corte ha accertato che nel 2003 RI 1 ha cambiato divise per un volume di fr. 6'640'912'823.- generando, con le operazioni taroccate,
"retrocessioni"
per fr. 3'191'786.-. Nel 2004 RI 1 ne ha cambiato per un volume di fr. 17'786'284'712.- generando, con le operazioni taroccate,
"retrocessioni"
per fr. 8'416'538.-. Nel 2005, il volume di divise cambiate è stato di fr. 8'438'477'220.- mentre le "
retrocessioni
" generate con le operazioni taroccate erano di fr. 1'778'451.-.
In questo periodo, quindi, _ accreditò complessivamente sui conti della _ (dapprima a _) un totale di fr. 13'451'499.-.
Dei fr. 13'451'499.-
retrocessi
alla _ , fr. 12.000.000.- circa furono prelevati dai conti della società e consegnati a RI 1.
In sostanza, in _ (come in _ ), il modus operandi messo in atto per far giungere nella mani di RI 1 le
“retrocessioni”
vedeva M. (operatore della sala cambi _ ) allestire mensilmente delle tabelle simili a quelle allestite prima di lui da D. in _ . Ogni conteggio indicava i dati essenziali dell’operazione, ovvero la data, la parità, l’importo, i due corsi (quello corretto e quello manipolato), talvolta anche il totale dei pips aggiunti o tolti, il tasso di cambio del franco e il totale in franchi di ogni singolo importo addebitato in più/accreditato in meno sul conto della PC 1 e, quindi, da restituire.
Diversamente dal _ , _ , una volta effettuato il bonifico della “retrocessione” al conto della _ presso _, non curava il ritorno del 90% della somma a _.
Del recupero del 90% degli importi accreditati alla predetta società nel periodo febbraio 2003-agosto/settembre 2003, si occupò esclusivamente RI 4. Questi, non appena riceveva da _ il conteggio mensile, lo faxava agli uffici di _ di L. che, a sua volta, preavvisava il prelievo presso il direttore _.
RI 4 dovette sempre (ad eccezione di un’occasione in cui fu RI 5 a recuperare il contante) recarsi personalmente a _ a prelevare il denaro che trasportava a _ dove, poi, lo consegnava, sempre senza ulteriori formalità, a RI 1. In questo periodo, quindi, il ruolo di RI 6 si limitò al mero aspetto di organo formale della _ . Egli non fu mai incaricato né di fare trasporti, né di consegnare contanti per conto di RI 4.
Nel periodo successivo (ovvero dal settembre/ottobre 2003 al dicembre 2005), invece, previa apertura da parte di RI 6 di un conto intestato alla _ presso la _ (il cui avente diritto indicato era RI 4), fu sempre RI 6 - che era il solo ad avere diritto di firma individuale - a recarsi personalmente a per prelevare il 90% delle retrocessioni che _ vi bonificava, anche se in queste trasferte (effettuate con il taxi messogli a disposizioni da RI 1 a spese della PC 1) era sempre accompagnato o da RI 4 o (in due sole occasioni) da RI 5.
Solo per alcuni prelievi RI 6 si è avvalso dei servizi della Secure Post oppure ha dato disposizioni affinché i fondi venissero trasferiti presso la filiale luganese della _ .
RI 6 non consegnò mai il denaro a RI 1. La consegna veniva eseguita esclusivamente da RI 4 o da RI 5. Va detto che, all’atto di consegna del contante, RI 6 chiedeva a RI 4 o a RI 5 di firmare - a titolo di ricevuta - la fiche di prelevamento dei fondi.
17.
Il 31.12.2005, entrando al beneficio della pensione, RI 1 cessò ogni attività per PC 1.
Nel gennaio 2006, RI 5 (che aveva delle conoscenze al _ di _), d’intesa con RI 4, trasferì i fondi depositati presso _ su un conto presso _ intestato alla società _, di cui sempre solo RI 4 venne indicato quale avente diritto economico.
18.
In sintesi, la prima Corte ha accertato che RI 1, in tutto il periodo in cui ha operato (ovvero dal 1999 al 2005), pur avendo fatto guadagnare alla PC 1 circa 110.000.000.- di dollari con l’attività forex non taroccata appoggiata alla piazza finanziaria ticinese, ha sottratto illecitamente all’azienda, facendo la cresta sui cambi, fr. 28'702'203.- (di cui fr. 26'110'690.- intascati personalmente).
I restanti fr. 2'591'513.- (pari al 10% delle retrocessioni generate con l’operatività forex taroccata in _ ed in _ ) sono andati, sempre secondo quanto accertato in sentenza, nelle tasche di RI 4, RI 5 e RI 6 (per la sola operatività in _ ) rispettivamente nella misura di fr. 1'286'338.-, di fr. 863'000.- circa e di fr. 328'000.-.
19.
Dopo il pensionamento di RI 1, emersi alcuni elementi di sospetto circa il suo operato, i nuovi vertici di PC 1 presero contatto con il _ e vennero a conoscenza di quanto messo in atto da RI 1 con l’operatività forex. Da qui la denuncia penale che ha portato all’avvio del procedimento penale in esame.
B.
La Corte delle assise criminali, con sentenza del 12 febbraio 2008, dopo avere accertato i fatti così come riassunti al considerando che precede, ha emesso i seguenti giudizi di condanna e di assoluzione.
1.
RI 1 è stato ritenuto autore colpevole di amministrazione infedele qualificata per avere, nel periodo autunno 1998-dicembre 2005, a _ operando sul mercato dei cambi e delle divise con il sistema della maggiorazione/riduzione dei tassi di cambio, presso il _ di _ da dicembre 1998 e presso la _ dal febbraio 2003, causato alla propria datrice di lavoro PC 1 un danno di complessivi fr. 28'702'203.- convertiti a proprio indebito profitto in ragione di fr. 26'110'690.- e parzialmente risarciti in corso d’inchiesta.
2.
RI 4 è stato ritenuto autore colpevole di complicità in amministrazione infedele qualificata per avere intenzionalmente aiutato RI 1 nella commissione del reato per il quale è stato condannato, e meglio:
- per avere contribuito nell’autunno 1998 e nel 2002 alle trattative con i predetti istituti bancari sfociate negli accordi in base ai quali RI 1 ha operato sul mercato dei cambi e delle divise con il sistema della maggiorazione/riduzione dei tassi di cambio;
- per avere fatto creare e messo a disposizione di RI 1 le società _ - facendosi indicare contrariamente al vero quale avente diritto economico - per l’incasso delle somme pattuite con il _ e con la _ e
- per avere, a scadenza mensile, prelevato rispettivamente fatto prelevare in contanti e consegnato o fatto consegnare a RI 1 ca. il 90% delle somme incassate e per avere trattenuto per sé il 10%, vale a dire almeno fr. 1'286'338.-.
RI 4 è stato, inoltre, condannato per ripetuto riciclaggio di denaro, per avere ordinato la chiusura del conto intestato alla _ presso il _ e trasferito il saldo, rappresentato dal rimanente 10% delle somme incassate, prima a favore di un conto presso _, di cui egli era indicato quale avente diritto economico, e in seguito nel gennaio 2006 a favore di un conto presso _ intestato alla società _ di cui egli era indicato quale avente diritto economico.
RI 4 è stato, per contro, prosciolto dall’accusa di complicità in amministrazione infedele qualificata per avere contribuito nell’autunno del 2002, presentandosi come legale della PC 1, alle trattative con la _ e con il _ , al fine di concludere accordi che permettessero a RI 1 la continuazione dell’operatività forex con il sistema dell’aggiunta/riduzione dei tassi di cambio, in ragione dell’assenza di una pari imputazione principale a carico di RI 1 (cfr. sentenza impugnata, consid. 11, pag. 75 e 76).
RI 4 è stato, inoltre, prosciolto dall’imputazione di ripetuto riciclaggio di denaro in relazione ai seguenti fatti:
- per avere, in correità con RI 5 e limitatamente al periodo febbraio 2003 - dicembre 2005 con RI 6, nell’autunno 1998 e 2002, fatto creare, rispettivamente messo a disposizione di RI 1 le società _ e _ per le somme versate dal _ e dalla _ ;
- per avere nel dicembre 1998, nel febbraio 2003 e nel settembre 2003 aperto, rispettivamente fatto aprire, conti bancari presso il _ di _ la _ di _ e la _, destinati e poi concretamente usati per l’incasso delle somme versate dal _ e dalla _ ed intestati alla _;
- per avere fatto indicare, contrariamente al vero, se stesso quale avente diritto economico dei conti bancari intestati alle società _ appositamente aperti per l’incasso delle somme di cui sopra e
- per avere a scadenza mensile, prelevato in contanti e consegnato a RI 1, ca. il 90% delle somme incassate dalle società _ sui conti bancari intestati alle predette società.
Si trattava, secondo la prima Corte, di atti in realtà configurabili come atti di complicità in amministrazione infedele aggravata (cfr. sentenza impugnata, consid. 18, pag. 119).
3.
RI 5 è stato ritenuto autore colpevole di complicità in amministrazione infedele qualificata, per avere, in alcune occasioni, su incarico di RI 4, prelevato in contanti e consegnato a RI 1 ca. il 90% delle somme incassate mensilmente dalla società _ e per avere ricevuto quale compenso l’importo di circa fr. 450'000.- facente parte del 10% trattenuto da RI 4 sulla totalità degli importi incassati dalla _.
RI 5 è stato, inoltre, ritenuto autore colpevole di ripetuto riciclaggio di denaro, per avere, nel gennaio 2006, trasferito a favore di un conto presso _ intestato alla società _, di cui RI 4 era indicato quale avente diritto economico il saldo, rappresentato dal rimanente 10% delle somme incassate.
RI 5 è stato, invece, prosciolto dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele aggravata, per i fatti a lui imputati nell’atto di accusa precedenti il febbraio 2003, ovvero:
-
per avere contribuito nell’autunno 1998 e 2002, alle trattative con il _, di cui era membro dei quadri dirigenziali, e con la _ (appartenente al medesimo gruppo bancario), sfociate negli accordi in base ai quali, ogni singola operazione forex operata da RI 1 presso i citati istituti bancari in nome e per conto della PC 1 veniva fissato un margine supplementare da versare a favore della società _ .
La prima Corte ha, al proposito, ritenuto che non era provato che, perlomeno fino al febbraio 2003, RI 5 sapesse che le “
retrocessioni
” finivano nelle tasche di RI 1 e non della PC 1.
“Non v’è la prova
” - hanno concluso i primi giudici al riguardo -
“che RI 1 e/o RI 4 ebbero a svelargli il loro “segreto”
e quindi
“non si può ragionevolmente affermare che RI 5 abbia già nell’autunno del 1998 potuto/dovuto capire che l’asserita esigenza di fare “provviste discrete” per PC 1 era una menzogna”
(cfr. sentenza impugnata, consid. 17, pag. 110 e 111).
RI 5 è stato, inoltre, prosciolto dall’accusa di ripetuto riciclaggio di denaro per il periodo precedente il gennaio 2006, ovvero:
- per avere, in correità con RI 4 e limitatamente al periodo febbraio 2003 - dicembre 2005 con RI 6, nell’autunno 1998 e 2002, fatto creare, rispettivamente messo a disposizione di RI 1 le società _ e _ per le somme versate dal _ e dalla _ ;
- per avere, nel dicembre 1998, nel febbraio 2003 e nel settembre 2003 aperto, rispettivamente fatto aprire, conti bancari presso il _ la _ e la _, destinati e poi concretamente usati per l’incasso delle somme versate dal _ e dalla _ ed intestati alla _;
- per avere fatto indicare, contrariamente al vero, RI 4 quale avente diritto economico dei conti bancari intestati alle società _ e _ presso il _ appositamente aperti per l’incasso delle somme di cui sopra;
- per avere a scadenza mensile, prelevato in contanti e consegnato a RI 1, ca. il 90% delle somme incassate dalle società _ sui conti bancari intestati alle predette società e
- per avere nell’ottobre 2002 RI 4 e RI 5 ordinato la chiusura del conto intestato alla _ presso il _ e trasferito il saldo, rappresentato dal rimanente 10% delle somme incassate, a favore di un conto presso _ intestato alla _ , di cui RI 4 era indicato quale avente diritto economico.
La prima Corte ha prosciolto RI 5 da questa accusa per considerazioni di duplice natura. Per le azioni descritte riferite al periodo precedente il febbraio 2003, RI 5 è stato prosciolto poiché la prima Corte ha ritenuto non provato che egli avesse consapevolezza del reato a monte. Per le azioni successive al febbraio 2003 e precedenti il gennaio 2006, RI 5 è stato prosciolto dall’accusa di riciclaggio di denaro poiché, per i primi giudici, le sue azioni erano configurabili come atti di complicità al reato di amministrazione infedele aggravata (cfr. sentenza impugnata, consid. 18, pag. 120).
4.
RI 6 è stato ritenuto autore colpevole di falsità in documenti per avere compilato, in data 10 febbraio 2003 e 15 settembre 2003, rispettivamente il formulario A10 (“Declaration d’identité de l’ayant droit économique) relativo al conto n. presso la _, intestato alla società _, e il formulario “Accertamento della persona avente diritto economico” relativo al conto n. presso la _, intestato alla società _, attestando, contrariamente al vero, che l’avente diritto economico dei valori patrimoniali depositati sul conto era RI 4.
RI 6 è stato, invece, prosciolto dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele aggravata per avere, nel periodo febbraio 2003-dicembre 2005, aiutato intenzionalmente RI 1 nella commissione del reato per il quale è stato condannato, concorrendo a che il patrimonio della PC 1 venisse concretamente danneggiato per complessivi fr. 13'451'499.- destinati all’indebito profitto dell’autore e dei complici e meglio:
- per avere, nel febbraio 2003, assunto la carica di amministratore della società _, titolare dei conti bancari presso la _ da lui aperti per l’incasso delle somme versate dalla _ e
- per avere, a scadenza mensile, su incarico di RI 4, prelevato in contanti e consegnato a quest’ultimo a destinazione di RI 1 ca. il 90% delle somme incassate dalla società _ sul conto presso la _, ricevendo quale compenso l’importo di almeno fr. 293'524.-, e meglio di parte del 10% trattenuto da RI 4 sulla totalità degli importi incassati dalla _, oltre a fr. 12'000.- quale indennità di amministrazione e fr. 8'000.- a valere quale rimborso spese per le trasferte a _.
La prima Corte non ha, infatti, ritenuto “
sufficientemente provato
” l’assunto secondo cui “
RI 6 avesse aiutato, con i descritti contributi, RI 1 a entrare in possesso di gran parte dei fondi, sapendo o quantomeno prendendo in seria considerazione che RI 1 li distraeva in danno dell’azienda
” (cfr. sentenza impugnata, consid. 17, pag. 115).
Per il venir meno dell’aspetto soggettivo sul Vortat (cfr. sentenza impugnata, consid 17, pag. 115), RI 6 è stato, di conseguenza, prosciolto anche dall’imputazione di riciclaggio di denaro.
5.
In applicazione della pena, la Corte delle assise ha condannato:
-
RI 1, riconosciuta l’attenuante del sincero pentimento, alla pena detentiva di 3 anni e 6 mesi;
-
RI 4, alla pena detentiva di 2 anni sospesa per un periodo di prova di due anni;
- RI 5, riconosciuta l’attenuante del sincero pentimento, alla pena detentiva di 18 mesi sospesa per un periodo di due anni e
-
RI 6, riconosciuta l’attenuante del sincero pentimento, alla pena pecuniaria di fr. 27'000.-, corrispondenti a novanta aliquote giornaliere di fr. 300.- cadauna, sospesa per un periodo di due anni.
6.
La Corte ha, poi, rinviato le pretese della PC al foro civile ed ha ordinato la confisca con assegnazione alla PC e il sequestro conservativo delle relazioni di pertinenza di RI 1, RI 4 e RI 5 nonché di due fondi di proprietà di RI 4. Ha, poi, ordinato il dissequestro delle relazioni bancarie e di una particella di pertinenza di RI 6 nonché la restituzione di alcuni oggetti a RI 1.
C.
Contro la predetta sentenza della Corte delle assise criminali sono insorti:
a)
RI 4, con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data il 13 febbraio 2008.
Nella motivazione scritta del gravame, presentata il 3 aprile successivo, egli chiede, in via principale, l’annullamento di tutti i dispositivi della sentenza impugnata ed il rinvio della causa per un nuovo giudizio ad una nuova Corte delle Assise Criminali, riservata la facoltà di questa Corte di riformare i dispositivi 2.1. e 2.2. con il suo proscioglimento dall’imputazione di complicità in amministrazione aggravata e di ripetuto riciclaggio di denaro.
In via subordinata, chiede la riforma dei dispositivi 2.1. e 2.2 con il suo proscioglimento dall’imputazione di complicità in amministrazione aggravata in relazione all’operatività forex con _ (1998-2002).
b)
RI 5, con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data 12 febbraio 2008.
Nella motivazione scritta del gravame, presentata il 1. aprile successivo, egli chiede in via principale l’annullamento della sentenza ed il suo proscioglimento da ogni accusa.
In via subordinata, chiede l’annullamento della sentenza impugnata con il rinvio a nuova Corte delle assise criminali per l’esecuzione di accertamenti da lui indicati e per la motivazione della reiezione delle censure sollevate e rimaste inevase.
c)
Il procuratore pubblico con dichiarazione di ricorso del 18 febbraio 2008 e successiva motivazione scritta del 1. aprile 2008, chiedendo l’annullamento dei punti 6 (limitatamente al proscioglimento di RI 5 dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele aggravata nel periodo precedente il febbraio 2003), 7 (limitatamente al proscioglimento di RI 6 dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele aggravata), 8.3 (ed eventualmente 9) per la posizione di RI 5, 8.4 (eventualmente 10) per la posizione di RI 6 e 12 del suo dispositivo, con il rinvio ad una nuova Corte delle assise criminali per un nuovo giudizio.
d)
La PC PC 1
con dichiarazione di ricorso di data 13 febbraio 2008. Nella motivazione scritta del gravame, presentata il 2 aprile 2008, la PC ha chiesto l’annullamento dei seguenti dispositivi: 6 (con riferimento al proscioglimento di RI 5 dall’imputazione di amministrazione infedele aggravata nel periodo antecedente il febbraio 2003), 7 (con riferimento al proscioglimento di RI 6 dall’imputazione di amministrazione infedele aggravata), con conseguente annullamento dei dispositivi 9 e 10 riferiti rispettivamente alla sospensione condizionale della pena detentiva inflitta a RI 5, nonché alla sospensione condizionale della pena pecuniaria inflitta a RI 6, oltre all’annullamento del dispositivo 11 con riferimento al suo rinvio al competente foro civile per la totalità delle sue pretese, del dispositivo 12 riferito alla ripartizione delle spese e tassa di giudizio e dei dispositivi 15., 15.1. 15.2. e 15.3 con i quali è stato ordinato il dissequestro dei beni riconducibili a RI 6.
Con scritto 25 agosto 2009, la PC ha ritirato la richiesta di annullamento del dispositivo 11.
D.
Con osservazioni 23 aprile 2008, RI 4 ha postulato la reiezione del ricorso della PC, riferendosi in particolare alla contestazione della decisione di rinvio delle pretese di PC al foro civile, rilevandone l’irricevibilità.
Con osservazioni, rispettivamente di data 11 aprile 2008 e 14 aprile 2008, RI 5 ha postulato la reiezione dei ricorsi del PP e della PC.
Con osservazioni 29 aprile 2008, RI 6 ha espressamente rinunciato ad esprimersi sui ricorsi presentati da RI 4 e RI 5 mentre ha postulato la reiezione dei ricorsi presentati dal PP e dalla PC.
Il procuratore pubblico, con osservazioni 28 aprile 2008, ha postulato la reiezione dei ricorsi presentati da RI 4 e da RI 5 e l’accoglimento del ricorso della PC.
La PC 1, con osservazioni 23 aprile 2008, ha postulato la reiezione dei ricorsi presentati da RI 4 e da RI 5 e, con osservazioni 28 aprile 2008, ha chiesto l’accoglimento del ricorso del PP. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) nella misura in cui l’accertamento dei fatti è censurabile unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP), ritenuto inoltre che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 5, 134 I 153 consid. 3.4 pag. 156 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
I. Sul ricorso di RI 4
2.
Il ricorrente esordisce dolendosi di un vizio essenziale di procedura ai sensi dell’art. 288 lett. b CPP, sostenendo di non essere stato messo in grado, in occasione dei pubblici dibattimenti, di eccepire eventuali irregolarità procedurali inerenti la tenuta del verbale del dibattimento a causa della mancata messa a disposizione delle parti del verbale. “
La facoltà di sollevare obiezioni sul contenuto del verbale implica necessariamente anche
” - afferma il ricorrente - “
quella di averne previa visione
” ed a ciò le parti sono, appunto, state impedite dalla presidente che ha sempre respinto le richieste dei diversi patrocinatori degli imputati di avere, alla fine di ogni giornata processuale, il relativo verbale. Il ricorrente lamenta, inoltre, la mancata registrazione a verbale delle sue numerose richieste intese proprio ad ottenere
“una bozza di verbale onde permettere alla difesa di verificare l’esito concreto delle prove esperite in aula e, conseguentemente, proporre emendamenti al verbale o perlomeno contestarne le regolarità giusta l’art. 288 lett. b CPP“
. Nella mancata consegna del verbale - o meglio, nella sua mancata messa a disposizione delle parti prima della chiusura della fase istruttoria del dibattimento - il ricorrente intravvede, anche, una violazione del suo diritto di essere sentito poiché - sostiene - in questo modo gli è stata preclusa pure la possibilità di partecipare all’assunzione delle prove esperite nel corso del pubblico dibattimento ai sensi dell’art. 255 cpv. 3 lett. b CPP.
Ciò rilevato, RI 4 chiede l’annullamento della sentenza impugnata già solo per i censurati vizi di natura formale, ritenuto come essi non possano essere sanati né da questa Corte (cui, peraltro, non compete l’accertamento diretto dei fatti pena la violazione della garanzia del doppio grado di giurisdizione penale) né con la facoltà concessa alle parti d’impugnare il verbale del dibattimento con denuncia di falso ai sensi dell’art. 256 cpv. 2 CPP (ricorso pag. 2-9).
a)
Il PP e la PC postulano per la reiezione della censura poiché tardiva.
b)
L’ammissibilità del ricorso per cassazione per vizi essenziali di procedura presuppone che il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile (art. 288 lett. b CPP). Un vizio di procedura può, certo, emergere anche dopo il dibattimento, in particolare ove riguardi l’intimazione della sentenza o la sua motivazione, con possibilità in tal caso di invocarlo per la prima volta in sede di cassazione. Per contro, in tutti gli altri casi, il vizio deve essere sollevato senza indugio, già davanti alla Corte di merito, in modo che si possa rimediare allo stesso tempestivamente (STF 8.4.2009 6B_205/2010 consid. 6.2.; CCRP 25.3.2009, 17.2008.24, consid. 2).
Secondo l'art.
255 CPP, il verbale del dibattimento deve indicare, tra l'altro, sommariamente lo svolgimento del dibattimento, nonché l'osservanza di tutte le formalità essenziali. Deve pure menzionare tutti gli atti scritti dei quali è stata data lettura, le istanze e conclusioni, le decisioni pronunciate e il dispositivo della sentenza, ritenuto che, a richiesta di una parte, la verbalizzazione di quanto precede può avvenire dettagliatamente (cpv. 2).
Nel verbale sono riportate, inoltre, le risposte dell'accusato, le deposizioni dei periti e dei testimoni, se queste persone sono interrogate per la prima volta al dibattimento, o modificano al dibattimento quanto hanno dichiarato in istruttoria (cpv. 3 lett. b), o d'ufficio o su richiesta delle parti (cpv. 3 lett. c). Il verbale del dibattimento deve assolvere i requisiti imposti dal rispetto del diritto di essere sentiti (art.
29
cpv. 2
Cost.
fed.) e dall'art.
6
n.
1
CEDU
(cfr.
DTF 124 V 389
; STF 27.6.2008
6B_84/2008
consid. 1; STF 1.10.2008 6B.603/2008 consid. 2.1.2.).
Il diritto di essere sentito garantito dall’art. 29 cpv. 2 Cost. fed. implica il diritto per le parti ad un procedimento penale d’ottenere che le dichiarazioni delle parti, dei testimoni o dei periti, che rivestono particolare rilevanza ai fini del giudizio, siano riportate a verbale. Questo diritto è finalizzato a permettere loro di partecipare all’amministrazione delle prove e, soprattutto, a determinarsi sul loro risultato. Esso è finalizzato a permettere anche all’autorità di ricorso d’esercitare il suo controllo (DTF 126 I 15 consid. 2a/aa p. 16 e segg). Il diritto di essere sentito è considerato rispettato se la parte che lo fa valere ha la possibilità di richiedere in ogni momento (se del caso, con richiesta incidentale) la trascrizione delle dichiarazioni importanti oppure - così come previsto all’art. 255 cpv. 2 CPP - la verbalizzazione dettagliata dello svolgimento del dibattimento (tra le altre, anche la verbalizzazione delle istanze presentate nel corso del dibattimento) e ricorrere contro un eventuale rifiuto.
È
, per esempio, il caso della procedura penale del canton Vaud esaminata dal TF nella STF 13.6.2008 6B.340/2008 consid. 2.1.). E’, parimenti, il caso del codice di procedura penale ticinese (cfr. art. 232 CPP e 255 cpv. 2 CPP).
Il codice procedurale ticinese non prescrive, per contro, che il verbale del dibattimento venga consegnato alle parti - in assenza di una richiesta formale - né durante lo svolgimento del pubblico dibattimento né dopo la sua chiusura. La richiesta di avere una copia del verbale deve, dunque, essere fatto esplicitamente e - in caso di rifiuto - deve essere provocata una decisione della Corte che potrà essere oggetto di impugnazione.
c)
Il dibattimento a carico di RI 1, RI 4, RI 5 e RI 6 si è tenuto dal 23 gennaio 2008 al 12 febbraio 2008.
Il 25 gennaio 2008, al momento della riapertura del pubblico dibattimento, la presidente della Corte ha consegnato alle parti il verbale del dibattimento relativo alla giornata del 23 gennaio (cfr verb. dib. pag. 15).
Il 1. febbraio 2008, alla fine della giornata dibattimentale e dopo la chiusura dell’istruttoria dibattimentale, alle parti è, poi, stata consegnata la parte di verbale afferente al periodo dal 24 gennaio al 1. febbraio 2008 (cfr verb. dib. pag 47).
Nel suo allegato ricorsuale, RI 4 ha affermato di avere più volte, nel periodo compreso fra il 25 gennaio e il 1. febbraio 2008 (cioè, tra la consegna della prima e quella della seconda parte del verbale), chiesto, insieme ai coimputati (o meglio, ai loro patrocinatori), alla presidente della Corte di poter disporre, dopo ogni giornata di dibattimento, della relativa parte di verbale ma che tali richieste sono sempre state respinte in ragione - in sintesi - del sovraccarico del segretario della Corte.
Sennonché il verbale del dibattimento non soltanto non riporta le pretese ripetute richieste della difesa di RI 4 (né delle altre parti) volte ad ottenere copia del verbale del dibattimento ma, soprattutto, non registra alcun incidente processuale sollevato dal ricorrente (né dalle altre parti) a seguito dell’asserito rifiuto della presidente della Corte di consegnare ad ogni fine giornata dibattimentale la relativa parte di verbale.
In questo contesto, va, poi, precisato che il ricorrente non pretende che la presidente della Corte abbia rifiutato, senza alcuna nota a verbale, una sua richiesta di formalizzazione di un incidente processuale.
La scelta del ricorrente di non provocare una decisione incidentale della Corte ogni volta che la sua presidente - cui compete, in forza dell’art. 232 CPP, la direzione del dibattimento - respingeva le sue richieste gli preclude la facoltà di avvalersi, in questa sede, dell’asserita impossibilità di partecipare all’amministrazione delle prove a motivo della mancata consegna, al termine di ogni giornata dibattimentale, del relativo verbale.
La censura si rivela tardiva - e, pertanto, irricevibile - in quanto avrebbe dovuto essere formalmente sollevata già nel corso del dibattimento.
3.
Proseguendo, il ricorrente ha portato all’attenzione di questa Corte, quale vizio essenziale di procedura, il rifiuto della presidente della Corte di ordinare una perizia sulla
prassi finanziaria in materia di retrocessioni in ambito forex, sull’utile realizzato dalle due banche con l’operatività di RI 1 e su eventuali colpe di terzi o della stessa PC 1. Dopo avere
spiegato le ragioni per cui egli riteneva e ritiene indispensabile l’allestimento della richiesta perizia (ricorso pag. 10), dopo avere ricordato che, visto il rifiuto della presidente, egli ha prodotto al dibattimento una perizia di parte di cui ha riassunto il contenuto (ricorso pag. 10 e 11) e dopo avere (per usare le sue stesse parole) anticipato delle censure di arbitrario accertamento dei fatti (ricorso pag. 11-14), il ricorrente conclude, su questo punto, affermando che “
il diniego di un perito non ha permesso un corretto accertamento e valutazione della corresponsabilità oggettiva delle banche (e di PC 1). In particolare non ha potuto essere precisato quali regole deontologiche, già allora imperative per le banche, sono state violate ed in che misura
” e rilevando che questo mancato accertamento ha pesato sulla commisurazione della pena inflitta a RI 4 (ricorso pag. 16).
In realtà, le argomentazioni ricorsuali sviluppate in queste pagine non hanno natura procedurale ma attengono, tutte, all’accertamento dei fatti: non viene, infatti, né allegato né sostanziato che i primi giudici hanno ammesso un mezzo di prova irrito o che la prova ammessa è stata assunta irritualmente ma viene sostenuto che non è stata assunta una prova necessaria.
La questione qui sollevata verrà, dunque, se necessario, esaminata nel contesto della valutazione delle censure d’arbitrio.
4.
Il ricorrente - che ha sempre sostenuto di non avere mai saputo che RI 1 si intascava le
“retrocessioni
” ma di essere sempre stato convinto di stare partecipando ad un’operazione volta alla creazione di fondi neri per PC 1 - solleva, poi, una censura giusta l’art. 288 lett. c CPP rimproverando alla prima Corte di essere caduta in arbitrio accertando che lui “
conosceva sin dall’inizio, ovvero sin da prima dell’avvio delle trattative con _ , le reali intenzioni di RI 1, che erano quelle di convertire a suo indebito profitto quel 90 % di fondi che RI 4, direttamente o indirettamente, gli consegnava e di convertire a indebito profitto proprio il rimanente 10% che gli restava”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105).
Questo accertamento - sostiene il ricorrente - è fondato essenzialmente sulla chiamata di correo di RI 1 che è stata arbitrariamente ritenuta disinteressata, costante e credibile.
4.1.
Il procuratore pubblico e la parte civile, nelle loro osservazioni, chiedono che la censura d’arbitrio venga dichiarata irricevibile in quanto appellatoria.
4.1.a)
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1.; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30.03.2007 6P.218/2006) così che, per motivare una censura d’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. E’, invece, necessario dimostrare in modo puntuale che la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1.).
Per costante giurisprudenza, infatti, l'arbitrio non si realizza già qualora la soluzione proposta con il ricorso possa apparire sostenibile o addirittura migliore rispetto a quella contestata: pertanto, p
er motivare una censura di arbitrio non basta criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato
(
DTF 133 I 149
consid. 3.1 con rinvii).
Infine, sempre secondo
giurisprudenza costante, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.2 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, DTF 128 I 177 consid. 2.1 pag. 182, 275 consid. 2.1; 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
b)
La chiamata di correo è la confessione che riguarda, oltre il confidente, anche altre persone. Come ogni confessione, la chiamata in correità è, quindi, soltanto un indizio e non una testimonianza e/o una prova, provenendo essa da persona interessata e non libera (REP 1990, 353, consid. VI1; 1980, 192, consid. 3; 1980, 147, consid. 4; CCRP 9 luglio 1974 in causa G. e coimputati, p. 101 e segg.; 20 agosto 1985 in re Pi; M. Mini, I motivi di ricorso e la cognizione della CCRP: un tentativo di sintesi giurisprudenziale, uno scorcio sulle novità della revisione e qualche interrogativo, in RDAT II/1995 pag 405 e seg; cfr., per il diritto italiano, Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. III, 1956, p. 424/425; Loschiavo, NDI, Confessione (diritto processuale penale), p. 26).
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo rigorosamente logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7.05.2003 6P.37/2003 consid. 2.2).
Come gli altri indizi, dunque, la chiamata di correo va valutata dal giudice con particolare rigore metodologico ritenuto che ad essa va data
maggiore o minore valenza indiziante a dipendenza della sua costanza, del suo carattere disinteressato, della sua univocità e della sua credibilità intrinseca valutata, questa, in funzione della logica interna e della verosimiglianza dei fatti e delle circostanze addotte dal chiamante in causa nonché della generale credibilità di quest’ultimo verificata in funzione della sua personalità e della sua storia personale. Come qualsiasi altro indizio, poi, la chiamata di correo deve essere supportata da elementi esterni nel senso che il giudice - valutandone, nell’ambito del suo potere di apprezzamento, la credibilità - deve accertarsi che essa sia “vestita”, cioè che, inserendosi in una narrazione completa, sia coerente con altri elementi (certi e convergenti) e, perciò, sia da essi confortata (
REP 1990, 353, consid. VI 1.; 1980, 192, consid. 3; REP 146, 147, consid. 4;
Manzini, op. cit., p. 420-425).
Se, da un lato, è necessario che gli elementi esterni chiamati a sostegno della chiamata di correo siano indipendenti da essa (così da evitare che elementi intrinseci alla chiamata vengano usati per la sua conferma), d’altro lato non è necessario che l’elemento esterno abbia la dignità di una prova (se così fosse, la chiamata perderebbe di valore) né che si tratti di un elemento di fatto ritenuto che anche considerazioni logiche, espresse sulla scorta della comune esperienza della vita, possono bastare, purché siano certe, a corroborare una chiamata la cui attendibilità intrinseca è stata correttamente accertata (cfr., per il diritto italiano, Giovanni Silvestri, La valutazione delle chiamate in correità o in reità, in I criteri di valutazione previsti dall’art. 142 CPP in
www.csm.it/quaderni/
quad_99b/qu_99_16.pdf.; Mario Deganello, La chiamata in correità: struttura e funzione dell’innesto normativo, in I criteri di valutazione della prova penale, G. Giappichelli editore, pag. 179).
Quando ne sia stata accertata l’attendibilità intrinseca e questa sia stata confermata da elementi esterni ai sensi di quanto sopra, la chiamata di correo assume valore di prova (REP 1980, 192, consid. 3).
c)
Per costante giurisprudenza, quando è chiamata a giudicare un ricorso che contesta la chiamata di correo, la Corte di cassazione e revisione penale deve, da un lato, esaminare se il primo giudice ha avuto una nozione giuridicamente corretta della chiamata di correo - in particolare, del suo semplice valore indiziante e relativo e della necessità che essa sia vestita - e, dall’altro, deve esaminare se le valutazioni dei primi giudici sull’attendibilità intrinseca della chiamata siano viziate da arbitrio e se il considerarla vestita in base a determinati fatti o complesso di fatti possa essere ritenuto arbitrario o perché il fatto non esiste o perché lo stesso, da solo o con altri, non ha carattere indiziante (REP 1990, 353, consid. VI 1; 1980, 192, consid. 4; REP 1980, 147, consid. 4; CCRP 30 maggio 1984 in re L., consid. 2). Anche in questo contesto, non altrimenti che per quanto concerne la censura d’arbitrio nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, la censura d’arbitrio, per essere ricevibile in ordine, deve essere chiaramente indicata e motivata (REP 1980, 147, consid. 4)
In un processo indiziario, la condanna è arbitraria nella misura in cui il primo giudice abbia attribuito valore di indizio a un fatto che - o perché non certo o perché equivoco o perché contingente - non può assurgere a tale valore (REP 1980, 192, consid. 3; REP 1980, 147, consid. 4).
Non è, per contro, censurabile d'arbitrio il giudice che pone a base del proprio convincimento una chiamata di correo di cui ha accertato in modo sostenibile l’attendibilità, in particolare dopo averne rilevata la concordanza con altri indizi correttamente valutati come tali, il suo inserimento logico e coerente in una narrazione completa e il suo carattere disinteressato (REP 1980, 189).
4.2.
In concreto, la prima Corte ha accertato che RI 4 ha aiutato RI 1 nell’operatività descritta sapendo, sin dall’inizio - “
ovvero sin da prima dell'avvio delle trattative con _ ” -
che il tutto era finalizzato, non alla costituzione di fondi neri per PC 1, bensì ad un indebito profitto di RI 1 e, anche se in misura minore, suo (sentenza consid. 16, pag. 104-105).
La prima Corte ha posto alla base dell’accertamento della consapevolezza di RI 4 del disegno criminoso le dichiarazioni rese da RI 1 a partire dal suo secondo interrogatorio che ha ritenuto essere una chiamata di correo intrinsecamente attendibile e debitamente vestita.
a)
Per giungere alla conclusione che la chiamata di correo di RI 1 era intrinsecamente attendibile, la prima Corte ne ha, dapprima, accertato la costanza rilevando che RI 1, da inizio dicembre 2006 e per tutta la durata dell’inchiesta, ha mantenuto costanti le sue dichiarazioni sulla consapevolezza di RI 4 del disegno criminoso che stava alla base delle operazioni, e meglio sul fatto che RI 4 è stato “
sin dall’inizio
” a conoscenza del disegno criminoso di RI 1 “
e che con tale consapevolezza l’ha aiutato
”. RI 1 - ha precisato la prima Corte - “
l’ha costantemente
dichiarato a partire dal suo secondo verbale del 4.12.2006 (A 6), l'ha ripetuto in successivi verbali e, soprattutto l'ha ribadito in aula, dopo quattordici mesi di carcere preventivo”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105).
Procedendo nella valutazione dell’attendibilità intrinseca della chiamata di correo, la prima Corte ha, poi, ritenuto che, in sede predibattimentale ma soprattutto in aula, RI 1 ha dato dimostrazione di una generale credibilità rispondendo
“in modo affidabile, preciso e coerente alle domande postegli”.
Dopo avere annotato che egli è “
per carattere e per formazione, un uomo preciso, financo meticoloso, chiaro e accurato nell'esprimersi”,
la prima Corte ne ha rilevato la coerenza nel tempo annotando che, una volta deciso di confessare, RI 1 non ha più lasciato la via scelta né durante l’inchiesta né al dibattimento dove ha ammesso “
di aver per anni delinquito in danno della propria azienda
′′
per debolezza e per avidità
′′
”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105).
Sempre nella valutazione della credibilità di RI 1, la prima Corte ha, quindi, accertato che il chiamante si è pienamente assunto le proprie responsabilità in punto al modus operandi ed alla paternità della
“favola delle provviste particolari”
prospettata ai funzionari di banca senza, ad eccezione della sua chiamata in correità di RI 4, scaricare le sue colpe su altri, in particolare “
non su RI 5 che non ha chiamato in causa, non su RI 6 che ha sempre dichiarato di non aver nemmeno conosciuto.”
RI 1 - ha precisato la prima Corte - ha, anche, sempre ammesso
“d'aver lui prospettato ai funzionari del _ la favola delle
"
provviste particolari
"
da finanziare con il peggioramento di qualche pips sul tasso di cambio delle singole operazioni, provviste cui per primo diede il nome di retrocessioni e/o commissioni”
. Inoltre, sempre valutando la questione dell’assunzione completa di responsabilità di RI 1 e, con essa, della sua credibilità, la prima Corte ha precisato che se
“quando nel verbale A6 ha confessato, ha evocato circostanze apparentemente volte a "sminuire" la sua colpa”
queste circostanze si sono, poi, rivelate del tutto esatte:
“così, ad esempio, quando ha illustrato le sue modalità operative con i cambisti, ha parlato di "trattative molto serrate nell'interesse di PC 1", volte da parte sua ad arrivare il più possibile vicino al tasso interbancario e M., in aula, gli ha dato atto di ciò e pure ha confermato che RI 1, quando il prezzo non era buono, rinunciava all'aggiunta/diminuzione dei pips. Del pari ha trovato conferma nelle tabelle "Profit/loss" prodotte dall'avv. RC 1 la circostanza, già addotta da RI 1, a dire del quale le sue malversazioni andavano inserite in un contesto di operatività comunque produttiva di grandi utili per l'azienda”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 106).
Infine, sempre sulla questione dell’assunzione di responsabilità di RI 1 - e, di riflesso, sul carattere disinteressato della sua chiamata di correo - la prima Corte ha ritenuto che RI 1 ha chiamato in causa RI 4 “
non già per scaricare su di lui le proprie colpe quanto piuttosto per illustrare il contesto in cui è nato il disegno criminoso
”.
I primi giudici hanno, poi, escluso che RI 1 abbia avuto un qualsivoglia interesse - che non fosse quello di rendere piena ed ampia confessione - per dire che RI 4 era a conoscenza sin dall’inizio del suo piano criminoso e ad esso consapevolmente e in modo interessato partecipava: “
persi dopo l'arresto e dopo quattordici mesi di carcere preventivo ogni residuo prestigio, ogni orgoglio e reputazione - come ha sottolineato anche il suo difensore - l'aver chiamato in causa RI 4 semmai gli ha nuociuto, perché l'inchiesta si è fatta più complessa e i tempi giudiziari, compresi quelli del dibattimento, si son fatti più lunghi.”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107-108).
Quanto alla logica intrinseca della chiamata in correità, in relazione alla dichiarazione di RI 1 secondo cui egli propose a RI 4 il suo sistema per fare soldi quando questi gli disse che lui “
era al tubo del gas e doveva trovare una soluzione
” e gli chiese se fosse possibile “
trovare un sistema per recuperare
” quanto perso sugli investimenti in titoli di alta tecnologia (verbale A6 pag. 2 citato al consid. 7 pag. 45 della sentenza impugnata), la prima Corte, rispondendo alle obiezioni dei difensori di RI 4, ha precisato che, se è vero che, nell'autunno del 1998
,
quest’ultimo, “
lungi dal trovarsi "al tubo del gas"”,
aveva “
una situazione economica florida e benestante”,
è anche e soprattutto vero che “
RI 1 non ha mai detto che RI 4 era oggettivamente "al tubo del gas"”
ma che ha soltanto detto “
che RI 4 gli disse di esserlo, che usò con lui quell'espressione”.
Al proposito - sempre valutando la logica intrinseca della chiamata - la prima Corte ha ancora sottolineato che, poi, RI 1 ha dichiarato che, “
dopo che presero ad affluire i soldi delle "retrocessioni", RI 4 ebbe a ripetergli "che recuperava un po' di sangue perso negli investimenti in borsa"
rilevando come tale modo di esprimersi
- “manifestamente colorito e che fa il paio con il testé menzionato tubo del gas" - “di tutta evidenza”
non è proprio del vocabolario di RI 1 ma non stona, invece, “
in bocca a RI 4”.
L’utilizzo di tali espressioni è, dunque, stato considerato dalla prima Corte un elemento indiziante il fatto che RI 1 stesse, davvero, riferendo di frasi dettegli da RI 4 e, dunque, che, chiamandolo in causa, stesse dicendo la verità.
Ma, soprattutto, a sostegno della credibilità interna della chiamata, la prima Corte ha sottolineato come, nell’autunno 1998, le azioni PC 1 abbiano effettivamente avuto un calo e che, perciò, sono confermate le dichiarazioni di RI 1 secondo cui lui e RI 4, in quel periodo, subirono delle perdite (cfr. verbale A6 citato al consid. 7 pag. 45 sentenza impugnata) visto che è provato che RI 4 “
possedeva alcuni (non molti) di quei titoli, mentre che RI 1 (tra azioni e stock options) ne possedeva parecchi di più”.
Questo accertamento - secondo la prima Corte - depone per una logica interna della dichiarazione di RI 1 e, di riflesso, per la credibilità della sua chiamata di correo.
Ad ulteriore sostegno della logica interna della versione di RI 1,
ritenuto l’accertamento che clienti di RI 4 (o loro familiari) acquistarono “
titoli consigliatigli da RI 1”,
la Corte ha chiamato il fatto “
che RI 1 si sentisse responsabile in modo particolare per i consigli che dava o per gli investimenti che faceva”,
tanto da fornire, in altri contesti, anche se non richiesto, garanzie a conti di conoscenti che egli gestiva e sui quali si generarono delle perdite (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107).
Infine, sempre a sostegno della logica interna della versione dei fatti di RI 1, la prima Corte ha considerato che “
rientra perfettamente nel loro modo di essere e di intendersi” -
cioè è perfettamente congruente con il fatto che RI 1 e RI 4 sono persone “
acculturate, accorte e perspicaci”
che non abbisognano, “
per capirsi, di dover ricorrere al proverbiale "disegnino"” -
che “
RI 1 abbia sin dall'inizio messo RI 4 al corrente delle sue reali intenzioni manifestandogliele in termini espliciti”
soltanto
“per quanto necessario”
ed usando, per il resto, soltanto termini “
allusivi e sottintesi”
(sentenza consid. 16, pag. 106-107).
b)
Continuando nella valutazione del materiale probatorio a sua disposizione, la prima Corte ha esaminato le dichiarazioni contrarie di RI 4 e valutato alcuni fatti per giungere a concludere che l’intrinseca attendibilità della chiamata di correo di RI 1 risulta rafforzata e consolidata dal confronto con le bugie raccontate da RI 4 e con alcuni fatti accertati e talmente inusuali ed anomali da poter essere spiegati “
solo con un RI 4 consapevole sin dall'inizio del disegno criminoso di RI 1”
a meno di “
interpretare i fatti più importanti non già secondo logica e razionalità bensì secondo l'angolo dell'eccezionalità e dell'inverosimiglianza"
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 109 ).
Esaminando la versione dei fatti fornita da RI 4, la prima Corte ha stabilito che questi ha mentito quando ha affermato di non avere capito i reali termini dell’affare al momento in cui questo venne spiegato ai funzionari di _ , di non avere mai letto le numerose tabelle excel che riceveva né di avere nutrito curiosità al riguardo, di avere creduto che i contratti stipulati - con _ prima e _ poi - fossero reali sulla scorta delle seguenti considerazioni.
Dapprima, la Corte di assise ha concluso per una menzogna poiché non
“è francamente possibile credere”
che RI 4 - proprio in quanto avvocato e consulente legale di PC 1, espressamente chiamato da RI 1 per trovare una banca disposta a fare quel che RI 1 aveva in mente di fare - non abbia capito i termini dell’affare per cui RI 1 lo interpellava,
“pur avendo concordato ab initio la sua quota di guadagno (il 10 percento)” (
sentenza impugnata, consid. 16, pag. 108).
Poi, perché non è possibile credere che RI 4 - proprio in quanto
“persona sicuramente normalmente dotata e per di più formata in diritto e con una certa dimestichezza con le questioni commerciali e bancarie (già da giovane fu confrontato con i problemi posti dalla gestione dell'azienda paterna)”
- non abbia capito nulla nemmeno quando RI 1 espose i termini dell’affare a B. e a A.
“i quali invece - guarda caso! - capirono subito e perfettamente le "condizioni" che RI 1 poneva all'apertura di una relazione col _ ”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 108).
Parimenti, i primi giudici hanno ritenuto
“assolutamente incredibile”
che RI 4 -
“pur avendo ricevuto direttamente e personalmente dai cambisti D. e M., mese dopo mese, durante sette anni, la bellezza di più di settanta "tabelle excel" (o "conteggi" che dir si voglia) che elencavano i doppi corsi (e, quelle di M., talvolta financo il numero di pips aggiunti / tolti per ogni operazione)”
- non soltanto non le lesse mai, ma neppure ebbe mai il benché minimo briciolo di curiosità sul meccanismo che generava le ingenti "retrocessioni".
La Corte ha, poi, ritenuto essere
“una spudorata menzogna”
poiché
“in urto col più comune buon senso”
l’affermazione fatta in aula da RI 4 secondo cui
“lui, delle tabelle, guardava soltanto l'ultima finca, quella che elencava gli importi delle retrocessioni del singolo mese e il loro totale”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 108).
Parimenti, la prima Corte ha ritenuto inverosimile che RI 4 possa avere considerato veri i contratti del 16.12.1998 e del 31.1.2003 poiché ciò significa ammettere che egli - contro ogni logica e buon senso - abbia creduto che _ e _ fossero non solo d'accordo di aiutare PC 1 (e RI 1) a fare il "nero", ma anche che fossero loro a finanziarlo, rinunciando a quote dei loro utili
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 108-109).
Infine, la prima Corte ha ritenuto inverosimile - e perciò menzognera - la versione di RI 4 poiché egli non può non avere percepito la differenza tra una vera commissione d’intermediazione - “
del tipo di quella dello 0,5 percento, che il _ gli garantì con la "convenzione" del 13.12.2001 nel caso egli avesse appoggiato alla banca clienti e loro patrimoni e in forza della quale egli ricevette fr. 22'000.-, circa in un anno per l'apporto di un cliente” -
e quella fasulla “
solo surrettiziamente chiamata "commissione", con la quale le banche restituivano a PC 1, tramite il fiduciario RI 4 e poi tramite il gestore RI 6, quanto prima a PC 1 avevano "fatturato" in più”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 109).
Tutte queste bugie - ha concluso la Corte - fanno a pezzi la credibilità di RI 4 e, nel contempo, irrobustiscono la chiamata di correo di RI 1 “
poiché solo con un RI 4 consapevole sin dall’inizio del disegno criminoso di RI 1 si spiegano e le menzogne e gli ulteriori inusuali ed anomali fatti
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 109).
Fra questi
“anomali fatti”,
i primi giudici hanno rilevato, in primis,
“l’inusuale (per un avvocato) accordo di spartizione del bottino (10% a RI 4, 90% a RI 1)”
affermando come
“un avvocato in buona fede sull’origine e la destinazione delle retrocessioni e sull’esigenza di costituire provviste nere, prudente perché comunque consapevole di star collaborando ad un’evasione fiscale di grossa portata, avrebbe trovato senz’altro eccessiva la ricompensa del 10% a fronte di prestazioni assai poco impegnative quali erano quelle che gli si chiedevano”
. E meglio, il compenso era, secondo la prima Corte, senz’altro eccessivo - nell’ipotesi di un RI 4 in buona fede - per avere, nella prima fase, procurato un'Anstalt, averle intestato un conto bancario, essersi fatto passare per ADE, avere ricevuto dei conteggi mensili, essersi recato una quarantina di volte al _ di Via Vegezzi, avervi prelevato il 90% degli importi e avere portato i contanti prelevati trecento metri più avanti fino al Central Park, negli uffici di PC 1 dove RI 1 aspettava. Il compenso pattuito era - sempre secondo i primi giudici - ancor più eccessivo nella seconda fase in cui
“l'apporto intellettuale è rimasto nullo”
. Ciò rilevato, i primi giudici hanno, sulla questione, concluso affermando che
“il 10% per lavori da fattorino, da trasportatore di valuta quand'anche di lusso, è sicuramente un compenso talmente esagerato da essere di per se stesso molto sospetto”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 109).
Quale ulteriore fatto anomalo - spiegabile soltanto con un RI 4 consapevole del disegno criminoso - la prima Corte ha ritenuto la macchinosità e il costo del sistema per creare fondi neri messo in atto da PC 1, cioè da una multinazionale “
con succursali in tutto il mondo, e financo a
_
”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 110).
Ma, soprattutto, la prima Corte ha considerato che un avvocato in buona fede avrebbe dovuto chiedersi, “
e avrebbe interrogato RI 1”
sul perché
egli veniva pagato per far rientrare in Svizzera in contanti fondi neri già acquisiti “
sui conti di due
_
presso banche estere”.
Saremmo di fronte - hanno spiegato i primi giudici - ad
“un'inspiegabile incongruenza se davvero di "nero" per PC 1 si fosse trattato”
. Siamo, invece, confrontati con una “
circostanza più che normale se invece il "fattorino" sapeva - come sapeva - che RI 1 quel danaro lo intascava e quindi lo voleva/doveva ricevere fisicamente in sue mani a _ ”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 110).
Sulla scorta di tutte queste considerazioni, la prima Corte ha ritenuto di dover riconoscere
“valore di prova alla chiamata di correo formulata da RI 1”
e, fondandosi su di essa, considerare accertato che “
RI 4 era sin dall’inizio consapevole che, con il pretesto di costituire provviste nere per la PC 1, in realtà RI 1 (con l’accordo di RI 4) - una volta ottenuta la disponibilità di una banca a lasciargli fare le creste sui cambi in danno della sua azienda - avrebbe spartito con lui il denaro recuperato attraverso le retrocessioni
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 110).
4.3.
Nel suo esposto, il ricorrente precisa che le dichiarazioni di RI 1 - sulla cui base la prima Corte ha accertato il suo dolo - “
restano piuttosto sul vago, nel senso che RI 1 non è certo che RI 4 sapesse ma ne ha avuto l’impressione, senza che se ne fosse parlato esplicitamente
”. Per la fase dell’operatività con _ (cioè, per il periodo 1998-2002) - prosegue il ricorrente - la chiamata in correità “
è costruita non su fatti certi, ma su asserite convinzioni soggettive
”. Pertanto, non vi è una vera e propria chiamata in correità nel senso che RI 1 non ha avuto conoscenza diretta della consapevolezza di RI 4 ma “
l’ha dedotta partendo da presupposti che, criticamente, risultano indimostrati, errati o comunque inconcludenti e per nulla univoci
” (ricorso, pag. ).
Più oltre - ma la si discute, qui, per praticità d’esame - il ricorrente rimprovera alla Corte di avere erroneamente accertato la costanza delle dichiarazioni di RI 1 in punto alla sua consapevolezza del disegno criminoso. Le dichiarazioni di RI 1 - rileva il ricorrente - non possono, senza cadere in arbitrio, essere ritenute costanti vista “
la progressiva rettifica dei suoi contenuti
” poiché da “
RI 4 sapeva
” si è passati a “
RI 4 non poteva non sapere
” e poi - e peggio ancora - si è passati dal “
io e RI 4 abbiamo pensato
” il metodo per malversare da proporre alle banche al «
abbiamo parlato esplicitamente del fatto che le retrocessioni al 90% le tenevo io
»
solo alla fine della fase _ , cioè quattro anni dopo
” (ricorso pag. 27).
a)
La censura secondo cui la chiamata di correo di RI 1 si basa solo su mere impressioni e convinzioni soggettive del chiamante merita, di principio, di essere esaminata ritenuto come una chiamata di correo, per poter assurgere ad indizio di colpevolezza nei confronti di terzi coinvolti nella confessione del chiamante, deve riferire di fatti e di circostanze e non può, per contro, fondarsi su semplici supposizioni.
Sennonché, nel caso in esame le censurate impressioni e convinzioni soggettive del chiamante sul dolo di RI 4 rappresentano, in realtà, solo una parte del suo quadro dichiaratorio.
Pertanto, la presente censura verrà integrata nella disamina della successiva censura ricorsuale di arbitrio della valutazione dei primi giudici sulla costanza delle dichiarazioni di RI 1 in relazione alla consapevolezza di RI 4 del piano criminale.
b)
La censura ricorsuale secondo cui la prima Corte è caduta in arbitrio giudicando costante la chiamata di correo di RI 1 chiama ad un’analisi di tutte le dichiarazioni da questi rese in merito alla consapevolezza di RI 4 circa il destino previsto per le
“retrocessioni”
alfine di stabilire se, così come sostenuto dal ricorrente, la Corte sia effettivamente caduta in arbitrio nel giudicare chiara e costante la chiamata in correità di RI 1.
ba)
Il 4.12.2006 (A6), RI 1, dopo avere ricordato che “
all’epoca (nel 1998)”
sia lui, che RI 4, che clienti di quest’ultimo
avevano subito alcune “
perdite importanti su investimenti in titoli di alta tecnologia
”, ha affermato che RI 4 gli chiese “
se era possibile trovare un sistema per recuperare
” tali perdite (A6 pag 2). Proseguendo, RI 1 ha dichiarato che “
visto che io ero abile nelle operazioni sui mercati dei cambi e visto che la PC 1 conseguiva trimestralmente sempre un utile abbastanza importante, io e l’avv. RI 4 abbiamo pensato di proporre alla banca un sistema da applicare alle operazioni sui cambi che permettesse di conseguire
” un utile formalmente a favore di PC 1 ma che, in realtà, sarebbe finito nelle loro tasche. La loro intenzione (“
era nostra intenzione
...”) - prosegue il chiamante - era quella di conseguire questa finalità spiegando
“
alla banca che la PC 1 desiderava costituire "provviste" particolari nella misura di ca. 1Mio/1.5 Mio di franchi finanziate con un peggioramento di qualche pips sul tasso di cambio delle singole operazioni”
(A6 pag. 2)
.
RI 1 ha, inoltre, affermato che in occasione di
“
uno o due incontri con A. e B. e in un'occasione con il cambista D.”
lui e RI 4 hanno illustrato al _ la versione ufficiale
“e meglio che la PC 1 desiderava costituire "provviste particolari" accettando di pagare un tasso di cambio maggiorato rispetto a quello base pattuito con il cambista”
(A6 pag. 3).
bb)
Il 6.12.2006 (A10), confrontato con le dichiarazioni di RI 4 che continuava a sostenere che la finalità dell’operazione era unicamente di permettere a PC 1 di costituire delle riserve occulte, RI 1 ha dichiarato che
“RI 4 sapeva perfettamente che questa giustificazione dell'operazione data alla banca non corrispondeva alla realtà”
ed ha ribadito che “
il tutto è nato per cercare di recuperare dei soldi che avrebbero dovuto servire a coprire le forti perdite che sia io che RI 4 avevamo subito
” (A10, pag. 2). Sempre nello stesso verbale, RI 1 ha dichiarato che RI 4 gli ripeteva “
di avere perso del denaro anche dei suoi clienti
” e che quelle perdite “
erano riconducibili a consigli sbagliati ricevuti da me
”.
Continuando, RI 1 ha anche affermato - in risposta al PP che gli contestava le dichiarazioni di RI 4 - che questi
“non può sostenere di avere realmente pensato”
che l’operazione fosse destinata alla creazione di riserve occulte per la PC 1: conoscendo bene il gruppo, RI 4 doveva sapere che “
se PC 1 avesse voluto costituire delle riserve occulte non avrebbe avuto bisogno dell'avv. RI 4, né di creare un meccanismo macchinoso e costoso date le commissioni percepite da RI 4”
(A10 pag. 2).
Nella stessa occasione - confrontato con le dichiarazioni di RI 4 che, da un lato, non ricordava che RI 1 gli avesse mai parlato di importanti perdite da lui subite e, dall’altro, negava di avere mai subito personalmente delle perdite e, quindi, negava di avere mai detto a RI 1 di essere
“al tubo del gas”
e che
“bisognava trovare una soluzione”
- RI 1 ha ammesso di non conoscere la situazione finanziaria di RI 4 ma ha ribadito che questi gli aveva detto di avere subito (in proprio e per dei clienti) delle forti perdite in borsa, aggiungendo che “
psicologicamente egli mi pungolava, dicendomi che ciò era dovuto ai miei consigli errati. Il discorso di RI 4 non era esplicito, ma allusivo ed insistente. Le frasi che andava ripetendo erano che "stiamo perdendo una fortuna", "dobbiamo trovare il sistema per rifarci", "ricevo telefonate dai miei clienti che si lamentano della mia gestione"
(A10, pag. 2).
RI 1 ha, poi, dichiarato che
“RI 4, sapendo che io gestivo le risorse finanziarie di tutto il gruppo PC 1 e mi occupavo anche con successo dell'operatività sui cambi, mi ha chiesto di pensare se non vi fosse un sistema per recuperare le perdite che avevamo subito o stavamo subendo. Da li si è cominciato a pensare a come fare e, per così dire si è lavorato di fantasia. RI 4 sapeva, dunque, che alla banca veniva data una versione di comodo come spiegazione dell'operazione, mentre in realtà quest'ultima era finalizzata agli scopi detti sopra
”
(A10, pag. 2).
RI 1 ha aggiunto e precisato che RI 4 era l’unico ad essere “
a conoscenza del fatto che il denaro non andava alla PC 1”
(A10, pag. 4).
bc)
Il 27.12.2006 (A20), interrogato nuovamente sulle circostanze che lo spinsero a rivolgersi a _ per organizzare l’operatività forex taroccata, RI 1 ha affermato che
“nel 1998 sia io che l'avv. RI 4 che l'avv. RI 5 cominciavamo ad intravedere delle possibili importanti perdite sui nostri investimenti privati. L'avv. RI 4, che investiva pure per alcuni suoi clienti, mi ha chiesto se non poteva esserci un sistema per cercare di guadagnare qualcosa e coprire le perdite. È quindi nata l'idea di modificare su alcune operazioni il tasso di cambio. Si trattava quindi di trovare un istituto bancario disponibile ad accettare una simile operatività ed a retrocedere gli importi modificati alla PC 1”
(A20 pag. 2 e 3).
In quell’occasione, RI 1 ha ancora dichiarato che “
RI 4 era perfettamente a conoscenza che le retrocessioni sarebbero state utilizzate sia da me che da lui per coprire le perdite subite sugli investimenti. Già ho detto che in pratica l'operazione con il _ è stata ideata proprio perché RI 4 mi aveva chiesto di trovare il modo per recuperare le perdite ed io ero d'accordo visto che ne avevo accusate pure io.
” (A20 pag. 6).
bd)
Nell’interrogatorio dell’11.1.2007 (A 25), RI 1 ha dichiarato che era stato RI 4 che lo aveva “
interpellato
nel 1998 perché voleva guadagnare qualche soldo per coprire perdite che aveva accusato lui personalmente e che avevano accusato suoi clienti i quali avevano effettuato investimenti, a suo dire, su mio consiglio”
. Così - stando a quanto dichiarato in questo verbale - RI 1 “
ci ha pensato
” e, secondo quanto da lui dichiarato, “
a un certo punto ho detto a RI 4 che avevo trovato il sistema dei cambi e che era necessario reperire una banca che fosse d’accordo ad operare in questo senso
”. Proseguendo, RI 1 ha dichiarato che “
era chiaro sia per me che per RI 4 che quanto guadagnavamo sarebbe stato diviso fra noi, perché risultava da tutte le circostanze e ciò anche se in questa fase non ne abbiamo mai parlato esplicitamente”
(A25 pag. 2) così come era, per entrambi, chiaro
“senza che fosse necessario parlarne esplicitamente, che alla banca era necessario raccontare che era la PC 1 che aveva l'intenzione di creare provviste discrete e ciò per evitare di dire che i soldi rimanevano a noi”
(A25 pag. 2)
RI 1 ha, poi, in quella sede precisato che “
di sicuro quando il _ ha deciso di interrompere l'operatività, io e l'avv. RI 4 abbiamo parlato esplicitamente del fatto che le retrocessioni, per il 90%, le tenevo io. Quando ne abbiamo parlato esplicitamente nei nostri incontri, era evidente che l'avv. RI 4 già sapeva da prima la destinazione che veniva data al 90% delle retrocessioni, e meglio che le tenevo io
” (A25 pag. 2).
be)
Anche in occasione del primo confronto con RI 4 avvenuto il 12.1.2007 (A26), RI 1 ha dichiarato, per quanto attiene al retroscena dell’operazione proposta al _ , che, a fine 1998, RI 4 - che pure sapeva anche delle sue perdite - gli disse “
che aveva patito perdite su investimenti suoi personali e riconducibili a suoi clienti
” facendo “
riferimento anche al suo cliente
_
” e che gli chiese “
se non c'era la possibilità di recuperare e di guadagnare qualcosa
” (A26 pag. 2). Fu così che, sempre secondo il dire di RI 1, dopo qualche settimana, egli disse a RI 4 di avere “
pensato ad un sistema di operatività sui cambi con l'aumento/riduzione del quarto decimale dopo la virgola del tasso di cambio
” aggiungendo che “
era necessario trovare un istituto bancario al quale appoggiare l'operatività
” (A26 pag. 2). RI 1, rispondendo ad una domanda del patrocinatore di RI 4, ha precisato che in quel contesto fu lui, RI 1, a pensare che RI 4 facesse riferimento a sistemi
leciti o illeciti per guadagnare qualcosa, aggiungendo che egli pensò che RI 4 facesse riferimento anche a sistemi illeciti poiché “
operando lecitamente sul mercato dei cambi non era possibile guadagnare a sufficienza per conseguire lo scopo voluto da RI 4
”
.
bf)
RI 1, durante il secondo confronto con RI 4 (avvenuto il 19.1.2007, cfr. A30), ha, poi, affermato che durante tutta l’operatività con _
"era chiaro sia per me che per RI 4 che quanto guadagnavamo sarebbe stato diviso fra noi, perché risultava da tutte le circostanze e ciò anche se in questa fase non ne abbiamo parlato esplicitamente"
(A30 pag. 1) così come
“era chiaro per entrambi, quindi per me e per RI 4, che si trattava di raccontare una bugia alla banca in relazione alla necessità della PC 1 di costituire le "provviste discrete"”
(A30 pag. 2).
RI 1 ha, poi, confermato che con RI 4 parlò esplicitamente del fatto che il 90% delle
“retrocessioni”
restava a lui soltanto quando _ comunicò loro l’intenzione di interrompere l’attività forex:
“
nel periodo di transizione tra _ e _ io e l'avv. RI 4 abbiamo parlato espressamente del fatto che il 90% delle retrocessioni complessive restavano a me e non andavano alla PC 1. Mi ricordo che in qualche occasione io ho detto esplicitamente all'avv. RI 4 che avevo in corso una ristrutturazione di una casa a
_
e che se mi fossero mancati questi soldi per pagare i lavori, per me sarebbe stato un problema. Abbiamo anche discusso di ulteriori miei impegni sempre in relazione al fatto che potevano venirmi a mancare i fondi dipendenti dalle retrocessioni, fondi sui quali facevo affidamento. Ribadisco pure che in queste occasioni io ho trovato conferma del fatto che RI 4 era a conoscenza già in tempi precedenti del fatto che io trattenevo il 90% per me”
(A30 pag. 2).
bg)
In occasione del verbale di interrogatorio
del 8.2.2007 (A34) - posto di fronte all’accertamento secondo cui nel 1998 il conto
_
(unico suo conto attivo in quell’anno) aveva registrato un utile che, verrà, in occasione del verbale 19.6.2007, stabilito in fr. 488.822.- (mentre, complessivamente, dal 31.12.1996 al 30.4.2002, il conto ebbe un utile pari a fr 3'405'885.--) - RI 1 risponde che “
non posso che prendere atto della ricostruzione relativa al conto
_
. Osservo semplicemente che io mi ricordo che ho subito delle gravi perdite ed ho collegato l'inizio delle operazioni forex con il _ al fatto di queste perdite. Vedrò di fare mente locale e di indicare precisamente alla PP, sempre che io mi ricordi, i motivi per cui nel 1998 ho preso la decisione di malversare ai danni della PC 1. La PP mi dice pure che a giudicare dai grafici dell'andamento dei titoli tecnologici da me citati nei precedenti verbali e nei quali avevo investito negli anni 1998/1999, l'andamento era in generale positivo e solo negli anni 2000/2001 vi è stato un tracollo dei corsi. Anche in questo caso ne prendo atto e mi impegno a riflettere su questi dati”
(A34 pag. 4-5).
bh)
RI 1, chiamato ancora il 19.6.2007 (A46) a fornire le ragioni che dettarono la nascita del piano criminale, a fronte delle discordanti emergenze istruttorie e delle dichiarazioni contrarie di RI 4, ha dichiarato quanto segue: ”
La PP
mi ricorda che nei miei verbali ho dichiarato di avere iniziato a malversare ai danni della mia datrice di lavoro PC 1 perché io e l'Avv. RI 4 avevamo accusato importanti perdite sugli investimenti in borsa che avevamo in corso. L'Avv. RI 4 ha sempre negato una simile circostanza e per quanto mi riguarda la PP rileva che l'unico conto sul quale ero operativo nel 1997/1998 era il conto
_
che ha invece registrato un utile importante. Anche verificando le date delle operazioni che hanno causato una perdita non è riscontrabile un tracollo nel 1997/1998. Per il momento posso solo osservare che nella seconda metà del 1998 ho conseguito una perdita sui titoli PC 1 e che lo stesso titolo ha provocato delle perdite a RI 4, almeno in base a quanto lui mi diceva. Disponevo inoltre di stock options della PC 1, che non erano depositati in alcun portafoglio e che, se esercitati, non mi avrebbero permesso di conseguire un buon utile, visto come l'azione della PC 1 stesse perdendo di valore
” (A46, pag. 3).
bi)
Durante il pubblico dibattimento, chiamato dalla presidente ad illustrare le circostanze in cui è entrato in contatto con il _ , RI 1 ha ribadito la chiamata in causa di RI 4 ed ha confermato
“la confessione da lui resa al MP nel verbale A6 e in quelli successivi
” (verb. dib. pag. 8). Nella sua sentenza, la prima Corte ha precisato che la dichiarazione appena citata va intesa come la conferma delle dichiarazioni rese da RI 1 il 4.12.2006: infatti, al consid. 7, pag. 45 della sentenza impugnata, la prima Corte ha annotato che “
in aula RI 1 ha in buona sostanza ribadito le dichiarazioni da lui rese nel verbale A6 pag. 2
”
.
c)
Alla luce di quanto sopra e dopo
una
rigorosa verifica del contenuto delle diverse e successive dichiarazioni rese da RI 1 in merito al coinvolgimento di RI 4, la censura formulata dal ricorrente non può che trovare accoglimento.
La prima Corte ha, infatti, a torto ritenuto costanti, chiare e lineari le dichiarazioni di RI 1 in punto a quanto RI 4 sapeva circa le sue intenzioni
di convertire a suo indebito profitto e in danno
di PC 1
il 90 % delle “
retrocessioni
”.
ca)
In effetti, da un’attenta analisi delle dichiarazioni rese dal chiamante nel periodo che va dal 4.12.2006 al 19.1.2007 (ovvero, a poco più di un mese dal giorno del suo arresto quando, dopo che ebbe negato ogni addebito in relazione ai fatti denunciati da PC 1, venne, tra l’altro, informato delle dichiarazioni rese da RI 4 che smentivano il suo chiamarsi fuori) emerge, con meridiana evidenza, che RI 1 ha, in realtà, più volte cambiato la sua versione sul ruolo assunto da RI 4 nell’elaborazione del piano criminale e, più in generale, sulla sua consapevolezza del destino delle retrocessioni generate con le operazioni forex taroccate.
cb)
Nel verbale A6, RI 1 ha, infatti, esordito affermando che lui e RI 4, confrontati con la necessità di recuperare alcune perdite importanti su investimenti rivelatisi sbagliati, avevano pensato - e per forza di cose ne dovevano anche avere parlato esplicitamente - di proporre ad una banca compiacente il sistema incriminato da loro elaborato. Anche nel successivo verbale del 6.12.2006 (A10), RI 1 ha confermato la partecipazione attiva di RI 4 all’elaborazione del piano, ribadendo che entrambi, dovendo recuperare alcune perdite subite a causa di investimenti sbagliati, iniziarono a lavorare
“di fantasia”
per trovare quel sistema che sarebbe poi stato proposto alla banca con il pretesto della creazione di fondi neri per PC 1.
Sennonché, in occasione del verbale di interrogatorio del 11.1.2007 (A25), RI 1 ha detto che il sistema fu elaborato unicamente da lui e che lui e RI 4 non parlarono mai esplicitamente - in ogni caso, sino al passaggio in _ - del fatto che il 90% degli importi generati con il metodo forex taroccato sarebbe stato convertito da RI 1 a suo indebito profitto. In quell’occasione, RI 1 ha, poi, aggiunto che RI 4 non poteva non avere capito che il 90% delle retrocessioni sarebbe finito nelle sue tasche e che non sarebbe stato destinato a creare fondi discreti a disposizione di PC 1 poiché, così come specificato in precedenza dal chiamante (A10), RI 4 “
doveva sapere che se PC 1 avesse voluto costituire delle riserve occulte non avrebbe avuto bisogno dell'avv. RI 4, né di creare un meccanismo macchinoso e costoso date le commissioni percepite da RI 4
”
.
Una motivazione sulla consapevolezza di RI 4, questa, che, non solo lascia spazio a non poche perplessità in termini di costanza e coerenza, ma avvalora anche la tesi difensiva secondo cui la chiamata di correo è sostanzialmente vaga, sprovvista di fondamento fattuale e si basa solamente su impressioni e supposizioni del chiamante.
In effetti, dimenticando le sue precedenti dichiarazioni che vedevano RI 4 parte attiva nell’elaborazione del piano per permettere ad entrambi di recuperare le perdite subite, RI 1, in occasione del succitato verbale (ma anche, come visto, di quelli successivi), cambia la sua versione e deduce la consapevolezza di RI 4 da una serie di considerazioni, peraltro, opinabili. E meglio, la deduce dalla sua conoscenza del gruppo, dal suo coinvolgimento superfluo e marginale nell’operazione, dalla natura stessa del meccanismo e dalla sua onerosità; tutte circostanze che, a giudizio del chiamante, avrebbero dovuto fare comprendere a RI 4 quale sarebbe stata la reale destinazione degli importi retrocessi da _ sul conto _ , prima, e da _ in _ , poi.
Sennonché, così facendo RI 1 non riferisce più di fatti che potrebbero avvalorare il dolo di RI 4, bensì espone sue supposizioni basate su una personale valutazione di quelle che avrebbero dovuto essere le deduzioni di RI 4 a fronte delle circostanze che avrebbero dovuto essergli note.
È evidente che una chiamata in correità non può basarsi esclusivamente su deduzioni che si rivelano, per di più, non conclusive se si pone mente al fatto che le suddette circostanze note a RI 4 erano le stesse circostanze che erano note a tutti gli altri protagonisti della vicenda PC 1, costantemente scagionati dal chiamante.
cc)
Inoltre le supposizioni che, nel verbale A10, RI 1 pone a fondamento della consapevolezza di RI 4 non si conciliano - ma, anzi, si contrappongono - con l’antecedente che RI 1 ha, perlomeno fino alla contestazione delle contrarie emergenze probatorie raccolte nel prosieguo dell’inchiesta, ripetutamente posto a fondamento della sua chiamata di correo, e cioè con la circostanza di fatto secondo cui il tutto (ovvero l’idea criminale) nacque nel 1998 su richiesta di RI 4 con il dichiarato e condiviso scopo di coprire le perdite da entrambi registrate in quel periodo sui titoli tecnologici.
A ragione il ricorrente sostiene, in questo contesto, che una cosa è dire che RI 4 sapeva, altra cosa è affermare che egli non poteva non sapere sulla base, peraltro, di circostanze di per sé inconciliabili.
Infatti, se lo scopo era veramente quello di recuperare le perdite subite da entrambi in quel periodo, allora RI 4
“non poteva non avere capito”
le finalità dell’operazione, non già per ipotetiche e soggettive deduzioni che avrebbe dovuto fare sulla base di circostanze a lui note - e ciò quand’anche non ci fosse stata un’esplicita comunicazione del destino del 90% delle retrocessioni e quand’anche non avesse partecipato all’elaborazione del sistema incriminato - bensì egli
“non poteva non aver capito”
unicamente poiché sapeva quale era la finalità dell’operazione, ovvero recuperare le perdite patite a titolo personale da lui e da RI 1 in quel momento.
Ma il condizionale è, ancora una volta, d’obbligo poiché anche per quanto riguarda la descrizione dell’antecedente - che di per sé avrebbe potuto, senza arbitrio, supplire ad una comunicazione esplicita del destino che avrebbero avuto le retrocessioni in esame, poiché questa sarebbe stata insita nello scopo perseguito da entrambi - le dichiarazioni di RI 1 si rivelano, a fronte di un attento esame, ancora una volta, poco costanti.
In effetti, in occasione dell’interrogatorio del 4.12.2006 (A6), RI 1 afferma, dapprima, che
“
all'epoca (nel 1998) avevo accusato alcune perdite importanti sugli investimenti in titoli di alta tecnologia e così pure l'avv. RI 4 ed i suoi clienti. (...) Fatto sta che RI 4 mi ha chiesto se era possibile trovare un sistema per recuperare quello che lui ed anch'io avevamo perso. RI 4 non mi ha parlato in particolare dei suoi clienti, ma mi ha detto che era al "tubo del gas" e doveva trovare una soluzione.”
Nel successivo verbale (A10), RI 1 ribadisce che “
il tutto è nato per cercare di recuperare dei soldi che avrebbero dovuto servire a coprire le forti perdite che sia io che RI 4 avevamo subito.
”
Sennonché, in occasione del successivo verbale di interrogatorio (A20), le perdite che i due sin lì avevano subito e che li avevano spinti a delinquere non soltanto non erano più “
alcune”,
“
importanti”
e “
forti”,
ma non erano neppure più effettive. Infatti, RI 1 ha, in quell’occasione, dichiarato - in contraddizione con quanto detto sino a quel momento - che il sistema era nato poiché lui e RI 4 nel 1998 avevano solo cominciato “
ad intravedere delle possibili importanti perdite sui nostri investimenti privati”
.
Ma non solo.
La dichiarazione appena riprodotta contrasta anche con quella resa poco dopo, sempre nello stesso verbale, laddove RI 1 torna a dichiarare che RI 4 gli aveva chiesto se “
poteva esserci un sistema per cercare di guadagnare qualcosa e coprire le perdite
” e che lui acconsentì poiché di perdite ne aveva accusate pure lui.
Delle due l’una: o le perdite erano effettive e da lì è nata la necessità di recuperarle oppure erano solo prevedibili e pertanto RI 1 non può sostenere, nel contempo, di avere accettato la proposta di RI 4 per recuperare perdite che anche lui aveva patito.
È evidente che il contesto in cui sarebbe nata l’idea di entrambi di intascarsi il denaro di PC 1 - contesto in cui, tra l’altro, secondo RI 1, RI 4 gli avrebbe detto di essere al “tubo del gas” ripetendo che stavano
"perdendo una fortuna"
, che
dovevano
"trovare il sistema per rifarci"
e che riceveva
"telefonate dai miei clienti che si lamentano della mia gestione"
- non solo manca di precisione ma è assolutamente nebuloso.
Tanto più che solo pochi giorni dopo, in occasione del verbale di interrogatorio 11.1.2007 (A25), RI 1 ha dichiarato che quel che RI 4 voleva, quando lo interpellò nel 1998, non era più recuperare importanti perdite né guadagnare in vista di perdite prevedibili ma unicamente “
guadagnare qualche soldo”
per coprire quelle perdite che, su consiglio di RI 1, aveva accusato lui personalmente ed i suoi clienti.
Anche sulle circostanze che portarono all’ideazione del piano - e meglio, sulle pretese perdite subite da entrambi - e che hanno chiamato in causa RI 4 quale agente scatenante del piano poi elaborato, quindi, RI 1 da dimostrazione di poca costanza e di mancanza di coerenza.
In sunto, secondo il dire di RI 1 - a torto ritenuto costante dalla prima Corte - le perdite sue e di RI 4 per la cui copertura il piano venne elaborato sono, dapprima, “
alcune
” “
effettive
” ed “
importanti o forti”
, dopo si rivelano solo ipotizzabili, prevedibili e future e infine tornano ad essere nuovamente effettive ma si riducono in ampiezza visto che per coprirle sarebbe bastato “
qualche soldo
”.
cd)
Già solo in queste iniziali dichiarazioni - peraltro rese sull’arco di un periodo relativamente breve - RI 1 ha dato oggettivamente dimostrazione di ben poca costanza e coerenza.
ce)
Ma la mancanza di costanza di RI 1 circa il coinvolgimento di RI 4 in quanto agente consapevole si rivela con ancora maggiore chiarezza confrontando le dichiarazioni sin qui esaminate con quelle rese successivamente dal chiamante.
In effetti, in occasione del verbale dell’8.2.2007 (A34), il PP, dopo avere constatato (sulla scorta dei risultati dell’indagine intesa a verificare le dichiarazioni di RI 1) che, almeno per gli investimenti sul conto
_
- unico suo conto attivo nel periodo 1998/1999 - non figurava alcuna perdita che avrebbe potuto in qualche modo motivare la decisione di iniziare a malversare e che anche dai grafici dell’andamento dei titoli tecnologici citati da RI 1 nei suoi verbali e nei quali aveva investito negli anni 1998/1999 emergeva un andamento generalmente positivo ritenuto come un primo tracollo si era registrato solo più tardi, negli anni 2000/2001 - e ciò contrariamente a quanto RI 1 aveva sin lì riferito - il chiamante si è limitato ad impegnarsi a riflettere sulle emergenze prospettategli e ad affermare di ricordare di avere
“subito delle gravi perdite”
e di avere “
collegato l'inizio delle operazioni forex con il _ al fatto di queste perdite”
prendendo, però, atto che quel ricordo evidentemente non corrispondeva con quanto effettivamente accertato. RI 1 si impegnò, quindi, a “
fare mente locale”
e a indicare “
precisamente alla PP, sempre che io mi ricordi, i motivi per cui nel 1998 ho preso la decisione di malversare ai danni della PC 1.”
Chiamato ancora il 19.6.2007 (A46) a fornire le ragioni per cui il piano criminale venne elaborato ed avviato - poiché quelle indicate precedentemente non potevano essere vere visto che di perdite a causa di investimenti sbagliati (peraltro, sempre negate da RI 4) non vi era traccia agli atti, ritenuto come in quel periodo gli investimenti in titoli tecnologici avevano, in realtà, solo fruttato dei guadagni - RI 1 non rispose, limitandosi a parlare del calo di valore subito dai titoli PC 1 nella seconda metà del 1998 e a parlare di “
stock options della PC 1, che non erano depositati in alcun portafoglio
” e che, “
se esercitati, non gli avrebbero permesso di conseguire un buon utile
” (!!!), confermando così che di perdite effettive egli non ne subì.
Su questo aspetto torneremo nel considerando che segue. Qui basti dire che, correttamente interpretate, queste dichiarazioni altro non sono che una nuova versione riguardo al preteso danno chiamato a giustificare il fatto che RI 4 gli chiese “
di far qualcosa”
dando così l’avvio al piano criminoso: l’incostanza di RI 1 su questa questione non è più solo riferita all’entità del danno ma anche alla sua esistenza.
Così come riportato in sentenza (consid. 7, pag. 45-46), in aula, RI 1 ha ribadito tutte le dichiarazioni rese nel verbale A6 (verb. dib. pag. 8). Così facendo (e meglio, cambiando nuovamente versione rispetto all’A10 e successivi pur senza sconfessarli esplicitamente), da un lato, è tornato, relativamente al ruolo avuto da RI 4, alla primitiva versione di un RI 4 coideatore del piano criminale. D’altro lato, egli non ha - perlomeno sulla scorta di quanto emerge dal verbale del dibattimento e dalla motivazione della sentenza - né chiarito né precisato i molteplici aspetti contraddittori del suo quadro dichiarativo che, contrariamente a quanto accertato, ma non sostanziato, dai primi giudici, risulta tutt’altro che affidabile, preciso e coerente in relazione alle circostanze della nascita del piano criminale, ed in particolare al ruolo giocato da RI 4 in questo contesto (cfr. sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105).
Se è vero che RI 1 ha costantemente dichiarato a partire dal suo secondo verbale del 4.12.2006 (A6) - ripetendolo anche in aula - che RI 4 era a conoscenza, sin dall’inizio, del disegno criminoso e che con tale consapevolezza l’ha aiutato nei modi descritti nell’atto di accusa (cfr. sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105), è altrettanto e soprattutto vero che le sue dichiarazioni sul movente e sulle circostanze e il contesto in cui egli ha collocato il “RI 4 consapevole” hanno subito nel tempo modifiche sostanziali. Le sue dichiarazioni al riguardo - se sottoposte al meticoloso esame cui è soggetta, per sua stessa natura, la chiamata di correo (al pari di ogni altro indizio in assenza di prove certe) - si sono rivelate tutt’altro che costanti e coerenti.
La
prima Corte è, pertanto, caduta in arbitrio ritenendo chiare, univoche e costanti le dichiarazioni del chiamante.
La relativa censura è,
pertanto, fondata.
4.4.
Il ricorrente prosegue nella contestazione della valutazione della chiamata in correità operata dai primi giudici sostenendo che le dichiarazioni di RI 1 sono state a torto ritenute, in sé, affidabili in ragione della verosimiglianza dei fatti e delle circostanze da questi addotte. In particolare, il ricorrente rimprovera alla prima Corte di non avere considerato, in questo esame, che la sua situazione era più che florida. Ciò ritenuto - prosegue - la considerazione, peraltro fondata sul nulla, secondo cui, in virtù delle differenti abitudini linguistiche dei due, le espressioni
“era al tubo del gas”
e
“stava recuperando sangue”
non appartengono al vocabolario del chiamante ma non stonano “
in bocca a RI 4”
è talmente inconsistente da essere del tutto improduttiva (ricorso punto 3.3 pag. 20 e 21). Sempre nell’ottica della logica interna della chiamata, il ricorrente sottolinea l’incoerenza del dire di RI 1 laddove egli ha affermato che, quando RI 4 gli chiese di pensare a un metodo per recuperare le perdite, lui intese che “
egli facesse riferimento a sistemi leciti o illeciti”
visto che “
operando lecitamente sul mercato dei cambi non era possibile conseguire lo scopo voluto da RI 4”
(ricorso pag. 20 che cita le dichiarazioni rese da RI 1 durante il confronto con RI 4, verbale 12.1.2007, pag. 2 in fine).
a)
Si evince dalla sentenza impugnata che la prima Corte ha ritenuto in sé verosimile il racconto di RI 1 secondo cui fu RI 4 a chiedergli di elaborare un piano per recuperare dei soldi nonostante la sua situazione economica fosse oggettivamente “
florida e benestante
” poiché, nel riferirlo, RI 1 utilizzò un’espressione colorita - “
essere al tubo del gas
” cui fece seguito uno “
stare recuperando sangue
” dopo che le retrocessioni cominciarono ad affluire - non propria del linguaggio di RI 1 ma che
“potrebbe, invece, anche non stonare in bocca a RI 4”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag 106-107)
.
b)
L’argomentazione ricorsuale secondo cui il contenuto della chiamata di correo sulle circostanze che spinsero RI 4 a chiedere all’amico di trovare un sistema - “
illecito
” - per “
fare soldi per sé
” manca di una logica e coerenza interna non è destituita di fondamento.
Infatti, nella situazione descritta da RI 1 (invero una delle tante) e ritenuta attendibile dalla prima Corte al considerando 16 pag. 106 e seg. della sentenza impugnata, si ha un avvocato incensurato, con una situazione economica “
florida e benestante
” che chiese all’amico di elaborare un piano criminoso soltanto perché “
alcuni ma non molti”
dei titoli PC 1 che deteneva ebbero un calo. Si evidenzia, qui, che, nella situazione descritta da RI 1 e ritenuta dalla Corte, l’avvocato incensurato e benestante non aveva davvero subito una perdita. Semplicemente, aveva visto alcuni (peraltro pochi) titoli che deteneva subire un calo di valore: nella sentenza impugnata, infatti, nemmeno è preteso che i titoli siano in quel momento stati venduti e che ciò abbia davvero provocato una perdita. Non vi è chi non veda come la richiesta che RI 1 pretende che RI 4 gli abbia rivolto non sia quella che, secondo la comune esperienza della vita e l’ordinario andamento delle cose, fa un incensurato e benestante professionista confrontato con un calo del valore di poche azioni da lui detenute (e non ancora con una reale ed effettiva perdita).
A questa assenza di logica interna - e, pertanto, di verosimiglianza in sé del racconto - non si può certamente supplire, come ha fatto la prima Corte, con argomentazioni di natura linguistica. Non lo si può fare non soltanto per la fragilità dell’argomento. Soprattutto in concreto non lo si può fare poiché le argomentazioni di natura linguistica poggiano su un accertamento arbitrario: come sostenuto dal ricorrente, non vi è, agli atti, alcun elemento probatorio che possa sorreggere l’accertamento relativo alle “abitudini linguistiche” degli imputati.
Va qui aggiunto che in questo contesto, cioè nel contesto di una situazione in sé illogica, è del tutto irrilevante il distinguo fatto dalla prima Corte secondo cui RI 1 non aveva mai detto che RI 4 fosse oggettivamente al tubo del gas ma ha solo affermato che RI 4 gli disse di esserlo (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 106). In effetti, rimane inverosimile - poiché non conforme al comune andamento delle cose - che il descritto avvocato benestante ed incensurato si metta improvvisamente a mentire sulla sua situazione finanziaria per convincere RI 1 a delinquere.
In questo senso e su questo punto, dunque, così come sostenuto nel ricorso, non si può attribuire logica interna alla chiamata di correo di RI 1 senza cadere in arbitrio.
Anche la seconda censura ricorsuale relativa alla coerenza interna della chiamata merita accoglimento. Non è, infatti, in sé credibile poiché illogica la versione secondo cui RI 1 comprende la (pretesa) richiesta dell’amico come richiesta implicita di elaborazione di un piano criminale a motivo del fatto che “
operando lecitamente sul mercato dei cambi non era possibile conseguire lo scopo voluto da RI 4”
: questo
“
scopo voluto
” era, infatti, del tutto nebuloso nella misura in cui lo stesso RI 1 non ha saputo mai quantificare la pretesa perdita subita da RI 4 se non con espressioni generiche (e, peraltro, come visto sopra, fra loro contradditorie). Mai RI 1 ha parlato di cifre che sole avrebbero potuto - se davvero consistenti - rendere in qualche modo logica la sua dichiarazione circa quel che lui dedusse dalla (pretesa) richiesta dell’amico che - per stessa sua ammissione - sulla questione (cioè, sul metodo con cui operare) nulla aveva detto.
Anche questa censura merita, dunque, accoglimento.
c)
A fronte dell’accoglimento delle precedenti censure quo all’arbitrarietà del giudizio di logica e coerenza interna delle dichiarazioni di RI 1, appare superfluo esaminare le ulteriori censure avanzate a questo proposito dal ricorrente (cfr. ricorso, pag. 20 e 21).
4.5.
Il ricorrente censura, poi, il giudizio di generale credibilità di RI 1 sostenendo, in sunto, che nel darlo i primi giudici non hanno “
minimamente
” considerato che RI 1 non ha indicato la destinazione data ai 7-10 milioni di franchi “
che mancano inspiegabilmente all’appello
” oppure ha dato, al riguardo, “
spiegazioni del tutto inattendibili
” (ricorso, pag 28).
a)
Esaminando l’affidabilità della chiamata, la prima Corte ha ritenuto data anche la generale credibilità di RI 1 rilevando che egli “
in sede pre-dibattimentale, ma soprattutto in aula, ha sempre risposto in modo affidabile, preciso e coerente alle domande postegli. Al di là della sua pesante caduta nell’illecito” -
ha continuato la prima Corte -
“ va dato atto a RI 1 di essere, per carattere e formazione, un uomo preciso, financo meticoloso, chiaro e accurato nell’esprimersi
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 105).
b)
Anche in questo giudizio, la prima Corte è caduta nell’arbitrio. Essa, infatti - come sostenuto dal ricorrente - non ha per nulla considerato che RI 1 non ha indicato la sorte avuta dai fr. 7-10.000.000.- che mancano all’appello (cfr A40 del 18.4.2007 pag 4 ). Viste le caratteristiche riconosciute a RI 1 - giudicato, “
per carattere e formazione, un uomo preciso, financo meticoloso” -
il suo silenzio sul destino di una cifra così importante non può che essere considerato una pesante ed inammissibile reticenza che, in quanto tale, contrasta in modo irrimediabile con il giudizio di credibilità generale.
Del resto, a titolo abbondanziale, si rileva che, con questo giudizio, la prima Corte è caduta in contraddizione con sé stessa nella misura in cui, procedendo alla commisurazione della pena da infliggere a RI 1, ha dato atto di nutrire
“non poche perplessità e preoccupazioni per il fatto che RI 1 non ha dato agli inquirenti spiegazioni sul destino di quei 7-10.000.000.- di franchi che ancora mancano all’appello
” (sentenza impugnata, consid. 19, pag 122).
Anche questa censura deve, dunque, essere accolta.
4.6.
Proseguendo nel suo esposto, il ricorrente sostiene che la dichiarazione di correo sulla cui base la prima Corte
ha accertato che lui sollecitò RI 1 ad elaborare il disegno criminoso a seguito del calo subito dalle azioni PC 1 è smentita sia dal fatto che egli in quel momento non ha subito delle perdite a seguito dei suoi investimenti in borsa sia dal fatto che egli - lungi dall’essere “
al tubo del gas
” - ha sempre avuto in quell’anno una situazione economica florida.
a)
Dopo avere accertato - come detto, arbitrariamente - la costanza e la logica interna delle dichiarazioni di RI 1 e la sua generale credibilità, i primi giudici hanno considerato verosimili le dichiarazioni sui fatti e sulle circostanze relative al contesto in cui, secondo il chiamante, è nato il piano criminoso sulla base degli accertamenti secondo cui “
nell’autunno del 1998 le azioni PC 1 ebbero davvero un calo
” e secondo cui “
RI 4 possedeva alcuni (non molti) di quei titoli, mentre che RI 1 (tra azioni e stock-option) ne possedeva parecchi di più
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag 107).
b)
Al proposito, il ricorrente inizia evidenziando che, contrariamente a quanto dichiarato da RI 1, egli non aveva subito nel periodo in cui l’operazione stava per essere organizzata
“pesanti perdite”
, non
“era al tubo del gas”
e non doveva trovare, pertanto, nessuna “
soluzione”
poiché, così come dimostrato nel corso dell’inchiesta, in quel periodo la sua situazione finanziaria era
“più che florida”
(ricorso punto, 3.3 pag. 19). Egli continua, poi, rilevando come i primi giudici, malgrado abbiano dato atto di questa sua floridezza finanziaria, siano caduti in arbitrio giudicando affidabile il dire di RI 1 poiché - spiega il ricorrente - le sue dichiarazioni, non solo non hanno trovato conferma negli atti, ma, al contrario, “
negli atti processuali trovano costanti smentite
” (ricorso pag. 19).
c)
La censura ricorsuale - relativa alla vestizione della chiamata di correo da elementi esterni - merita accoglimento poiché dal materiale probatorio in atti risulta che, contrariamente a quanto accertato dalla prima Corte, nel periodo in cui è nato il disegno criminoso, nessuno dei due protagonisti aveva subito delle perdite in borsa.
Come affermato nel ricorso,
su questo tema le dichiarazioni di RI 1, non solo non trovano conferma in atti, ma sono addirittura da essi smentite.
A torto, infatti, i primi giudici hanno vestito il dire di RI 1 con il fatto - di per sé correttamente accertato - secondo cui nell’autunno del 1998 le azioni PC 1 subirono un calo.
Come visto sopra secondo la chiamata di correo così come è stata interpretata dai primi giudici, fu a seguito di investimenti andati male e che provocarono delle perdite che RI 4 sollecitò RI 1 affinché questi elaborasse un piano criminoso volto a recuperare le perdite e fu soltanto dopo che il piano venne elaborato che nacque la necessità di trovare una banca compiacente. Questa venne individuata nel _ ai cui quadri RI 4 - dando esecuzione al piano - presentò (insieme ad un inconsapevole RI 5) RI 1.
In questo scenario, dunque, le perdite che generarono il tutto dovettero - forzatamente - verificarsi prima della presentazione di RI 1 in _ .
Ora, come risulta dalla testimonianza di
Z. (verbale del 30.11.2006, B4), da inchieste esperite in _ nel 2006 è emerso che la
presentazione di RI 1 in _ avvenne in un incontro - cui parteciparono, oltre a RI 1, RI 4, RI 5, B. e A. - che ebbe luogo nel periodo marzo-giugno 1998, quindi prima dell’autunno del 1998 [cfr. a questo proposito anche le dichiarazioni dei quadri del _ che riferiscono di incontri preliminari di presentazione del cliente, e meglio
B9 A. 1.12.2006, B17 A. 16.1.2007, B8 B. 1.12.2006 e B16 B. 20.1.2007,
unitamente alle dichiarazioni dello stesso RI 1 secondo cui probabilmente il primo incontro di presentazione avvenne
presso gli uffici della PC 1 oppure presso il Ristorante
_
(cfr. A6 4.12.2006)].
Per quanto riguarda l’andamento dei titoli e, più in generale delle borse in quel momento - ovvero nel periodo marzo-giugno 1998 e comunque prima dell’autunno del 1998 - già si è anticipato ai consid. 4.3. bg) e 4.3. bh) che l
’inchiesta - cfr. in particolare, le contestazioni del procuratore pubblico nei verbali 8.2.2007 A34 e 19.6.2007 A46 quo all’andamento dei titoli in cui RI 1 aveva investito con particolare riferimento agli anni 1998/1999 - ha permesso di appurare che nel 1998, a parte un lieve calo in autunno del titolo PC 1 (cfr. le dichiarazioni di RI 1 in occasione del verbale del 16.6.2007 A46 e il doc. dib. 5 prodotto dalla PC), l'andamento dei titoli (in cui RI 1 aveva investito) era generalmente positivo e che solo negli anni 2000/2001 vi è stato un tracollo dei corsi.
Pertanto,
nei primi sei mesi del 1998 i titoli PC 1 in cui avevano investito sia RI 4 (“
non molti”;
cfr. sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107) sia RI 1 (“
parecchi di più”;
cfr sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107) non potevano avere registrato alcun calo.
Va, qui, osservato che, in ogni caso, nemmeno è sostenibile che RI 4 e RI 1 subirono delle perdite (per il cui recupero era necessario delinquere) nell’autunno successivo. Infatti, gli accertamenti esperiti durante
l’inchiesta hanno permesso di accertare che di perdite non si può parlare almeno sino al 2000/2001 (cfr. A34 e A46). E, al proposito, messo alle strette, dopo avere implicitamente ammesso di avere collegato a torto l’inizio delle operazioni forex taroccate con le perdite subite (cfr. A34 in cui egli prende atto che nel 1998 non vi era alcuna perdita che avrebbe potuto motivare la decisione di iniziare a malversare a danno di PC 1), lo stesso RI 1 non ha saputo fare altro che richiamarsi ad una perdita di valore del titolo PC 1 (che, in sé, ancora non significa, perdita effettiva) per poi passare a parlare di un solo teorico mancato conseguimento di un buon utile (cfr. A46), ciò che, con evidenza, non può essere visto come una perdita.
Del resto, nemmeno la prima Corte ha accertato l’esistenza di una perdita effettiva ma si è limitata ad evocare il generico calo di valore subito dalle azioni PC 1 nell’autunno 1998 (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107).
Questi accertamenti evidenziano l’arbitrarietà del giudizio di attendibilità della chiamata di correo ritenuto che il chiamante ha sempre sostenuto che il
“tutto”
era nato dalla richiesta di RI 4 di trovare un sistema per recuperare le perdite da entrambi subite con i titoli tecnologici: nella prima metà del 1998 - ma nemmeno globalmente in quell’anno (cfr. allegato 13 pag. 12/12- _ in AI749) - né RI 4 né RI 1 subirono perdite a seguito dei loro investimenti.
In questo senso, non soltanto la chiamata di correo non è vestita da elementi esterni, ma da essi la chiamata è smentita.
In questo contesto, aggiungono inverosimiglianza al tutto le dichiarazioni riguardanti la disperazione di RI 4 - “
sono alla tubo del gas
” e, poi, “
recupero un po’ sangue
” - che fa a pugni con la situazione di generale e solido benessere dell’avvocato luganese (“
nel 1998 la mia situazione finanziaria era florida nel senso che disponevo di liquidità per ca. fr. 2/2.5 Mio ed altri beni immobili tra cui lo stabile in cui si trova il Ristorante
_
e la mia abitazione di
_
. Sono anche azionista in ragione di 30 azioni su 130 della
_
. Complessivamente dichiaravo nel 1998 un reddito complessivo di ca. fr. 500'000.-.”
, A7
RI 4
5.12.2006
)
e quelle relative al sentirsi responsabile di RI 1 per consigli dati quando,
in realtà, al momento della nascita del disegno criminale, tali consigli avevano solo fruttato dei guadagni.
d)
Da quanto precede, il racconto di RI 1 sulla nascita del piano criminoso, già incostante, incoerente e privo di logica interna come detto al considerando che precede, risulta pure smentito dalle risultanze agli atti.
A fronte dell’accoglimento di questa censura, appare superfluo esaminare le altre argomentazioni sviluppate al riguardo dal dal ricorrente (ricorso, pag. 19 e 27).
4.7.
Il ricorrente censura d’arbitrio il giudizio di spontaneità della chiamata di correo poiché - sostiene - RI 1 lo ha chiamato in causa soltanto dopo essere stato informato che “
RI 4 aveva svuotato il sacco”
, cioè dopo che egli aveva fatto al PP dichiarazioni che coinvolgevano direttamente il chiamante nell’ipotesi di reato denunciata da PC 1 e dopo che queste sue dichiarazioni gli vennero contestate.
Egli contesta anche il giudizio di prime cure sulla natura disinteressata della chiamata di correo, ritenuto come fu soltanto nelle citate condizioni di fatto che RI 1 lo coinvolse pesantemente, affermando che egli sapeva e che aveva insieme a lui elaborato il sistema da proporre alla banca. Al proposito, il ricorrente sottolinea come RI 1 sfumò e rettificò vieppiù tale sua dichiarazione sino ad affermare semplicemente che, a suo parere, RI 4 non poteva non sapere che egli avrebbe dirottato a suo indebito profitto il 90% delle retrocessioni ai danni di PC 1, anche se di ciò i due non parlarono mai esplicitamente. Il ricorrente rimprovera, poi, alla prima Corte di essere caduta in arbitrio nel giudicare spontanea la chiamata di correo di RI 1 trovando, come ha fatto, tale caratteristica nella semplice circostanza per cui il chiamante, scelta la via della confessione, non l’ha più abbandonata (ricorso pag. 26 e 27).
a)
Il giudizio di spontaneità della chiamata di correo formulato dai primi giudici poggia sulle considerazioni secondo cui RI 1
”scelta per sé la via della confessione (...) non l’ha più abbandonata”
(pag. 105 della sentenza impugnata) e sull’accertamento secondo cui RI 1 chiamò in causa RI 4 non per
“scaricare su di lui proprie colpe quanto piuttosto per illustrare il contesto in cui è nato il disegno criminoso da lui (e non da RI 4) concepito”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 106).
Il carattere disinteressato della chiamata di correo è stato, per contro, ravvisato dalla prima Corte nella circostanza secondo cui RI 1 non ha avuto, poiché non risulta,
“né in corso d’inchiesta, né in aula, un qualche interesse a dire e a riaffermare che RI 4 era stato sin dall’inizio consapevole del fatto che i soldi ricavati dalla modifica dei corsi di cambio se li dividevano tra loro”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107). Anzi - sempre secondo i primi giudici -
“persi dopo l’arresto e dopo quattordici mesi di carcere preventivo ogni residuo prestigio, ogni orgoglio e reputazione, l’aver chiamato in causa RI 4 semmai gli ha nuociuto, perché l’inchiesta si è fatta più complessa e i tempi giudiziari, compresi quelli del dibattimento, si sono fatti più lunghi”
(sentenza impugnata, consid. 16, pag. 107-108).
b)
Per giudicare della spontaneità, non già delle sue ammissioni, ma di quelle relative al coinvolgimento di RI 4, non può essere dimenticato - come, invece, hanno fatto i primi giudici - la circostanza secondo cui la chiamata di correo è giunta dopo un primo interrogatorio del 29.11.2006 (A1), in occasione del quale RI 1 ha più volte negato sia di conoscere la _ sia di avere mai saputo che la stessa fosse riconducibile a RI 4 ed in cui RI 1 aveva, inoltre, strenuamente negato di avere avuto un ruolo nell’operatività messa in atto per la generazione delle retrocessioni ed in cui, ancora, a fronte di questa negazione di un suo qualsivoglia coinvolgimento nella vicenda, gli furono contestate le dichiarazioni contrarie rese proprio ed esclusivamente da RI 4 che lo coinvolgevano in prima persona e a cui lui, in un primo momento, tentò di reagire con argomentazioni estremamente inconsistenti (cfr A1 pag. 5).
Non può, pertanto, essere ignorato, pena un’interpretazione unilaterale o per lo meno insufficiente del materiale probatorio, che fu soltanto dopo che gli vennero contestate le dichiarazioni di RI 4 che lo inchiodavano alle sue responsabilità - sin lì da lui negate - che egli, non solo scelse “
la via della confessione
”, ma scelse di chiamare in causa RI 4 sostenendo che sia l’elaborazione del piano sia la decisione di presentarlo in banca con la “favola” della creazione di creare dei fondi neri per PC 1 fu fatta di comune accordo.
Rilevata questa successione temporale che, già da sola, pone una pesante ipoteca sul carattere spontaneo della chiamata, non può essere dimenticato che al termine del primo interrogatorio - quando, messo oramai alle strette, preferì non pronunciarsi sulla questione delle retrocessioni - RI 1 fu arrestato, che, lasciato l’ufficio del procuratore pubblico per essere condotto in carcere, RI 1 incontrò RI 4 nei corridoi del Ministero pubblico e che, in quel breve incontro, fra i due vi fu un altrettanto breve colloquio (cfr A17, A20, A22, A26).
Secondo quanto dichiarato da RI 4, in quel frangente, RI 1 gli disse "
RI 4 sei un cretino, cosa sei andato a raccontare, adesso mi arrestano, ma te la faccio pagare
" (A17). RI 1 ha, invece, sostenuto che egli si limitò a dire "
ti rendi conto che mi stanno arrestando?
" e che RI 4, volendo discolparsi (“
come a sua giustificazione”,
cfr. A20 pag. 2), gli rispose che la colpa era di
“quei fetenti del _ " (
A20
e
A26))
.
La sentenza impugnata nulla dice in relazione a questo incontro ed al colloquio fra i due ormai ex-amici. La questione può, comunque, essere risolta in questa sede ritenuto che le due versioni sono soltanto apparentemente contrastanti nella misura in cui, anche volendo prendere per buona quella di RI 1, si ha comunque un RI 1 che accusa l’altro del suo arresto: quel “
ti rendi conto
” non può certamente essere inteso come l’espressione di incredulità di un innocente (RI 1 sapeva quel che aveva fatto) indirizzata all’amico incontrato casualmente nei corridoi. Del resto, che quel “
ti rendi conto”
era da intendersi come un rimprovero è dimostrato anche dal fatto che è lo stesso RI 1 a dire che RI 4 tentò di difendersi addossando la colpa a “
quei fetenti del _ ".
Con il che, ci si trova - per ammissione (anche se inconsapevole) di RI 1 - di fronte ad un chiamante che chiama in causa colui che egli ritiene essere il responsabile del suo arresto.
Pur rilevando che, in seguito, riconfermandosi nella sua chiamata di correo, RI 1 ha escluso di avere avuto, tirando in causa RI 4, intenti vendicativi (A20), nell’ambito dell’esame del carattere disinteressato e spontaneo della chiamata di correo non può essere ignorata la circostanza secondo cui fu soltanto dopo che seppe che con le sue dichiarazioni al PP l’amico lo aveva praticamente messo con le spalle al muro che RI 1 si decise - oltre che ad ammettere le sue responsabilità - a chiamare in causa RI 4. E, sempre nell’ambito dell’esame del carattere spontaneo e disinteressato della chiamata, non può essere dimenticato - alla luce del colloquio di cui s’è detto che rivela come RI 1 ritenesse l’amico responsabile dei suoi guai - che RI 1 ha, nel tempo, gradualmente annacquato il contenuto della sua chiamata tanto che, nel corso dei vari interrogatori, il coinvolgimento di RI 4 nell’ideazione del piano si è gradualmente sfumato sino ad arrivare, in sostanza, ad una mera supposizione del chiamante: “
RI 4 non poteva non avere capito”
cose di cui i due mai avevano parlato esplicitamente.
Va, poi, considerato che è insito nella natura della “figura indiziante” che attraverso la chiamata in correità l’imputato attribuisca la corresponsabilità di un fatto penalmente rilevante ad un terzo senza liberarsi dalla propria parte di responsabilità. Pertanto, nella verifica dell’attendibilità della chiamata, la questione secondo cui il chiamante non si libera dai propri addebiti assume rilevanza soltanto secondaria.
Ne consegue, che se - così come indicato dai primi giudici - è vero che, in concreto, RI 1 ha chiamato in causa RI 4 soltanto dopo avere deciso di rispondere dei suoi addebiti, è anche vero che non poteva essere altrimenti: non può, infatti, per definizione, esservi chiamata di correo senza assunzione di una personale responsabilità.
Inoltre, pure ritenuto che RI 1 non ha cercato di attribuire a RI 4 un ruolo preponderante nell’ideazione o nella messa in esecuzione del piano delittuoso, va precisato che, comunque, egli gli ha attribuito la funzione di motore scatenante l’attività criminale affermando che il tutto è nato da una richiesta dell’avvocato luganese che lo sollecitava a trovare un sistema per recuperare le perdite subite a causa di investimenti da lui consigliati, facendo così leva sul suo senso di responsabilità. In questo senso, contrariamente a quanto accertato dalla prima Corte, RI 1 ha chiamato in causa RI 4 proprio scaricando su di lui la responsabilità - se non dell’elaborazione del piano criminoso (anche se, in occasione del verbale 4.12.2006, volle dividere con lui tale responsabilità sostenendo che vi pensarono insieme) - della decisione di procedere all’elaborazione di un tale piano.
A fronte dell’iniziale enfatizzazione del ruolo del chiamato, seguita dal suo progressivo ridimensionamento fino al lumicino finale della mera supposizione di RI 1 (RI 4 non poteva non sapere), in assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo delle affermazioni di RI 1 e ritenuto il contesto sopra delineato, la Corte non poteva, senza cadere in arbitrio, sostenere che la chiamata di correo era disinteressata. E ciò, anche alla luce del fatto che è stata smentita dagli atti ( cfr. considerando che precede) la dichiarazione relativa alle perdite da entrambi subite.
La censura di arbitrio in relazione all’accertamento della spontaneità e del disinteresse della chiamata di correo va, quindi, accolta.
4.8.
In conclusione, la Corte di prime cure è caduta in arbitrio poiché ha posto a base del proprio convincimento sul dolo di RI 4 un giudizio di attendibilità della chiamata di correo che non poteva essere dato a fronte di un progressivo ed incoerente cambiamento di versioni del chiamante, del fatto che le circostanze poste alla base della chiamata di correo sono state smentite da chiare e contrarie risultanze in atti e dell’assenza del requisito di spontaneità e disinteresse.
4.9.
In queste condizioni, ritenuto che già per i motivi sin qui elencati alla chiamata di correo non può essere attribuita né attendibilità intrinseca (per assenza di costanza, di spontaneità e di disinteresse e per mancanza di verosimiglianza interna e per mancanza di credibilità generale del chiamante) né attendibilità estrinseca (essendo la chiamata in contrasto con le risultanze agli atti in relazione ai motivi della nascita del piano criminoso), sarebbe superfluo valutare la correttezza dell’ulteriore sua vestizione operata dai primi giudici sulla base di dichiarazioni di RI 4 che sono state considerate menzognere e sulla base di alcuni fatti e circostanze ritenute inusuali e anomale, tutte censurate di arbitrio dal ricorrente che ha, in sunto, concluso che,
“
se
la confessione personale di RI 1 è indubbiamente confermata dal riscontro oggettivo delle modalità operative della malversazione, la chiamata in correità, resta (...) una voce nel deserto del tutto priva di riscontri esterni”
e che ha rimproverato alla prima Corte di avere essenzialmente individuato gli elementi a sostegno della credibilità esterna della chiamata di correo
nella sua non credibilità facendo capo - per concludere che egli ha mentito - ad una serie di argomenti che
“procedono tutti da fatti che, o non sono di per sé certi o univoci, o addirittura sono accertati in modo arbitrario”
e che, quindi, non possono, se non in modo arbitrario, andare a
“rafforzare”
ed a
“consolidare”
la chiamata di correo di RI 1.
Tuttavia, questa Corte ritiene opportuno rilevare quanto segue.
a)
Riguardo la retribuzione, i primi giudici hanno accertato che, “
a fronte di prestazioni così poco impegnative
” quali erano quelle che si chiedevano a RI 4 - ovvero “
procurare un'
_
, intestarle un conto bancario, farsi passare per ADE, ricevere dei conteggi mensili, recarsi al _ di Via Vegezzi, prelevare il 90 percento degli importi, trasportarli trecento metri più avanti fino al
_
e, senza formalità di sorta, consegnarli a RI 1 e così di seguito per una quarantina di volte nella prima fase
” e poi “
nella seconda fase dove l'apporto intellettuale è rimasto nullo, ed è solo cresciuto, a causa delle trasferte - ancorché spesso effettuate a bordo di un taxi - a _ e a _ , l'impegno fisico
” - la percentuale del 10 percento era talmente esagerata “
da essere di per se stesso molto sospetta
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 109).
a.1.)
A ragione, il ricorrente eccepisce che non è dato sapere su quali criteri di giudizio si sia fondata la Corte per giungere alla conclusione di un’evidente (e quindi riconoscibile anche a RI 4) sproporzione tra le prestazioni da lui fornite e il 10% delle cosiddette
“retrocessioni”
(giova, qui, ricordare che, in realtà, RI 4 non prese mai il 10% delle retrocessioni poiché tale percentuale venne da lui divisa, prima con RI 5 e, poi, con RI 5 e RI 6)
.
Al di là del richiamo del ricorrente ai contenuti della perizia di parte (doc. TPC 39a e doc. dib. 18) di per sé inconferente in questo contesto, poiché la perizia di parte illustra l’usuale ammontare delle retrocessioni pagate dalle banche agli intermediari professionali e non professionali (o procacciatori d’affari), ovvero l’usuale ammontare di compensi diversi per loro natura e, pertanto, non paragonabili a quelli riconosciuti da RI 1 a RI 4 a titolo di onorario, forza è constatare che non vi sono agli atti riscontri oggettivi circa il compenso generalmente riconosciuto sulla piazza finanziaria ticinese per prestazioni di professionisti finalizzate alla creazione di fondi neri (costituzione di un assetto societario, gestione dei conteggi, trasporto del contante).
In assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo sulla questione, il giudizio della prima Corte circa l’inusualità del compenso non può, dunque, che derivare da impressioni soggettive - in cui, probabilmente l’etica viene confusa con il mercato - visto, peraltro, che esse nemmeno possono trovare un qualche fondamento nella comune esperienza della vita ritenuto che è notorio che nell’esecuzione di mandati in ambito finanziario e commerciale (ma non solo, cfr. retribuzione dei notai e, all’epoca, degli avvocati) l’entità della remunerazione non è funzione dell’estensione delle prestazioni fornite ma è funzione del valore del mandato.
Il giudizio di inusualità della remunerazione è, pertanto, arbitrario.
Da ciò deriva che è arbitrario ritenere la remunerazione percepita da RI 4 un elemento indiziante il suo dolo che può concorrere alla vestizione della chiamata di correo di RI 1.
A titolo abbondanziale, si osserva che, si volesse seguire la Corte di assise nel suo ragionamento, ci si potrebbe interrogare se il riconoscimento a favore di RI 4 del 10% sugli importi conseguiti dalle note operazioni di cambio costituisca, invece, un elemento che concorre a rendere poco plausibile la versione di RI 1. Infatti, si fosse trattato della partecipazione consapevole ad una ruberia ai danni di PC 1 (e, in favore di entrambi), era lecito attendersi che RI 4 avrebbe reclamato una partecipazione ben più consistente nell’operazione di saccheggio orchestrata da RI 1. Avesse RI 4 consapevolmente assecondato RI 1, sicuramente egli - persona, seconda la Corte, navigata e che sapeva come stare al mondo - avrebbe preteso e ottenuto altro trattamento da parte del socio, in particolare tenuto conto dell’enorme e pesante posta in gioco: non si sarebbe, certo, accontentato del solo 10% del maltolto di fronte allo scenario ipotizzabile in caso di scoperta della verità.
b)
La prima Corte ha ritenuto che il prelievo a contanti e il rientro dei soldi in Svizzera fosse un elemento talmente inusuale da concorrere a vestire la chiamata di correo. Al proposito, i primi giudici hanno considerato che “
un avvocato in buona fede si sarebbe e avrebbe posto qualche domanda a RI 1 per chiarire come mai (e ciò RI 1 l’ha segnalato in aula e anche prima nei suoi verbali) una multinazionale con succursali in tutto il mondo, e financo a
_
, per fare il nero utilizzasse un meccanismo macchinoso (come quello di produrlo attraverso delle operazioni forex) e costoso (già per il fatto che si doveva retribuire RI 4 con il 10%). E soprattutto, un avvocato di buona fede si sarebbe interrogato e avrebbe interrogato RI 1 a sapere perché con un nero ormai acquisito sui conti di due
_
presso banche estere, RI 1 pagasse RI 4 per farlo rientrare in contanti in Svizzera”.
Concludendo sulla questione, la prima Corte ha ritenuto che ciò costituiva “
un’inspiegabile incongruenza se davvero di nero per PC 1 si fosse trattato
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 110).
b.1.)
Il ricorrente censura d’arbitrio tali considerazioni rilevando che la prima Corte ha, in ciò, dimenticato che la PC 1 è una multinazionale che travalica il concetto di estero e che, per disporre di quei fondi, avrebbe dovuto lasciare traccia documentale, mentre è proprio tipico del nero non lasciarne alcuna.
Anche in questo caso, l’eccezione del ricorrente deve essere accolta. Contrariamente all’opinione dei primi giudici, la creazione di fondi neri - e il loro utilizzo vuoi per
“incentivi a favore dei dipendenti”
vuoi per
“potersi accaparrare gli specialisti del settore”
vuoi per
“"oliare" le varie pratiche amministrative in giro per il mondo
” (cfr. RI 4 A4 29.11.2006 e A7 5.12.2006) - esige l’interruzione della traccia cartacea e, quindi, esige il prelievo in contanti. Secondo il normale andamento delle cose e l’esperienza della vita è, dunque, arbitrario intravedere in questa circostanza
“un’inspiegabile incongruenza”
nell’ottica del nero.
Altrettanto naturale - sempre nell’ottica della creazione di nero per PC 1 - è il rientro dei contanti in Svizzera, ritenuto che gli uffici del tesoriere di PC 1 (cui, secondo la versione di RI 4, era stata affidata la regia della creazione di questi fondi discreti) erano, appunto, in Svizzera.
Si rileva qui che RI 4 ha sempre - ad eccezione di poche occasioni - consegnato il denaro negli uffici di PC 1 (cfr. sentenza impugnata, consid. 9, pag. 61; consid. 13 pag. 85-90).
Si aggiunge, qui, a titolo abbondanziale che un ulteriore elemento indiziante la convinzione di RI 4 di stare partecipando alla creazione di nero per PC 1 è lo “
scarico per le movimentazioni contabili ed i prelievi contanti effettuati su _ , nonché per la gestione fiduciaria sin qui effettuata”
fatto firmare il 20.6.2003 da RI 4 a RI 1 in rappresentanza di PC 1 (cfr. doc. 1 allegato al verbale A20 del 27.12.2006; cfr. sentenza impugnata, consid. 17, pag. 114 in cui l’essersi “
fatto quietanzare”
è stato considerato come un elemento indiziante la buona fede di RI 6).
Pertanto, l’accertamento dell’incompatibilità dell’operazione nell’ipotesi del “nero” è arbitrario.
Altrettanto arbitrario è, dunque, il considerare tale elemento come una circostanza che concorre a vestire la chiamata di correo.
c)
In queste condizioni, quand’anche il giudizio della prima Corte sulle “
bugie di RI 4”
dovesse reggere alla censura di arbitrio e si dovesse dare per accertato che egli ha mentito quando ha affermato di non avere capito i termini dell’operazione e di avere pensato che fossero le banche a finanziare le retrocessioni - e ciò malgrado la sua partecipazione alla riunione in _ del 20.10.1998, la ricezione della lettera-contratto inviata da _ a _ e successivamente, per _ a _ , la conoscenza delle tabelle excel - questo non sarebbe evidentemente ancora sufficiente a confermare un giudizio di colpevolezza scevro da arbitrio.
Del
resto, sempre a titolo abbondanziale, si ricorda qui che, in assenza di una chiamata di correo (che è la situazione cui, viste le conclusioni di cui sopra, sostanzialmente ci si trova confrontati anche per RI 4), gli stessi primi giudici non hanno ritenuto sufficiente per un giudizio di condanna di RI 5 (per l’operatività in _ ) il fatto che egli ha negato di conoscere i dettagli del metodo unito alla circostanza che, a fronte di minori prestazioni fornite, ha ricevuto un compenso di poco inferiore a quello dell’amico.
d)
In conclusione, forza è concludere che i primi giudici hanno riconosciuto RI 4 colpevole di complicità in amministrazione infedele qualificata attribuendo valore di prova ad una dichiarazione di correo cui non poteva, se non arbitrariamente, essere riconosciuto tale valore.
RI 4 deve essere, quindi, assolto dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele qualificata.
Caduta la condanna principale, RI 4 deve essere assolto anche dall’accusa di riciclaggio di denaro senza ulteriore disamina.
5.
Visto quanto sopra, appare superfluo esaminare le altre censure di arbitrio relative all’anticipato apprezzamento delle prove operato dalla presidente della Corte che ha rifiutato la perizia chiesta per l’accertamento di un’eventuale corresponsabilità dei quadri dirigenziali delle due banche, di cui si è detto al consid. 3.
6.
Conseguentemente al proscioglimento di RI 4 dai reati di complicità in amministrazione infedele qualificata e di riciclaggio di denaro, le confische dei saldi attivi di pertinenza dell’imputato depositati sulle relazioni ... (CHF) e 1471203.001.142.978 (euro) intestate al Ministero Pubblico presso _ (di cui ai dispositivi 13.1. e 13.2. della sentenza impugnata) vanno annullate.
Si tratta infatti - così come accertato nella sentenza, consid. 20, pag. 127 - degli averi di RI 4 fatti rientrare dal _ e consistenti nella ricompensa che, così come accertato in questa sede, egli era convinto di ricevere, in buona fede, da PC 1 per il mandato ricevuto per la creazione di fondi neri.
Per quanto qui interessa, si ricorda che, ai sensi dell’art. 70 cpv. 2 CP, la confisca non può essere ordinata se un terzo ha acquistato i valori patrimoniali ignorando i fatti che l’avrebbero giustificata, nella misura in cui abbia fornito una controprestazione adeguata.
Già si è detto che l’accertamento della prima Corte sulla sproporzione della ricompensa in funzione delle prestazioni fornite per adempiere il mandato ricevuto da PC 1 è arbitrario poiché non solo non è fondato su alcun elemento probatorio ma é altresì in palese contrasto con il normale andamento delle cose (cfr. supra, consid. 4.9. a.1.).
In considerazione dell’assoluzione di RI 4 e in assenza di un accertamento che attesti la non congruità della remunerazione, la confisca dei beni indicati è contraria al diritto federale e va, dunque, annullata.
Sempre conseguentemente al proscioglimento dell’imputato, vanno, altresì, annullati i sequestri conservativi sui conti intestati a RI 4 e sulle particelle di sua proprietà di cui ai dispositivi 14.1., 14.2, 14,3, 14.4, 14.5, 14.6, 14.7., 14.8., 14.12 e 14.13 della sentenza.
II. Sul ricorso di RI 5
7.
Il ricorrente censura d’arbitrio gli accertamenti che la prima Corte ha posto alla base della sua condanna per titolo di complicità in amministrazione infedele aggravata sostenendo che essi sono frutto di un’unilaterale lettura del materiale probatorio, non avendo i primi giudici tenuto conto nel loro giudizio di importanti indizi a suo favore, indizi peraltro evidenziati più volte nel corso del pubblico dibattimento.
a)
Il PP e la PC chiedono la reiezione della censura che ritengono appellatoria.
b)
Come visto sopra, la prima Corte ha assolto RI 5 dall’accusa di amministrazione infedele qualificata per il periodo 1998-2002.
Al proposito, i primi giudici hanno precisato di essere
“rimasti nel dubbio”
sulla questione della sua consapevolezza del piano criminoso
“all’epoca che RI 1 e RI 4 trattavano con B., A. e con lui sottacendo loro il loro preesistente accordo di spartirsi le retrocessioni”
(sentenza impugnata, consid. 17, pag. 110). Rilevando come, certamente, al pari di tutti quelli che si sedettero al tavolo delle trattative durante la famigerata riunione del 20.10.1998, “
anche a RI 5 fu sin da allora chiaro che RI 1 poneva quale conditio sine qua non per l’apertura di una relazione bancaria il consenso della banca ad autorizzarlo a fare le creste sui cambi a spese dell’azienda
” e sottolineando come “
allo sperimentato responsabile del servizio legal and compliance del private banking del _ non potevano già allora sfuggire i rischi che sono normalmente connessi con il destino finale delle creste fatte a danno della propria azienda da parte di un dipendente
”, la prima Corte ha ritenuto che “
nondimeno, poiché non v’è prova che RI 1 e/o RI 4 ebbero a svelargli il loro segreto, non si può ragionevolmente affermare che RI 5 abbia già nell’autunno 1998 potuto/dovuto capire che l’asserita esigenza di fare provviste discrete per PC 1 era una menzogna
” (sentenza impugnata, consid. 17, pag. 110-111).
La prima Corte è, però, giunta al giudizio opposto per il successivo periodo.
In sostanza, dopo avere ricordato l’iter interno che portò i vertici di _ a bloccare l’operatività di RI 1 ed avere evidenziato come tale decisione abbia fatto scalpore “
col che anche RI 5 non può non esserne stato messo al corrente”
ed avere sottolineato che “
allo sperimentato giurista RI 5 non poteva di certo sfuggire
” che tale blocco era motivato “
dalla volontà dei vertici di _ di obbligare _ ad abbandonare pratiche discutibili e scorrette
”, i primi giudici hanno concluso - “
alla luce di tale decisione e alla luce di tutte quelle circostanze molto sospette che RI 5 dall’autunno 1998 non ha potuto via via non ricollegare tra di loro” -
che per RI 5
“di buona fede non si può più parlare
” (sentenza impugnata, consid. 17, pag. 112-113).
A questo proposito, la prima Corte ha accertato che RI 5 sapeva sin dall’inizio “
quali erano i veri accordi stipulati tra RI 1 ed il _ ”,
sapeva che“
tra RI 1 e RI 4 v'era un accordo di spartirsi le "retrocessioni" nel rapporto 90 a 10”
e sapeva che RI 4, a sua volta
“voleva fargli dei "regali" (...) facendolo partecipare (per un terzo o per il 40 percento poco importa) alla sua quota”.
Inoltre, la prima Corte ha ricordato che RI 5 ha, per anni, accettato
“senza battere ciglio, come se fosse cosa usuale e non insolita e anomala, ripetuti "regali" per cifre cospicue
” ed ha, altresì, visto con i propri occhi il 28.6.2002
“quanto sospetta era la prestazione che gli veniva chiesto di eseguire e quanto misera essa fosse per rapporto all'importo che RI 4 e lui intascavano”
così come ha potuto constatare
“quanto inusitate - per lui uomo di banca, uomo di "legal and compliance"- fossero le modalità per cui "retrocessioni" già acquisite "fuori bilancio" su conti esteri, tornavano, contro ogni logica, per il 90 percento e per contanti, a _
”. Sempre secondo gli accertamenti della prima Corte, RI 5 - “
che cieco e sordo non era” -
una volta visto che i vertici nazionali di _ avevano bloccato l’operatività di RI 1 “
nonostante le ripetute pressioni di C. e nonostante ciò implicasse la rinuncia a utili milionari”
e colta
“di sicuro, da amico fraterno, (...) la delusione di RI 4 e anche quella di RI 1”
a seguito di questa decisione “
non poté non capire” -
in ogni caso, non lo poté dopo la decisione di _
-“che se il "gioco" ricominciava con _ e che se egli avesse continuato, in quelle condizioni ad accettare danaro, non più di "regali" si sarebbe trattato, bensì egli sarebbe diventato un complice che partecipava alla divisione del bottino”
(
sentenza impugnata, consid. 17, pag. 113
).
Sulla scorta di queste considerazioni, i primi giudici hanno, quindi, concluso che, per quanto la consulenza giuridica prestata al direttore di _ (cui spettava la decisione di avviare una relazione con PC 1) non costituisca oggettivamente una partecipazione alle trattative, RI 5,
“consapevole che RI 1 e RI 4 si spartivano, in danno di PC 1 che le finanziava, retrocessioni mensili per importi molto consistenti e consapevole che anch'egli partecipava, per la sua quota, a tale spartizione”,
ha intenzionalmente funto da complice di RI 1 aiutando, oggettivamente e soggettivamente e con un proprio personale tornaconto, RI 1 a danneggiare la propria azienda a scopo di indebito profitto
“quando (...) ha il 21.7.2003 effettuato, a mezzo taxi pagato da PC 1, la trasferta a _ ove ha prelevato dal conto della _ co. _ l'importo di euro 236'335.- (ed è in quell'occasione che, per sua stessa ammissione, ebbe anche modo di vedere l'eloquente "conteggio" mensile allestito da M.) consegnandolo, brevi manu e senza ricevuta a RI 1 in una piazzetta autostradale sita nei pressi di
_
”
e quando ha
“dopo il settembre 2003, effettuato due ulteriori trasferte a _ , accompagnando RI 6, sapendo che costui avrebbe prelevato cospicue somme dal conto della _ co. _, che insieme le avrebbero trasportate a _ e che infine egli avrebbe curato - come di fatto curò - la consegna dei contanti a RI 1, sempre senza ricevuta
” (cfr.
sentenza impugnata, consid. 17,
pag. 110-114).
7.1.
Il ricorrente censura d’arbitrio l’accertamento secondo cui egli era a conoscenza dei veri accordi tra RI 1 ed il _ per avere preso parte alla riunione del 20.10.1998 in _ in cui vennero discusse le modalità operative.
A mente del ricorrente, entrambi gli accertamenti di fatto - ovvero quello della sua presenza a quella riunione e di quanto in essa venne discusso - divergono crassamente dagli atti.
7.1.1.
In primo luogo, il ricorrente contesta di avere partecipato alla riunione del 20.10.1998. Riconosce, per contro, di avere sì partecipato ad una riunione alla presenza della direzione di _ e di RI 1, ma precisa che si trattava di una delle riunioni che avevano preceduto quella del 20.10.1998.
L’accertamento della sua partecipazione alla riunione del 20.10.1998 in _ è, a mente dell’insorgente, arbitrario per due ragioni. Da un lato, perché non tiene conto delle dichiarazioni di RI 1 che ha precisato che lui presenziò soltanto ad una riunione preliminare. D’altro lato, perché le dichiarazioni di B. - su cui la prima Corte ha fondato l’accertamento della sua partecipazione a tale riunione - non sono state correttamente interpretate. In particolare, non è stato correttamente valutato che B. ha dichiarato che RI 5 partecipò ad una sola riunione e che il teste ha dedotto che si trattò di quella del 20.10.1998 a distanza di 8 anni dai fatti dopo avere preso visione della nota lettera-contratto tra il _ e la _ . Inoltre - continua il ricorrente al proposito - interpretando e valutando la deposizione di B., la prima Corte non ha tenuto nella debita considerazione che il teste, nel suo verbale B8, ha parlato di lui soltanto per descrivere l’introduzione del cliente in banca.
Inoltre - continua il ricorrente - la prima Corte ha sbagliato non considerando l’argomentazione difensiva secondo cui egli è stato nominato nella lettera-contratto del 16.12.1998 soltanto perché l’istituto di credito voleva riconoscergli il merito dell’acquisizione della cliente.
a)
La prima Corte ha accertato la partecipazione di RI 5 alla riunione del 20.10.1998 sulla scorta della lettera-contratto del 16.12.1998 della cui fedefacenza hanno riferito sia B. - che ha detto che
“se nella lettera 17
(recte:16
).12.1998 alla PC 1 (Doc. 1) ho indicato che all'incontro del 20.10.1998 erano presenti oltre a me anche RI 1, RI 4, A. e RI 5 è perché queste persone c'erano. Non avrei altrimenti citato nominativi di persone che non avevano presenziato”
(B16 20.1.2007) - sia A. che, pur non avendo dell’incontro un ricordo preciso, ha dichiarato che “
se nella lettera del 17
(recte: 16).
12.1998, allestita da B., sono stati menzionati i nominativi delle persone che hanno partecipato all'incontro del 20.10.1998, queste persone erano certamente presenti”
(B17 A.).
b)
Alla luce di questi accertamenti, le argomentazioni difensive si rivelano di chiara matrice appellatoria. Non è, infatti, sufficiente proporre una diversa valutazione delle prove - per quanto essa possa essere preferibile - per sostanziare l’arbitrio. È, per contro, necessario, e il ricorrente non lo ha fatto, dimostrare perché l’accertamento impugnato sia manifestamente errato.
La censura è, dunque, irricevibile.
Del resto, si aggiunge qui, a titolo abbondanziale, che l’accertamento contestato non può dirsi inficiato da arbitrio: esso é fondato, come visto, su un documento di cui due testi concordemente attestano la fedefacenza e non è palesemente in contrasto con altre risultanze probatorie nella misura in cui, in particolare, né RI 4, né RI 1 hanno escluso la presenza di RI 5 alla riunione in questione. Entrambi hanno dichiarato semplicemente di non ricordare se RI 5 abbia o meno partecipato alla riunione [RI 1: “
Non ricordo se era presente anche RI 5”
(A25 pag. 1); RI 4
“(...) non sono sicuro se era presente anche RI 5”
(A22 pag. 3)].
7.1.2.
Il ricorrente ritiene arbitrario l’accertamento secondo cui egli sapeva della strategia di manipolazione dei prezzi di mercato poiché, in sintesi, esso non tiene conto delle univoche e costanti sue dichiarazioni contrarie e di quelle di RI 1 secondo cui egli mai parlò con lui della maggiorazione dei prezzi di mercato. Inoltre - continua il ricorrente
-
l’arbitrarietà di tale accertamento è data dal fatto che i primi giudici non hanno considerato che non è chiaro in quale riunione RI 1 presentò la sua richiesta e dal fatto che nemmeno hanno considerato che B. dopo
“le riunioni topiche con RI 1 - in assenza del qui ricorrente - si rivolse al competente ufficio di compliance per chiedere un’autorizzazione formale senza mai menzionare che l’avv. RI 5 era al corrente dell’operazione”.
Infine, l’accertamento è arbitrario perché i primi giudici non hanno tenuto conto del fatto che B. ha descritto all’ufficio compliance la richiesta del cliente con gli stessi termini utilizzati da RI 5 durante l’inchiesta per descrivere la proposta che RI 1 formulò al _ e meglio
”ci è stata chiesta la nostra disponibilità a riconoscere all’avv. RI 4 una commissione di intermediazione d’affari sottoforma di retrocessione di una parte del nostro utile su alcune operazioni di cambio effettuate da PC 1”
, del fatto che A., in occasione del verbale di interrogatorio del 19.1.2007 (B17) ha dichiarato che, prima del 20.10.1998, RI 1 gli riferì che intendeva creare delle provviste fuori bilancio
“tramite una retrocessione da parte della banca a PC 1 di una parte dell’utile della banca sulle operazioni forex”
e che, dunque,
“in sostanza è corretto dire che la banca avrebbe rinunciato a una parte del suo utile per versare delle retrocessioni alla stessa PC 1”
(pag. 2), del fatto che neppure A. si occupò delle questioni tecniche operative e che nei termini utilizzati con il servizio del compliance A. parlò della proposta di RI 1 con
“RI 5, il quale in quest’ottica di regolarità (ossia senza manipolazione dei prezzi, ma con rinuncia della banca a parte del suo utile), gli avrebbe detto di non intravedere difficoltà (circostanza peraltro contestata)”
, del fatto che RI 5 non presenziò all’incontro con D. e, da ultimo, del fatto che RI 5 non ha mai firmato un documento, nonostante la prassi bancaria porti a lasciare, sempre e in ogni caso, traccia cartacea di ogni minimo intervento (ricorso, pagina 28-38).
a)
Quo all’incontro del 20.10.1998 e di ciò che in quell’occasione venne discusso, la prima Corte ha concluso che RI 5 non poteva non avere compreso i termini dell’affare quando essi vennero illustrati da RI 1 in sua presenza ai quadri del _ (e da questi, in particolare da B. e A., perfettamente capiti) sulla scorta dei seguenti accertamenti:
"
è certo che vi fu un incontro il 20.10.1998 cui presenziarono RI 1 e l'avv. RI 4 per la PC 1 e B., A. e l'avv. RI 5 per il _ . Se si considera che il riferimento a detto incontro è stato dai funzionari del _ inserito in uno scritto definitivo in cui la banca comunicava alla cliente PC 1 la propria disponibilità a riconoscere alla società _ una commissione d'intermediazione d'affari da corrispondersi periodicamente come si evince dal tenore del contratto sottoscritto tra il nostro istituto e la spett. _ , se si considera altresì che RI 1 ha, sin dall'inizio, chiesto ai suoi interlocutori di poter beneficiare, previo "peggioramento" a carico di PC 1 di qualche punto del corso di cambio, della retrocessione dell'importo corrispondente, ai fini di costituire "provviste discrete" per PC 1 e se ancora si considera che non è mai stato in discorso tra RI 1 da un Iato e i funzionari del _ dall'altro di far finanziare i "fondi neri" dalla banca stessa con una rinuncia di essa ad una quota del proprio utile, non si vede di cos'altro si sia potuto parlare durante un tale incontro, se non della proposta di RI 1 così come egli la formulò e così come la intesero sia B. sia A..
Perché l'abbiano potuta intendere in modo diverso RI 4, ivi presente in qualità di legale della PC 1 e come tale quindi cognito di ciò che RI 1 andava proponendo (il contrario sarebbe invero di una stranezza inspiegabile) e RI 5 (cui già il sol fatto di sentir parlare di "provviste discrete" e di "fuori bilancio" deve avergli fatto ben bene aprire le orecchie), invero non si comprende”
(
sentenza impugnata, consid. 8, pag. 55-56
).
La Corte ha, poi, precisato di avere raggiunto, comunque, il convincimento che RI 4 e RI 5 seppero che PC 1 avrebbe inconsapevolmente finanziato le retrocessioni,
“prima ancora che RI 1 l’esponesse a B. e A. in banca”
poiché “
non ha senso che RI 1 abbia sottaciuto agli amici RI 4 e RI 5 ciò che invece doveva per forza di cose spiegare a B., A. e D.
”
(
sentenza impugnata, consid. 8, pag. 56
).
b)
Le argomentazioni proposte dal ricorrente sono, ancora una volta, di natura appellatoria nella misura in cui non si confronta con le argomentazioni della prima Corte.
La circostanza addotta dal ricorrente secondo cui RI 1 mai parlò con lui del fatto che i prezzi di mercato venivano maggiorati con il sistema delle “creste” non basta a dimostrare l’arbitrarietà dell’accertamento contestato poiché la prima Corte lo ha effettuato sulla scorta di argomentazioni diverse, e meglio sul fatto che egli era, in ogni caso dopo la riunione del 20.10.1998, a conoscenza dei termini della proposta di RI 1 visto che - secondo gli accertamenti della prima Corte che hanno resistito alla censura d’arbitrio - egli partecipò a quella riunione e visto che, come già detto, in quell’occasione RI 1 espose i termini della sua proposta ai quadri dirigenziali del _ .
In questo senso, non giova al ricorrente evocare le titubanze o le difficoltà di B. quando dovette testimoniare ritenuto come, in ogni caso, è stato accertato - come visto senza arbitrio - che in occasione della riunione del 20.10.1998 venne discussa proprio la proposta di RI 1 che fu compresa, nei termini ritenuti dalla prima Corte, da tutti i partecipanti e, quindi, anche dal ricorrente.
Il fatto che, poi, l’avv. RI 5 non abbia presenziato al successivo incontro con D., che non abbia firmato un documento interno a dimostrazione del suo interessamento all’operazione e che non sia stato menzionato da B. nella richiesta dell’autorizzazione all’ufficio del compliance non è utile a dimostrare l’arbitrarietà del giudizio di prime cure secondo cui la partecipazione alla riunione del 20.10.1998 gli permise di prendere conoscenza dei termini della proposta di RI 1.
Nemmeno può essere utilizzato per dimostrare l’arbitrarietà dell’accertamento il fatto che A. ha detto che, prima della riunione del 20.10.1998, RI 1 disse che le provviste fuori bilancio sarebbero state finanziate
“tramite una retrocessione a PC 1 di una parte dell’utile della banca sulle operazioni forex”:
quand’anche, in un primo tempo, la proposta di RI 1 abbia avuto tale contenuto, la cosa è stata superata da quanto detto - e, secondo gli accertamenti della prima Corte, da tutti compreso - nella riunione del 20.10.1998.
Nemmeno sono, qui, rilevanti i termini utilizzati da B. nella richiesta di autorizzazione all’ufficio del compliance, ritenuto che quanto in essa descritto era semplicemente - secondo quanto accertato dalla prima Corte - il “vestito” con cui venivano coperte le reali intenzioni delle parti che erano state discusse nella più volte citata riunione del 20 ottobre.
La censura si rivela, pertanto, irricevibile.
7.2.
Il ricorrente censura d’arbitrio l’accertamento dei primi giudici secondo cui la decisione della direzione del _ di interrompere l’attività forex
taroccata
fece
“scalpore”
e secondo cui lui seppe dei motivi che portarono al blocco dell’operatività forex di RI 1 in _ .
Contestando che RI 1 abbia parlato di “scalpore” nel corso del dibattimento (tant’è che nemmeno il verbale del dibattimento fa stato di un siffatto accertamento) né che si sia espresso in modo da far pensare che scalpore vi fu, il ricorrente sostiene come il relativo accertamento sia del tutto privo di sostegno probatorio.
Pertanto, arbitrariamente - argomenta il ricorrente - questo accertamento è andato a fondare il verdetto di colpevolezza visto che la prima Corte ha ravvisato quale elemento del suo dolo la circostanza secondo cui, proprio in forza del fatto che il blocco fece scalpore, egli non poté non avere saputo “
nella loro interezza”
dei motivi della decisione della direzione di _ (
sentenza impugnata, consid. 10,
pag. 71 cfr. anche consid. 17, pag.112).
In punto alla conoscenza che gli è stata attribuita delle ragioni della decisione del _ di interrompere l’attività forex, il ricorrente ha, poi, ricordato come egli abbia sempre dichiarato di avere saputo da C. che l’operatività di RI 1 era stata bloccata per fattori tecnici,
“quali l’impraticabilità di retrocedere ad un avvocato, piuttosto che a un fiduciario intermediario finanziario”
e a causa dell’impossibilità della sala cambi di offrire “
un servizio 24 ore su 24”
, servizio invece offerto da _ .
Arbitrariamente - continua il ricorrente - i primi giudici hanno accertato il contrario: non soltanto non vi sono, al proposito, riscontri probatori ma nemmeno è stato preso in considerazione che C. ha ammesso di non avergli spiegato le vere ragioni che hanno spinto la direzione di _ a bloccare la pratica forex taroccata e nemmeno che lo stesso
C., in aula, ha dichiarato di non avere mai discusso con lui di questioni tecniche (cfr. verb. dib. 20). Continuando, il ricorrente rimprovera alla prima Corte di non essersi nemmeno chinata sulla sua versione dei fatti, in particolare di non avere nemmeno abbordato l’esame della fondatezza di quanto detto in relazione al
l’assenza in _ di un servizio 24 ore su 24 in sala cambi (ciò che, invece, _ poteva assicurare) tant’è che - prosegue il ricorrente -
“in sentenza si argomenta solo, con riferimento all’altra giustificazione, che C. avrebbe dato a RI 5 e che questi avrebbe dovuto pensare come inconsistente, per mettersi ulteriormente in allarme: il _ avrebbe potuto aiutare RI 4 a trovare un gestore, senza interrompere l’operatività tanto lucrosa; questa soluzione non avrebbe comunque risolto la questione dell’operatività sulle 24 ore”
(cfr. ricorso pag. 40-41).
In queste condizioni - conclude il resistente su questo punto - ciò che lui avrebbe potuto concludere dalla decisione dei vertici di _ era, tutt’al più “
che la banca avesse deciso di interrompere quella che di fatto era l’assistenza alla creazione di una cassa discreta, destinata comunque a scopi aziendali, per ragioni etico morali”
e non certo, così come arbitrariamente valutato dai primi giudici, che la banca avesse avuto “
il sospetto che RI 1 potesse appropriarsi indebitamente dei denari che venivano puntualmente riconsegnati a PC 1”
(ricorso, pag. 48).
a)
Gli accertamenti della prima Corte sulle circostanze che indussero il _ ad interrompere l’attività forex taroccata di RI 1 sono esposti al consid. 10 della sentenza impugnata (dove, fra l’altro, viene riprodotta la corrispondenza intercorsa al riguardo fra le diverse sedi di _ e fra i funzionari di _ e la direzione di _ e alla cui lettura si rimanda).
In sintesi, i primi giudici hanno accertato che, a partire da maggio
2000, alcuni operatori di _ segnalarono ai loro superiori perplessità o preoccupazioni in relazione all’attività forex di RI 1, evidenziando, oltre al fatto che il conto _ veniva utilizzato come un conto-ponte, anche aumenti importanti del volume d’affari (per esempio, RI 1
aveva, per il solo mese di maggio 2000, operato per complessivi USD. 560'000'000.- generando una retrocessione di 937'311.- CHF) e rilevando di nutrire dubbi “
sull'integrità di queste operazioni”
(
sentenza impugnata, consid. 10, pag.
63 e seg.).
Nonostante i rilievi critici e preoccupati di questi funzionari, l’attività di RI 1, proseguì praticamente indisturbata (egli venne, soltanto, chiamato a giustificare verbalmente le ragioni dell’incremento del volume d’affari) sino a che, nel corso del 2002, il nuovo direttore generale del _ (che era subentrato ad F., nel frattempo pensionato) chiese precisazioni e dettagli relativi ai rapporti sin lì intrattenuti con PC 1. Ricevute le informazioni richieste, la direzione di _ impose, dapprima, nuove condizioni (riprodotte a pag. 67 della sentenza impugnata): fra queste, la riduzione allo 0.1% (sin lì era lo 0.2%) della retrocessione pagata a _.
Secondo gli accertamenti della prima Corte, se la modifica della percentuale massima per la
“retrocessione”
da 0.2% a 0.1% non preoccupò particolarmente RI 1 “
che in pratica, già per motivi di cautela sua, non aveva mai superato lo 0.1%”,
a seguito di nuove verifiche, l’8.7.2002
“i superiori organi del _ di _ hanno dato ordine a C. e a D. di bloccare l'attività forex di RI 1, e meglio hanno vietato le maggiorazioni/riduzioni di pips e quindi il pagamento delle retrocessioni"
(cfr.
sentenza impugnata, consid. 10, pag.
67).
Secondo quanto accertato dalla prima Corte, l’ordine di bloccare l’operatività forex in considerazione dell’assoluta inusualità del meccanismo adottato (“
Devisentransaktionen mit Retrozahlungen sind absolut marktunüblich”)
e della necessità di operare in modo più rigoroso dal profilo etico
(“wir nehmen die hohen ethischen Anforderungen an die Ausübung unseres Geschäfts sehr ernst und wollen deshalb Transaktionen diesen Art nicht ausführen”)
venne ribadito durante una riunione che si tenne il 16.8.2002 e a cui parteciparono, tra gli altri, il direttore generale E. e C. (cfr.
sentenza impugnata, consid. 10, pag.
68).
La prima Corte ha, poi, ancora precisato che le ragioni di tale ordine sono state ancora ribadite nell’e-mail inviata il 6.11.2002 da W. in accordo col proprio superiore Q. (nell’ambito di successivi tentativi per ristabilire l’operatività forex in _ ) a D. e ad C.. In tale e-mail si legge che era insito nell’operatività forex “taroccata” il rischio di favorire una violazione delle norme fiscali e contabili (“
Umgehung von Steuer- und Rechnungslegungsvorschriften”)
, di ingannare gli organi di revisione (“
eine Täuschung der Revisionsorgane sowie der internen Kontrollkreise”)
e di agevolare un uso del denaro per fini diversi da quelli degli azionisti della multinazionale (“
zudem ist ein Missbrauch der Gelder durch eine Verwendung zu Zwecken, die nicht im Sinne der Inhaber/Aktionäre der Firma liegen, denkbar”)
. Inoltre, in essa veniva precisato che le ragioni etico-morali che imponevano l’interruzione dell’operatività forex con RI 1 erano tali da non poter essere superate nemmeno dall’accordo espresso dagli organi di PC 1 (“
die Vertretung von Organen der Firma XY (z.B. Finanzchef) in ZF - und damit deren (Mit-) Bestimmung der Verwendung des transferierten Vermögens - ändert nichts an der obigen Beurteilung”)
.
Proseguendo, i primi giudici hanno accertato che, finalmente, letta questa e-mail, C. incaricò Z. “
di comunicare al cliente che l'operazione non si poteva più fare e che occorreva rinunciare ad altre discussioni
” e che, poi, secondo quanto dichiarato da RI 1 in aula, C. a lui disse che
"tutti in _ volevano avere le operazioni ma nessuno si prendeva la responsabilità di farle con le maggiorazioni/riduzioni"
(
sentenza impugnata, consid. 10, pag.
70).
b)
Passando poi alla posizione di RI 5, ed in particolare alla sua consapevolezza dei motivi dell’interruzione dell’operatività forex in _ , la prima Corte ha accertato che questi, al dibattimento, ha dichiarato che lui “
seppe da C. che non si poteva più continuare a offrire retrocessioni alla _ e ciò per una serie di controlli interni che avevano rilevato che il beneficiario delle retrocessioni non poteva essere un avvocato e altre difficoltà tecniche interne alla sala cambi, quali il servizio 24 ore su 24 che l'ufficio non poteva garantire, per cui non c'erano i mezzi per monitorare in continuazione questo genere di operatività"
(cfr. verbale del dibattimento p. 16 e 17) per poi constatare che RI 5, sempre in aula, chiamato ad indicare le ragioni per cui C. avrebbe dovuto mentirgli sui veri motivi dell’interruzione, affermò che
"questo
è quello che ricordo che mi disse. Escludo che mi abbia dato altri motivi, in particolare che mi abbia parlato di maggiorazioni/riduzioni del corso del tasso di cambio. Aggiungo che quando poi C. andò a parlare con E. (n.d.r.: P.), per quel che ne so io, gli diede le stesse motivazioni che diede a me"
. La prima Corte ha precisato di non avere creduto a queste spiegazioni poiché inverosimili. I primi giudici si sono infatti chiesti perché “
se il motivo fosse davvero stato quello - il _ non abbia lui risolto la questione invitando RI 1 e RI 4 a trovare un gestore”
aggiungendo che “
per una persona addentro alle questioni giuridiche come lo era RI 5 non poteva non essere chiaro ab initio che se si consente a un dipendente (ancorché di altissimo rango) di fare la "cresta" sui cambi in danno dell'azienda e se, perdipiù, non si è in grado di controllare la destinazione finale delle "creste", il rischio di abusi è non solo prevedibile ma anche concreto, col che RI 5 doveva già sapere da prima e per scienza propria ciò che, nel novembre 2002, scrisse il citato W.
(cfr.
sentenza impugnata, consid. 10,
pag. 69-70).
c)
Per quanto attiene alla prima censura ricorsuale secondo cui l’accertamento della prima Corte del fatto che l’interruzione dell’attività forex fece scalpore all’interno del _ sarebbe viziato da arbitrio, occorre innanzitutto precisare che se è vero, da un lato, che nel verbale del dibattimento non sono registrate le dichiarazioni di RI 1 contestate dal ricorrente e se è anche vero, d’altro lato, che il verbale del dibattimento, così come evidenziato dal PP e dalla PC, riporta sommariamente lo svolgimento del dibattimento e che le risposte degli accusati vengono verbalizzate solo in casi particolari o su richiesta delle parti, è altrettanto vero che non può essere seriamente preteso che l’accertamento della Corte secondo cui la decisione della direzione del _ di interrompere l’attività forex taroccata di RI 1 cui seguì la perdita del cliente PC 1 fece scalpore sia arbitrario e ciò in considerazione proprio dei fatti incontestati ed accertati dalla prima Corte relativi a quel periodo (per i quali si rinvia al consid. 7.2.a)).
Si pensi all’importanza che rivestiva per il _ il cliente PC 1 (in termini di raggiungimento degli obiettivi prefissati), degli incontri, degli scambi di corrispondenza e dei vari tentativi messi in atto dai quadri di _ con la direzione di _ con la formulazione di proposte alternative all’operatività forex vietata per non perdere il cliente PC 1. L’accertamento della prima Corte secondo cui la cessazione dell’operatività forex proposta da RI 1 non passò inosservata all’interno di _ - fra chi, in _ , della questione si era, in un modo o nell’altro, occupato - resiste alla censura d’arbitrio, anche volendo fare astrazione dalle dichiarazioni di RI 1 contestate in questa sede, già solo in base ad una corretta valutazione degli indizi accertati dalla prima Corte e non contestati dalla difesa, valutati nel loro complesso secondo la comune esperienza ed il normale andamento delle cose.
La censura va, pertanto, respinta.
d)
Fondata è, invece, la doglianza relativa all’assenza di riscontri probatori che sorreggono le considerazioni dei primi giudici secondo cui i motivi per i quali il _ aveva interrotto l’attività forex di RI 1 dovevano essere noti “
per scienza e coscienza propria”
a RI 5, stante anche l’inconsistenza delle giustificazioni di C., poiché “
per una persona addentro alle questioni giuridiche come lo era RI 5 non poteva non essere chiaro ab initio che se si consente
a
un dipendente (ancorché di altissimo rango) di fare la "cresta" sui cambi in danno dell'azienda e se, perdipiù, non si è in grado di controllare la destinazione finale delle "creste" il rischio di abusi non è solo prevedibile ma è anche concreto”
(cfr.
sentenza impugnata, consid. 10, pag.
71)
Come emerge dagli accertamenti riportati al considerando 10 della sentenza impugnata, la direzione generale di _ decise di bloccare l’attività forex di RI 1 perché, così come impostata, essa comportava per la banca il rischio (in realtà, la certezza), non solo di contribuire ad un’evasione fiscale, ma anche di ingannare gli organi di revisione e di agevolare un uso del denaro per fini diversi da quelli degli azionisti della multinazionale: ciò considerato, per i vertici di _ , nonostante il contratto posto alla base dell’operatività forex taroccata fosse stato sottoscritto dagli organi che potevano validamente rappresentare e impegnare PC 1, l’interruzione di tale operatività si imponeva nel caso concreto per insuperabili ragioni etico-morali (cfr, in particolare, testo dell’e-mail riprodotto al consid. 10, pag. 70 della sentenza impugnata).
Ciò ritenuto, è evidente che è arbitrario sostenere che i vertici di _ interruppero l’operatività in questione perché temevano il rischio che le retrocessioni venissero utilizzate “
in danno dell’azienda
” se con ciò si intende - come hanno fatto i primi giudici utilizzando questo elemento a sostegno della consapevolezza del ricorrente - il rischio che le retrocessioni venissero incassate personalmente “
dal dipendente (ancorché di altissimo livello)
”, e meglio da RI 1, che concretamente operava.
Non è, infatti, questo quel che emerge dal materiale probatorio in atti, e meglio, dalla documentazione e dalle deposizioni citate al consid. 10 della sentenza impugnata e, fra queste, dal
le dichiarazioni rese in aula da C. che ha detto che “
mai in occasione di tutti gli incontri, riunioni, ecc, che io ho avuto sono emersi dubbi sul consenso della PC 1 come società a questa operatività
” (verb. dib. pag. 21).
Del resto, riprova del fatto che all’epoca in _ non venne nemmeno ipotizzato che RI 1 si intascasse le retrocessioni è il fatto che, nel 2002, dopo l’interruzione dell’attività forex taroccata, non venne avviata alcuna inchiesta interna.
Dal materiale probatorio, dunque, emerge unicamente che i vertici di _ volevano - oltre che interrompere la partecipazione ad un’evasione fiscale - scongiurare il rischio che PC 1 (e per essa, gli organi decisionali di PC 1 visto che il contratto era sottoscritto da essi) nascondessero all’organo di revisione e agli azionisti l’utilizzo che PC 1 (e per essa, i suoi organi decisionali) avrebbe fatto del denaro.
Pertanto, non può, senza arbitrio, essere sostenuto che quel che RI 5 doveva sapere riguardo i motivi della nota decisione dei vertici di _ - visto che quella notizia fece scalpore - è che questi bloccarono l’attività forex per scongiurare il rischio di aiutare RI 1 ad intascarsi le retrocessioni a danno di PC 1.
Perché, da quel che emerge dagli atti, questo rischio non fu mai nemmeno ipotizzato dai vertici di _ e ciò indipendentemente dalla fondatezza delle ragioni che C., secondo il dire di RI 5, fornì a motivo della predetta interruzione. Va, qui, rilevato che, peraltro, come censurato a ragione dal ricorrente, né durante l’inchiesta pre-dibattimentale né durante il dibattimento a C. venne chiesto che cosa egli abbia detto a RI 5 circa le ragioni di tale blocco: forza è, dunque, concludere che l’unico accertamento possibile in merito è fondato sulle dichiarazioni di RI 5. Ritenuto che, come visto sopra, nessuno in _ ha mai ipotizzato che RI 1 agisse senza l’accordo di PC 1, la semplice inconsistenza delle ragioni addotte da C. non basta a fondare la consapevolezza di RI 5 sul fatto che le retrocessioni venivano intascate da RI 1. E nemmeno si può seriamente pretendere che RI 5 avrebbe dovuto saperlo “
per scienza propria
” poiché, se così fosse, non si vede per quale motivo questa “
scienza propria
” non dovesse valere anche per il periodo precedente (e, peraltro, per tutti i quadri della banca).
Questa censura ricorsuale è, dunque, fondata.
7.3.
Il ricorrente eccepisce, poi, d’arbitrio la valutazione dei primi giudici secondo cui, informato com’era delle ragioni del divieto deciso dai vertici di _ e sapendo quel che sapeva sull’operatività di RI 1 in _ e sulle modalità di recupero dei fondi, è diventato un complice che partecipava alla divisione del bottino quando il "gioco" é ricominciato con _ (
sentenza impugnata, consid. 17,
pag. 113) poiché a quel punto non poteva più ignorare che le retrocessioni altro non erano che il frutto di un inganno ai danni di PC 1.
Tale accertamento - precisa il ricorrente - non solo non trova
riscontro negli atti ma è, soprattutto, in manifesto contrasto con la circostanza - che la prima Corte, inaspettatamente, non ha considerato - che fu proprio lui a consigliare il direttor E. di far firmare anche dal presidente di PC 1 i contratti posti alla base dell’operatività. L’accertamento della prima Corte secondo cui egli era pienamente consapevole - rileva il ricorrente - che l’operatività di RI 1 era fatta a danno di PC 1 è in aperto contrasto con quanto da lui intrapreso. Egli - insiste su questo punto l’insorgente - sarebbe stato ”
un complice deficiente e mentecatto a consigliare, come fece, al Dir. E. di _ , di raccogliere anche la firma del presidente della PC 1 sui contratti posti alla base dell’operatività”
(ricorso, pag. 40).
In realtà - continua il ricorrente - il consiglio dato al direttore E. di premurarsi che un'altra persona di PC 1 sottoscrivesse il contratto OTC 2 - contratto comprensivo della clausola aggiuntiva apposta da RI 1 per la retrocessione a favore di terzi - dimostra la sua buona fede e, di conseguenza, l’arbitrarietà del giudizio di condanna.
La prima Corte - rileva, poi, il ricorrente - non spiega per quale ragione egli “
lanciato con fenomenale carriera avrebbe dovuto porre a repentaglio la sua esistenza per fondi che sostanzialmente non ha neppure mai utilizzato non essendo stata accertata una sua avidità o inclinazione a spendere e spandere
”. Inoltre, egli rimprovera alla prima Corte di non avere tenuto conto di una serie di circostanze (emerse nel corso dell’istruttoria pre e dibattimentale) che dimostrano come egli fosse
“certo che le somme di danaro venivano riconsegnate nella sede di PC 1, in conformità dello scopo che gli era stato manifestato”.
A questo proposito, egli, in particolare, rimprovera ai primi giudici di non avere tenuto conto della trasparenza del suo agire - egli è
“intervenuto per prelevamenti di denaro in prima persona nei confronti di colleghi che lo conoscevano, senza nulla nascondere o sottacere
”. Infine, egli rimprovera alla prima Corte di non avere tenuto conto della sua richiesta alla sicurezza interna della banca per ottenere, su domanda di RI 1 (che, in aula, lo ha ammesso anche se le sue dichiarazioni non sono state verbalizzate), le informazioni necessarie, fatte poi trasmettere alla signora V. della PC 1 per l’acquisto delle
“macchinette contasoldi”
.
E’ arbitrario - continua il ricorrente - non considerare questa circostanza come dimostrativa della sua convinzione che i soldi andassero a PC 1. Non fosse stato così - cioè non fosse stato pienamente convinto che le retrocessioni andavano a PC 1 - egli non avrebbe proposto qualcosa che richiedeva l’intervento dei dipendenti della stessa multinazionale.
a)
Il principio in
dubio pro reo
è un corollario della presunzione d'innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 n. 2 CEDU e 14 cpv. 2 Patti ONU II. Esso trova applicazione sia nell'ambito della valutazione delle prove che in quello della ripartizione dell'onere probatorio. Riferito alla valutazione delle prove - cui nel caso di specie il ricorrente in sostanza si richiama - esso significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria ed oggettiva del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie. Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento, ad una certezza assoluta di colpevolezza poiché semplici dubbi astratti e teorici sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire sulla colpevolezza, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, dubbi rilevanti e insopprimibili (TF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38). Sotto questo profilo, il principio
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (cfr. consid. 1).
b)
Secondo
la valutazione del materiale probatorio posta alla base del verdetto di condanna del ricorrente, i primi giudici hanno ritenuto che all’inizio, e meglio nel 1998, RI 5 sapeva del meccanismo generatore delle retrocessioni ma non era, per contro, a conoscenza del fatto che RI 1 non riponeva nelle casse discrete di PC 1 i fondi che gli venivano rimessi da RI 4 in contanti.
Tale consapevolezza è - secondo i primi giudici - maturata solo successivamente, e meglio è maturata dopo che RI 5 seppe dei motivi per cui i vertici di _ decisero di interrompere l’operatività forex taroccata e dopo che colse la delusione che ne derivò a RI 4 e a RI 1.
Infatti - a mente della prima Corte - fu proprio a seguito di tale decisione che RI 5 non poté fare altro che collegare fra loro una serie di circostanze inusuali e sospette da lui testimoniate sin dall’autunno del 1998 e, su tale base, forzatamente concludere che RI 1 dirottava a suo favore le somme di denaro che avrebbero, invece, dovuto essere riposte nelle casse discrete di PC 1.
Secondo i primi giudici, inusuale e sospetta era la ricompensa che RI 1 riconosceva a RI 4 e di cui, in parte, beneficiava anche RI 5,
vuoi a titolo di liberalità (secondo la versione di RI 5) vuoi a titolo di ricompensa concordata ab initio (secondo la versione di RI 4). Sempre - secondo i primi giudici - inusuali e sospette erano le modalità di consegna del denaro a RI 1 da lui testimoniate in prima persona il 28.6.2002.
Inusuale e sospetta era, poi, l’illogicità - nel contesto della creazione di fondi neri - del rientro in contanti delle somme già acquisite all’estero.
Infine, altrettanto inusuale e sospetta era anche - sempre secondo il giudizio qui impugnato - l’entità della ricompensa accordata se confrontata alla pochezza delle prestazioni fornite da RI 4.
c)
Già s’è detto dell’arbitrarietà dell’accertamento del carattere inusuale della ricompensa (cfr consid. 4.9.a.1).
Già s’è detto, anche, dell’arbitrarietà dell’accertamento del carattere inusuale, nell’ottica del “nero”, del rientro in Svizzera in contanti delle “
retrocessioni
” (cfr consid. 4.9.b.1).
Altrettanto arbitrario è l’accertamento del carattere inusuale - e, quindi, sospetto ed indiziante - delle modalità di consegna del denaro. Tale accertamento è fondato su una mera opinione della Corte, non motivata né sostanziata da elementi probatori e che, in ogni caso, contrasta con la natura, comunque illecita e, in quanto tale equivoca, delle operazioni finalizzate alla creazione di fondi neri così che le modalità di consegna messe in atto non possono assurgere a criterio discriminante non potendo essere attribuite in modo certo ad una (quella ritenuta dalla prima Corte) piuttosto che all’altra operazione (l’evasione fiscale di cui tutti - tranne RI 1 - hanno parlato).
Del resto, va qui precisato che RI 5 portò per due volte i soldi negli uffici di PC 1. Soltanto in altre due occasioni, la consegna venne fatta a RI 1 fuori dagli uffici della multinazionale: il 28.6.2002 in _ e il 21.7.2003 in un’area autostradale convenuta nei pressi di _ .
Tuttavia, astrazion fatta da questi giudizi di arbitrarietà, si deve rilevare che tutti questi elementi erano stati ritenuti dalla stessa Corte insufficienti per poter concludere per la consapevolezza di RI 5 per quanto riguarda il periodo precedente l’interruzione dell’attività forex in _ . A mente della prima Corte, infatti, decisiva - e, dunque, necessaria ad obbligare RI 5 a collegare tutti gli elementi in suo possesso e obbligatoriamente giungere alla conclusione che RI 1 intascava personalmente le retrocessioni - fu la constatazione del blocco deciso dai vertici di _ , la conoscenza dei motivi di tale blocco e la constatazione della conseguente delusione di RI 4 e di RI 1.
d)
A ragione, il ricorrente censura d’arbitrio la surriferita valutazione del materiale probatorio.
Da un lato, è arbitrariamente che la prima Corte ha individuato nella conoscenza dei motivi che hanno indotto i vertici _ a bloccare la nota attività forex un elemento che avrebbe dovuto obbligare RI 5 a fare 2 + 2, unendo a questo gli altri elementi di sospetto e a obbligatoriamente concludere che RI 1 si intascasse le retrocessioni. Come visto sopra (cfr. consid. 7.2.c), la nuova direzione generale di _ ha bloccato l’operatività di RI 1 perché non voleva più partecipare alla politica aziendale decisa dagli organi esecutivi di PC 1 consistente nella costituzione di fondi neri. Come visto, per ragioni etico-morali da lì giudicati imprescindibili (si ricorda, qui, che le norme della
_
vietano agli istituti bancari di partecipare all’evasione fiscale dei loro clienti), la nuova direzione generale di _ non voleva più aiutare PC 1 a evadere il fisco e, nel contempo, aiutarla a nascondere agli azionisti e all’organo di revisione della società l’esistenza e l’utilizzo di tali fondi neri. Mai gli organi di _ ipotizzarono o paventarono l’ipotesi che RI 1 dirottasse a suo personale vantaggio i fondi riversati sul conto della _ all’insaputa di PC 1 (cfr. anche le dichiarazioni di C., verb. dib. pag. 21).
La conoscenza dei motivi - qui correttamente definiti ed accertati - per cui _ decise il noto blocco non può, dunque, assurgere ad indizio certo e univoco e non può essere validamente considerata come l’elemento che doveva obbligatoriamente far concludere al qui resistente che RI 1 si intascava i soldi di PC 1. Cioè, la conoscenza dei motivi del blocco indicati dai vertici di _ non può, senza arbitrio, essere considerata come l’elemento che doveva obbligatoriamente svelargli quel segreto che - secondo gli stessi accertamenti della prima Corte - non gli venne mai rivelato.
Inoltre, così come correttamente evidenziato dal ricorrente, la prima Corte, operando una valutazione unilaterale del materiale probatorio, ha omesso di considerare il comportamento adottato da RI 5 nella sua qualità di capo del
_
(e non alle dipendenze di _ ) al momento considerato topico dalla prima Corte, cioè dopo che _ decise il blocco dell’operatività e quando quest’operatività stava per essere ripresa da _ .
In particolare, la prima Corte ha omesso di considerare un elemento fondamentale e meglio che, in quell’occasione, fu proprio RI 5 ad attivarsi (cfr. supra consid. 13) affinché il direttore di _ esigesse, prima di dare avvio alla nota operatività, la firma - e, quindi, l’accordo - di G., e cioè del presidente del consiglio di amministrazione di PC 1 al contratto OTC2 che comprendeva la clausola aggiunta da RI 1 per cui PC 1 accettava la distribuzione di
“eventuali commissioni agli aventi diritto”
e, quindi, per quel che ne sapeva RI 5, accettava la costituzione di fondi fuori bilancio (infatti, per PC 1 nell’ambito dell’operatività forex non poteva esservi nessuna commissione per un terzo avente diritto nella misura in cui quella era proprio l’attività di RI 1).
E’ evidente che, avesse saputo o intuito che RI 1 si intascava le retrocessioni - cioè, avesse fatto i collegamenti che la prima Corte ha ritenuto che egli avrebbe dovuto fare e ne avesse tratto quelle che, per la prima Corte, erano conclusioni obbligate - e avesse inteso continuare a trarre benefici personali dalla situazione, RI 5 non non avrebbe consigliato al direttore di _ di chiedere al presidente di PC 1 di approvare il contratto, dandogli così tutte le informazioni necessarie e sufficienti per scoprire che la banca avrebbe versato commissioni a terzi, cioè commissioni ingiustificate nella misura in cui PC 1, per le operazioni forex, non necessitava dell’intervento di terzi. Cioè, avesse saputo e, quindi, avesse voluto aiutare RI 1, RI 5 non avrebbe consigliato al direttore dell’istituto di credito di domandare al presidente della società danneggiata di dare il suo assenso all’operatività generatrice del danno per PC 1.
Il carattere risolutivo di tale consiglio emerge, del resto, con evidenza dalle dichiarazioni rese da G. al dibattimento che ha confermato che “
se avessi saputo che (ndr: il contratto OTC2) conteneva la clausola 11 relativa alle retrocessioni, mi sarei senz’altro rifiutato di firmarlo perché si trattava di una condizione che ritengo del tutto insolita e estranea alle procedure dell’azienda
” (verb. dib. pag. 34).
In realtà, il comportamento di RI 5 è indiscutibilmente un pesante e risolutivo indizio della sua buona fede nella misura in cui esso non si spiega altrimenti che con la sua totale ignoranza del disegno criminoso di RI 1. Poiché diversamente egli sarebbe stato - come rilevato nel ricorso - un ben misero complice
(ricorso, pag. 40).
Un’analisi globale e oggettiva degli indizi, comprensiva anche di questa circostanza - oltre che delle altre evocate dal ricorrente nel suo gravame - avrebbe dovuto far sorgere dubbi rilevanti e insopprimibili sulla consapevolezza di RI 5.
Se è vero che RI 5 non è (e non era) né cieco né sordo, non può neppure essere preteso che le circostanze che la stessa prima Corte non ha ritenuto sufficienti per stabilirne la consapevolezza nel periodo 1998-2002 avrebbero dovuto essere da lui lette, dopo che i nuovi vertici di _ ordinarono il blocco dell’attività invero proprio a causa di quelle ragioni che già erano note a tutti i partecipanti alla riunione del 20.10.1998 e per cui venne mascherata la reale natura dell’accordo con i contratti simulati, come un chiaro indizio che RI 1 si intascava le retrocessioni. Infatti, rispetto al 1998, a fine 2002 non c’era nulla di nuovo. Ma soprattutto, se RI 5 avesse veramente capito che RI 1 agiva all’insaputa di PC 1, non avrebbe fatto in modo che a G. venissero fornite tutte le informazioni atte a far fallire il piano criminale ai cui proventi lui - nell’ipotesi della prima Corte - intendeva, “nel suo piccolo”, partecipare.
La valenza indiziante del consiglio dato da RI 5 al direttore di _ potrebbe essere annientata soltanto dall’accertamento di una pregressa sua consapevolezza che G. non avrebbe letto il contratto OTC2. Ma tale ipotesi non solo non è stata istruita ma nemmeno è stata ventilata.
Pertanto, ritenuto il materiale probatorio in atti, il citato comportamento di RI 5 deve essere ritenuto probante della sua buona fede:
per quanto sin qui indicato, forza è perciò concludere che
i primi giudici arbitrariamente hanno riconosciuto RI 5 colpevole di complicità in amministrazione infedele qualificata.
RI 5 deve essere, quindi, assolto dall’imputazione di complicità in amministrazione infedele qualificata.
Caduta la condanna principale, RI 5 deve essere prosciolto anche dall’accusa di riciclaggio di denaro riferita al provento dell’amministrazione infedele senza ulteriori disamine.
7.4.
Visto quanto sopra, è superfluo esaminare le altre censure di arbitrio (cfr. ricorso, pag. 43-45).
8.
Parimenti, risulta evidentemente superfluo esaminare le ulteriori eccezioni formulate dal ricorrente quo alla mancata motivazione da parte della prima Corte delle decisioni incidentali, quo alla nullità dell’atto di accusa in virtù di una pretesa violazione della parità di trattamento e di una sua pretesa indeterminatezza (cfr. ricorso pag. 6-24) e quo al vizio procedurale indicato in relazione all’opposizione all’acquisizione di nuove prove (cfr. ricorso pag. 24-27). Lo stesso dicasi per la pretesa violazione di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte, applicando alla fattispecie sub iudice (ed in particolare all’agire di RI 1 ed a quello dei suoi complici) l’art. 158 CP (cfr. ricorso pag. 50-59) e per la pretesa violazione del principio della parità di trattamento nell’ambito della commisurazione della pena (cfr. ricorso pag. 62-63).
9.
Conseguentemente al proscioglimento di RI 5 dai reati di complicità in amministrazione infedele e di riciclaggio di denaro, vanno annullati i sequestri conservativi sui conti a lui intestati, di cui ai dispositivi 14.9., 14.10. e 14.11 della sentenza impugnata.
III.
Sul ricorso del procuratore pubblico
10.
Il procuratore pubblico ha impugnato l’assoluzione di RI 5 per complicità in amministrazione infedele aggravata nel periodo autunno 1998-febbraio 2003, rimproverando alla Corte di prima istanza di essere incorsa in arbitrio nell’accertamento dei fatti omettendo di considerare tutti gli elementi a comprova della colpevolezza di RI 5 e giungendo, in tal modo, ad un risultato insostenibile, in chiaro contrasto con gli atti e con la situazione di fatto accertata.
a)
RI 5 postula per la reiezione della censura poiché manifestamente appellatoria e, come tale, irricevibile.
Per contro, la PC, nelle sue osservazioni, ne ha chiesto l’accoglimento.
b)
Le considerazioni (già evocate ai considerandi che precedono) che hanno portato la prima Corte ad assolvere RI 5 dall’accusa di complicità nell’amministrazione infedele aggravata commessa da RI 1 per quanto da lui fatto dall’autunno 1998 al febbraio 2003 sono le seguenti.
"
L'atto d'accusa imputa a RI 5, per il reato patrimoniale, di aver aiutato RI 1 sia contribuendo alla riuscita delle trattative del 1998 con il _ sia di quelle con la _ , nonché di avere, in alcune occasioni, su incarico di RI 4, prelevato in contanti e consegnato a RI 1 circa il 90 percento delle somme incassate sia da _ che da _ , percependo in totale un compenso di almeno fr. 863'837.-. Per quel che ne è della sua partecipazione oggettiva alla riunione del 20.10.1998 si è già detto. Per quel che ne è della sua consapevolezza, all'epoca che RI 1 e RI 4 trattavano con B., A. e con lui sottacendo loro il loro preesistente accordo di spartirsi le "retrocessioni", la Corte è rimasta nel dubbio. È ben vero che - come tutti coloro che sedettero al tavolo delle trattative - anche a RI 5 fu sin da allora chiaro (e lo si è già accertato nei considerandi che precedono) che RI 1 poneva quale "conditio sine qua non" per l'apertura di una relazione bancaria il consenso della banca ad autorizzarlo a fare la "cresta" sui cambi a spese della propria azienda. Ed è ben vero che allo sperimentato responsabile del servizio "legal and compliance" del Private Banking del _ non potevano già allora sfuggire i rischi che sono normalmente connessi con il destino finale delle "creste" fatte, in danno della propria azienda, da un dipendente (ancorché di altissimo rango, RI 1 era e restava un dipendente di PC 1). Nondimeno poiché non v'è prova che RI 1 e/o RI 4 ebbero a svelargli il loro "segreto", non si può ragionevolmente affermare che RI 5 abbia già nell'autunno del 1998 potuto/dovuto capire che l'asserita esigenza di fare "provviste discrete" per PC 1 era una menzogna. È altresì vero che sin da prima dell'inizio dell'operatività forex, RI 4 informò RI 5 della sua intenzione di farlo partecipare a quel 10 percento delle "retrocessioni" che costituiva il compenso per la sua collaborazione, ma poiché è certo che la prima "spartizione" di soldi tra RI 4 e RI 5 ebbe luogo intorno al 1.12.1999 (data del primo cospicuo prelevamento di RI 4 dal conto di _ co. _ _ ), anche questo importante elemento (l'aver fisicamente ricevuto danaro, per un terzo o per il 40 percento poco importa, asseritamente "in regalo") nulla consente di dedurre circa il "dolo" di RI 5 nel momento delle trattative dell'autunno 1998.
L'atto d'accusa imputa poi a RI 5 di avere, in alcune occasioni, su incarico di RI 4, aiutato RI 1, prelevando per lui "in contanti circa il 90 percento delle somme incassate mensilmente sui conti _ e _ ". Per quel che ne è del conto _ già è stato accertato che RI 5, rientrato definitivamente a _ nel maggio 2002 e diventato capo di _ , eseguì, su incarico di RI 4 che era partito in vacanza, il prelievo di fr. 1'107'000.- che consegnò a RI 1, per strada, senza ricevuta. Difficile credere che egli non abbia trovato sospetta (tanto era anomala e inusuale) la prestazione che RI 4 gli chiese di fare in sua vece. Giurista specialmente formato e uomo sperimentato, RI 5 deve per forza di cose aver percepito la grossolana anomalia della situazione che vedeva RI 4 e lui intascare all'incirca fr. 110'000.- a fronte di una passeggiata di circa 300 metri al termine della quale, alla stregua di un "fattorino", egli consegnava, per strada, contanti per oltre fr. 1'100'000.- ad un RI 1 che, potendo fruire di "provviste nere" già all'estero, pagava fr. 110'000.- per farsele riportare fisicamente in sue mani a _ . In quelle condizioni, il silenzio di RI 5, il suo supino adagiarsi alla situazione, il non aver posto a RI 4, a RI 1 o a entrambi domande doverose, idonee a chiarire il vero retroscena, è oltremodo sospetto. Solo chi già sa, solo chi già ha capito, tace e non fa domande a fronte di siffatte anomali e singolari circostanze. Senza cadere nell'arbitrio la Corte avrebbe potuto accertare la malafede di RI 5 già a partire da quel suo contributo del 28.6.2002. Per puro scrupolo, visto che il periodo è quello durante il quale maturava la decisione di _ _ di bloccare l'operatività "taroccata" di RI 1, la Corte ha voluto valutare la posizione di RI 5 anche alla luce dei fatti che seguirono il 28.6.2002.”
(
sentenza impugnata, consid. 17, pag.
110-112)
c)
Il ricorrente censura d’arbitrio l’assoluzione di RI 5 relativa al periodo dell’attività forex in _ sostenendo che i primi giudici avrebbero dovuto accertare la sua malafede anche per gli anni precedenti il 2002 ritenuto come gli stessi elementi che la Corte ha ritenuto indizianti per la consapevolezza di RI 4 dovevano valere anche per RI 5 anche se RI 1 non l’aveva, contrariamente a RI 4, chiamato in causa.
Così argomentata, la censura di arbitrio è destinata all’insuccesso. Il ricorrente, infatti, si limita a proporre una sua valutazione del materiale probatorio, diversa da quella della prima Corte senza, tuttavia, indicare e sostanziare dove si realizza l’arbitrio in cui questa sarebbe caduta ponendo RI 5 al beneficio del principio in
dubio pro reo
per il periodo precedente il 28.6.2002 in considerazione, non tanto dell’assenza di una chiamata di correo al suo indirizzo, ma soprattutto del ruolo marginale (rispetto a RI 4) da lui avuto nei fatti.
Il fatto, poi, che la Corte di prime cure abbia voluto annotare che avrebbe potuto,
“senza cadere in arbitrio”,
accertare una malafede di RI 5 anche per il periodo precedente il 2002, non dimostra certo che la soluzione scelta dai primi giudici sia viziata da arbitrio né tanto meno che una scelta contraria sarebbe stata al riparo da un giudizio cassatorio (al contrario, visto quanto sin qui deciso).
In realtà, l’inciso rilevato dal PP nel suo ricorso non può essere interpretato altrimenti che come il frutto di un’inavvertenza stilistica ritenuto che non si vede perché, se la prima Corte davvero “
avrebbe potuto”,
non l’abbia fatto e visto come tale inciso sia in aperta contraddizione con quanto più volte annotato dalla stessa prima Corte nello stesso considerando (“
la Corte
è rimasta nel dubbio”
circa la consapevolezza di RI 5; “
nondimeno, poiché non v’è prova che RI 1 e/o RI 4 ebbero a rivelargli il loro segreto, non si può ragionevolmente affermare che RI 5 abbia già nell’autunno del 1998 potuto/dovuto capire che l’asserita esigenza di fare provviste discrete per PC 1 era una menzogna”;
cfr. sentenza impugnata, consid. 17, pag. 110/111). In realtà, se condanna non v’è stata, è perché la Corte di prime cure non ha individuato i necessari elementi probatori per una condanna.
La censura è, quindi, irricevibile poiché appellatoria.
11.
Il procuratore pubblico ha, inoltre, censurato l’assoluzione di RI 6 dall’accusa di complicità in amministrazione infedele aggravata, rimproverando alla Corte di prima istanza di non avere motivato la conclusione alla quale è giunta quo all’insufficienza di prove sul suo dolo. Rimprovera alla Corte di non essersi confrontata con le chiare ed univoche risultanze dell’istruttoria omettendo di considerare che RI 6 - vista la sua formazione di gestore patrimoniale e la sua lunga esperienza lavorativa in banca - disponeva “
di tutte le conoscenze necessarie per quantomeno dubitare (dolo eventuale) che l’operazione proposta da RI 4 era finalizzata ad arricchire terzi rispetto alla PC 1
”
(cfr. ricorso pagina 6) visto anche che, così come accertato dalla Corte, egli aveva ricevuto solo risposte evasive alle domande poste a Mario N. in merito all’operatività alla quale avrebbe preso parte.
Inoltre, il procuratore pubblico sottolinea come RI 6 abbia operato a titolo personale, senza coinvolgere le società del padre rilevando come ciò sia significativo in relazione al suo dolo.
a)
RI 6 postula per la reiezione della censura poiché infondata e di mero carattere appellatorio.
La PC, per contro, ne ha chiesto l’accoglimento.
b)
Dalla sentenza impugnata emerge che i primi giudici, dovendo pronunciarsi sull’accusa di complicità in amministrazione infedele qualificata, hanno accertato, dapprima, che RI 6 venne messo al corrente “
del fatto - a tutti noto - che le "provviste discrete" venivano finanziate da PC 1 con il sistema della maggiorazione/riduzione dei pips.”
. I primi giudici hanno poi accertato che
“anche RI 6 (...), nel periodo in cui fu attivo curando i prelievi dal conto della _ e quindi i trasferimenti dei fondi a _ , non poté non porsi seri interrogativi sulla reale natura delle operazioni in cui aveva accettato di coinvolgersi”
e ciò
“tanto più in quanto, anche per lui, come per RI 4 e RI 5, fu ben evidente la sproporzione tra il compenso che riceveva e la banalità e pochezza delle prestazioni che effettuava”.
La prima Corte, però, ha concluso che è plausibile che RI 6
”non particolarmente intimo di RI 4 e di RI 5, che nemmeno ha mai avuto occasione di incontrare RI 1, che prima di accettare l'incarico ha fatto quelle verifiche che si potevano esigere da lui (ha parlato con il direttor P., con il vice direttore - suo padre lavorativo - N., con RI 4 e con RI 5, si è consigliato col proprio padre e col di lui socio), che si è sempre fatto quietanzare le somme che consegnava
”- abbia creduto alla giustificazione del "nero",
ovvero che abbia creduto che le importanti somme che ha contribuito a far tornare da _, siano poi, attraverso RI 4 (rispettivamente, RI 5), tornate sottoforma di "
provviste occulte
" nella disponibilità di PC 1. La Corte è, quindi, giunta alla conclusione che non era sufficientemente provato che “
RI 6 abbia aiutato, con i descritti contributi, RI 1 a entrare in possesso di gran parte dei fondi, sapendo o quantomeno prendendo in seria considerazione che RI 1 li distraeva in danno dell'azienda”
e l’ha, perciò, assolto “
per insufficienza di prove sul dolo (anche eventuale), dall'imputazione di complicità in amministrazione infedele qualificata”
(
sentenza impugnata, consid. 17, pag.
114-115).
c)
Risulta da quanto sopra che, contrariamente alla tesi ricorsuale, la prima Corte si è chinata su tutte le risultanze dell’istruttoria che riguardavano RI 6 ed ha spiegato puntualmente, anche se in modo conciso, le ragioni che l’hanno condotta a pronunciare la sua assoluzione. Il ricorrente non spiega in che modo queste conclusioni sarebbero arbitrarie né in che modo sarebbero contraddette dagli accertamenti di fatto di cui lamenta la mancata considerazione ma si limita, in sostanza, a contrapporre la sua valutazione delle prove a quella della prima Corte, proponendo, così, una sorta di requisitoria, irricevibile in questa sede.
12.
Il ricorrente ha, da ultimo, eccepito arbitrio anche in relazione all’accertamento dei fatti che hanno condotto i primi giudici a ritenere adempiute le condizioni per accordare a RI 5 ed a RI 6 l’attenuante del sincero pentimento.
Vista l’assoluzione di RI 5 da tutti i reati ascrittigli, l’esame della censura viene limitato alla sola posizione di RI 6.
Il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere riconosciuto a RI 6 l’attenuante del sincero pentimento unicamente sulla base della sua disponibilità al risarcimento dell’indebito profitto, senza considerare che, in realtà, RI 6 non ha dato dimostrazione di un comportamento proceduralmente corretto e non ha contribuito in modo attivo al chiarimento dei fatti.
a)
RI 6 postula la reiezione della censura.
La richiesta contraria formulata dalla PC nelle sue osservazioni è da dichiarare inammissibile in forza dell’art. 251 cpv. 3 CPP.
b)
Giusta l'art. 48 lett. d CP, il giudice attenua la pena se l'autore ha dimostrato con i fatti sincero pentimento, specialmente se ha risarcito il danno per quanto si potesse ragionevolmente pretendere da lui. In applicazione dell’art. 48a CP, se attenua la pena, il giudice non è vincolato alla pena minima comminata.
Il testo della lett. d dell’art. 48 corrisponde a quello del previgente art. 64 cpv. 7 vCP cui è stato semplicemente aggiunto l'avverbio "ragionevolmente" (verosimilmente per motivi stilistici, dato che le altre versioni linguistiche non hanno subito simile modifica); l’art. 48 CP si differenzia tuttavia dall’art. 64 vCP nel senso che l’attenuazione della pena a seguito della realizzazione di una delle circostanze attenuanti previste è, ora, obbligatoria (FF 1999, p. 1868; STF 8.1.2008 6B_622/2007 consid. 3.1). Ciò rilevato, la giurisprudenza relativa all'art. 64 cpv. 7 vCP conserva, per il resto, la sua validità anche sotto l'egida del nuovo art. 48 lett. d CP (STF 14.10.2008 6B_78/2008 consid. 3.5; STF 10.8.2009 6B_614/2009 consid. 1.1.).
Se è vero che, secondo la giurisprudenza, il fatto che un autore colpevole abbia sinceramente preso coscienza del suo errore ed abbia concretamente espresso la sua volontà di migliorare deve essere sempre considerato come circostanza attenuante (DTF 118 IV 342, consid.
2d),
soltanto atti particolarmente meritori giustificano l’applicazione dell’art. 48 CP (STF 3.2.2003 6S.17/2003 consid. 2.3.; STF 7.1.2009 6B_827/2008 consid. 2.2.2.).
In effetti, il sincero pentimento presuppone che l’autore abbia adottato un comportamento particolarmente disinteressato e meritevole; l
’autore deve avere agito spontaneamente, il suo
comportamento deve essere in stretto rapporto con l'illecito e connotare un riconoscimento della colpa, non provocato dalla pressione di un procedimento penale pendente o imminente.
Si richiedono, dunque, cumulativamente due condizioni: il pentimento e il risarcimento del danno (cfr. in particolare STF 14.10.2008 6B_78/2008 consid. 3.5.): concretamente
, perché il disposto citato possa trovare applicazione, l’autore deve avere dato prova del suo pentimento tentando, anche a costo di sacrifici, di riparare, nella misura di quanto da lui ragionevolmente esigibile, il danno causato (DTF 107 IV 98 consid. 1 e rif.; STF 5.11.2008 6B_822/2008 consid. 2.3;
STF 8.1.2008 6B_622/2007 consid. 3.2; STF
26.4.1999
6S.146/1999 consid. 3a; STF 3.2.2003 6S.17/2003 consid. 2.1; STF 7.1.2009 6B_827/2008 consid. 2.2.2).
In questo senso, il risarcimento del danno non sempre basta ad integrare gli estremi del sincero pentimento: è, infatti, necessario che il risarcimento possa essere letto come un gesto spontaneo e disinteressato, slegato dalle conseguenze contingenti del procedimento penale (STF 14.10.2008 6B_78/2008 consid. 3.5) con cui il reo dimostra di essersi pentito (STF 5.11.2008 6B_822/2008 consid. 2.3; STF 14.10.2008 6B_78/2008 consid. 3.5; STF 26.4.1999 6S.146/1999 consid. 3a; DTF 107 IV 98 consid. 1 con rinvii; CCRP del 13 febbraio 2001, inc. 17.2001.8, consid. 2).
Dal canto suo, la dottrina auspica, nell’interesse della parte civile, un riconoscimento generoso del sincero pentimento in caso di risarcimento (Wiprächtiger, Basler Kommentar, Strafrecht I, II ed. 2007, ad art. 48 CP, n. 30; Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 2008, ad art. 48 CP, n. 22; Pellet, Commentaire romand, Code pénal I, 2009, ad art. 48 CP, n. 39).
L’ammissione di una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 48 CP ha per effetto di estendere verso il basso il quadro legale della pena. Tuttavia, il giudice non è tenuto a far uso della facoltà offertagli dall’art. 48a CP. In effetti, a condizione di non abusare del proprio potere di apprezzamento, egli può tener conto della circostanza attenuante nel quadro ordinario della pena (DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113; STF 7.1.2009 6B_827/2008 consid. 2.2.2). Così, un sincero pentimento poco caratterizzato (ma che, pure, realizza l’ipotesi di cui all’art. 48 CP) comporterà soltanto una diminuzione della pena all’interno del quadro legale ordinario, cioè al risultato che si avrebbe nel caso in cui il giudice avesse ritenuto soltanto un pentimento significativo nell’ambito dell’art. 47 CP (STF 7.1.2009 6B_827/2008 consid. 2.2.2).
Sapere se il gesto dell’autore denota uno spirito di pentimento e il riconoscimento della propria colpa (o, al contrario, se si fonda su considerazioni tattiche) è una questione che attiene all’accertamento dei fatti (STF 5.11.2008 6B_822/2008 consid. 2.4; DTF 107 IV 99, consid. 3b) e, pertanto, può essere rivista da questa Corte soltanto sotto l’angolo dell’arbitrio. Stabilire se i fatti accertati costituiscono o meno sincero pentimento è, invece, una questione di diritto ritenuto che l’art. 48 lett. d CP è violato quando il giudice nega - o ammette - le premesse di un'attenuazione in modo inconciliabile con la legge oppure se, nonostante le premesse date, rifiuta l'attenuazione (CCRP del 13 febbraio 2001, inc. 17.2001.8, consid. 2).
Rientra, poi, come visto sopra, nell’ambito del potere di apprezzamento del giudice stabilire le conseguenze sulla pena di tale attenuante: in particolare, rientra nel suo potere di apprezzamento stabilire se, in funzione della sua intensità, il sincero pentimento debba comportare una semplice attenuazione della pena nel quadro legale ordinario oppure se debba comportare l’applicazione dell’art. 48a CP (DTF 118 IV 342 consid.
2d;
STF 3.2.2003 6S.17/2003 consid. 2.3; STF 7.1.2009 6B_827/2008 consid. 2.2.2).
c)
In sentenza, i primi giudici hanno ritenuto che a RI 6 dovesse essere riconosciuta l’attenuante del sincero pentimento poiché l’imputato, subito dopo l’arresto, ha
restituito a PC 1 il danaro ricevuto
(
sentenza impugnata, consid. 19,
pag. 127).
Nonostante la stringatezza della motivazione data al riguardo dai primi giudici, dagli atti processuali ben si può concludere che è senza arbitrio che essi hanno considerato, concedendogli l’attenuante di cui all’art. 48 lett. d CP, che RI 6 ha prontamente restituito quanto ricevuto da RI 4, non già per una tattica processuale, ma per spirito di emendamento nella misura in cui, pur costantemente dichiarando la sua buona fede relativamente al destino delle retrocessioni, non appena saputo del retroscena della situazione cui aveva preso parte seppur in qualità di ignara comparsa (così come, peraltro, confermato dalla sua assoluzione dal reato principale), ha ritenuto di dover restituire quanto da lui percepito poiché, così come gli era stato spiegato, si trattava del provento di un reato commesso ai danni di PC 1.
Pertanto, i primi giudici, senza eccedere nel loro potere di apprezzamento, potevano considerare il suo gesto come particolarmente meritevole e, dunque, tale giustificare il riconoscimento dell’attenuante del sincero pentimento.
La censura va, quindi, respinta.
IV.
Sul ricorso della PC
PC 1
13.
La ricorrente ha rimproverato alla prima Corte di essere caduta in arbitrio prosciogliendo RI 5 dall’imputazione di amministrazione aggravata per il periodo autunno 1998 - febbraio 2003.
A mente della ricorrente, il ruolo essenziale giocato da RI 5 per l’approvazione dal profilo legale dell’operazione prospettata da RI 1 al _ , unito alle circostanze sospette accertate dalla prima Corte per quanto attiene alla consapevolezza del funzionario di banca, sono elementi sufficienti per accertare il dolo - anche solo nella forma del dolo eventuale - di RI 5 anche per il periodo precedente il febbraio 2003.
a)
RI 5 chiede la reiezione della censura poiché appellatoria.
Il PP, per contro, ne postula l’accoglimento.
b)
La ricorrente si dilunga (cfr. ricorso pag. 6-16) nel riproporre, in relazione alla consapevolezza di RI 5 per il periodo di operatività in _ , quelle circostanze che la prima Corte aveva giudicato sospette ma non ancora sufficienti per sciogliere il dubbio sulla consapevolezza dell’imputato circa il “segreto” di RI 1 e di RI 4 senza, tuttavia, spiegare in che modo il giudizio dei primi giudici sarebbe manifestamente arbitrario e insostenibile.
La PC si limita, in effetti, a contrapporre alla valutazione della Corte di prime cure una sua valutazione degli elementi a carico di RI 5 ma ciò, come visto in più parti, non basta a dimostrare l’arbitrarietà della diversa conclusione cui sono giunti i primi giudici. Muovendosi, in sostanza, su un binario parallelo a quello seguito dalla prima Corte, la censura non raggiunge la soglia della ricevibilità.
14.
Sempre con riferimento a RI 5, la PC sostiene che la prima Corte ha violato l’art. 48 lett. d CP riconoscendogli l’attenuante del sincero pentimento.
Visto il proscioglimento di RI 5, la censura risulta priva d’oggetto. Essa sarebbe, comunque, stata dichiarata inammissibile in ragione dell’art. 251 cpv. 3 CPP.
15.
La ricorrente ha, poi, censurato d’arbitrio anche l’assoluzione di RI 6 dall’imputazione di amministrazione infedele aggravata per il periodo febbraio 2003-dicembre 2005, contestando, di conseguenza, il dissequestro disposto dalla prima Corte dei conti bancari e dei beni dell’imputato.
A mente della ricorrente, la Corte è caduta in arbitrio quando ha concluso che RI 6
“non disponesse di elementi sufficienti per comprendere il reale disegno criminoso di RI 1 e dei suoi complici”
, malgrado abbia accertato che egli:
- avesse nutrito seri dubbi in considerazione delle anomalie che presentava l’operazione così come gli era stata illustrata (anomalie a lui note poiché lo portarono a farsi
“spiegare in lungo ed in largo di cosa si trattava”
);
- avesse accettato di indicare RI 4 quale avente diritto economico delle relazioni intestate alla _ , aperte prima a _ pur sapendo che il vero ADE era PC 1 e che RI 4 operava sul conto solo fiduciariamente;
- fosse consapevole degli ingenti importi che transitavano sui conti;
- avesse percepito una certa sfiducia nei suoi confronti quando veniva regolarmente accompagnato a per ritirare le somme destinate a RI 1;
- mai incontrò RI 1 e dovette sempre attendere all’esterno degli uffici di PC 1 che RI 4 o RI 5 consegnassero le retrocessioni a RI 1;
- fosse a conoscenza, in funzione della sua formazione ed esperienza professionale, della sproporzione tra quanto incassato ed i servizi effettivamente prestati.
A mente della ricorrente, tutti questi elementi sono sufficienti per sostanziare il dolo di RI 6, quanto meno in termini di dolo eventuale.
La ricorrente rimprovera, poi, alla prima Corte di avere omesso di accertare fatti che a suo giudizio sarebbero stati determinanti nell’ottica del giudizio di colpevolezza di RI 6:
“primo fra tutti l’aver omesso di chiedere all’avv. RI 4 di prendere visione del contratto fiduciario
”, poi l’avere
“omesso di accertare quelle che furono le risposte assolutamente insoddisfacenti che RI 6 ottenne dall’avv. RI 4, dal dir. P., da N., dal padre RI 6 e dal socio di quest’ultimo R. a fronte dei suoi seri dubbi; risposte che non potevano ragionevolmente tranquillizzarlo”
ed infine l’aver
“omesso di considerare che lo stesso RI 6 ha riconosciuto che il fatto di aver assunto la carica di AU e il fatto di recarsi una volta al mese a prelevare a , non giustificavano il versamento di una cifra simile, (...) ossia fr. 305'524.-
”.
Concludendo, la ricorrente sostiene che, sulla scorta delle circostanze di fatto accertate dalla stessa prima Corte, deve essere concluso che RI 6
“sapeva o quanto meno avrebbe dovuto prendere in seria considerazione (dolo eventuale) che dietro l’operatività forex architettata da RI 1 e dei suoi complici si celava un disegno criminoso ai danni della PC 1”
.
a)
RI 6 chiede la reiezione della censura sostenendo che essa riveste carattere meramente appellatorio.
Di diverso avviso il PP che ne postula l’accoglimento.
b)
Ancora una volta il ricorrente propone una sua valutazione delle prove ma, così facendo, ancora non dimostra che quella operata dalla prima Corte sia viziata da errore manifesto. Non spiega, infatti, perché i primi giudici sono caduti in arbitrio ritenendo, sulla scorta delle considerazioni elencate sopra, che RI 6 abbia creduto davvero che l’operazione fosse giustificata dalla necessità per PC 1 di costituire dei fondi neri. In particolare, non spiega perché la prima Corte abbia manifestamente errato in tale conclusione, ritenendo supportata la buona fede dell’imputato dai fatti che egli non era
”particolarmente intimo di RI 4 e di RI 5”,
che mai ebbe “
occasione di incontrare RI 1”
e che “
prima di accettare l'incarico ha fatto quelle verifiche che si potevano esigere da lui”
e che “
si è sempre fatto quietanzare le somme che consegnava
”.
Non confrontandosi con le argomentazioni della prima Corte, dunque, la censura è irricevibile.
16.
Nel suo ricorso, la PC aveva impugnato anche la decisione della prima Corte di rinviare al foro civile le sue pretese risarcitorie.
Con scritto 25.8.2009, la ricorrente ha ritirato la richiesta di annullamento del dispositivo n. 11 con cui veniva disposto tale rinvio.
Su questo punto, il ricorso della parte civile è stralciato.
17.
In considerazione dei proscioglimenti di RI 4 e di RI 5 da tutti i reati a loro ascritti con la sentenza di primo grado, la quota parte di spese e della tassa di giustizia stabilita nel dispositivo 12 della sentenza impugnata va posta a carico dello Stato.
18.
Da quanto precede discende che:
18.1.
Il ricorso di RI 4 è accolto. Di conseguenza, della sentenza impugnata sono annullati e riformati:
- il dispositivo 2. con conseguente proscioglimento di RI 4 dalle accuse di complicità in amministrazione infedele qualificata (2.1.) e di ripetuto riciclaggio di denaro (2.2.);
- il dispositivo 8.2.;
- il dispositivo 9. limitatamente alla posizione di RI 4;
- il dispositivo 12. è riformato nel senso che a carico dello Stato vengono posti anche i 4/18 delle spese e della tassa di giustizia posti a carico di RI 4.
-
i dispositivi 13.1., 13.2., 14.1., 14.2., 14.3., 14.4., 14.5., 14.6., 14.7., 14.8., 14.12. e 14.13. con conseguente annullamento delle confische dei saldi attivi delle relazioni ... (CHF) e ... (euro) intestate al Ministero Pubblico presso _ e di pertinenza di RI 4 e dei sequestri conservativi sui conti intestati a RI 4 e sulle particelle di sua proprietà
.
18.2.
Il ricorso di RI 5 è accolto. Di conseguenza, della sentenza impugnata sono
annullati e riformati:
- il dispositivo 3. con conseguente proscioglimento di RI 5 dalle accuse di complicità in amministrazione infedele qualificata (3.1.) e di ripetuto riciclaggio di denaro (3.2.);
- il dispositivo 8.3.;
- il dispositivo 9. limitatamente alla posizione di RI 5;
- il dispositivo 12. è riformato nel senso che a carico dello Stato vengono posti anche i 2/18 delle spese e della tassa di giustizia posti a carico di RI 5;
- i dispositivi 14.9., 14.10. e 14.11. con conseguente annullamento dei sequestri conservativi sui conti intestati a RI 5.
18.3
Nella misura in cui è ricevibile, il ricorso del procuratore pubblico è respinto.
18.4.
Il ricorso della PC è irricevibile.
V. Sulle spese e sulle ripetibili
19.
Gli oneri processuali di questa sede vanno caricati alle parti in ragione della loro soccombenza. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
b9ebd2d9-90a0-54c3-8629-cd26b8b0b116 | in fatto ed in diritto
che a seguito dell’intervento da parte della polizia avvenuto il 27.08.2012 presso la IS 1, con sede a _, su richiesta del socio e gerente _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) a carico di PI 3 e di PI 2 per titolo di contraffazione di merci ripetuta (art. 155 cifra 1 CP) sfociato nel DA _ rispettivamente nel DA _ emanati il 12.11.2012 dal procuratore pubblico Nicola Corti;
che entrambi i decreti di accusa sono passati in giudicato il 17.12.2012;
che con la presente istanza _, come detto, socio e gerente con diritto di firma individuale della IS 1, chiede la trasmissione, in copia, dei rapporti di polizia allestiti in relazione ai DA _ e DA _;
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2 e PI 3, essendo stata la IS 1 parte (in qualità di accusatrice privata) al procedimento penale nel frattempo archiviato;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata la IS 1 parte (in qualità di accusatrice privata) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – nonostante _ abbia omesso di precisare i motivi della sua richiesta come esatto dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dalla giurisprudenza di questa Corte – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo della società istante giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, del rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria allestito nell’ambito del procedimento penale sfociato nei decreti di accusa 12.11.2012 (DA _ e DA _, passati in giudicato), poiché il medesimo l’ha interessata personalmente in veste di accusatrice privata, ciò che emerge chiaramente dalla lettura degli atti istruttori;
che a ciò aggiungasi che il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che di conseguenza il rapporto richiesto viene trasmesso, in copia, alla IS 1 unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo la IS 1, già stata parte al procedimento penale sfociato nel DA _ e DA _ entrambi passati in giudicato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
b9f62475-14ff-5c63-bf62-535a51d42145 | in fatto
a.
A seguito di diverse condanne (del 31.3.2010, DA _, a una pena pecuniaria di CHF 1’600.-- sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni ed a una multa di CHF 300.-- commutata in una pena detentiva di 4 giorni; del 30.6.2011, DA _, a una pena pecuniaria da espiare di 90 aliquote giornaliere di CHF 90.--, commutata in una pena detentiva di 90 giorni; del 9.8.2011, DA _, a una multa di CHF 500.-- commutata in una pena detentiva di 4 giorni), il reclamante ha iniziato ad espiare le corrispondenti pene a partire dal 15.12.2011.
Egli è stato collocato inizialmente in sezione chiusa (poiché positivo agli oppiacei), e dal 23.12.2011 in sezione aperta. Non ha chiesto e beneficiato di congedi.
I termini di espiazione sono stati così stabiliti: 1/3 della pena al 16.1.2012, 1/2 della pena il 1.2.2012, 2/3 della pena il 13.3.2012, fine pena il 22.3.2012.
b.
Con scritto 31.1/2.2.2012, l’Ufficio del Patronato del Canton Ticino ha preavvisato favorevolmente la liberazione condizionale del reclamante, proponendo anche l’affidamento al Patronato e la norma di comportamento del mantenimento del posto di lavoro.
c.
Con scritto 3/7.2.2012, le Strutture carcerarie cantonali (a firma del direttore) hanno preavvisato favorevolmente la richiesta di lavoro esterno formulata dal reclamante, in relazione ad una possibilità di occupazione presso un privato ad _ (iniziata dal 6.2.2012). Con il medesimo scritto, le Strutture carcerarie cantonali hanno preavvisato favorevolmente anche la liberazione condizionale.
d.
Con decisione 14.2.2012 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha ammesso il regime di esecuzione della pena nella forma di lavoro esterno (già intrapreso dal 6.2.2012) ed ha disposto la liberazione condizionale a far tempo dal 13.3.2012, con un periodo di prova di un anno, sottoponendo il reclamante all’assistenza riabilitativa (art. 93 CP) ed alla norma di condotta dell’impegno a mantenere un’attività lavorativa.
e.
Con scritto 21/23.2.2012 RE 1 impugna la decisione in relazione alla liberazione condizionale. Egli evidenzia come la domanda di liberazione condizionale sia stata inoltrata a sua insaputa, e si oppone alla stessa
“poiché desidererei chiudere i conti con la giustizia e poter ricominciare un’esistenza regolare”
. Osserva inoltre che se dovesse cercare un altro lavoro, difficilmente lo troverebbe con delle pendenze giudiziarie.
f.
Le parti interpellate si sono rimesse al giudizio di questa Corte e non hanno presentato specifiche osservazioni. | in diritto
1.
1.1.
In data 1.1.2011 è entrato in vigore il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), che ha portato all'abrogazione del Codice di procedura penale ticinese (CPP TI) e alla riforma di diverse altre leggi cantonali.
1.2.
L'art. 439 cpv. 1 CPP ha lasciato ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
A livello cantonale l'1.1.2011 è quindi entrata in vigore la nuova Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti del 20.4.2010 (nel seguito LEPM) che all'art. 10 lit. j conferisce al giudice dell'applicazione della pena (funzione che dall'1.1.2011 viene attribuita, giusta l'art. 73 LOG, al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi) la competenza ad adottare tutte le decisioni relative alla liberazione condizionale da una pena detentiva (art. 86, 87 cpv. 1, 89 cpv. 3 e 95 cpv. 3-5 CP).
Contro tali decisioni è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli articoli 393 e seguenti CPP alla Corte dei reclami penali (art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM).
1.3.
Ne consegue che il presente gravame - tempestivo - è ricevibile in ordine, essendo presentato dal condannato e destinatario della decisione qui impugnata.
2.
2.1.
L'art. 86 cpv. 1 CP stabilisce che quando il detenuto ha scontato i due terzi della pena, ma in ogni caso almeno tre mesi, l'autorità competente lo libera condizionalmente se il suo comportamento durante l'esecuzione della pena lo giustifica e non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti.
L'autorità competente esamina d'ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente. Chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario. Il detenuto deve essere sentito (art. 86 cpv. 2 CP). Se non concede la liberazione condizionale, l'autorità competente riesamina la questione almeno una volta all'anno (art. 86 cpv. 3 CP).
2.2.
La liberazione condizionale non costituisce né un diritto, né un favore, né un atto di clemenza o di grazia che il detenuto è libero di accettare o di rifiutare (DTF 101 Ib 452 cons. 1); esaminata d'ufficio, può, se del caso, essere disposta contro la volontà del detenuto, non presupponendo l'accordo di quest'ultimo (S. TRECHSEL, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, art. 86 CP n. 12; CR CP I - A. KUHN, art. 86 CP n. 16).
Si tratta di una modalità d'esecuzione della pena detentiva, ossia della quarta ed ultima fase del regime progressivo d'espiazione della condanna, precedente la liberazione definitiva.
Come tale essa costituisce la regola da cui conviene scostarsi solo se sussistono valide ragioni per ritenere che essa non sarà efficace. Ove l'autorità vi si discosti, è tenuta ad indicare i motivi che giustificano la sua decisione (DTF 133 IV 201 cons. 2.3; 124 IV 193 cons. 4d; 119 IV 5 cons. 2; PRA 6/2000, p. 534).
2.3.
Dal punto di vista sostanziale, l'art. 86 cpv. 1-3 CP riprende quanto previsto dal precedente art. 38 vCP (rimasto in vigore sino al 31.12.2006): in tal senso si esprime il Messaggio del CF del 21.9.1998 (pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss, p. 1800-1802). Con il nuovo art. 86 cpv. 1 CP ci sono state tuttavia due modifiche: se date le condizioni, l’art. 38 cpv. 1 vCP disponeva che l’autorità penale
poteva
liberare condizionalmente il detenuto, mentre che l’art. 86 cpv. 1 CP prevede che l’autorità penale competente
lo libera
; se prima la liberazione era concessa al detenuto
"se si può presumere ch'egli terrà buona condotta in libertà"
(art. 38 cifra 1 vCP) con la nuova disposizione la liberazione va concessa se
"non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti"
(art. 86 cpv. 1 CP). Si passa in altre parole dall'esigenza di una prognosi favorevole circa il comportamento futuro del detenuto a quella di una prognosi non sfavorevole (decisione TF 6B_900/2010 del 20.12.2010; DTF 133 IV 201 cons. 2.2), ciò che è rilevante nei casi intermedi in cui non si arriva a formulare una prognosi certa. Per il resto la nuova normativa non si discosta nella sostanza dal diritto previgente, così che la giurisprudenza resa sotto l'imperio dell'art. 38 vCP conserva la sua validità (decisione TF 6B_428/2009 del 9.7.2009; DTF 133 IV 201).
3.
3.1.
Nel presente caso, non sono contestate le condizioni della liberazione condizionale (pacificamente date nel caso del reclamante), ma il principio della sua concessione da parte del beneficiario di detto regime.
3.2.
L’art. 86 cpv. 2 CP prevede che l’autorità competente esamina d’ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente. Per questo motivo, l’obiezione del reclamante riguardo la presentazione a sua insaputa della richiesta risulta irrilevante.
3.3.
Come evidenziato al punto 2.3., con la riforma della parte generale del CP, la liberazione condizionale da potestativa è divenuta obbligatoria, sempre che siano riunite le condizioni legali.
Come ricordato dalla dottrina (
S. TRECHSEL, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, art. 86 CP n. 12; CR CP I - A. KUHN, art. 86 CP n. 16
) e dalla giurisprudenza (DTF 101 Ib 452), la concessione della liberazione condizionale non presuppone l’accordo del condannato, trattandosi di un modo di esecuzione della pena.
Per questo motivo, il disaccordo manifestato dal reclamante con il proprio gravame non è determinate per la concessione della liberazione condizionale.
3.4.
Per il resto, nel gravame, il reclamante non contesta l’assi-stenza riabilitativa e la norma di condotta, peraltro giustificate.
3.5.
L’art. 86 cpv. 2 in fine CP prevede invero che il detenuto debba essere sentito.
Nel caso concreto, ciò non è avvenuto, a torto. Considerato come il regime di lavoro esterno e la liberazione condizionale sono stati accolti dal giudice dei provvedimenti coercitivi, quest'ultimo ha ritenuto di poter prescindere dall’audizione, che sarebbe assurta a formalismo eccessivo ed a un atto contrario all’economia procedurale.
La successiva presentazione del gravame dimostra che al contrario, l’audizione sarebbe stata oltre che dovuta in base all’art. 86 cpv. 2 in fine CP, anche opportuna, in quanto avrebbe permesso di esaminare le eventuali obiezioni del reclamante alla concessione della liberazione condizionale.
Ritenuto però come la decisione impugnata sia comunque conforme per il resto alle condizioni dell’art. 86 CP e la soluzione adottata con la concessione della liberazione condizionale sia favorevole al reclamante in termini di libertà personale, la violazione della norma sull’audizione del reclamante pur grave, non può avere quale effetto quello di prorogare la detenzione del reclamante.
4.
Il reclamo è respinto. Considerato quanto riferito al punto 3.5., si può prescindere dal prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ba0e879c-496c-5b94-b2c1-3a2397baed78 | in fatto:
A.
Il 27 agosto 1999 la Corte delle assise criminali in Lugano ha giudicato _, _ e _ per i titoli di mancato assassinio, truffa e falsità in documenti. Essa ha giudicato:
– _ e _ coautori di ripetuta truffa per avere, anche al fine di procurare a _ i mezzi per coprire ammanchi da lui causati a favore di terzi in danno del conto “_”, ingannato ripetutamente e con astuzia gli organi e i funzionari della Banca _ servendosi di tre falsi fax attestanti, contrariamente al vero, altrettanti ordini di _ di trasferire ingenti somme di denaro (in totale Lit. 3'162'871'700 e US$ 1'611) dai conti _ e _ – aperti presso la citata banca – sul conto Odyseum, sul quale essi avevano diritto di firma, causando alle società _ ed _, rispettivamente al proprietario economico dei fondi sottratti, un danno di pari importo, solo in parte recuperato;
– _ e _, inoltre, coautori colpevoli di ripetuta falsità in documenti, per avere ripetutamente confezionato, spedito e fatto uso di falsi documenti (fax recanti la firma contraffatta di _ e quindi i falsi ordini di bonifico), nell'intento di compiere la progettata truffa in danno degli organi e dei funzionari della Banca _;
– _, _ e _ coautori di tentato assassinio (_ e _), rispettivamente di mancato assassinio (_) per avere, in correità con _, concordato senza scrupoli l'uccisione a pagamento di _, per poi farne sparire il cadavere, da un lato per mascherare le malversazioni compiute da _ e _ sui conti _ e _, dall'altro per far credere che la scomparsa di _ fosse dovuta a fuga conseguente agli indebiti ordini di trasferimento dai citati conti (che quest'ultimo deteneva fiduciariamente per mandato di terzi), segnatamente per avere _ e _ pagato anticipatamente a _ la somma di Lit. 400'000'000 e promessogli ulteriori Lit. 450'000'000 a lavoro ultimato, per avere _ e _ accompagnato i sicari, rispettivamente la vittima sul luogo del preventivato crimine (“Residence _” di _) e per avere _ e _ affrontato _, il primo con un fucile subacqueo e il secondo con una griglia da camino, con la quale lo ha colpito alla testa (procurandogli lesioni) e ha tentato di colpirlo ulteriormente, non riuscendo però a ucciderlo per la pronta reazione della vittima, che è riuscita a darsi alla fuga e a chiamare soccorso.
La Corte di assise ha condannato pertanto:
– _, avendo dimostrato sincero pentimento, alla pena di 7 anni di reclusione, all'espulsione dalla Svizzera per 15 anni e al versamento a _ della somma simbolica di un franco per torto morale;
– _, avendo agito in stato di scemata responsabilità e avendo dimostrato sincero pentimento, alla pena di 5 anni e 6 mesi di reclusione, all'espulsione dalla Svizzera per 15 anni e al versamento a _ della somma simbolica di un franco per torto morale;
– _ alla pena di 7 anni di reclusione, all'espulsione dalla Svizzera per 15 anni e al versamento allo Stato della somma di Lit. 400'000'000 a valere quale risarcimento compensatorio per l'illecito profitto conseguito.
Computato a tutti il carcere preventivo sofferto, come pure a _ la carcerazione estradizionale in Turchia, la Corte di assise ha ordinato la confisca del saldo del conto n. _ intestato alla società _, _, della somma di fr. 103'000.– depositata sul conto n. 11454 di _ presso la Banca Raiffeisen di _ il 22 dicembre 1997, delle somme di fr. 133'700.– e di fr. 24'101.50 (Lit. 29'500'000.–) versati sul conto del Ministero pubblico presso la Banca _, già rinvenuti nella cassetta n. _ della stazione _ e ivi depositati da _, demandando a causa separata l'assegnazione dei suddetti importi al legittimo proprietario. La Corte delle assise criminali ha pure ordinato la confisca degli strumenti usati da _ e da _ nel tentativo di uccidere _. Infine essa ha ordinato, a determinate condizioni, il dissequestro di alcune somme di denaro a favore dei rispettivi titolari.
B.
Contro la sentenza di assise _ e _ hanno inoltrato il 30 e 31 agosto 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 4, rispettivamente il 7 ottobre successivi essi chiedono:
– _: la derubricaziona della condanna al reato di aggressione, la ricommisurazione della pena e, dandosene il caso, il rinvio degli atti a una nuova Corte delle assise criminali per nuovo giudizio; in via subordinata, la condanna per il reato di mancato omicidio, una ricommisurazione della pena e, dandosene il caso, il rinvio degli atti a una nuova Corte delle assise criminali per nuovo giudizio; in via ancor più subordinata, il rinvio degli atti a una nuova Corte delle assise criminali per nuovo giudizio, previo allestimento di una perizia psichiatrica sul suo grado di responsabilità; in ogni caso, la ricommisurazione della pena e, dandosene il caso, il rinvio degli atti a una nuova Corte delle assise criminali per nuovo giudizio:
– _; il riconoscimento dell'attenuante (specifica) della grave angustia e la condanna a una pena non superiore a 4 anni e 6 mesi di reclusione; in via subordinata, il riconoscimento dell'attenuante generica della grave angustia e la condanna a una pena non superiore a 5 anni di reclusione
C.
Con osservazioni del 25 ottobre 1999 il Procuratore pubblico propone di respingere i ricorsi. La stessa conclusione formula _ nelle sue osservazioni del 28 ottobre 1999. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (at. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in palese contrasto con il sentimento di giustizia ed equità (REP. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 124 I 208 consid. 4, 174 consid. 2g, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 3b, 119 Ia 32 consid. 3, 117 Ia 139 consid. 2c con riferimenti, nell'ambito dell'apprezzamento delle prove: DTF 118 Ia 30 consid. 1b).
I. Sul ricorso di _
2.
Il ricorrente evoca anzitutto le sue dichiarazioni al pubblico dibattimento, in particolare durante il pomeriggio del 24 agosto 1999, nel corso del quale ha ammesso per la prima volta di essersi trovato con _ all'ora critica nell'appartamento n. 433 della “Residenza _”, dolendosi del fatto che la Corte di assise non lo ha ritenuto credibile, quanto meno nella misura in cui egli ha sostenuto di non avere avuto alcuna intenzione di uccidere _, ma di avere unicamente voluto spaventarlo, provocando una zuffa affinché egli non potesse recarsi a un appuntamento in banca. Secondo gli accordi presi con _ – egli assevera – il fucile subacqueo che egli imbracciava doveva servire soltanto per rendere credibile la messinscena e non per altro. Ora, quanto l'autore di un reato sa o ignora, quello che vuole o l'eventualità delittuosa cui egli consente è un dato di fatto (DTF 121 IV 92 consid. 2b e SJ 1993 pag. 600 consid. 2, entrambi con rinvii). Come tale, esso può essere rivisto dalla Corte di cassazione e di revisione penale solo sotto il ristretto profilo dell'arbitrio (art. 288 lett. c CPP; sulla definizione v. consid. 1).
a)
La prima Corte ha ritenuto che se il ricorrente e _ avessero realmente voluto limitarsi alle azioni pretese, essi andrebbero considerati autori colpevoli di aggressione (art. 134 CP), la vittima essendo stata assalita e colpita al capo da _ con una griglia in ghisa, riportando lesioni, e gli autori non avendo infierito quando – stando al ricorrente – la vittima era caduta per terra, in una posizione che non le avrebbe consentito di alzarsi facilmente, a causa di problemi alla colonna vertebrale (sentenza, pag. 65 e 66). I primi giudici hanno però escluso una simile ipotesi, accertando che i due avevano davvero voluto sopprimere _. Essi hanno rilevato che il ricorrente è una persona intelligente, istruita, caparbia e ostinata, pronta a mentire a oltranza, tenendo testa agli inquirenti per lungo tempo (nonostante la dura carcerazione patita a Istanbul), manipolando persino i propri difensori, e capace pure di mantenersi lucida e calma anche in situazioni difficili. La Corte ha considerato “raggelante” che durante la verbalizzazione del 24 agosto 1999 per ben due volte il ricorrente ha ribadito di avere visto – o per lo meno pensato di vedere – durante la collutazione con _ la vittima “per terra” (sentenza, pag. 66). Essa ha rilevato che nel verbale del 3 febbraio 1998 (all. 53 al rapporto di inchiesta preliminare, classificatore 1) _ aveva espressamente dichiarato di non avere, in seguito al colpo di griglia, perso i sensi. In aula costui ha ribadito tale affermazione, aggiungendo che se fosse caduto sarebbe stata la sua fine, considerato che egli avrebbe potuto rialzarsi soltanto con difficoltà a causa di problemi alla colonna vertebrale. La prima Corte ha pure soggiunto che nessuno in quel momento ha approfondito la questione, nel senso che nessuno ha evocato l'ipotesi contraria. Se i fatti si fossero realmente svolti nel modo preteso dal ricorrente, sempre secondo la Corte di assise, l'unica deduzione logica e coerente potrebbe essere quella che gli aggressori, pur avendone avuto l'occasione, si sono deliberatamente astenuti dall'infierire sulla vittima (sentenza, pag. 66 e 67).
La Corte di merito ha però ritenuto che la dichiarazione dibattimentale del ricorrente (risultata priva di qualsiasi fondamento), intesa a far credere che durante la colluttazione la vittima sarebbe caduta, costituisce una sottile bugia, proferita e ribadita durante la “confessione”. Essa attesta piuttosto la lucidità e la prontezza di spirito del soggetto e, soprattutto, la sua capacità di manipolare i fatti in qualsiasi momento (sentenza, pag.67). A mente dei primi giudici il ricorrente avrebbe inoltre mentito su altri punti, segnatamente quando ha detto di non sapere nulla sulle malversazioni compiute da _ e _, ma solo di averle tutt'al più intuite, quando ha ridimensionato il prezzo pagato dai mandanti per l'esecuzione dell'incarico, e quando ha parlato di un certo “_ ”, cioè della persona (inesistente) che gli avrebbe dovuto portare altri 20 milioni di lire per la prosecuzione del mandato (sentenza, pag. 67). Che le intenzioni dei soggetti fossero ben diverse da quelle riferite dal ricorrente al dibattimento – ha rilevato la Corte di merito – risulterebbe anzitutto dal fatto che l'imputato ha portato nell'auto da Roma e/o da Misano un fucile subacqueo, un enorme telo verde e grandi sacchi di plastica, ciò che dimostra come in precedenza egli abbia realmente promesso a _ e _ l'uccisione della vittima, come riferito da costoro (sentenza, pag. 67). Ma se il ricorrente ha formulato una promessa del genere, ha soggiunto la prima Corte, egli conosceva anche i motivi che avevano spinto i mandanti a cercare e poi ad accettare soluzioni drastiche, sapendo delle malversazioni e incassando poi realmente Lit. 400'000'000 come mercede. Ciò posto, la Corte di assise ha accertato che a mentire ripetutamente era il ricorrente e non _, il quale ha riferito in modo credibile di avere informato l'imputato sui reati patrimoniali in atto, né tanto meno _, il quale (con _) ha ammesso di avere pagato, rispettivamente promesso al ricorrente un'ingente somma per eliminare _ (sentenza, pag. 67 e 68). Il 24 dicembre 1999 – ha precisato la Corte di assise – _ ha infatti prelevato in dollari e cambiato in lire l'importo di 400 milioni, ossia la somma che gli stessi mandanti hanno preteso di avere poi consegnato all'imputato (sentenza, pag. 68). Per contro, a parere dei primi giudici, sul motivo e sull'entità del compenso pattuito il ricorrente ha di nuovo mentito, affermando in sede predibattimentale di avere ricevuto 60 milioni di lire per un incarico diverso, cioè per il cosiddetto “mandato di un marito geloso”. Salvo asserire poi di avere ricevuto circa 40 milioni di lire da _ in 3 o 4 occasioni e affermare in aula, prima delle ammissioni del 24 agosto 1999, di avere ricevuto, sempre per il “mandato del marito geloso”, complessivamente 23 milioni di lire, in tre versamenti da _, e durante la confessione, di avere ricevuto 100 milioni di lire solo per pedinare _, dovendo ricevere altri 20 milioni di lire da “_ ” a Brogeda per il lavoro supplementare, consistente nell'inscenare la colluttazione con la vittima (sentenza, pag. 69). Anche tale “_ ” – secondo i giudici – è però frutto delle menzogne del ricorrente, trattandosi di un nome inventato per accreditare la tesi (meno compromettente) di un compenso di 20 milioni di lire promesso da _ all'ultimo momento e nemmeno percepito, per indurlo a venire a _ a fare un po' di scena (sentenza, pag 69 e 70).
Ciò posto, la Corte di assise ha ribadito che il ricorrente ha promesso a _ e _ l'eliminazione fisica di _, facendosi pagare subito 400 milioni di lire e concordando un ulteriore versamento di 450 milioni di lire a lavoro ultimato. Essa ha quindi ritenuto del tutto coerente il successivo comportamento del ricorrente, dall'individuazione dell'indirizzo della vittima a Misano, alla sorveglianza attuata anche affittando un camper, fino all'urgenza di muoversi non appena saputo, il 1° febbraio 1999, dell'intenzione di _ di venire a Lugano. Donde il suo ingaggio fin dall'alba, la trasferta da Roma a Misano, i contatti mattutini con _, l'inseguimento di _, il suo viaggio a Lugano benché avesse perso di vista a vittima, la trasferta in Ticino con _ in una sola auto con a bordo un fucile subacqueo (appena acquistato), un enorme telo e grandi sacchi di plastica, destinati a occultare il cadavere, rispettivamente a celare eventuali perdite di sangue (sentenza, pag. 70). Che i due mirassero a eliminare la vittima risulterebbe anche dal fatto che, pur avendo il ricorrente usato guanti sul luogo dell'aggressione (l'appartamento di _), entrambi hanno affrontato la vittima a viso scoperto, come se non dovessero temere di essere riconosciute. Inoltre, giunti sul posto, essi si erano sollecitamente armati, il ricorrente con il fucile subacqueo carico e _ con la griglia del camino (sentenza, pag. 70).
Anche il modo con il quale gli autori hanno agito successivamente (riferito in modo credibile dalla vittima) dimostrerebbe, secondo la Corte del merito, la volontà omicida dei due. Allorché _ è entrato nel soggiorno, _ era già in agguato con la griglia in mano dietro il banco che separa la cucina. Appena lo ha scorto, gli ha assestato un colpo di griglia sulla testa, ferendolo sul lato-temporo-parietale destro. Ma la vittima non ha ceduto né ha perso i sensi e anzi, dopo avere visto l'aggressore salire sul muretto (
recte
parapetto: fotografia n. 77/78 act. 97) per scavalcarlo, con la griglia in mano, pronto a colpirlo di nuovo, approfittando del fatto che così facendo _ si era sbilanciato, egli ha reagito con la forza della disperazione ed è riuscito a infilare le dita nella griglia, senza più mollare la presa (sentenza, pag. 71). Ne è seguita la colluttazione, durante la quale _ ha anche visto un secondo aggressore (il ricorrente) che teneva in mano, puntato contro di lui, quella che gli sembrava una pistola ma che in realtà era il fucile subacqueo carico. Nel contempo egli ha cercato di indietreggiare, sempre lottando con _ e sempre osservando il ricorrente che lo minacciava con l'arma. Raggiunto il corridoio, _ ha visto di nuovo il ricorrente con l'arma puntata verso di lui. È riuscito però ad aprire la porta e a porsi in salvo (sentenza, pag. 71 ).
A mente della prima Corte, la volontà di uccidere risulta dal fatto che l'imputato ha colpito la vittima con una griglia di ghisa (del peso di 8 kg) sulla testa e non già mirando ad altre parti del corpo, tentando poi di colpirle la vittima una seconda volta salendo sul muretto in modo da avvicinarsi maggiormente (sentenza, pag. 71). Dal canto suo – ha rilevato la prima Corte – il ricorrente, il quale affermava che secondo gli accordi _ doveva brandire la griglia ed egli il fucile subacqueo, non poteva ignorare le reali intenzioni del correo e quindi non poteva non avere accettato quanto stava accadendo. _ non ha mai mollato la griglia e il ricorrente mai ha richiamato il compagno, mai ha tentato di fermarlo e mai ha cercato di abbandonare la scena; anzi, a sua volta ha puntato il fucile in direzione della vittima e ha cercato di prendere la mira per sparargli. Ha quindi dimostrato – sempre stando alla sentenza impugnata – non solo di condividere l'agire di _, e di volersene adeguare, ma di volerlo addirittura sostenere (come d'intesa), sparando con il fucile. Facendosi scudo di _, tuttavia, _ gli ha impedito di farlo. Pur senza sparare, ha concluso la prima Corte, il ricorrente ha quindi dimostrato coi fatti di volere attentare alla vita altrui (sentenza, pag. 72 e 73).
b)
Il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere trascurato le dichiarazioni rese agli inquirenti da _ e _, dalle quali emergerebbe l'ipotesi – negata dalla Corte di assise – di una caduta di _. V'è da domandarsi se, formulato in tal modo, sulla base di semplici riscontri senza pretendere che la diversa conclusione alla quale è giunta la prima Corte sia arbitraria, il ricorso sia ammissibile. Sia come sia, foss'anche ammissibile, il gravame sarebbe infondato nel merito. È vero che _,
commis
di cucina presso l'albergo “_ ”, ha riferito che _ aveva parlato con lui subito dopo l'aggressione, raccontandogli di essere stato affrontato nel suo appartamento da due individui muniti di un pannello in ghisa, di essere caduto a terra e di avere notato, rimanendo sempre cosciente, che uno dei due brandiva una pistola (allegato 81 al rapporto di inchiesta preliminare, classificatore 2). Non ritenendo decisiva tale dichiarazione e fondandosi sul racconto della vittima, che sia nella fase istruttoria, sia al pubblico dibattimento ha sempre escluso di essere caduto durante la colluttazione (sentenza, pag. 66), la Corte di assise non è tuttavia caduta nell'arbitrio. Essa ha saputo spiegare in modo sostenibile perché ha creduto alla vittima anziché al ricorrente, capace a suo giudizio di mentire fino all'ultimo e di non perdere la calma neppure nei momenti più compromettenti (sentenza, pag. 67).
D'altronde il ricorrente non pretende che al dibattimento Italo _ abbia ribadito che la vittima sia caduta durante l'aggressione. È possibile che la questione non sia stata trattata, ma ciò non fa apparire arbitraria l'opinione dei primi giudici, stando ai quali l'ipotesi di una caduta di _ non è mai stata accennata da alcuno (sentenza, pag. 66). Tanto meno si ravvisa arbitrio nel fatto che la Corte ha disconosciuto la deposizione di _ (rapporto di inchiesta preliminare di polizia, allegato 84). Davanti agli inquirenti quest'ultima (sentita pure al dibattimento), si era limitata a dire di avere udito rumori provocati da spostamenti di mobili provenienti dall'appartamento soprastante e, a un certo momento, un forte rumore “come se qualche cosa di pesante fosse caduto sopra il pavimento”. Il che non è sufficiente tuttavia per rimproverare ai primi giudici di essere caduti in arbitrio non riconducendo il citato rumore alla caduta della vittima. Basti pensare che _ è salito sul muretto che divide il soggiorno dalla cucina per colpire di nuovo _, ma che si è sbilanciato, consentendo alla vittima di difendersi (sentenza, pag. 71; cfr. act. 97 fotografie 77 e 78). Il colpo sentito dalla teste, come rileva il Procuratore pubblico nelle proprie osservazioni, poteva anche riferirsi a quel momento. Ciò posto, il ricorso deve essere respinto anche su questo punto.
c)
Il ricorrente asserisce che, risultando una caduta di _ durante la collutazione, diventano prive di fondamento le deduzioni della prima Corte al riguardo, in particolare gli apprezzamenti negativi sulla sua personalità. In sintesi egli rimprovera ai primi giudici di essersi limitati a contrapporre le sue dichiarazioni a quelle della vittima, ritenendole sostanzialmente inaffidabili e omettendo in tal modo di considerare le testimonianze a lui favorevoli. Il perno della sentenza impugnata, ossia la sua mancanza di credibilità sulla caduta della vittima, si rivela dunque – sempre secondo l'imputato – estremamente fragile, in aperto contrasto con gli atti. Il ricorrente non apporta però elementi tali da dimostrare che la prima Corte sia trascesa in arbitrio accertando i fatti in modo diverso, ossia credendo alla vittima per stabilire se quest'ultima sia effettivamente caduta durante l'aggressione.
d)
Asserisce il ricorrente che, stando alla sentenza impugnata (pag. 54), dopo avere parlato con lui, già il 1° febbraio 1998 _ avrebbe confermato a _ di avere predisposto blocchi di polizia, sicché _ non sarebbe mai arrivato a Lugano. Nel successivo colloquio, _ gli avrebbe detto invece che _ poteva anche giungere a Lugano. Ciò dimostrerebbe che egli non aveva alcuna intenzione di fermare la vittima, tanto meno di eliminarla. Anche _ – egli soggiunge – si è sentito raggirato dopo avere saputo che _ sarebbe potuto giungere a Lugano. La stessa Corte di assise ha accertato tale circostanza, rilevando a un certo momento che _ e _ hanno temuto, fin che non videro l'Alfa Romeo giungere a Lugano, di essere stati ingannati, che egli non si sarebbe fatto vedere (sentenza, pag. 65). _ e _ dubitavano quindi della sua reale volontà di eseguire il mandato e lo stesso _, a comprova di ciò, ha inviato in due occasione _ per verificare se egli si trovasse davvero a Misano con _ per sorvegliare la vittima. La volontà di uccidere, con particolare riferimento alla caduta di _, è stata pertanto fatta dipendere – secondo il ricorrente – da un arbitrario accertamento dei fatti, ciò che comporta l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a una nuova Corte di assise affinché lo giudichi colpevole di aggressione e non di mancato assassinio.
Ancora un volta il ricorso, ai limiti dell'ammissibilità, è destinato all'insuccesso. Che i mandanti (_ e _) dubitassero a un certo punto delle reali intenzioni dei sicari perché le cose stavano andando per le lunghe e perché _ stava per giungere a Lugano, ancora non consente di intravedere arbitrio nel fatto che la Corte di assise ha rifiutato di desumere l'assenza di dolo (per quanto riguarda la volontà di uccidere _) da parte del ricorrente. Gli indizi a suo carico sono pesanti: l'entità del compenso pattuito, l'acquisto di un fucile subacqueo, del telone e dei sacchi di plastica, il trasferimento all'ultimo minuto (unitamente a _) con detto materiale a Lugano, dove _ stava per giungere, l'agguato, l'aggressione violenta e il ferimento della vittima in una parte vitale da parte di _ con una griglia in ghisa pesante 8 kg, il successivo tentativo di _ di colpire di nuovo la vittima con la griglia, il puntamento del fucile subacqueo da parte del ricorrente contro la vittima. Ciò consentiva alla Corte di assise di accertare senza arbitrio che la mancata uccisione di _ in Italia e la successiva sua trasferta a Lugano non potevano essere interpretate come elementi suscettibili di escludere l'intenzione omicida dei sicari, ma in realtà come prove del contrario, ovvero che gli autori persistevano nell'esecuzione del piano (riferito da _ e _) mirante all'uccisione della vittima. Che questa abbia raggiunto _ e che il mandato abbia potuto essere eseguito soltanto in quella località è irrilevante. Infondato, il ricorso deve di conseguenza essere di nuovo respinto.
3.
La Corte di assise, credendo ancora a _ e a _, ha accertato che il ricorrente ha ricevuto da costoro un compenso di 400 milioni di lire e ha concordato un supplemento di 450 milioni di lire a “evento accaduto”. Tale accertamento, secondo il ricorrente, ha indotto la Corte a ritenere che egli ha agito senza scrupoli e a qualificare l'azione come mancato assassinio. Se non che, egli obietta, in tal modo la Corte ha commesso arbitrio poiché ha inspiegabilmente trascurato le versioni contrastanti rese dai presunti mandanti sia sulla data in cui la consegna del compenso sarebbe avvenuta, sia sulle modalità del viaggio e della consegna dell'importo di 400 milioni di lire. La Corte ha disconosciuto altresì che _ aveva motivo di mentire, considerato che aveva bisogno proprio di una somma equivalente per pagare debiti, come figura anche a pag. 15 della sentenza impugnata.
Ora, considerazioni del genere, essenzialmente appellatorie, sono inammissibili in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Fossero anche ricevibili, esse non gioverebbero al ricorrente. La Corte di assise non ha dubitato della sincerità di _ né dell'affidabilità delle dichiarazioni rese da _ nel memoriale del 10 febbraio 1998 (rapporto di inchiesta preliminare, all. 2, classificatore 1; sentenza, pag. 44, 45 e 68). Essa ha rilevato che la somma chiesta dal ricorrente come
prætium sceleri
s appare del tutto adeguata e credibile rispetto alla cifra che _ aveva (erroneamente) indicato come ammontare delle malversazioni (Lit. 1.4 miliardi), che _ il 24 dicembre 1998 ha prelevato in dollari e cambiato in lire l'importo tondo di 400 milioni, che _ ha riferito di avere consegnato tale somma a Roma (presente _) senza che costui avesse avuto l'occasione di tenerla in mano e che in quel periodo _ era tanto preoccupato da pagare qualsiasi cifra per risolvere il suo problema (sentenza, pag. 68). La Corte ha inoltre sottolineato come il ricorrente abbia fornito diverse versioni sia sull'ammontare della ricompensa, sia sullo scopo dell'incarico, dimostrandosi ancora una volta inaffidabile (sentenza, pag. 69). Accertando sulla base di siffatti riscontri che il ricorrente ha realmente percepito il compenso menzionato da _ e _, la prima Corte non si è dunque dipartita da constatazioni e considerazioni manifestamente insostenibili e pertanto arbitrarie. Ancora una volta la sentenza impugnata resiste pertanto alla critica.
4.
Secondo il ricorrente la qualifica giuridica di assassinio cadrebbe anche in base ai fatti accertati nella sentenza impugnata. Avere agito dietro compenso – egli spiega – non basta per applicare senza ulteriori considerazioni l'art. 112 CP, poiché il movente, rispettivamente lo scopo o le modalità perverse costituiscono semplici esempi di una “particolare mancanza di scrupoli”. Tale assenza di scrupoli deve però risultare da una valutazione complessiva delle circostanze direttamente connesse all'azione. La Corte del merito – egli continua – ha però omesso una tale valutazione, trascurando finanche fatti e circostanze da essa medesima accertati.
a)
L'uccisione volontaria di una persona costituisce assassinio, secondo l'art. 112 CP, “se il colpevole ha agito con particolare mancanza di scrupoli, segnatamente con movente, scopo o modalità particolarmente perverse”. Rispetto al previgente art. 112 CP, la norma entrata in vigore il 1° gennaio 1990, anche se con un'altra terminologia, si riferisce solo alla particolare perversità dell'autore, il quale agisce “con particolare mancanza di scrupoli” quando il movente, lo scopo o il modo di agire si riveli particolarmente efferato. Pur non esauriente, tale enumerazione evita che il giudice debba fondarsi esclusivamente su una clausola generale (la particolare la mancanza di scrupoli) di difficile interpretazione. L'enumerazione introdotta precisa, a differenza del diritto anteriore, che determinanti sono solo le circostanze dell'atto, quelle cioè direttamente connesse con la sua consumazione; non entrano invece in considerazione i trascorsi dell'autore e il suo modo di comportarsi dopo l'omicidio (DTF 117 IV 369 consid. 13; v. anche DTF 118 IV 122 consid. b;
Corboz
, Les principales infractions, Berna 1997, n. 4 ad art. 112 CP). Secondo il Tribunale federale, il tipo di assassino a cui fa richiamo l'art. 112 CP, è quello descritto dallo psichiatra Hans Binder (Der juristische und der psychiatrische Massststab bei der Beurteilung der Tötungsdelikte, in: RPS 67/1952, pag. 324): una persona senza scrupoli, che agisce a sangue freddo, con egoismo crasso e primitivo, senza sentimenti sociali, che non tiene in alcun conto la vita altrui pur di realizzare il proprio interesse (DTF 117 IV 269 consid. 13 con riferimenti; DTF 120 IV 274, consid. 3a, 118 IV 122 consid. 2b). In sintesi la particolare assenza di scrupoli, che delimita il campo di applicazione dell'art. 112 CP, presuppone una colpa specialmente grave, legata solo alla commissione dell'atto (
Corboz
, loc. cit. con rinvii).
Riferendosi ai tre criteri enunciati dall'art. 112 CP – a titolo non esaustivo, come si è visto dinanzi – il Tribunale federale ha stabilito che il movente dell'autore è particolarmente odioso quando l'autore uccide per riscuotere un compenso (sicario), per rubare o addirittura senza motivo, per futilità. Lo scopo è particolarmente odioso quando l'autore elimina un testimone ingombrante o una persona che lo intralci nel compimento di un delitto o una persona che potrebbe dolersi di lui. Il modo di agire è particolarmente odioso quando, ad esempio, l'autore dà prova di crudeltà, mostrando piacere nel far soffrire o nell'uccidere la vittima (DTF 118 IV 122 consid. 2a; 120 IV 275 consid. b; Corboz, op. cit. art. 112 n. 6 segg.). Il Tribunale federale ha tuttavia precisato che non è corretto qualificare l'atto come assassinio fondandosi su qualsiasi elemento suscettibile di configurare una speciale gravità; al contrario, occorre procedere a una valutazione di insieme per stabilire se l'atto, esaminato alla luce di tutte le sue sfaccettature, consenta di definire l'autore come assassino. Tale è il caso quando dalle circostanze dell'atto risulta che l'autore dimostri lo sprezzo più completo per la vita altrui (DTF 118 IV 126).
b)
La Corte di assise ha escluso il reato di tentato, rispettivamente di mancato omicidio (e quindi la fattispecie generale prevista dall'art. 111 CP) perché gli autori hanno manifestamente agito dimostrando particolare mancanza di scrupoli, già solo per avere tra loro stipulato un infame accordo (_ e _) inteso a far ammazzare, rispettivamente (il ricorrente) a provvedere all'uccisione a pagamento di una persona che per i primi due era diventata un intralcio, un ostacolo da eliminare per occultare per sempre le malversazioni da loro commesse ai suoi danni, una vittima che per il ricorrente era un semplice estraneo, una persona che non gli aveva mai fatto nulla di male (sentenza, pag. 79). Ora, come giustamente ha rilevato la stessa Corte di assise, tale attitudine, ossia l'assunzione dietro (forte) compenso dell'incarico di eliminare fisicamente una persona per aiutare i mandanti a sbarazzarsi di chi aveva subìto le loro gravi malversazioni, costituisce senz'altro un movente particolarmente odioso (DTF 118 IV 125; Corboz, op. cit. art. 112 n. 6).
c)
Il ricorrente fa valere che la Corte di assise non ha considerato fatti importanti da essa medesima ammessi, ovvero che gli autori (lui e _) erano alle prime armi, che hanno agito in base a un piano in gran parte improvvisato e che si erano addirittura spaventati di fronte all'estrema gravità di quanto si accingevano a fare e di quanto effettivamente fecero. Soggiunge che l'assenza di un piano prestabilito risulterebbe dal fatto che a circa mezz’ora dai fatti essi ignoravano ancora esattamente dove andare, che _ si era munito all'ultimo momento di una griglia trovata nell'appartamento, mai visitato prima, e che essi non hanno predisposto un piano, né principale né di emergenza, durante il pedinamento di _ a Misano, protrattosi per oltre un mese. _ si era per altro già recato a Lugano il 29 dicembre 1997, creando apprensione a _. Tale circostanza avrebbe dovuto logicamente spingere gli autori a prendere contromisure, ciò che però non hanno fatto, a dimostrazione che essi non erano seriamente intenzionati ad eseguire il mandato. Il ricorrente pretende inoltre di non avere intrapreso nulla di concreto per eseguire l'incarico nel lasso di tempo tra il 20 dicembre 1997 (assunzione del mandato) e il 2 febbraio 1998, di essersi limitato a un semplice pedinamento, condotto lacunosamente da terzi, tanto che la stessa vittima se ne era accorta. Per di più l'improvvisazione con la quale è stata condotta l'operazione potrebbe denotare finanche una sorta di inganno a danno di _ e _, una sorta di finzione destinata a trarre vantaggio economico, tanto che lo stesso _ aveva a un certo punto dubitato delle sue reali intenzioni di sopprimere _. Infine il ricorrente si sofferma sull'accertamento dei giudici di assise, secondo gli aggressori erano spaventati di fronte all'estrema gravità di quanto erano in procinto di fare e sostiene che ciò costituisce un ulteriore elemento a loro favore, tale da escludere che essi abbiano agito con freddezza d'animo e sprezzo per la vita altrui.
Anche se abilmente proposte, tali considerazioni non giovano al buon esito del ricorso. Che il ricorrente e _ fossero alle prime armi, che avessero agito senza pianificazione, ma anzi con improvvisazione, che fossero spaventati durante l'esecuzione del crimine e che quindi non abbiano agito come consumati sicari professionisti è stato accertato, come si è detto, dalla stessa Corte del merito (v. anche sentenza, pag. 73 e 74). Tali circostanze risultano però di poco peso. Pur non disponendo di un piano specifico, il ricorrente e _ hanno sempre dimostrato con atti qualificati di voler eseguire l'incarico (soppressione di _) che _ e _ avevano loro commissionato. Ricevuta la prima rata del compenso (Lit. 400 milioni) e procuratisi gli strumenti per sopprimere la vittima (fucile subacqueo, telo e sacchi di plastica in cui nascondere il cadavere ed eventuali tracce di sangue), _ e il ricorrente hanno continuato a manifestare concreta disponibilità, sorvegliando e pedinando la vittima a Misano (personalmente o tramite terzi) e mantenendo costanti contatti con _ e _, tanto da essere pronti a entrare in azione in qualunque momento, anche quando _ aveva fatto perdere le sue tracce e stava per raggiungere Lugano.
Essi hanno saputo padroneggiare la situazione anche nel momento più difficile, allorché hanno dovuto recarsi presso il “Residence _”, dove hanno brevemente atteso la vittima con l'intenzione di ucciderla. Anche nel momento critico essi hanno dimostrato le loro reali intenzioni, predisponendo l’agguato (sentenza, pag, 83): _ munendosi sollecitamente della griglia in ghisa reperita nell'appartamento, colpendo violentemente al capo la vittima e tentando poi inutilmente di colpirla di nuovo e il ricorrente puntando contro la vittima, durante la violenta collutazione con _, il micidiale fucile subacqueo. Anche se spaventati, magari più delle vittima (sentenza, pag. 73 e 74), essi hanno posto in atto tutto quanto richiedeva l’esecuzione del mandato, che ha consentito loro di riscuotere 400 milioni di lire in contanti e che avrebbe permesso, se portato a termine secondo gli accordi, di incassare altri 450 milioni (sentenza, pag. 74). Con il loro agire gli autori hanno dunque sempre mantenuto un'attitudine confacente all'ignobile incarico, mirante a sopprimere una persona, vittima a sua volta delle malversazioni dei mandanti. Indizi suscettibili di relativizzare seriamente il principale elemento sul quale la Corte ha fondato la qualifica giuridica del (mancato) assassinio – movente particolarmente odioso consistente nell’uccidere una persona dietro compenso – non ne sono emersi (DTF 120 IV 274 in fine). La Corte delle assise criminali non ha pertanto violato il diritto federale applicando alla fattispecie l'art. 112 CP.
5.
Il ricorrente fa carico alla Corte delle assise criminali di avere violato l'art. 13 CP per non avere ordinato una perizia psichiatrica sul suo grado di responsabilità, nonostante circostanze concrete (in specie le risultanze del referto allestito dallo psicologo dott. _ su incarico del Procuratore pubblico: act. 39 e 51; sentenza, pag. 17) lasciassero destassero fondati dubbi.
L'art. 13 cpv. 1 CP impone, per diritto federale, un esame specialistico ogni qual volta sussistano ragionevoli dubbi sul pieno possesso delle facoltà mentali da parte dell'autore (DTF 118 IV 6 consid. 2, 116 IV 273 consid. 4; CCRP, sentenza del 17 dicembre 1998 in re C. consid. 11). Ciò non significa che la prima Corte dovesse ordinare nella fattispecie una nuova perizia psichiatrica. Il rapporto del dott. Rossetti era stato chiesto del resto – come il ricorrente stesso ammette – per verificare se sussistessero tendenze suicide conseguenti alle condizioni psicofisiche dovute alla lunga carcerazione in Turchia e al regime carcerario nelle celle pretoriali di Mendrisio. In tale particolare contesto va considerato il citato parere medico (cfr. in particolare act. 51). È vero che il perito ha descritto il ricorrente come “un soggetto depresso, ansioso e con rallentamenti psicomotori”, rilevando che “tale costellazione, che si situa tra la nevrosi d'Ansia, configura più precisamente un Disturbo Post-traumatico da stress in una personalità narcisistica con tratti ipocondriaci e paranoidei a cui si associano comportamenti manipolatori” (sentenza, pag. 17 con riferimento ad act. 39). Il ricorrente non spiega tuttavia perché una conclusione del genere avrebbe dovuto costituire per la Corte delle assise criminali un serio motivo di dubbio sulla sua capacità di intendere e di volere al momento dei fatti (e non della carcerazione). Né egli ha mai sollecitato una nuova perizia durante la fase istruttoria o nel corso del dibattimento. Certo, egli invoca la sentenza DTF 118 IV 274, secondo cui un referto specialistico va ordinato quando il reato contestato all'autore appaia inconciliabile con il suo precedente stile di vita fino al momento dei fatti. Se non che, proposto in questi soli termini, senza nemmeno spiegare in che cosa consista la pretesa differenza di attitudine e perché essa dovrebbe necessariamente rivelarsi decisiva sotto il profilo dell'art. 13 CP, il ricorso si rivela inammissibile per carenza di motivazione. Stesse il ragionamento del ricorrente, basterebbe essere incensurati per obbligare sistematicamente l'autorità a ordinare una perizia sul grado di responsabilità dell'autore di un reato, giacché il soggetto si troverebbe confrontato, con ogni evidenza, con una situazione inedita rispetto ai suo trascorsi. Ciò non è sicuramente il senso della giurisprudenza predetta. Il ricorrente fa valere infine che _ è stato oggetto di perizia psichiatrica proprio in applicazione del citato principio. Egli non sostanzia però tale raffronto. il ricorso sfugge perciò, di nuovo, a un esame di merito.
6.
Infine il ricorrente si duole che nella commisurazione della pena la prima Corte non ha considerato appieno la durezza del carcere preventivo sofferto, segnatamente il periodo trascorso in condizioni (notoriamente) precarie nelle carceri pretoriali di Mendrisio.
a)
Il giudice commisura la pena alla colpa del reo tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui (art. 63 CP). La gravità della colpa è il criterio fondamentale per la fissazione della pena. A tale riguardo entrano in considerazione numerosi fattori: movente e circostanze esterne, intensità del proposito (determinazione) o della negligenza, risultato ottenuto, assenza di scrupoli, modo d'esecuzione dell'atto, entità del pregiudizio arrecato volontariamente, durata o reiterazione dell'illecito, ruolo in seno a una banda, recidiva, difficoltà personali o psicologiche e così via. Per quanto riguarda l'autore, in particolare, occorre considerare la sua situazione familiare e professionale, l'educazione ricevuta e la formazione seguita, l'integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere. Anche il comportamento dopo la perpetrazione del reato entra in linea di conto, compresa la collaborazione con gli inquirenti, il pentimento e la volontà di emendamento (DTF 124 IV 47 consid. 2d con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 e 116 IV 289 consid. 2a). Criteri ispirati alla parità di trattamento con casi analoghi hanno invece una portata relativa (DTF 124 IV 47 consid. 2c), mentre esigenze di prevenzione generale svolgono solo un ruolo di second'ordine (DTF 118 IV 350 consid. 2g).
b)
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia quando valuta l'importanza di ogni singolo fattore. Egli deve indicare perciò quale peso attribuisce ai vari elementi considerati, non necessariamente in cifre o in percentuali, ma in modo che l'autorità di ricorso – pur rispettando la sua latitudine di apprezzamento – possa seguire il suo ragionamento e controllare l'applicazione della legge (
Queloz
, Commentario de la jurisprudence du Tribunal fédéral en matiêre de fixation et de motivation de la peine, in: RPS 116/1998 pag. 136 segg.). Sapere se la pena risponda a tali esigenze e rientri nei limiti edittali è una questione di diritto, che va quindi esaminata liberamente dalla Corte di cassazione e di revisione penale; nella commisurazione della pena, per contro, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice di merito sia stato esageratamente severo o esageratamente mite, al punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (DTF 123 IV 152 consid. 2a con richiami).
c)
Pronunciando la condanna a 7 anni di reclusione per mancato assassinio la Corte di assise ha precisato anzitutto che il ricorrente non deve rispondere dei reati patrimoniali commessi da _ e _. Ciò nonostante – essa ha soggiunto – la pena deve essere identica a quella inflitta a _ per il reato di tentato assassinio in concorso con i reati di truffa e falsità in documenti. La colpa del ricorrente è apparsa infatti più grave di quella dei correi, soprattutto dal profilo soggettivo. Meglio collocato, sia per formazione scolastica, sia per solidità degli affetti familiari su cui poteva contare e per situazione professionale, il ricorrente non ha esitato a proporre a _ e _ – ottenendone l'assenso – di eliminare a pagamento un terzo che non conosceva e che non gli aveva fatto nulla. Alla Corte di assise è parso poi particolarmente grave che il ricorrente sia passato concretamente all'atto, tendendo con _ un proditorio agguato alla vittima, pronto a veder massacrare quest’ultima a colpi di griglia, se necessario a sparargli un colpo di fiocina per poi occultare il cadavere. Consumato il crimine, egli avrebbe incassato il saldo pattuito (450 milioni di lire).
Richiamata l'estrema gravità della colpa e l'atteggiamento del ricorrente (fino alla confessione del 24 agosto 1998), caratterizzato da bugie e indice – secondo la Corte di merito – di nessun ravvedimento, di particolare ostinatezza e di durezza d'animo, e censurato il contegno dell’imputato anche al momento in cui, messo di fronte all'evidenza, ha dovuto ammettere di essersi trovato a _ nel momento critico, i primi giudici hanno nondimeno ritenuto di ridurre sensibilmente la pena di 12 anni proposta dal Procuratore pubblico. Essi hanno considerato a favore dell’imputato, anzitutto, il fatto che il reato è stato comunque mancato, come pure il fatto che l'azione criminosa è stata condotta in modo sì pericoloso, ma piuttosto dilettantesco, secondo un piano in parte improvvisato e concordato all'ultimo minuto. Essi hanno altresì considerato l’incensuratezza, il lungo carcere preventivo sofferto e, soprattutto, la particolare durezza di quello patito per quasi quattro mesi nelle carceri di Istanbul, valutando altresì la situazione personale, familiare e sociale, segnatamente la nascita di un figlio durante la detenzione e la lontananza dalla famiglia conseguente alla pena da espiare (sentenza, pag. 82-84).
d)
il ricorrente non si confronta che di scorcio sulle predette motivazioni, limitandosi a rimproverare alla Corte di assise di non avere concesso maggiori riduzioni di pena per le notorie precarie condizioni di detenzione nelle celle pretoriali di Mendrisio. A prescindere dal fatto però che egli nemmeno pretende di essere insorto davanti all'autorità competente contro le denunciate condizioni detentive, egli non contesta che la prima Corte ha pur sempre considerato, nella commisurazione della pena, anche la durata del carcere preventivo sofferto e quindi anche i mesi trascorsi presso la carceri di Mendrisio. È vero che i primi giudici non hanno specificato quale peso abbiano dato concretamente alle pretese disagevoli condizioni di carcerazione successive all'estradizione dalla Turchia, menzionando solo circostanza come tale. Il ricorrente non pretende però che, nel suo risultato, ossia che considerando globalmente tutte le circostanze aggravanti e attenuanti, l'esito al quale è giunta la Corte di assise condannandolo a 7 anni di reclusione sia la risultante di un eccesso o di un abuso del potere di apprezzamento. Non soccorrono dunque le premesse, neanche a questo riguardo, per una cassazione della sentenza.
II. Sul ricorso di _
7.
Il ricorrente sostiene in primo luogo di avere postulato davanti alla Corte delle assise criminali il riconoscimento dell'attenuante specifica (art. 64 CP), rispettivamente generica (art. 63 CP) della grave angustia e che, nonostante tale richiesta, i giudici non si sono pronunciati, diversamente da quanto hanno fatto per di _, al cui riguardo – per lo meno di transenna – hanno negato l’attenuante. Da tale doglianza egli non trae però alcuna conclusione. Formulato in tal modo, il ricorso va perciò dichiarato inammissibile, tanto più che, se a _ è stato negato tale beneficio (sentenza, pag. 81 in alto), incombeva al ricorrente spiegare perché nel suo caso si imponeva in trattamento diverso.
8.
Al punto 3 del suo memoriale il ricorrente si propone di riassumere in che modo egli è stato coinvolto nella vicenda e di precisare alcuni aspetti non vagliati nella sentenza di assise. Ancora una volta, però, egli non trae alcuna conclusione dall'esposto, donde la chiara inammissibilità del gravame.
9.
Il ricorrente fa valere che senza alcun dubbio dopo il 20 dicembre 1997 egli si è venuto a trovare in uno stato estremo, in particolare da quando _ e _ sono intervenuti sull'amica di _ presso il “Centro _” di _ per indurla a troncare la relazione con costui, e quindi dal momento in cui, dalla situazione di “finanziamento-ponte” (sentenza, pag. 30) con il preventivato intervento di _ per tenere lontano _ da Lugano il più a lungo possibile, si è passati all'ipotesi di eliminare fisicamente la vittima. Egli insiste nel sostenere di essere passato improvvisamente da una fase predisposta per il rientro dei soldi da parte di _ a una di natura ben diversa.
Ora, secondo giurisprudenza, per ammettere uno stato di grave angustia (art. 64 CP) occorre che l'agente sia stato spinto al reato da una situazione vicina allo stato di necessità (ancorché imputabile a sua colpa), tale da indurlo a trovare ripiego soltanto nella commissione del reato (DTF 107 IV 96). L'applicazione dell'art. 64 CP rientra nel potere di apprezzamento del giudice. Egli può tenere conto dell'attenuante anche nell'ambito dell'art. 63 CP. L'art. 64 CP è violato solo laddove il giudice neghi – o ammetta – le premesse di un'attenuazione in modo inconciliabile con la legge, oppure se, nonostante le premesse date, rifiuti l'attenuazione oltrepassando i limiti del proprio potere di apprezzamento (CCRP, sentenza del 2 ottobre 1999 consid. 2d/aa). Dalla sentenza impugnata non risulta alcunché di concreto che possa anche solo lontanamente far supporre che l'unica via possibile per il ricorrente fosse quella di coadiuvare i correi nell’uccisione di _. Invero il ricorrente pretende di avere temuto per la propria vita, avendogli _ comunicato che, dopo avere collaborato al trasferimento dei fondi, egli era ormai compromesso. Che egli rischiasse però al punto da delinquere sotto tale pressione non è stato accertato dai giudici. Tanto meno il ricorrente pretende che questi siano caduti in arbitrio trascurando un simile accertamento. Certo, il ricorrente si trovava senz’altro in uno stato emotivo particolare, che si è viepiù acuito con l'evolversi della situazione. Ma di ciò la prima Corte ha tenuto conto, riconoscendogli l'attenuante della scemata responsabilità ex art. 11 (sentenza, pag. 82 con riferimento al rapporto psichiatrico del dott. _ citato a pag. 15 della stessa sentenza). I primi giudici hanno dunque considerato lo stato psicologico del ricorrente al momento di commisurare la pena, valutando in particolare la sua arrendevolezza di fronte alle proposte di _ (v. anche sentenza, pag. 15). Un ulteriore contenimento della pena giusta l’art. 63 CP non sarebbe giustificato.
10.
Il ricorrente si duole che la prima Corte gli ha imputato di non avere esercitato quel senso critico che ci si poteva attendere da lui, asseverando che essa ha sorvolato su una circostanza incontrovertibile, ossia che egli ha tentato in un primo momento di convincere _ a cercare una soluzione ragionevole, trattando con _. Egli soggiunge di essere passato oltre di fronte all'opposizione e alle argomentazioni di _ e _, a dimostrazione della sua debolezza di carattere. Come si è visto, però, la sua debole struttura caratteriale è stata considerata dalla Corte delle assise criminali nel quadro dell'art. 11 CP. Che egli abbia proposto soluzioni alternative non costituisce una circostanza rilevante di fronte agli accertamenti che attestano che egli, per finire, si è adeguato al piano dei correi, attivandosi per quanto gli era possibile tra _ e _, partecipando al pagamento della prima parte del compenso pattuito e alle successive azioni che si erano rese necessarie per la prosecuzione e il compimento del piano (sentenza, pag. 82). Su questo punto il ricorso non ha alcuna consistenza.
11.
Il ricorrente richiama l'accertamento della Corte di assise, secondo cui _ non ha mai avuto paura di _, giacché in caso contrario non avrebbe mai pensato di uccidergli il fratello, e fa valere che tale accertamento è arbitrario, in palese contrasto con le dichiarazioni rese in istruttoria e al dibattimento e privo di ogni riscontro oggettivo. In qualsiasi modo si risolva la questione, soggiunge il ricorrente, rimarrebbe il fatto che soggettivamente egli ha risentito e appurato solo e unicamente una effettiva paura di _ per la propria incolumità; tale aspetto – sempre secondo il ricorrente – è stato però trascurato dai primi giudici. Con ogni evidenza il ricorrente si diparte da una personale ricostruzione dei fatti, pretendendo (almeno così sembra) che _ gli ha inculcato il sentimento di paura che ha poi maturato nei confronti di _. Egli non dimostra tuttavia la manifesta insostenibilità della diversa conclusione della Corte di assise, che ha escluso invece siffatti timori, per lo meno nell'estensione asserita dal ricorrente. Già si è visto inoltre che i primi giudici hanno considerato nel quadro dell'art. 11 CP lo stato di disagio psicologico del ricorrente connesso all'evolversi e il peggiorare della situazione. Altre riduzioni di pena non possono più entrare in linea di conto.
12.
Il ricorrente lamenta infine una palese e urtante disparità tra la pena inflittagli (5 anni e 6 mesi di reclusione) rispetto a quella irrogata a _ (7 anni di reclusione). Se non che, il principio della parità di trattamento nella commisurazione della pena può essere invocato solo nelle rare ipotesi in cui pene determinate in modo di per sé conforme all'art. 63 CP diano luogo a un'obiettiva disuguaglianza; il confronto tra imputati o con processi analoghi suole essere invece infruttuoso, ogni caso dovendo essere giudicato in base alle sue individualità oggettive e soggettive, ciò che comporta implicitamente una certa disuguaglianza (DTF 123 IV 150;
Corboz
, La motivation de la peine, in: ZBJV 131/1995 pag. 12 segg.; cfr. anche DTF 124 IV 47 consid. 2c). Ne segue che in materia disparità di trattamento la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – quando il giudice di merito abbia ecceduto o abusato del suo potere di apprezzamento, dando luogo a disparità flagranti (DTF inedita del 6 marzo 1998 in re M., consid. 4b in fine; CCRP, sentenza del 17 agosto 199 in re G. e coimputati, consid. 13a).
In concreto la Corte del merito avrebbe sopravvalutato, secondo il ricorrente, circostanze attenuanti riconosciute a _, segnatamente quella dovuta alla particolare durezza della carcerazione estradizionale patita in Turchia e all’inevitabile lontananza dalla famiglia per la condanna a una lunga pena detentiva da espiare. Rileva che, nonostante la citata esperienza carceraria, _ non ha mutato il proprio atteggiamento freddo e sprezzante, e che all'uscita di prigione costui, a differenza di lui, potrà per lo meno ricongiungersi con la famiglia e potrà contare su tale _ una volta scontata la pena. Argomentazioni del genere non bastano tuttavia per intravedere flagranti disparità di trattamento. È vero che il ricorrente ha beneficiato di attenuanti non riconosciute a _, come quella del sincero pentimento e della scemata responsabilità e che egli è stato riconosciuto colpevole, per quanto riguarda il reato più grave, di tentato e non di mancato assassinio. Non si deve dimenticare però che, per rapporto a _, egli è stato riconosciuto colpevole anche di ripetuta truffa e ripetuta falsità in documenti, reati che non sono certo di second’ordine. La differenza di pena di un anno e mezzo non appare dunque la risultante di un eccesso o di un abuso del potere di apprezzamento. Del resto la prima Corte ha spiegato in modo adeguato le ragioni che l'hanno indotta a infliggere a _ e a _ la medesima pena (7 anni di reclusione) e al ricorrente una pena inferiore (5 anni e 6 mesi di reclusione), ridimensionando le richieste di pena avanzate dal Procuratore pubblico. Il gravame del ricorrente si dimostra perciò, anche su questo punto, destinato all’insuccesso.
III. Sulle spese
13.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza. Sono posti perciò a carico di _, il cui ricorso ha comportato maggiore onere di lavoro, in ragione di due terzi e a carico di _ per il resto (art. 9 cpv, 1 e 15 cpv. 1 CPP). _ rifonderà alla parte civile _, che ha presentato osservazioni al ricorso valendosi di un avvocato, un’indennità di fr. 800.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ba5b352a-98cd-59ff-9211-aa81d19eb7ff | in fatto ed in diritto
1.
Il _ è avvenuto un incidente, in territorio di _, zona _, sulle rive del fiume _, ai danni di _ (_), il quale a seguito di quanto accaduto è deceduto il medesimo giorno.
Il Ministero pubblico ha di conseguenza aperto un procedimento penale a carico di diverse persone (inc. MP _) sfociato – per quanto interessa la fattispecie qui in esame – nel decreto di accusa _ a carico di _ (DA _) rispettivamente a carico di _ (DA _) siccome entrambi ritenuti colpevoli di omicidio colposo giusta l’art. 117 CP in relazione ai fatti accaduti quel giorno ai danni di
┼_
. L’allora procuratore pubblico Mario Branda ha proposto la loro condanna alla multa di CHF 1'000.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, e meglio
come ivi descritto. In entrambi i decreti l’allora magistrato inquirente ha rinviato le parti civili (ai sensi del previgente CPP TI) al competente foro per il risarcimento dei danni.
Sia gli accusati, sia le parti civili _, _, _ e _ hanno inoltrato formale opposizione avverso i surriferiti decreti di accusa.
Con sentenza (con motivazione) _ l’allora giudice della Pretura penale Giovanni Celio ha dichiarato _ e _ autori colpevoli di omicidio colposo ex art. 117 CP nelle circostanze descritte nel DA _ rispettivamente nel DA _ (per le imputazioni ivi indicate nella seconda parte) e li ha condannati alla multa di CHF 1'000.-- ciascuno e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese. Il giudice ha inoltre accertato la responsabilità civile di entrambi gli imputati nei confronti delle parti civili ai sensi dell’art. 9 cpv. 3 vLAV, rinviando parimenti quest’ultime al foro civile per le relative pretese (inc. _).
L’_ la (allora) Corte di cassazione e di revisione penale ha respinto, nella loro ammissibilità, i ricorsi presentati da _ e da _ (inc. CCRP _).
Il _ il Tribunale federale, statuendo sui ricorsi di diritto pubblico e per cassazione presentati da entrambi gli imputati, li ha respinti nella misura della loro ammissibilità (decisione TF _ del _).
2.
Con la presente istanza la IS 1 postula la trasmissione degli incarti penali MP _ (recte _), CCRP _, nel frattempo archiviati, e del verbale di dibattimento della Pretura penale, essendo stati richiamati con il consenso del pretore e delle parti ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa in data 25.06.2010 da _, _, e da _, _ (entrambe patr. da: _, _), contro _, _ (patr. da: avv. _, _), _, _ (patr. da: avv. _, _), e _, _ (patr. da: avv. _, _), mediante la quale le parti attrici hanno postulato di condannare, in solido, i convenuti al pagamento della somma di CHF 1'409'718.85 oltre interessi in favore di _, di CHF 113'150.05 in favore di _, e per essa della madre _, di CHF 45'442.95 in favore di _ e _, e per essa della madre _.
La petizione è stata integralmente avversata dalle parti convenute.
A mente del pretore i presupposti di cui all’art. 62 cpv. 4 LOG nonché i principi giurisprudenziali di questa Corte riguardo a istanze di ispezione degli atti da parte di autorità giudiziarie sarebbero realizzati.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
4.
Nella fattispecie in esame – stante il contenuto degli incarti penali richiamati e l’oggetto della vertenza civile – appare certamente data una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e il procedimento penale di cui all’incarto MP _ sfociato – tra l’altro – nella sentenza di condanna 22.04.2004 della Pretura penale (inc. _), confermata dapprima dalla (allora) CCRP l’8.03.2006 (inc. CCRP _) e poi dall’Alta Corte il _ (decisione TF _ – _, _ del _).
Le parti coinvolte in entrambi i procedimenti sono in sostanza le stesse: _ e _, attrici nell’ambito del procedimento civile, erano parti civili (ai sensi del previgente CPP TI) in quello penale, mentre _ e _, convenuti nell’ambito del procedimento civile, avevano assunto la veste di accusati (ai sensi del previgente CPP TI) nel procedimento penale. Inoltre entrambi i procedimenti traggono le loro origini dai fatti accaduti il _ ai danni di
┼_
. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
ba82b554-c42b-5c7d-a5ab-3e31d2360f2c | in fatto: A.
Il 17 novembre 1998, poco dopo le 18.00, l'appuntato di polizia _ e un collega, in servizio di pattuglia su una vettura equipaggiata con un apparecchio “Multagraph” sull'autostrada A2 in direzione nord tra Bellinzona e Biasca, hanno rilevato su una tratta di oltre 2 km una vettura Audi “A6 quattro” targata TI _che circolava a una velocità di 179 km/h. Fermata l'automobile all'uscita di Biasca e accertato che al volante si trovava _, essi hanno intimato al conducente la contravvenzione. Preso atto delle osservazioni dell'interessato al rapporto di contravvenzione, essi hanno redatto un rapporto aggiuntivo del 27 novembre 1998 in cui hanno descritto le modalità del rilevamento e hanno confermato il loro rapporto. Con decisione del 29 gennaio 1999 la Sezione della circolazione ha inflitto a _ una multa di fr. 660.– in applicazione dell'art. 90 n. 1 LCStr, imputandogli di avere circolato alla velocità di 161 km/h sulla tratta in questione, già dedotto il margine di tolleranza.
B.
Il Tribunale cantonale amministrativo, adito da _, accertato che egli non intendeva ritirare il ricorso, ha annullato il 25 giugno 1999 la decisione impugnata e ha trasmesso gli atti per competenza al Ministero pubblico. Con decreto di accusa del 13 settembre 1999 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ colpevole di grave infrazione alle norme della circolazione (art. 90 n. 2 LCStr) e lo ha condannato a una multa di fr. 2'000.–.
C.
Il Pretore del Distretto di Bellinzona, cui gli atti sono stati trasmessi in seguito all'opposizione del condannato, ha fatto seguire l'incarto il 23 settembre 1999 per competenza al Pretore del Distretto di Riviera. Questi ha constatato che l'eccesso di velocità era stato rilevato sull'autostrada A2 tra il chilometro 61.000 e il chilometro 63.402. In considerazione del fatto che la giurisdizione di Riviera iniziava dopo il chilometro 64.000, il giorno successivo egli ha ritornato
l'incarto al Pretore del Distretto di Bellinzona, che il 13 dicembre 1999 ha confermato l'imputazione, riducendo nondimeno la multa a fr. 1'200.–
D.
Contro la sentenza citata _ ha inoltrato il 14 dicembre 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 22 dicembre 1999 egli chiede l'annullamento del giudizio impugnato o quanto meno, in subordine, il rinvio dell'incarto al Pretore del Distretto di Riviera per nuovo giudizio. Nelle sue osservazioni del 7 gennaio 2000 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
2.
Il Pretore del Distretto di Bellinzona ha ritenuto infondata la contestazione della propria competenza per territorio poiché dal rapporto di contravvenzione risultava che il controllo della velocità era cominciato al chilometro 61.000 ed era terminato al chilometro 63.402, quindi completamente sul territorio del Distretto di Bellinzona, la giurisdizione di Riviera iniziando dopo il chilometro 64.000. Quanto all'obiezione dell'imputato, che sosteneva di avere superato il veicolo della polizia dopo la valle di Lodrino, egli l'ha ritenuta infondata. Tutt'al più, secondo il Pretore, poteva lasciare perplessi il fatto che gli agenti avessero fermato la vettura solo all'uscita autostradale di Biasca, ossia vari chilometri dopo il rilevamento della velocità. Ciò non era tuttavia sufficiente per porre in dubbio il rapporto di contravvenzione, e in particolare i dati relativi alla tratta in cui esso era avvenuto.
3.
Il ricorrente fa valere di avere presentato già al dibattimento uno schema da cui risultava inoppugnabilmente che il controllo è avvenuto sul territorio dei Comuni di Lodrino e di Biasca, ovvero nella giurisdizione del Distretto di Riviera, e ribadisce di ricordarsi perfettamente di avere sorpassato la vettura della polizia dopo il ponte della valle di Lodrino. Afferma inoltre che gli agenti hanno commesso un grave errore indicando che l'infrazione era avvenuta tra il chilometro 61.000 e il chilometro 63.402, poiché è impossibile che l'apparecchio “Multagraph” sia stato inserito esattamente al chilometro 61.000. Per di più gli agenti lo hanno inseguito fino al chilometro 72, corrispondente all'uscita autostradale di Biasca, percorrendo ben 9 chilometri dopo la fine della misurazione. A suo dire, dato che al momento dei fatti era buio, gli agenti sono stati indotti in errore, l'inizio del rilevamento essendo avvenuto in realtà al chilometro 67 circa, in territorio del Distretto di Riviera, e non al chilometro 61.000.
4.
Gli argomenti proposti dal ricorrente sono palesemente appellatori. In effetti, l'interessato sostiene nuovamente di ricordarsi di avere superato la vettura della polizia dopo il ponte della valle di Lodrin
o. Il Pretore, esaminando tale argomento, ha accertato però che esso non trova alcun riscontro negli atti, né il ricorrente indica perché e sulla base di quale atto simile accertamento sarebbe arbitrario. Anche per quanto concerne l'inseguimento per svariati chilometri prima della fermata presso l'uscita autostradale di Biasca, il ricorrente dimentica che il Pretore ha sì espresso perplessità, ma ha precisato che ciò non era sufficiente per porre in dubbio il rapporto di contravvenzione e i dati relativi al tratto in cui il rilevamento era avvenuto. Il ricorrente si limita a sostenere che un inseguimento da parte degli agenti di polizia per ben 9 chilometri sarebbe impossibile, ma non adduce elemento alcuno a suffragio di questa tesi. Del resto risulta chiaramente dagli atti che la misurazione è stata compiuta sul tratto tra Preonzo e Lodrino, circostanza che il ricorrente non contesta e che accredita quanto ha ritenuto il Pretore in merito alla propria competenza per territorio. Per altro, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, l'apparecchio “Multagraph” non è stato attivato esattamente al chilometro 61.000. In quel punto gli agenti, a velocità e distanza stabilizzate, hanno soltanto iniziato il controllo. Che poi gli agenti possano essersi sbagliati di 6 km nell'indicare l'inizio del rilevamento con il chilometro 61.000 a causa del buio, è argomento – oltre che poco attendibile – manifestamente appellatorio e come tale, una volta ancora, improponibile.
5.
Per quanto riguarda la violazione della LCStr, il Pretore ha ritenuto non credibile l'opponente quando asseverava che, pur avendo superato il limite di 120 km/h, la sua velocità doveva essere notevolmente inferiore a quella imputatagli con il decreto di accusa. Fosse stato il caso, in effetti, per comune esperienza su una tratta di 2.4 km il veicolo della polizia si sarebbe notevolmente avvicinato a quello inseguito, ciò che tuttavia non si è verificato. Certo, il ricorrente obietta che i rilevamenti della polizia non possono assurgere a valida prova, intanto perché per recuperare il terreno dopo essere stati superati gli agenti hanno dovuto circolare essi medesimi a una velocità attorno ai 179 km/h (quella rimproveratagli), e in secondo luogo perché la velocità tenuta da un veicolo inseguitore non è mai costante, né è tecnicamente possibile mantenere una distanza costante ed esatta dalla vettura che precede. Del resto, avendo visto la pattuglia della polizia, egli soggiunge, di certo egli non avrebbe accelerato, ma avrebbe mantenuto un'andatura normale. Allegazioni del genere sono del tutto inidonee a sostanziare un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Il ricorrente argomenta in effetti come se si trovasse davanti a un'autorità di ricorso munita di pieno potere cognitivo non sono in diritto, ma anche nell'accertamento dei fatti. Ciò che non è manifestamente il caso. Su questo punto il ricorso si rivela, una volta ancora, irricevibile.
6.
Da ultimo il ricorrente censura il fatto che lo si sia sanzionato sulla base della velocità massima rilevata e sostiene nuovamente di non avere mai raggiunto punte di oltre 161 km/h, come figura nel rapporto di polizia. Se non che, argomentando in questo modo, una volta di più il ricorrente disconosce i limiti del ricorso per cassazione. In effetti, come risulta dal giudizio impugnato e dagli atti istruttori, il controllo della velocità era avvenuto rispettando le istruzioni del Dipartimento federale di giustizia e polizia, con un apparecchio omologato, a distanza costante e su un tratto di almeno 500 m. Il ricorrente neppure tenta di spiegare perché, avesse effettivamente superato di poco il limite di 120 km/h, sarebbe stato raggiunto dalla vettura della polizia solo a circa 2.4 chilometri di distanza. E nemmeno può essere condivisa l'affermazione secondo cui l'andatura incostante della polizia
avrebbe falsato i dati, tale assunto mancando di qualsiasi riscontro concreto. Infine giova rilevare che il ricorrente non è per nulla stato sanzionato per la velocità massima registrata dall'apparecchio che, come risulta dal tabulato, corrispondeva a 188 km/h, ma in base alla media per 1000 metri a partire da 1401 metri dall'inizio della misurazione. A nulla gli sussidia quindi sostenere che il suo veicolo non ha mai toccato velocità di 161 km/h e oltre. D'altro lato il ricorrente non sostiene di avere avuto, soggettivamente, valide ragioni per procedere a tale velocità. Giustamente perciò il Pretore ha ravvisato, dal profilo giuridico, una violazione grave delle norme della circolazione (DTF 122 IV 173, 118 IV 191 consid. 2c e 2d; CCRP, sentenza del 24 settembre 1999 in re G., consid. 4).
7.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
baf6108b-e1a1-5bd8-9a4e-b291fd73f4d8 | in fatto ed in diritto
che il 23.06.2009 il procuratore pubblico ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 2 (già patrocinato dall’allora lic. iur. _, _), in carcere preventivo dal 21.03.2009 fino al 24.03.2009 presso il carcere giudiziario la Farera e in custodia per allestimento della perizia psichiatrica dal 24.03.2009 al 23.04.2009 presso la IS 1 di _, siccome ritenuto colpevole di vari reati
ed ha in particolare proposto la sua condanna alla pena detentiva di novanta giorni (da dedursi il carcere preventivo sofferto di quattro giorni), al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, e meglio come descritto nel DA _;
che il suddetto decreto è passato in giudicato il 21.09.2009;
che con la presente istanza – emendata, su richiesta di questa Corte, il 7.11.2012 – la IS 1, per il tramite del suo _, chiede la trasmissione, in copia, della perizia allestita dal dr. med. _ nel 2009 inerente alla persona di PI 2 (_) (doc. 1.a);
che a sostegno della sua richiesta precisa che PI 2
"
(...) è nuovamente degente presso la nostra IS 1 dal 2 novembre 2011, dopo essere stato dimesso dalla IS 1 per essere trasferito presso il carcere il 26.10.2012
"
, adducendo di aver bisogno del referto peritale in questione allo scopo di valutare la pericolosità del paziente stante i suoi precedenti di aggressività (sia in IS 1 sia all’esterno), producendo copia della denuncia inviata al procuratore generale (cfr., nel dettaglio, scritto 7.11.2012, doc. 3 e doc. 3.a ivi annesso);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha presentato osservazioni in merito;
che considerate l’urgenza e la natura della richiesta, nonché la particolarità della fattispecie, questa Corte ha deciso di rinunciare a interpellare PI 2;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che – visti in particolare i motivi addotti nella presente istanza e il contenuto della perizia psichiatrica del 17.04.2009 riguardante PI 2 allestita, su incarico dell’allora sostituto procuratore pubblico, dal dr. med. _ nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto DA _ nel frattempo archiviato (AI 26) – a giudizio di questa Corte è adempiuto un interesse giuridico legittimo della IS 1 istante ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG prevalente sugli interessi personali di PI 2, poiché il contenuto del referto peritale richiesto può essere certamente utile per le incombenze dei suoi collaboratori, in particolare per valutare la pericolosità del paziente;
che di conseguenza la perizia psichiatrica del 17.04.2009 allestita dal dr. med. _ riguardante PI 2 (_) viene trasmessa, in copia, al direttore medico IS 1, dr. med. _, unitamente alla presente decisione;
che stante la natura della richiesta, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bb054717-9471-5c28-a0df-8e33b492d057 | in fatto ed in diritto
che con scritto 21/22.07.2011 la IS 1, _, ha chiesto a questa Corte la trasmissione dell’incarto penale MP _ ai fini dell’istruttoria civile di cui all’incarto _
promossa da _ nei confronti di _, essendo stato richiamato dalle parti con il consenso del giudice; a suffragio della sua richiesta la Pretura istante ha prodotto due scritti datati 18.07.2011 dell’avv. _ _ e dell’avv. _ (doc. 1, doc. 1.a e doc. 1.b);
che il 22.07.2011 questa Corte ha chiesto al procuratore pubblico Moreno Capella di trasmettere l’incarto richiesto (doc. 2), il quale con scritto 25/26.07.2011 ha segnalato che l’intero incarto penale (contenente anche gli atti inerenti a _) è stato inviato al Tribunale penale cantonale unitamente all’atto di accusa ACC _ (doc. 3);
che PI 2 (patr. da: avv. PR 1, _), PI 3 (patr. da: avv. PR 2, _), PI 4 (patr. da: avv. PR 3, _), PI 6 (patr. da: avv. PR 5, _) e PI 7 (patr. da: avv. PR 6, _) – interpellati da questa Corte – non hanno presentato osservazioni sulla presente istanza (doc. 4);
che con scritto 29.07./2.08.2011 il procuratore pubblico Moreno Capella ha osservato che gli atti del procedimento penale riguardano per la loro stragrande maggioranza altre persone indagate e quelli inerenti a _ sono solo alcuni documenti ben definiti e contenuti nel rapporto di polizia (doc. 5);
che con scritto 8/9.08.2011 PI 2 (patr. da: avv. PR 4, _) si è opposto alla richiesta, osservando – tra l’altro – che il procedimento penale non è ancora terminato, essendo appena stato emanato l’atto di accusa (doc. 6);
che in effetti il 15.07.2011 il procuratore pubblico Moreno Capella ha emanato l’atto di accusa ACC _ (in cui non figura però la persona di _) ed ha trasmesso contestualmente al Tribunale penale cantonale anche l’incarto MP _ richiesto dalla IS 1 e oggetto della presente istanza;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che, per contro, l’esame degli atti inerente a procedimenti penali pendenti è, dall’1.01.2011, regolato dagli articoli 101 e 102 CPP (BSK StPO – M. SCHMUTZ, Basilea 2011, art. 101 CPP n. 4);
che il diritto di esaminare gli atti spetta alle parti [art. 101 cpv. 1 e art. 107 cpv. 1 lit. a CPP, tra cui figurano l’imputato, l’accusatore privato, il pubblico ministero nella procedura dibattimentale e in quella di ricorso (art. 104 cpv. 1 CPP) e le autorità cui la Confederazione o i Cantoni hanno conferito pieni o limitati diritti di parte (art. 104 cpv. 2 CPP)], agli altri partecipanti al procedimento (art. 105 cpv. 1 e cpv. 2 CPP), alle altre autorità (art. 101 cpv. 2 e 194 cpv. 1 e 2 CPP) e a terzi (art. 101 cpv. 3 CPP), e ciò evidentemente a determinate condizioni (cfr., nel dettaglio, BSK StPO – M. SCHMUTZ, op. cit., art. 101 CPP n. 5 ss.);
che
giusta l’art. 102 cpv. 1 CPP chi dirige il procedimento (cfr., al proposito, art. 61 CPP) decide in merito all’esame degli atti;
che alla luce di quanto sopra esposto, la presente istanza viene trasmessa, per competenza e per evasione, al Tribunale penale cantonale presso il quale è pendente anche il procedimento di cui all’incarto MP _ [cfr. atto d’accusa 15.07.2011 (ACC _), p. 7], in applicazione dell’art. 102 cpv. 1 CPP in relazione all’art. 61 lit. d CPP;
che non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bb289bf0-6c08-5265-9b5a-4c0fed060ca4 | in fatto ed in diritto
che a seguito del decesso di _
_
avvenuto il 17.11.2011, a _, il Ministero pubblico ha aperto, d’ufficio, un procedimento penale (inc. MP _);
che il summenzionato procedimento è stato archiviato il 22.03.2012 con l’emanazione di un decreto di non luogo a procedere (NLP _);
che con la presente istanza il padre di
┼_ _
chiede di ottenere la trasmissione del rapporto di polizia inerente al decesso di quest’ultimo (doc. 1.a).
che, come esposto in entrata, l’allora procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che a giudizio di questa Corte nella fattispecie in esame è dato certamente un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG da parte di IS 1 a conoscere l’esatta causa del decesso di suo figlio;
che di conseguenza il rapporto di costatazione 28.11.2011 (AI 5), la relazione medico legale sugli accertamenti autoptici eseguiti sulla salma di _ _ datata 9.01.2012 (AI 8) e la relazione medico legale sugli accertamenti necroscopici eseguiti sulla salma di _ _ datata 14.02.2012 (AI 9) vengono trasmessi, in copia, all’istante unitamente alla presente decisione;
che, stante la particolarit della fattispecie, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bb4a1a4e-d768-58f6-8f1b-4f6b00927d5b | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 23 giugno 2008 il Procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di trascuranza degli obblighi di mantenimento per avere omesso, benché avesse i mezzi per farlo, di prestare ai figli minorenni _ (nata il 9 aprile 1994) e _ (nato l’11 maggio 1997), e per essi PC 1 che li anticipa ai beneficiari, gli alimenti fissati con sentenza cautelare 15 settembre 2005 del Pretore del Distretto di _, così da essere in arretrato per complessivi fr. 63'140.- per il periodo 01.08.2006-31.05.2008. In applicazione della pena egli ne ha proposto la condanna a 90 aliquote giornaliere da fr. 230.- cadauna, corrispondenti a complessivi fr. 20'700.--, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 90 giorni, come pure al pagamento di una multa di fr. 2'000.-, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 20 giorni. Ne ha altresì proposto la condanna al versamento a favore della parte civile (PC 1) della somma di fr. 63'140.- a titolo di risarcimento. Al decreto di accusa RI 1 ha sollevato opposizione.
B.
Statuendo sull’opposizione, con sentenza del 29 ottobre 2008 il giudice della Pretura penale ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di trascuranza degli obblighi di mantenimento per i fatti illustrati nel decreto di accusa, condannandolo a prestare 240 ore di lavoro di pubblica utilità, con l’avvertenza che in caso di mancato ottemperamento della sentenza la pena sarà commutata in pena pecuniaria o detentiva, ritenuto che quattro ore di lavoro di pubblica utilità corrispondono a un’aliquota giornaliera di pena pecuniaria o a un giorno di pena detentiva (art. 39 CP). Lo ha inoltre condannato a versare allo PC 1 fr. 63'140.- a titolo di risarcimento. Per contro, il giudice della Pretura penale non ha revocato il beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena di 18 mesi di detenzione decretata nei confronti dello stesso prevenuto dalla Corte delle assise correzionali di _ il 19 agosto 2003, mantenendo inalterato il periodo di prova, già prolungato con sentenza 14 marzo 2007 dalla Pretura penale.
C.
Contro tale sentenza RI 1 ha inoltrato il 29 ottobre 2008 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione panale. Nei motivi scritti del gravame, presentati il 9 dicembre successivo, egli chiede l’annullamento della sentenza impugnata.
D.
Con osservazioni del 29 dicembre 2008 il Procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del ricorso. Pure chiamata esprimersi sul ricorso, la parte civile è rimasta silente. | Considerando
in diritto: 1.
L’art. 217 CP punisce, a querela di parte, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria chiunque non presta gli alimenti o i sussidi che gli sono imposti dal diritto di famiglia benché abbia o possa avere i mezzi di farlo. Presupposto oggettivo è che l’autore disponesse dei mezzi per adempiere il proprio obbligo o potesse conseguirli. Non occorre che egli avesse i mezzi sufficienti per onorare integralmente la prestazione; basta che egli potesse versare di più di quanto effettivamente pagato (DTF 114 IV 124 consid. 3b). Per stabilire se egli potesse far fronte, anche solo parzialmente, all’obbligo alimentare tornano applicabili i principi derivanti dall’art. 93 LEF: si deve quindi accertare, per il periodo in questione e in ogni caso sull’arco di più mesi, l’insieme delle entrate del debitore e il suo reale fabbisogno (DTF 121 IV 272 consid. 3c pag. 277 e 3d pag. 278). Ove risulti che costui non disponeva dei mezzi necessari per dare seguito al contributo, occorre ancora verificare se egli ne non avesse la possibilità di conseguirli. E’ infatti compito del debitore, in casi del genere, intraprendere quanto possibile per onorare il debito (DTF 126 IV 131 consid. 3aa/cc pag. 134). Sapere quale fosse la situazione finanziaria del debitore é poi una questione legata all’accertamento dei fatti e alla valutazione delle prove (
Corboz
, Les infractions en droit suisse, vol. I, n. 20-28 ad art. 217 CP; CCRP, sentenza del 7 maggio 2007 inc. 17.2007.14, consid. 1 con rif.). In sede di cassazione problemi siffatti sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). E arbitrario non significa opinabile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami), o basato unilateralmente su taluni prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 18 consid. 2b pag. 20, 112 Ia 360 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 21. pag. 219, 129 I 8 consid. 21. pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 275).
2.
Nella fattispecie, il giudice della Pretura penale ha anzitutto ricordato che la base delle rivendicazioni della parte civile (PC 1), che ha anticipato gli alimenti in luogo e vece del prevenuto moroso, consiste nella sentenza pretorile del 15 settembre 2005, passata in giudicato ed emanata in ambito di misure a protezione dell’unione coniugale, che ha condannato lo stesso imputato al pagamento a far tempo dal mese di luglio 2004, di un contributo alimentare mensile per la moglie _ di fr. 677.-, oltre a uno di fr. 1’100.- per ciascuno dei due figli (_); contributi che avrebbero poi dovuto essere aumentati a fr. 1'022.- per la moglie e a fr. 1'435.- per ciascun figlio a partire dal momento in cui la consorte i figli avrebbero lasciato l’abitazione coniugale di Montagnola (sentenza, pag. 3 con riferimento all’act. 1/annesso). Premesso che tale sentenza ha già comportato un procedimento penale per il medesimo reato a carico del prevenuto, sfociato il 14 marzo 2007 nella sua condanna ex art. 217 CP da parte del giudice della Pretura penale (confermata da questa Corte con sentenza del 7 maggio 2007; CCRP. inc. n. 17.2007.14), il primo giudice ha quindi ricordato che il soggetto è un trentottenne cittadino svizzero, secondo di due figli, che proviene da una famiglia molto benestante e nota per il famoso e prestigioso marchio dell’orologeria svizzera di fama mondiale. Dopo le scuole obbligatorie, ha proseguito il giudice, egli ha ottenuto un diploma commerciale con la specializzazione in informatica, per poi iscriversi all’università di _ alla facoltà di economia; carriera che ha interrotto per dedicarsi a una attività imprenditoriale di tipo finanziario, che non è però andata a buon fine, la società da lui (co)diretta essendo crollata nel 1995, comportando perdite di diversi milioni di franchi e un procedimento penale sfociato nella condanna del suo ex socio. Successivamente, segnatamente dal 1998 al 2000, ha accertato il primo giudice, il soggetto è stato impiegato come gestore patrimoniale per una società (la _, poi fallita), che si occupava di transazioni finanziarie e commerciali, di divise, e di amministrazione patrimoniale. Arrestato nel corso del 2000, l’accusato è stato licenziato e per finire condannato nel mese di agosto del 2003 dalla Corte delle assise correzionali di Lugano per appropriazione indebita (sentenza, pag. 5, consid. 8).
Riferendosi alla sua vita privata, il giudice della Pretura penale ha rilevato che il prevenuto si è sposato nel 1992 con _, dalla quale ha avuto due figli. Interrotta la convivenza, il 7 giugno 2004 la moglie si è rivolta alla Pretura di _ per ottenere la separazione dal marito e gli alimenti per i figli, iniziativa che è sfociata nella citata sentenza provvisionale del 15 settembre 2005 (sentenza, pag. 5, consid. 6). Da questa decisione, ha fatto presente il primo giudice, si evince che l’accusato, durante la convivenza con la moglie, ha sempre condotto una vita all’insegna del grande lusso, caratterizzata, quando era attivo presso la _, da elevati introiti accertati con certificato di salario (fr. 13’000.- mensili), da costosi viaggi, da veicoli prestigiosi, da ville e da servizi di ogni genere; tenore di vita che l’accusato ha mantenuto anche dopo la perdita del posto di lavoro avvenuta nel 2000 ed anche successivamente al suo arresto e alla sua condanna nell’agosto 2003, benché da quel momento non svolgesse più alcuna attività lucrativa (sentenza, pag. 5-6, consid. 6). In maniera inspiegabile, ha commentato poi il giudice, nonostante le gravi perdite economiche patite e le vicissitudini penali, l’accusato è sempre riuscito a fare fronte a tutte le ingenti spese di vitto e alloggio sua o della famiglia. I fondi a cui attingeva, sempre stando a quanto accertato, non sono però mai stati identificati, e nemmeno è stata chiarita la loro esatta provenienza. Davanti al giudice civile il prevenuto ha dichiarato di avere alimentato i bisogni suoi e della famiglia grazie a prestiti concessigli dal padre, senza però comprovare nulla in concreto. Indipendentemente dall’agiatezza in cui viveva, ha sottolineato il primo giudice, dall’estratto UEF di _ si evince che già a quel tempo costui non era solito saldare le pendenze di terzi, visti i precetti esecutivi a suo carico datati 1996-2000 (sentenza, pag. 6, consid. 6).
Inoltrata il 7 giugno 2004 la causa di divorzio da parte della moglie – sempre stando alla sentenza impugnata – la disponibilità economica dell’accusato nei confronti della famiglia è però radicalmente mutata, tanto da improvvisamente opporsi al pagamento dei contributi alimentari mensili pretesi dalla moglie (sentenza, pag. 6, ocnsid. 6). Davanti al giudice civile egli ha sì argomentato di non potere pagare siccome non disporrebbe di entrate proprie da attività lavorativa, ma invano, il Pretore avendo invece concluso che, indipendentemente dalle sue asserzioni, il soggetto non si è sufficientemente attivato per la ricerca di un posto di lavoro, fatta eccezione per una timida trattativa con una società con sede a _, che gli proponeva un impiego quale rappresentante, in realtà mai ottenuto. In buona sostanza, ha spiegato il giudice della Pretura penale, al soggetto era stato rimproverato dal pretore di non essersi impegnato a trovare una attività lavorativa confacente alle proprie possibilità (sentenza, pag. 6 con riferimento a DTF 128 III 5)
3.
Nel vagliare l’aspetto penale della fattispecie, il giudice della Pretura penale ha dipoi osservato che al dibattimento l’accusato ha giustificato il mancato pagamento dei contributi alimentari oggetto del decreto di accusa riproponendo - come nel precedente procedimento penale a suo carico - la sua dichiarata personale situazione finanziaria (ormai nota), caratterizzata da una lunga serie di atti esecutivi e di attestati di carenza beni, che gli avrebbero precluso la possibilità di rinvenire qualsiasi opportunità lavorativa. Al riguardo, il primo giudice ha però rilevato che se, da un lato, si può comprendere che l’estratto UEF dimostra una situazione economica tutt’altro che florida, ossia quindi un pessimo biglietto di visita per una professione di direttore come quella da lui ricercata, dall’altro lato è però altrettanto innegabile che questi è una persona ancora giovane, in buono stato di salute e quindi, sicuramente, in grado di effettuare una attività lucrativa più redditizia, ancorché meno dirigenziale. All’accusato, ha concluso il giudice, va perciò rimproverato, nonostante i chiari rimproveri mossigli dal Pretore in sede civile, di non avere intrapreso quanto possibile per migliorare la propria redditività, limitando le sue ricerche a posti lavorativi di alto livello, escludendo altre mansioni meno prestigiose, ancorché potenzialmente fruttifere (sentenza, pag. 7, consid. 7). Come all’epoca in cui era separato dalla moglie, ha puntualizzo il giudice della Pretura penale, per sua stessa espressa ammissione l’accusato non ha praticamente cercato, né effettuato alcun lavoro, fatta eccezione per un breve periodo come cameriere a _ presso l’esercizio pubblico di sua sorella e per dei rapporti con una non ben definita società austriaca denominata “_”, che sarebbe disposto ad assumerlo come direttore e rappresentante. Sennonché, anche davanti al giudice civile erano state prospettate possibilità del genere - come quella in relazione a una società di _ - rimaste però anche esse al livello di puro parlato. Sia come sia, ha osservato il primo giudice, con la società austriaca i contatti durano da più di sei mesi e, a tutt’oggi, l’accusato non avrebbe ancora conseguito nessun utile e solo dei rimborsi spese (sentenza, pag. 7, consid. 7).
Per finire, il giudice della Pretura penale ha concluso che si è pienamente realizzato il reato di trascuranza degli obblighi di mantenimento ex art. 217 CP, ritenuto che non si può di certo asserire che il prevenuto abbia fatto il possibile per fare fronte ai suoi obblighi. La sua posizione, egli ha sottolineato, deve perfino essere considerata ancora meno comprensibile, siccome non ha nemmeno la necessità di fare fronte alle proprie spese personali, visto che i viaggi di lavoro li paga la società austriaca e quelli personali la sua famiglia, che vive a _. La pigione dell’appartamento da lui occupato (fr. 1’100.-), ha proseguito il primo giudice, viene infatti pagata dalla madre, ritenuto poi che l’arredamento dello stesso appartiene alla sua famiglia e che per gli spostamenti egli utilizza, gratuitamente, l’Audi A2 della stessa madre. Suo padre, invece, che non è disposto a fare fronte ai debiti del figlio, pagherebbe il canone locativo di fr. 2’500.- della villa in cui vivono la moglie e i figli. Trattasi di circostanze, secondo il Pretore, che aggravano la posizione penale dell’accusato, che vive in un appartamento in _ con vista sul lago e che al processo si è presentato con un orologio pregiato, anche esso regalo di famiglia. E’ quindi innegabile, secondo il giudice della Pretura penale, che la possibilità per il soggetto di conseguire un utile risulta essere facilitata rispetto a quella di un debitore usuale, che deve fare fronte da solo e interamente ai propri oneri correnti di vitto e alloggio (sentenza pag. 7-8, consid. 8). L’accusato, ha infine rilevato lo stesso giudice, si è dimostrato reticente anche nell’intrattenere contatti e nel fornire spiegazioni all’Ufficio anticipo alimenti, a cui ha effettuato unicamente versamenti di restituzione assai esigui nel corso del 2006; uno di fr. 5’000.- e l’altro di fr. 10'000.-. La rappresentante della parte civile ha dichiarato che i silenzi dell’accusato sono stati interminabili e che i pagamenti in rimborso sono avvenuti in maniera limitata. Avesse effettuato ulteriori versamenti, la circostanza – sempre secondo il giudice – sarebbe stata apprezzata al momento di commisurare la pena. Invece, sotto questo profilo, egli ha concluso, l’atteggiamento assunto dal prevenuto è da considerare tutt’altro che attenuante. Certo, il referto peritale del 26 ottobre 2007 versato agli atti, redatto dalla dott.ressa _, attesta che l’accusato soffre di un disturbo depressivo provocato da una sensazione di sfiducia in sé stesso e caratterizzato da una incapacità ad elaborare e risolvere i propri problemi. Sennonché, tale patologia, ha puntualizzato il giudice della Pretura penale, non è comunque tale da giustificare il suo atteggiamento completamente passivo nella ricerca di un posto di lavoro e nel pagamento dei contributi a favore dei figli. La psicologa, non lo si scordi, ha osservato che, in ogni modo, il paziente non versa in uno stato depressivo tale da impedirgli una attività lavorativa, per tacere del fatto che il soggetto non ha comunque dimostrato di avere seguito ulteriori cure per migliorare la sua posizione (sentenza, pag. 8-9, consid. 9).
4.
Assevera il ricorrente che la sentenza impugnata accerta che nel periodo in questione egli non disponeva di mezzi finanziari sufficienti per fare fronte agli obblighi alimentari impostigli dal diritto civile e che non è perciò contestato che la sua personale situazione finanziaria fosse a tutti gli effetti disastrosa. Ciò nonostante, prosegue il ricorrente, il primo giudice ha concluso per la violazione dell’art. 217 CP in quanto egli non avrebbe fatto quanto in suo potere per pagare il contributo fissato dal giudice civile. Pur dovendo riconoscere lo ristrettissimo margine di manovra dello stesso giudice civile nello specifico ambito, obietta l’accusato, va evidenziato come il contributo impostogli nella causa di stato sia assolutamente eccessivo a fronte della sua personale situazione. Giacché, egli rileva, è la sproporzione fra le sue effettive possibilità economiche e il citato contributo che lo ha posto nell’impossibilità di versare quanto necessario, come peraltro sotteso dalla sentenza impugnata, nella misura in cui essa si rifà alla sentenza cautelare emanata il 15 settembre dal Pretore del Distretto di _, che di fatto gli ricorda di avere sempre condotto una vita (per sé e la famiglia) all’insegna del grande lusso – anche quando la situazione è precipitata a seguito della perdita del posto di lavoro nell’anno 2000 e, successivamente, a seguito del suo arresto e della sua condanna, avvenuta nel 2003 – per poi rimproveragli di avere radicalmente mutato rotta appena che la moglie ha inoltrato l’azione di divorzio (giugno 2004), opponendosi al pagamento dei contributi alimentari richiesti da quest’ultima; non solo, la sentenza civile - sempre secondo il ricorrente – non ha preso in considerazione la sua obiezione di non poter pagare, siccome non disporrebbe di entrate proprie da attività lavorativa, facendogli carico di non essersi sufficientemente attivato per la ricerca di un posto di lavoro, fatta eccezione per una timida trattativa con una società con sede a _, che gli avrebbe proposto un impiego, in realtà mai ottenuto. Orbene, obietta il ricorrente, egli avrebbe quindi modificato il suo tenore di vita, lasciando che ai bisogni della famiglia provvedesse lo Stato. In questo modo, gli viene di fatto rimproverata la sua origine benestante. Egli ha però potuto mantenere un importante tenore di vita, per sua stessa ammissione, grazie all’aiuto dei genitori, che garantiscono per di più a _ un versamento di fr. 2'500.- mensili. Il giudice civile, seguito nel ragionamento dal giudice penale, rileva dipoi il ricorrente, ha invece ritenuto chissà quale manovra messa in atto per modificare il tenore di vita. Non esiste tuttavia nulla nell’incarto penale, così come non esisteva nell’incarto civile che possa solo lontanamente lasciare sospettare a un inganno dell’accusato. Arbitrario, secondo il ricorrente, è quindi trarre conclusioni da semplici ragionamenti, senza alcun riscontro concreto, basati semplicemente sulla provenienza e sulla famiglia del ricorrente.
Nella misura in cui il ricorrente parrebbe fare carico al giudice civile di avergli imposto un onere finanziario eccessivo, rispettivamente di essersi fondato su considerazioni sprovviste di buon diritto nel fissare l’ammontare degli alimenti imposti dal diritto di famiglia, il gravame sfugge a disamina da parte di questa Corte. Giacché, come correttamente rilevato dal giudice della Pretura penale al consid. 1 della sentenza impugnata, con riferimento tra l’altro DTF 106 IV 366ss, quando esiste una sentenza specifica emanata al riguardo dall’autorità giudiziaria, il giudice penale non può effettuare ulteriori apprezzamenti sul calcolo del contributo, essendo vincolato a questa decisione, che, passata in giudicato, deve essere ritenuta accettata dal debitore e funge da base per il procedimento penale. Ne discende perciò l’inammissibilità del gravame al riguardo, peraltro proposto - comunque sia – con argomenti del tutto inadatti a sostanziare una censura di arbitrio, risultando evidente come il ricorrente si proponga di rimediare alla decisione del giudice civile, ripercorrendo a ruota libera il procedimento provvisionale sfociato con la sentenza emanata il 5 settembre 2005 dal Pretore del Distretto di _ in ambito di misure a protezione dell’unione coniugale. La stessa conclusione si impone, mutatis mutandis, anche nella misura in cui il ricorrente fa carico al giudice della Pretura penale di avere ripreso le considerazioni del giudice civile sulla fissazione del contributo alimentare a suo carico.
5.
Ribadito di avere - seppure in modo irrito - provveduto a garantire alla famiglia un appartamento di lusso, il ricorrente rileva che il fatto che _ si sia rivolta _ dopo poco più di un mese dalla prima decisione pretorile, pochi giorni dopo la crescita in giudicato della menzionata sentenza, non può e non deve avvenire a suo discapito. La miglior prova delle situazione sua difficile, prosegue il ricorrente, è data dal fatto che la moglie non ha atteso, come sarebbe stato ovvio, di vedere se il marito pagava, ma ha puramente e semplicemente richiesto l’aiuto del servizi statali, beneficiando così oltre che del pagamento del canone di locazione, di altri importi e garantendo una situazione personale ben oltre il minimo vitale. Ancora una volta, obietta l’accusato, la conclusione del primo giudice, secondo cui egli poteva fare fronte agli obblighi civili derivanti dalla sentenza, appare arbitraria in quanto non ha alcun contatto con la realtà dei fatti. Sennonché, il ricorrente trascura che nella sentenza del 7 maggio 2007 riferita al procedimento penale per trascuranza degli obblighi di mantenimento sfociato nel decreto di accusa del 31 luglio 2006 e nella sentenza emanata dal giudice della Pretura penale in data 14 marzo 2007, questa Corte ha avuto modo di giudicare gli stessi argomenti del tutto infruttuosi, rilevando che a provvedere per l’abitazione occupata dai famigliari è stato il suocero e non l’accusato; il quale, ciò nonostante, non ha nemmeno pagato la parte del debito alimentare eccedente il canone locativo, riconosciuto – per una somma evidentemente inferiore – alla moglie e ai figli dal giudice civile nei loro minimi di esistenza vitale, una volta che essi avranno lasciato l’originario appartamento coniugale (al cui canone di locazione ha pure sempre provveduto il suocero). L’accusato, aveva sottolineato questa Corte, non ha infatti versato alcunché della somma dovuta e calcolata sulla base dei (potenziali) redditi dei coniugi, dei rispettivi fabbisogni (tra cui il canone di locazione a partire da un determinato momento) e delle rispettive eccedenze (CCRP citata, consid. 4). Il rimedio, proposto al riguardo con leggerezza dato quanto precede, non può perciò che essere di nuovo votato all’insuccesso.
6.
Nel punto 5 del suo memoriale, il ricorrente fa dipoi carico al primo giudice di avere in modo arbitrario giudicato insufficiente il suo impegno a reperire una attività lavorativa. Sennonché, egli non sostanzia la critica, limitandosi a citare dottrina e giurisprudenza sull’argomento e a riportare il passaggio della sentenza (consid. 7 pag. 7), in cui il primo giudice ha spiegato perché ha ritenuto insufficienti le ricerche di un posto di lavoro messe in atto dallo stesso ricorrente. Ne discende, almeno per ora, l’inammissibilità del rimedio. Nel successivo punto 6 del gravame, il ricorrente si propone di sottoporre a questa Corte un aspetto da lui ritenuto assai importante, che sarebbe stato sviluppato all’attenzione del giudice della Pretura penale al pubblico dibattimento, unitamente ai documenti di appoggio, ma che, quantomeno apparentemente, non è stato tenuto in alcuna considerazione. Dagli atti, egli rileva, si deduce il motivo per cui egli non ha potuto finalizzare il contratto di lavoro con la menzionata società (_), ossia il presente procedimento penale. Bisogna valutare, egli assevera, la situazione nel suo complesso. Egli deve versare, ricorda lo stesso ricorrente, alimenti per importi assai rilevanti. Una attività non dirigenziale, così come proposta dal giudice della Pretura penale, non gli consentirebbe sicuramente di fare fronte a quest’obbligo. Dopo lunghe trattative, prosegue il ricorrente, a gennaio del 2008 è riuscito a ottenere una sorta di pre-contratto per il mezzo del quale guadagnerebbe una cifra di € 3’000.- mensili, ossia un importo che, pur essendo assai lontano dalle somme cui era abituato, gli consentirebbe comunque di far fronte ai contributi definiti dal giudice civile. Ha quindi insistito su questa via. Purtroppo, argomenta il ricorrente, è sorto un problema costituito dall’iscrizione a casellario giudiziario delle diverse condanne, specie quella per truffa per cui egli era stato condannato diversi anni fa, che comporterebbe verosimilmente la rescissione del pre-contratto. Sennonché, puntualizza l’accusato, tale condanna non è stata cancellata in ragione delle procedure penali seguenti, ciò che comporta per lui il rischio concreto di perdere il suo posto di lavoro. Pur non proponendosi di accusare nessuno delle difficoltà incontrate, il ricorrente evidenzia come ci si trovi per finire in una situazione kafkiana dove egli non riesce a concretizzare un contratto di lavoro definitivo, che gli consentirebbe di pagare i contributi assegnati ai figli proprio in ragione della procedura penale avviata per ottenere il pagamento degli stessi contributi. Le soluzioni da lui prospettate non hanno dato esito; l’attesa pareva la migliore, per rendere più difficile, al datore di lavoro, la rescissione dell’accordo. Orbene, rileva il ricorrente, appare tuttavia arbitrario ritenere che egli non abbia cercato di sistemare la propria situazione personale, ciò che gli avrebbe consentito di pagare i contributi alimentari. Prescindendo dai motivi per cui il contratto definitivo non è ancora stato stipulato, obietta il ricorrente, appare ovvio come difficilmente si può non ritenere scioccante la tesi del giudice di prime cure. Avesse accettato un lavoro più umile, riprendendo le parole della sentenza impugnata, e quindi meno retribuito, gli verrebbe ora rimproverato, sulla base della sua età, formazione professionale e culturale, di non avere cercato di ottenere una attività consona. Non va dimenticato, fa valere l’accusato, che nell’ambito della presente procedura egli aveva versato complessivamente fr. 15'000.- circostanza che non ha in alcun modo modificato l’esito della procedura penale.
La natura appellatoria di un esposto del genere - fondato con ogni evidenza su mere ipotesi a dipendenza del singolo scenario prospettato - risulta tuttavia palmare; gli argomenti proposti, peraltro in modo confuso, sono perciò del tutto inadatti a scalfire gli accertamenti e le conseguenti considerazioni che hanno spinto il giudice della Pretura penale dapprima a concludere che lo stesso accusato non si sia sufficientemente attivato per reperire un posto di lavoro, fatta eccezione per un breve periodo come cameriere a _ presso l’esercizio pubblico di sua sorella e per dei non meglio precisati rapporti con una società austriaca in funzione di un scrittura mai pervenuta e non seguita, comunque sia, da nessun utile, ma solo dal rimborso spese, e in seguito a rimproverare allo stesso accusato di non avere pagato di più, nonostante non avesse nemmeno la necessità di far fronte alle proprie spese personali, ritenuto che i viaggi di lavoro li paga la società austriaca, mentre che gli oneri personali li paga la sua famiglia; la quale provvede perfino a saldargli (tramite la madre) la pigione mensile di fr. 1’100.- per l’appartamento da lui occupato, il cui arredamento appartiene del resto alla famiglia stessa, ritenuto poi che per gli spostamenti egli utilizza l’Audi A 2 della madre; famiglia (padre) – ha proseguito il primo giudice - che pagherebbe anche il canone locativo di fr. 2'500.- al mese della villa in cui vivono la moglie e i figli del prevenuto, che vive a sua volta in un appartamento in _ con vista sul lago e che al processo si è presentato con un orologio pregiato, regalo anch’esso di famiglia. Per dimostrare il preteso arbitrio, invocato peraltro soltanto di passata, occorre ben altra forza argomentativa, non bastando al riguardo rifarsi a congetture per ribaltare la conclusione del primo giudice, basata su considerazioni che hanno peraltro resistito ad analoghe critiche nella sentenza emanata da questa Corte il 7 maggio 2007 (inc. CCRP, n. 17.2007.14) alla quale si rinvia. Quanto poi al fatto che il ricorrente avrebbe – a suo dire – inoltrato in Pretura una richiesta di modifica del contributo alimentare a suo carico, la circostanza è ininfluente, dato che tale iniziativa non incide, per ora, sulla esecutività della sentenza cautelare del 15 settembre 2005, posta perciò giustamente a fondamento del decreto di accusa in rassegna. Né al ricorrente giova ricordare i pagamenti per complessivi fr. 15'000.- fatti all’Ufficio anticipo alimenti nel 2006, ove si consideri che il giudice della Pretura penale li ha considerati assai esegui e, quindi, insufficienti, rilevando che soltanto versamenti supplementari, anche di poca entità, sarebbero stati apprezzati e, se del caso, presi in considerazione nella commisurazione della pena. Del resto, la rappresentante della parte civile si è proprio lamentata dei silenzi e della refrattarietà dimostrati dall’accusato nel far fronte ai suoi debiti (sentenza, pag. 8, consid. 9). Orbene, il ricorrente non dimostra affatto la manifesta insostenibilità di tali considerazioni, limitandosi a esternare il suo dissenso, senza però sostanziare il preteso arbitrio.
7.
Da quanto precede discende perciò che nella limitata misura in cui è ammissibile, il ricorso deve essere disatteso, siccome manifestamente infondato. Gli oneri processuali seguono la soccombenza del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bb7699b6-9a7e-595d-bbbb-c8b8a3672ecc | in fatto: A.
Con sentenza 11 febbraio 2010, la Corte delle assise criminali ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di:
-
omicidio intenzionale
, per avere, la sera del 24 aprile 2009, a _, con un coltello con lama di 8.3 cm, colpito 9 volte PC 1, causandone la morte;
-
infrazione aggravata alla LF sugli stupefacenti
, per avere, senza essere autorizzato, dal 2008 sino al 25 aprile 2009, a _ e altre imprecisate località, in parte in correità con terzi,
venduto complessivi 129 grammi di eroina
ceduto a terzi complessivi 80/82,5 grammi di eroina
ceduto gratuitamente 3/3,5 grammi di cocaina
detenuto 50/55 grammi di eroina destinata alla vendita
venduto un flacone di metadone;
-
ripetuta infrazione alla LF sulle armi e munizioni
, per avere, nel corso del 2008 e sino al 25 aprile 2009, tra _ e altre imprecisate località, portato su di sé un manganello telescopico ed un tirapugni;
-
coazione
, per avere, il 14 aprile 2009, a _, usando violenza e minaccia, costretto PC 2 a redigere e sottoscrivere un riconoscimento di debito per la somma di fr. 800.-;
-
lesioni semplici,
per avere, il 14/15 aprile 2009, a _, colpito con un pugno e con calci, nonché ferito con un coltello PC 2, cagionandogli le ferite descritte nel certificato medico agli atti;
-
vie di fatto
, per avere, il 16 aprile 2009, a _, commesso vie di fatto nei confronti di PC 2;
-
contravvenzione alla LF sugli stupefacenti,
per avere, dal 2008 al 25 aprile 2009, a _ e in altre imprecisate località, consumato almeno 50 grammi di eroina, 3 o 4 bolas di cocaina, 6/7 pastiglie di Valium, nonché un quantitativo minimo di hashish e marijuana e detenuto una pastiglia di Valium destinata al proprio consumo.
Riconosciuto che, per l’omicidio, RI 1 ha agito in stato di lieve scemata responsabilità, la Corte delle assise criminali lo ha condannato - trattandosi di pena aggiuntiva a quelle inflitte il 19 agosto 2008 e il 4 febbraio 2009 dal MP del Canton Ticino - alla pena detentiva di 11 anni.
B.
Il 12 febbraio 2010, RI 1 ha presentato dichiarazione di ricorso contro la citata sentenza che ha motivato con memoriale 2 aprile 2010. Sostenendo un’errata applicazione degli art. 47 e 49 CP, e meglio giudicando la pena inflittagli arbitrariamente severa, lesiva del principio di proporzionalità ed urtante sotto il profilo della parità di trattamento, RI 1 ne chiede una riduzione “
secondo il giudizio
” della scrivente Corte (ricorso pag. 3 e 4) ritenuto che, comunque, non gli dovrà essere inflitta una pena superiore agli 8 anni (ricorso pag. 19).
C.
Con osservazioni 3 maggio 2010, il procuratore pubblico ha postulato la reiezione del gravame. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP), nella misura in cui l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e ritenuto che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3, pag. 4-5; 134 I 153 consid. 3.4 pag. 156; 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153; 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17; 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219; 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta, dunque, criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto - per quanto preferibile essa appaia - ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati da errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 135 V 2 consid. 1.3, pag. 5; 133 I 149, consid. 3.1 pag. 153; 132 I 13 consid. 5.1, pag. 17; 131 I 217 consid. 2.1, pag. 219; 129 I 8 consid. 2.1, pag. 9; 173 consid. 3.1, pag. 178).
2.
Contestata nel gravame è unicamente la commisurazione della pena.
2.1.
Procedendo alla valutazione della colpa di RI 1, la prima Corte ha, dapprima, considerato la gravità oggettiva dei reati di cui egli deve rispondere, soffermandosi in particolare sull’omicidio e rilevando, al proposito, che ad evidenziare tale aspetto basta “
il tragico riscontro del fatto che egli ha intenzionalmente tolto la vita ad un giovane, padre di due bambini piccoli, a seguito di un futile alterco
” (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 50).
Dal profilo soggettivo, i primi giudici hanno sottolineato “
la non facile infanzia dell’accusato, privato del padre naturale, con un difficile rapporto con il sostituto
” annotando, però, come simili situazioni - vissute da molti - non possono essere considerate al pari di “
tragedie che marchiano a fuoco le esistenze
” ritenuto, inoltre, come RI 1 - “
che ha avuto quantomeno l’affetto della madre e di una sorella”
e a cui nulla di essenziale è mancato nemmeno dal profilo delle possibilità di istruzione - aveva la possibilità di fare scelte diverse da quelle che ha fatto a partire dall’adolescenza “
allorché si è avviato lungo un percorso di criminalità che non ha più abbandonato
” e a causa del quale si è ritrovato a 31 anni con alle spalle più di 7 anni trascorsi in carcere (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 51).
Dopo avere sottolineato come, perciò, RI 1 non possa assolutamente essere “
considerato come una vittima della società o il frutto di qualche situazione di degrado sociale
” ed avere ribadito che egli non ha fatto “
alcuno sforzo per contrastare la natura antisociale della sua attitudine, ma l’ha anzi coltivata, reiterando in comportamenti del tutto sprezzanti nei confronti del prossimo, coltivando un’inquietante vena di violenza con il possesso e il porto di armi e l’esercizio di prepotenza e sopraffazione
”, la prima Corte ha spiegato che l’abuso di stupefacenti - “
innegabile e ormai invalso
” - può spiegare la sua estromissione dal mondo del lavoro ma non “
lo spaccio come professione per procurarsi il denaro occorrente per ogni sua necessità
” né tantomeno tale abuso può spiegare “
l’attitudine aggressiva, il fatto di girare armati, la prevaricazione, la facilità con cui l’accusato passava all’atto violento, tutti comportamenti atipici per il consumatore di eroina che risponde alla sofferenza esistenziale con mitezza, cercando torpore nella sostanza
” (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 51 e 52).
Dopo questo lungo incipit, la prima Corte ha rilevato che il dott. _, perito giudiziario, ha posto la diagnosi di serio disturbo di personalità con elementi paranoidi, narcisistici ed antisociali e - dopo avere osservato che, al di là delle catalogazioni di natura scientifica, “
la concreta realtà è che RI 1 è cattivo, violento e pericoloso
” ciò che “
non è motivo per ridurre la pena
” - ha concluso di dovere aderire “
senza riserve all’opinione del perito che ha ritenuto per l’accusato una situazione di lieve scemata imputabilità al momento dell’omicidio intenzionale, giudizio senza dubbio condivisibile a fronte di un tasso alcolico elevato ma ancora relativamente lontano da quello necessario per l’ammissione per quel solo motivo di una lieve scemata imputabilità, dell’assunzione di sostanze psicoattive di per sé non inducenti aggressività e del predetto disturbo di personalità, il quale in definitiva è semplicemente l’espressione di quel che l’accusato è senza che questo appaia particolarmente scriminante”
(sentenza impugnata, consid. 47, pag. 53). Dopo avere rilevato che la lieve scemata responsabilità è
“l’unica vera circostanza di attenuazione della colpa dell’imputato”
poiché egli non ha collaborato con gli inquirenti né ha mostrato una vera assunzione di responsabilità “
per un omicidio intenzionale che anche in aula ha cercato di far passare come una sorta di incidente
”, la prima Corte ha ritenuto che la sua colpa è qualificata “
dal fatto di essere un pluripregiudicato, recidivo e a tutt’oggi irriducibile”
e dal fatto che egli “
ha costantemente agito con sprezzo per il prossimo, totale egoismo e assenza di scrupoli
” precisando che egli ha mostrato tale natura anche nell’uccisione di PC 1 visto che egli
“ha prontamente accettato uno scontro fisico al quale aveva ogni opportunità di sottrarsi
”, che egli “
non si è fatto problemi nell’impugnare il coltello contro chi lo affrontava a mani nude e nel farne ripetutamente uso contro un ragazzo visibilmente ubriaco, sempre mirando parti vitali del corpo
” (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 54 e 55).
Proseguendo, la prima Corte ha ricordato che RI 1 “
non aveva la diretta intenzione di uccidere
” e che “
il fatto che la sottile e relativamente corta lama, nemmeno penetrata per intero, si sia incuneata tra due costole ed abbia raggiunto il cuore è in parte connotata di fatalità
”. Tuttavia - ha precisato la prima Corte - “
fatalità non significa casualità
” poiché il tragico epilogo di cui RI 1 deve rispondere è “
l’assurda e evitabile ma non del tutto inaspettata fine di un percorso di violenza spicciola
” e poiché l’accusato deve rispondere “
di un dolo che è eventuale ma che lo è con la chiara intensità di almeno 5 colpi di coltello al collo e uno, mortale, al costato
” (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 54).
Precisato che per il concorso con gli altri reati di cui deve rispondere ha ritenuto di dover aggravare la pena detentiva di “
almeno un anno
”, la prima Corte - “
che non ha voluto essere indulgente con il prevenuto
” - posta una pena detentiva di base complessiva di 15 anni, ha inflitto a RI 1, dopo il computo delle circostanze attenuanti, la pena detentiva di 11 anni (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 54 e 55).
2.2.
Nel suo memoriale, il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere commisurato la pena in funzione di un dolo eventuale “
di notevole estensione, non troppo lontano da un dolo diretto”
(sentenza impugnata, pag. 50) nonostante avesse accertato che lui non aveva alcun motivo per desiderare la morte della vittima (sentenza impugnata, pag. 49), nonostante il coltello usato non apparisse, per le dimensioni della lama, “
a prima vista, come uno strumento necessariamente letale
” (sentenza impugnata, pag. 49-50) e nonostante la lama non sia penetrata per intero ma “
solo per 6-7.5 cm ed essa si sia infilata tra le costole anche per il motivo della sua esiguità, motivo per cui in ultima analisi l’esito mortale appare anche connotato da una parte di tragica fatalità
” (sentenza impugnata, pag. 50). Secondo il ricorrente, dati tali accertamenti, concludere che si è in presenza di un dolo eventuale al limite del dolo diretto “
è inconciliabile con il margine di apprezzamento di una Corte e pure con l’opinabilità di una convinzione
” (ricorso pag. 15).
Né - continua il ricorrente - si può ragionevolmente sostenere che il suo dolo eventuale raggiunge una particolare intensità in funzione del numero dei colpi inferti poiché i colpi precedenti quello letale possono essere letti soltanto come un gesto “
di intimidazione o di malintesa difesa di sé stesso
” così come la Corte ha ipotizzato a pag. 49 della sua sentenza ma ha poi “
arbitrariamente parificato
” all’ipotesi di colpi inferti per fare male, in una situazione in cui la morte della vittima deve comunque essere presa in considerazione (ricorso pag. 15). Inoltre - continua il ricorrente - la stessa prima Corte ha correttamente accertato che non si può ritenere che il colpo inferto al costato fosse “
volto a (deliberatamente) uccidere
” (sentenza pag. 49).
Continuando, il ricorrente sostiene come le tracce di sangue rilevate dagli inquirenti dimostrino che egli “
ha ferito mortalmente la vittima al termine di uno scontro fisico nel quale PC 1 perseverava e RI 1 muoveva il coltello a mo’ di difesa
”. Ammesso il suo dolo eventuale, il ricorrente sostiene che, in queste condizioni, affermare che tale dolo sfiori il dolo diretto “
è arbitrario, e non solo opinabile o criticabile
” (ricorso pag. 16 e 17). Ritenuto che questa “
arbitrarietà ha direttamente influenzato la commisurazione della pena
” - conclude su questo punto il ricorrente - essa deve essere, già solo per questo motivo, riconsiderata (ricorso pag. 18).
2.3.
Nella commisurazione della pena (art. 47 CP) il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo - come il Tribunale federale - ove la sanzione si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all’art. 47 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest’ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto di denotare eccesso o abuso del potere di apprezzamento (DTF 135 IV 191 consid. 3.1; 134 IV 17 consid. 2.1; 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti, 128 IV 73 consid. 3b pag. 77, 127 IV 10 consid. 2 pag. 19; 123 IV 107 consid. 1).
L’art. 111 CP punisce chi intenzionalmente uccide una persona con una pena detentiva - la cui durata massima é, in forza dell’art. 40 CP, di 20 anni - non inferiore a 5 anni.
L’art. 19 LStup punisce l’infrazione aggravata con una pena detentiva non inferiore ad un anno.
L’art. 123 CP punisce l’autore colpevole di lesioni semplici con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria mentre per l’art. 126 CP colui che si rende colpevole di vie di fatto è punito, a querela di parte, con la multa.
Infine, l’art. 181 CP punisce l’autore colpevole di coazione con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
Dandosi concorso di reati, in forza dell’art. 49 CP, il giudice condanna l’autore alla pena prevista per il reato più grave aumentandola in misura adeguata, ma non oltre la metà della pena massima comminata.
Ai sensi dell’art. 47 CP - che, come già l'art. 63 vCP, non elenca in modo esaustivo gli elementi pertinenti per la commisurazione della pena (STF 11 aprile 2008, inc. 6B_738/2007, consid. 3.1) - il giudice commisura la pena alla colpa dell'autore, tenendo conto della sua vita anteriore e delle sue condizioni personali nonché dell'effetto che la pena avrà sulla sua vita (cpv. 1). La colpa va determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell'offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché, tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l'autore aveva di evitare l'esposizione a pericolo o la lesione (cpv. 2).
Come nel vecchio diritto (art. 63 vCP), il giudice, dunque, commisura la pena essenzialmente in funzione della colpevolezza del reo. Il legislatore ha ripreso, al cpv. 1, i criteri della vita anteriore e della condizione personale e vi ha aggiunto la necessità di tener conto dell'effetto che la pena avrà sulla vita dell'autore. Con riguardo a quest'ultimo criterio, il messaggio precisa che la misura della pena delimitata dalla colpevolezza non deve essere sfruttata necessariamente per intero se una pena più tenue potrà presumibilmente trattenere l'autore dal compiere altri reati (messaggio del 21 settembre 1998 concernente la modifica del codice penale svizzero e del codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile, FF 1999 1744). La legge codifica, così, la giurisprudenza secondo cui occorre evitare di pronunciare sanzioni che ostacolino il reinserimento del condannato (DTF 128 IV 73 consid. 4c pag. 79; 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). Questo criterio di prevenzione speciale permette tuttavia soltanto di effettuare correzioni marginali, la pena dovendo rimanere comunque proporzionata alla colpa (STF 14 ottobre 2008, inc. 6B_78/2008, 6B_81/2008, 6B_90/2008, consid. 3.2.; STF 12 marzo 2008, inc. 6B_370/2007, consid. 2.2; STF 17 aprile 2007, inc. 6B_14/2007, consid. 5.2 e riferimenti).
Codificando la giurisprudenza, l'art. 47 cpv. 2 CP fornisce un elenco esemplificativo di criteri che permettono di determinare la gravità della colpa dell'autore: si tratta del grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso nonché della reprensibilità dell'offesa, elementi che la giurisprudenza designava con l'espressione “
risultato dell'attività illecita
” rispettivamente “
modo di esecuzione”
(DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20). Dal profilo soggettivo, la norma rinvia ai moventi e agli obiettivi perseguiti che corrispondono ai motivi a delinquere del vecchio diritto (art. 63 vCP), nonché alla possibilità che l'autore aveva di evitare l'esposizione a pericolo o la lesione riferendosi, in quest'ultimo caso, alla libertà dell'autore di decidersi a favore della legalità e contro l'illegalità (DTF 127 IV 101 consid. 2a pag. 103). In relazione a quest'ultimo criterio, il legislatore impone al giudice di tener conto della situazione personale dell'autore e delle circostanze esterne. La situazione personale può, senza che vi sia un reperto patologico ai sensi dell'art. 19 CP, turbare la capacità di valutare il carattere illecito dell'atto. Le circostanze esterne si riferiscono, per esempio, a situazioni di emergenza o di tentazione che non siano così pronunciate da giustificare l’applicazione di un'attenuante specifica (FF 1999 1745; STF 12 marzo 2008, inc. 6B_370/2007, consid. 2.2).
2.4.
Le argomentazioni ricorsuali cadono nel vuoto nella misura in cui la prima Corte ha effettivamente considerato, nel valutare la colpa del ricorrente e, quindi, nel commisurare la pena da infliggergli, che egli ha agito con dolo eventuale e nella misura in cui, come vedremo, ha operato - pur senza dirlo esplicitamente - le attenuazioni imposte da tale accertamento (Wiprächtiger, Basler Kommentar, n. 89 ad art.
47 CP
che richiama la STF non pubblicata del 3 novembre 1995, inc. 6S.676/1994 con cui il TF ha rinviato una causa all’autorità cantonale per non avere questa considerato che l’imputato aveva agito con dolo meramente eventuale e non diretto).
In effetti, al di là delle considerazioni (registrate al consid. 44, pag. 49 e 50, della sentenza impugnata) sull’intensità del dolo eventuale in cui a volte ha smarrito la via della linearità, la prima Corte, dopo avere accertato che RI 1 ha agito con dolo eventuale, ha valutato l’influsso di tale forma di intenzionalità sulla colpa rilevando semplicemente che tale dolo eventuale si è concretizzato in almeno 5 colpi di coltello inferti al collo ed uno, mortale, al costato (sentenza impugnata, consid. 47, pag. 54) - ed in ciò nulla può esserle rimproverato ritenuto che altro non ha fatto se non registrare quanto effettivamente accaduto - senza più addentrarsi in comparazioni poco fruttuose ritenuto che dell’una o dell’altra forma di dolo si tratta, ma annotando, coerentemente con quanto accertato, che RI 1 non aveva “
diretta intenzione di uccidere
” tanto da specificare - pur se utilizzando un termine poco felice poiché atto a creare equivoci - che il concreto esito mortale era parzialmente connotato di quella “
fatalità
” (meglio sarebbe stato parlare di un margine di incertezza) in qualche modo sempre in parte insita nel dolo eventuale che si realizza, appunto nei casi in cui un autore, pur ritenendo possibile che il suo comportamento possa provocare un determinato evento o un determinato risultato, se ne accomoda e agisce ugualmente, augurandosi tutt’al più che l’evento o il risultato non si produca (DTF 134 IV 26 consid. 3.2.2; 125 IV 242 consid. 3c pag. 251 con riferimenti;
133 IV 9 consid. 4.1 pag. 16, 131 IV 1
consid. 2.2 e rinvii; 125 IV 242 consid. 3c; 121 IV 249 consid. 3a pag. 253).
Il dolo eventuale come generico fattore attenuante della colpa - applicabile solo alla pena per l’omicidio - è stato concretamente considerato dalla prima Corte che, dopo avere stabilito quale pena base per il solo omicidio 14 anni (15 anni meno i 12 mesi correttamente stabiliti quale aggravante per effetto del concorso di reati), ha operato su tale pena base una deduzione proporzionata al grado (lieve) di scemata imputabilità accertato (attorno al 25%; cfr., sulla questione, DTF
134 IV 132
) ottenendo una pena aggirantesi sugli 11 anni che ha, poi, ulteriormente ridotto a circa 10 anni in considerazione del dolo non diretto (la deduzione per dolo eventuale, anche se implicita, è evidente ritenuto che è stata esclusa l’esistenza di altre circostanze attenuanti influenti sulla pena). Questa pena di 10 anni per il solo omicidio è, poi, correttamente stata aggravata, per effetto del concorso di reati (art. 49 CP), dei già citati 12 mesi.
Pertanto, riguardo la presa in considerazione del dolo eventuale nella commisurazione della pena, il ricorso deve essere disatteso.
2.5.
Il ricorrente sostiene, poi, che la prima Corte è caduta in arbitrio non ammettendo, nella commisurazione della pena, una sua particolare sensibilità alla pena sulla scorta della considerazione secondo cui il fatto di essere padre di una figlia di 11 anni non l’ha mai trattenuto dal delinquere. Secondo il ricorrente, la Corte avrebbe, invece, dovuto considerare che egli non si è mai trovato prima “
nella prospettiva di trascorrere molti anni senza vedere la crescita della propria figlia
” che, alla sua liberazione, sarà ormai divenuta maggiorenne. Inoltre, la prima Corte avrebbe dovuto considerare che egli si è trovato per la prima volta davanti ad una Corte delle assise criminali, “
con conseguente pubblicità del proprio nominativo e delle proprie generalità, ed evidenti ripercussioni nel proprio rapporto con la figlia
” (ricorso pag. 18).
2.6.
Secondo dottrina e giurisprudenza, nella commisurazione della pena il giudice non deve trascurare la sensibilità personale all'espiazione della pena (
Strafempfindlichkeit)
per rapporto allo stato di salute, all'età, agli obblighi familiari, alla situazione professionale, ecc. (DTF 102 IV 231 consid. 3 pag. 233; STF 15 febbraio 2006, inc. 6P.152/2005, consid.
8.1 e 26 ottobre 2005, inc. 6S.163/2005, consid.
2.1 con rinvii;
Wiprächtiger, op. cit.,
ad art. 47, n. 117;
Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil II, Berna 1989, § 7 n. 53 seg.).
Tuttavia, la sensibilità personale alla pena può entrare in considerazione quale circostanza attenuante nell’ambito dell’art. 47 CP soltanto quando la situazione personale invocata (stato di salute, età, situazione familiare,...) si scosta in modo particolare dalla comune esperienza e rende, perciò, la pena comprensibilmente e sensibilmente più dura da sopportare per
il condannato che per altri (STF 26 ottobre 2005, inc. 6S.163/2005, consid.
2.1; 26 marzo 1996, inc. 6S.703/1995;
13 marzo 1996, inc. 6S.750/1995; 28 gennaio 2002, inc. 6S.144/2001;
Wiprächtiger, op. cit.,
ad art. 47 n. 118
; Bruns, Das Recht der Strafzumessung, 2. Auflage, Köln etc., 1985, p. 197 s.; Stratenwerth, op. cit., § 7 n. 53 seg.
).
Ciò non è evidentemente il caso in concreto. Il ricorrente ha una figlia undicenne che vive in Ticino e che potrà regolarmente vedere secondo quanto stabilito dal regolamento carcerario e dalla competente autorità sull’esecuzione della pena. In queste circostanze, la sua situazione familiare non lo pone in una situazione particolarmente più gravosa di quella di un qualsiasi altro detenuto con famiglia e non può, quindi, essere ammessa una sua particolare sensibilità alla pena in forza dei suoi legami familiari.
2.7.
Concludendo il suo esposto, il ricorrente sostiene che la pena base di 15 anni determinata dalla Corte avrebbe dovuto essere ridotta in funzione del suo dolo soltanto eventuale sino “
alla soglia superiore degli 11 anni
” e, poi, ancora “
compressa verso il basso
” in funzione della scemata imputabilità “
facendola scendere sotto i 10 anni, per attestarsi attorno agli 8 anni e 6 mesi /9 anni”
e, poi, ancora ridotta, in funzione della sua sensibilità alla pena, sino a 8 anni.
Osservato come la scemata imputabilità (cfr. AI72, ad 2.1.) e il dolo solo eventuale costituiscano delle circostanze attenuanti soltanto limitatamente alla colpa del ricorrente in relazione all’omicidio e precisato come, quindi, esse vadano applicate soltanto alla pena base stabilita per tale reato (dunque, alla pena detentiva di 14 anni), si rileva come nulla possa essere rimproverato alla prima Corte riguardo l’applicazione delle circostanze attenuanti considerate. Da un lato, infatti, come visto sopra, ben si può considerare che la riduzione della pena operata in funzione della lieve scemata imputabilità riconosciuta al condannato si attesti intorno al 25% e sia, così, del tutto proporzionata al grado
di diminuzione dell'imputabilità ai sensi di quanto stabilito dal TF (DTF 134 IV 132). D’altro lato, ritenuto il limitato potere d’esame di questa Corte in materia di commisurazione della pena -
che può intervenire soltanto quando il primo giudice abbia fatto un uso e insostenibile del margine di manovra che la legge gli accorda, commettendo in questo modo una violazione del diritto federale (DTF 127 IV 101 consid. 2c; 123 IV 150 consid. 2a; Corboz, La motivation de la peine, ZBJV 131/1995 pag. 14 e seg., in part. pag. 18) - nulla può essere rimproverato alla prima Corte nemmeno in relazione alla riduzione operata in funzione dell’assenza di un dolo diretto (cfr. Wiprächtiger, op. cit., ad art. 47 n. 89).
Pertanto,
anche su questo punto, il ricorso va respinto.
2.8.
Le censure secondo cui la pena sarebbe lesiva del principio di proporzionalità ed urtante sotto il profilo della parità di trattamento - avanzate dal ricorrente a pag. 3 del suo memoriale - sono rimaste del tutto immotivate: esse sono, pertanto, irricevibili.
3.
In considerazione dell’esito del ricorso, gli oneri processuali sono a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bc173c0c-5140-52be-901f-407d723eefb1 | in fatto ed in diritto
che con esposto datato 21.07.2008 giunto al Ministero pubblico il 7.08.2008 (AI 1) – completato con gli scritti 15/25.08.2008 (AI 2), 19/22.09.2008 (AI 3), 3/6.10.2008 (AI 4) – IS 1 ha sporto denuncia/querela penale contro la _, _, in relazione ad asseriti problemi sorti inerenti all’appartamento di sua proprietà ubicato a _ (inc. MP _);
che con decisione 20.10.2008 il procuratore pubblico ha decretato il non luogo a procedere in capo al surriferito esposto, poiché le problematiche sollevate da IS 1 assumerebbero carattere civile (AI 5 – inc. MP _);
che con decisione 15.12.2008 l’allora Camera dei ricorsi penali ha dichiarato irricevibile l’istanza di promozione dell’accusa ex art. 186 CPP TI presentata il 31.10/26.11.2008 da IS 1 avverso il surriferito decreto, poiché introdotta in maniera tardiva (inc. CRP _);
che in data 9.04.2009 il Tribunale federale ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da IS 1 contro la suddetta decisione a causa del mancato pagamento dell’anticipo spese richiesto (decisione TF _ del 9.04.2009);
che con sentenza 24.07.2009 il Tribunale federale ha respinto la domanda di restituzione del termine inoltrata da IS 1 tendente all’annullamento della predetta decisione dell’Alta Corte (decisione TF _ del 24.07.2009);
che con ulteriore sentenza 9.10.2009 il Tribunale federale ha respinto, nella misura in cui era ammissibile, la domanda di revisione delle surriferite due decisioni presentata sempre da IS 1 (decisione TF _ del 9.10.2009);
che in data 26.03.2010 il procuratore pubblico ha decretato il non luogo a procedere in relazione alle richieste di riapertura del procedimento penale datati 2.09.2009 (AI 11), 26.02.2010 (AI 13) e 22.03.2010 (AI 14) e spediti da IS 1 al Ministero pubblico, per assenza di nuovi elementi ai sensi dell’art. 187 CPP TI (NLP _; AI 15
– inc. MP _
);
che in data 27.04.2010 l’allora Camera dei ricorsi penali ha dichiarato irricevibile l’istanza di promozione dell’accusa 8/12.04.2010 presentata da IS 1 contro il NLP _, poiché tardiva (inc. CRP _);
che l’8.06.2010 il Tribunale federale ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da IS 1 avverso la predetta decisione dell’allora Corte dei reclami penali (decisione TF _ dell’8.06.2010);
che in data 17.08.2010 l’Alta Corte ha respinto, nella misura in cui era ammissibile, la domanda di revisione della sentenza TF _ dell’8.06.2010 presentata da IS 1 (decisione TF _ del 17.08.2010);
che di conseguenza l’incarto penale NLP _ (già inc. MP _) è stato archiviato;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto del suo assistito IS 1, di essere informato sullo stato della procedura (inc. NLP _) e di trasmettergli il relativo incarto penale nella misura in cui fosse stato archiviato (doc. 1.a);
che a sostegno della sua richiesta precisa che gli è stato conferito mandato da parte di IS 1 allo scopo di chiarire le diverse procedure penali e civili del Canton Ticino che lo concernono, producendo parimenti copia della relativa procura (doc. 1.a e doc. 1.b);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di denunciante/querelante ai sensi del CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, di tutti gli atti istruttori dell’incarto NLP _, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che di conseguenza gli atti istruttori dell’incarto NLP _ (AI 1 – AI 21, con copia dell’elenco atti) vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore di IS 1 unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bc32c280-ff6d-5b29-840d-e077849b9201 | in fatto ed in diritto
che con sentenza 21.09.2005 il presidente della Corte delle assise correzionali di _ (in _) ha riconosciuto PI 2 complice di infrazione alla legge federale sugli stupefacenti e autore colpevole di infrazione semplice alla legge federale sugli stupefacenti; in applicazione della pena, lo ha condannato a 7 mesi di detenzione (computato il carcere preventivo sofferto), sospesi condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni e al versamento di un risarcimento compensativo allo Stato di CHF 12'000.--, disponendo la confisca dello stupefacente e del denaro sotto sequestro;
che il 12.12.2006 l’allora Corte di cassazione e di revisione penale ha respinto, nella misura della sua ammissibilità, il ricorso del condannato contro la sentenza di primo grado;
che con sentenza 3.07.2007 il Tribunale federale ha respinto il ricorso di diritto pubblico (nella misura della sua ammissibilità) e il ricorso per cassazione entrambi presentati da PI 2 (decisione TF _);
che la suddetta decisione è passata in giudicato il medesimo giorno in applicazione dell’art. 437 cpv. 2 CPP;
che con scritto 7/8.05.2012 l’IS 1, per il tramite del suo capo ufficio, ha postulato alla Corte di appello e di revisione penale la trasmissione, in copia, della sentenza definitiva emanata dal Tribunale federale a carico del dr. med. PI 2 allo scopo di poter evadere la pratica amministrativa in corso, essendo pendente a suo carico un procedimento amministrativo (doc. 1.a);
che con scritto 11/14.05.2012 il presidente della Corte di appello e di revisione penale, giudice Giovanna Roggero-Will, ha trasmesso, per competenza, a questa Corte la richiesta del 7/8.05.2012 dell’IS 1, precisando in particolare di aver inviato alla predetta autorità la sentenza richiesta in versione anonimizzata (reperibile su internet), ma che la stessa domanda la trasmissione, in copia, della sentenza nella sua versione integrale e munita di timbro d’intimazione (doc. 1 e doc. 1.b);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico si rimette al giudizio di questa Corte, rilevando in ogni modo di non aver alcun fondato motivo per eventualmente opporsi al accoglimento dell’istanza;
che il dr. med. PI 2, dal canto suo, acconsente all’invio di una copia integrale della sentenza in questione;
che l
’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nella fattispecie in esame – visti in particolare i motivi posti alla base della presente istanza e le competenze dell’Ufficio istante e considerata inoltre la LSan – è adempiuto un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG dell’IS 1 prevalente sugli interessi personali del dr. med. PI 2, che peraltro non si è opposto alla richiesta, ad ottenere la trasmissione, in copia, della sentenza del Tribunale federale inerente a quest’ultimo;
che in siffatte circostanze questa Corte autorizza il presidente della Corte di appello e di revisione penale a trasmettere all’IS 1 – in copia, in versione integrale e munita di timbro d’intimazione – la sentenza _ datata 3.07.2007 emanata dal Tribunale federale inerente al dr. med. PI 2;
che l’istanza è accolta ai sensi delle precedenti considerazioni;
che stante la natura dell’autorità istante e la finalità della richiesta, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bc66276c-8bd6-5120-80d1-d6d8b18c0d28 | in fatto ed in diritto
che a seguito di quanto accaduto il 9.10.2009 (violenza domestica) è stato aperto d’ufficio un procedimento penale nei confronti di PI 2 per titolo di lesioni semplici, vie di fatto reiterate e minaccia (inc. NLP _);
che il 10.10.2009 IS 1, la moglie del denunciato, ha acconsentito alla sospensione del procedimento in applicazione dell’art. 55a cifra 1 lit. b CP (AI 1 – inc. NLP _
)
;
che il 28.05.2010 l’allora sostituto procuratore pubblico ha emanato un decreto di non luogo a procedere (non motivato), essendo trascorso il termine di sei mesi di cui all’art. 55a cpv. 2 CP senza che IS 1 abbia revocato la sospensione provvisoria del procedimento penale richiesta il 10.10.2009 (NLP _);
che non è stata postulata la motivazione scritta del suddetto decreto ex art. 185 cpv. 1 CPP TI;
che con la presente istanza – giunta alla polizia e trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – IS 1 chiede di ottenere la trasmissione del suo verbale d’interrogatorio e delle fotografie inerenti al surriferito incarto penale, essendo in fase di separazione con il marito (doc. 1.a);
che come esposto in entrata il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, essendo stata l’istante parte al procedimento penale di cui all’incarto NLP _ in qualità di vittima;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (quale vittima) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante ad ottenere copia
del suo verbale d’interrogatorio e delle fotografie inerenti all’incarto NLP _
, poiché l’ha interessata personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che la stessa ha bisogno di questa documentazione nell’ambito della procedura di separazione con il marito;
che di conseguenza, il rapporto d’inchiesta di polizia 27.10.2009 (in cui sono contenuti il verbale e le fotografie richiesti) (AI 1 – inc. NLP _
)
, viene trasmesso, in copia, all’istante unitamente alla presente decisione;
che l’istanza è accolta ai sensi delle suddette considerazioni;
che non si prelevano tassa di giustizia e spese, essendo stata l’istante parte al procedimento penale di cui all’incarto NLP _ nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bc692c24-f309-5050-85c0-dba30e21093e | in fatto
:
A.
Il 20 settembre 1998 alle ore 8.30 _, cittadino croato domiciliato a Fiume (Rijeka), si è presentato al valico doganale di Chiasso su una Mercedes "230 E" con targhe croate appartenente a _, pure risiedente in Croazia. Partito da Fiume il giorno prima, egli era intenzionato – a suo dire – a raggiungere la Germania passando dalla Svizzera. Insospettiti dalla recente data di emissione del passaporto e da numerosi timbri d'entrata e di uscita apposti da vari Stati balcanici, le guardie di confine hanno ispezionato il veicolo. Rinvenute nel bagagliaio una tanica vuota e due pompe elettriche della benzina nuove, esse hanno sospettato la manomissione del serbatoio. Smontato il sedile posteriore, gli agenti hanno spostato leggermente il serbatoio dalla sua sede e con l'ausilio di uno specchio hanno visto dietro di esso alcuni involucri avvolti con nastro adesivo marrone. _, che durante l'ispezione del veicolo aveva dato segni di nervosismo, è stato ammanettato e condotto negli uffici, dove è stato guardato a vista e spogliato degli effetti personali, tranne i vestiti. Nel frattempo le guardie hanno prelevato uno degli involucri. Analizzatone il contenuto per mezzo di reagenti, esse hanno riscontrato la presenza di eroina. Il serbatoio è stato perciò rimosso, ciò che ha consentito di ricuperare 35 “pani” di circa 0.5 kg l'uno contenenti eroina. La quantità complessiva di eroina sequestrata, con un grado di purezza media del 30%, è risultata di circa 16.5 kg. Smontato il serbatoio della Mercedes, è stato possibile scoprire anche un sistema elettrico che consentiva l'apertura del ricettacolo contenente i “pani” grazie a un'apertura della lamiera dietro lo schienale del sedile.
B.
Con sentenza del 28 luglio 1999 la Corte delle assise criminali in Lugano ha prosciolto _ dall'accusa di violazione aggravata della legge federale sugli stupefacenti. Essa ha ritenuto che l'imputazione di avere detenuto, trasportato e trafugato in Svizzera dalla Croazia, d'intesa con _ (proprietario del veicolo), transitando dalla Slovenia e dall'Italia, l'eroina rinvenuta dalle guardie di confine durante il controllo eseguito al valico di confine la mattina del 20 settembre 1998 non era sorretta da prove sufficienti.
C.
Contro la sentenza di assise il Procuratore pubblico ha presentato il 28 luglio 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 7 settembre successivo, egli chiede che _ sia riconosciuto colpevole di violazione aggravata della legge federale sugli stupefacenti e sia condannato a 10 anni di reclusione con espulsione a vita dal territorio svizzero. In subordine egli postula, l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio. Nelle sue osservazioni del 5 ottobre 1999 _ propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto
:
1.
Il Procuratore pubblico rimprovera alla prima Corte di non avere correttamente apprezzato gli indizi a carico dell'imputato, in particolare di averli vagliati singolarmente e non nel loro insieme, giungendo in tal modo a una conclusione insostenibile e pertanto arbitraria. In sostanza, egli censura l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove operati dalla Corte di assise. Ora, la Corte di cassazione e di revisione penale è abilitata a rivedere gli accertamenti di prima sede solo con cognizione circoscritta all'arbitrio (art. 288 lett. c CPP). L'accertamento può essere censurato, quindi, solo ove risulti manifestamente insostenibile o in aperto contrasto con gli atti (DTF 124 I 208 consid. 4, 174 consid. 2g, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
2.
Fondandosi su quanto ha raccontato l'accusato, i primi giudici hanno rilevato che la fattispecie aveva preso avvio all'inizio di settembre del 1998, quando _ aveva chiesto allo stesso accusato di accompagnarlo in Macedonia – lui e sua figlia Renata – fungendo da autista, poiché gli era stata ritirata la patente. _ intendeva raggiungere suoi parenti profughi dal Kosovo per aiutarli. Dato che aveva tempo e che il viaggio era pagato, l'imputato ha accettato e ha compiuto insieme con loro la trasferta a bordo della Mercedes, appena acquistata da _, partendo da Fiume, passando dall'Ungheria, dalla Romania e poi dalla Bulgaria. Giunti in Macedonia, l'imputato, sua figlia e _ si sono fermati per una decina di giorni a Ohrid, una località poco distante dal confine albanese. A quel momento il prevenuto è rimasto per qualche tempo solo o in compagnia di sua figlia e di un cameriere che lavorava in un bar vicino al luogo dove egli alloggiava. Il rientro a fiume – sempre secondo il prevenuto – è avvenuto tra il 16 e il 17 settembre 1998 lungo lo stesso percorso dell'andata. Sia alla dogana bulgara sia a quella ungherese l'automobile è stata sottoposta a controlli (una volta anche con l'ausilio di un cane), senza esito. In Ungheria, il motore della Mercedes si è improvvisamente spento. Il prevenuto e _ hanno in un primo momento creduto che fosse finita la benzina. Era notte e pioveva. Fattosi giorno, essi hanno rifornito la Mercedes di carburante con una tanica, ma il motore non partiva. Un meccanico del luogo ha poi individuato il guasto nella rottura della pompa della benzina; egli ha quindi proceduto alla riparazione (sentenza, pag. 7 e 8).
La Corte di assise ha in seguito accertato che prima di lasciarsi a Fiume, _ aveva chiesto all'imputato se fosse disposto ad accompagnarlo come autista in Germania, dove egli si sarebbe dovuto incontrare con altri parenti profughi, bisognosi di assistenza. Dato che il viaggio non sarebbe durato più di due o tre giorni, egli aveva acconsentito. Era partito così dalla sua abitazione, al volante della Mercedes, la mattina di sabato 19 settembre 1998, da solo. Al momento di consegnargli l'automobile, _ gli aveva detto infatti che avrebbe raggiunto l'Italia con un amico, dandogli appuntamento in prossimità di un parcheggio poco oltre il confine con la Slovenia. Incontratosi con il lui nel pomeriggio di quel sabato, quegli lo aveva pregato di partire verso la Svizzera, in modo da raggiungere la Germania o la Francia. _ – così ha riferito l'accusato – non conosceva ancora la destinazione esatta, poiché doveva prima incontrarsi a Trieste con amici che l'avrebbero orientato sul paese ove si trovavano i profughi che intendeva soccorrere. In quella città _ avrebbe appreso che tali persone erano reperibili dalle parti di Milano. Percorrendo l'autostrada Trieste-Udine-Milano, il prevenuto e _ hanno raggiunto verso sera i dintorni della metropoli lombarda. L'accusato ha però sbagliato uscita autostradale, perdendosi. I due hanno pertanto deciso di trascorrere la notte in automobile, in un parcheggio occupato anche da altri veicoli, con gente che dormiva. Ripartiti la mattina presto, essi si sono fermati, su indicazione di _, in un bar di Como, dove hanno bevuto un caffè senza incontrarsi con nessuno. Ripreso il viaggio e percorsi alcuni chilometri in direzione di Chiasso-strada, _ ha chiesto all'accusato di fermarsi. Sceso dall'automobile, egli ha detto che doveva incontrare le persone che non aveva visto a Trieste, dando appuntamento al prevenuto in Svizzera, in un bar situato sulla destra a tre o quattro chilometri dal confine. _ ha lasciato all'accusato anche un telefono cellulare, assicurandogli che lo avrebbe richiamato in Svizzera per l'incontro. Giunto al valico doganale – come visto – il prevenuto è stato arrestato, dopo che le guardie di confine avevano rinvenuto l'eroina nascosta nella Mercedes (sentenza, pag. 8 e 9).
3.
Il Procuratore pubblico si duole che la Corte di assise non abbia ritenuto inverosimile la versione dei fatti data dall'imputato, nonostante le palesi e significative contraddizioni in cui il quegli è caduto nel corso dell'inchiesta e del dibattimento. Egli censura pertanto di arbitrio la conclusione dei primi giudici, per i quali non vi sono fondati motivi di non credere all'accusato.
a)
Stando alla sentenza impugnata, il ricorrente si è in effetti più volte contraddetto. Soltanto dopo avere preso atto della deposizione delle figlia – hanno rilevato i primi giudici – egli si è ricordato di avere raccontato una bugia alla moglie, facendole credere, al momento della partenza per la Macedonia, che essi si sarebbero recati in Italia per la vendemmia. Sempre secondo la Corte di assise, mentre durante l'inchiesta l'imputato ha affermato che da Ohrid (Macedonia) _ si era recato in Albania con la Mercedes, al dibattimento egli ha riferito che in realtà non ne era sicuro, visto che per alcuni giorni egli non aveva più notato l'automobile nel posto dove era stata posteggiata all'arrivo e che _ gli aveva riferito di averla prestata a un parente e, in seguito, di averla portata in un'autorimessa per una riparazione. D'altro canto, solo grazie alla deposizione della figlia il prevenuto si era ricordato che _ gli aveva proposto di accompagnarlo in Germania non dopo essere ritornati dalla Macedonia, come in un primo momento aveva sostenuto, ma già durante il viaggio di ritorno. Secondo la Corte di assise l'accusato si sarebbe infine ulteriormente contraddetto, facendo credere in un primo tempo che la tanica trovata nella Mercedes era stata acquistata da _ prima della partenza per la Macedonia e dicendo in seguito di avere pensato che si trattava di un accessorio in dotazione dell'automobile (sentenza, pag. 9).
b)
I primi giudici non hanno tuttavia considerato determinanti tali contraddizioni e imprecisioni. Rilevato che l'esperienza insegna come spesso sia difficile rievocare con precisione fatti passati, essi hanno rilevato che non soltanto non erano emersi fatti suscettibili di smentire apertamente l'accusato, ma che su più di un punto il racconto trovava conforto nelle risultanze istruttorie. Ad _ – secondo la Corte di merito – era stata effettivamente ritirata la licenza di condurre, tant'è che anche nei viaggi precedenti si era fatto accompagnare da un terzo (il tassista _). Che il prevenuto sia stato ingaggiato proprio perché _ non aveva più la patente è stato anche confermato da _ e dallo stesso _, che in tal modo evitava di pagare il citato tassista. Sempre per i primi giudici, anche il motivo che _ avrebbe addotto per giustificare la trasferta in Macedonia (il soccorso a famigliari profughi) trovava conferma nelle deposizioni dello stesso _, che confermava di essersi assentato per tre giorni da Ohrid, e di _. _ e _ – a mente della Corte di assise – hanno pure confermato sia i controlli doganali, sia il guasto alla pompa di benzina della Mercedes sulla via del ritorno A loro volta, ha soggiunto la Corte di merito, il titolare e la cameriera del bar “_ ” hanno confermato che, effettivamente, durante la sosta a Como per bere un caffè il prevenuto e il suo compagno di viaggio non si sono incontrati con altre persone. Pur rilevando infine che _ contestava di avere accompagnato l'imputato in Italia, facendo valere di essersi limitato a prestargli l'automobile per due giorni, in modo da permettergli di raggiungere la Germania, la Corte di assise non ha creduto a costui, sia perché egli aveva avanzato la proposta di farsi accompagnare in Germania davanti a _, sia perché proprio la sera del 20 settembre 1998 verso mezzanotte, egli aveva telefonato a _ pregandolo di andare a prenderlo con il suo taxi a Trieste, sia perché è stato possibile accertare che i due avevano varcato il passaggio doganale tra la Slovenia e la Croazia alle ore 1.30 del 21 settembre successivo, sia perché _ ha riferito che uno o due giorni dopo la partenza del padre e di _, costui le aveva telefonato dicendole di essere in Italia e che sarebbe arrivato presto in Italia (sentenza, pag. 10 e 11).
c)
Il Procuratore pubblico rimprovera alla prima Corte di essere caduta in arbitrio considerando quale elemento di conferma della versione dell'imputato il fatto che _ era sprovvisto della patente, circostanza che non è stata oggetto di alcuna inchiesta. La doglianza non può essere condivisa. A prescindere dal fatto che incombeva se mai al Ministero pubblico verificare la fondatezza della contestata allegazione, i primi giudici non hanno ciecamente creduto al prevenuto, ma si sono fondati su elementi di rilievo, come la traduzione della decisione 14 aprile 1998 con la quale l'autorità croata ha ritirato all'accusato la patente (infliggendogli pure una multa di 11 mila kune), sulla circostanza che già nei suoi viaggi precedenti _ si era fatto accompagnare dal tassista _ e sulle deposizioni di _ e di _, che hanno confermato quanto riferiva lo stesso imputato (sentenza, pag. 10). Ritenendo l'accusato credibile sui motivi che avrebbero spinto _ a ingaggiarlo, la Corte di assise non ha pertanto violato il divieto dell'arbitrio.
d)
A mente del Procuratore pubblico, la Corte di merito sarebbe caduta in arbitrio anche dando credito all'affermazione, secondo cui l'imputato e _ non si sono incontrati con altre persone a Como. Le testimonianze della cameriera e della gerente dell'esercizio ove i due si sarebbero fermati – egli assevera – hanno potuto riferire unicamente di ciò che è avvenuto all'interno del locale per il tempo necessario alla consumazione di due caffè. È quindi possibile che un incontro abbia potuto avere luogo altrove. Se non che, l'argomento è di chiara connotazione appellatoria e, come tale, inammissibile in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio.
e)
Il Procuratore pubblico fa valere che non può neppure essere condivisa la conclusione della Corte di assise, secondo cui l'affermazione dell'imputato di avere saputo solo durante il viaggio di ritorno dalla Macedonia della successiva partenza per la Germania, troverebbe conferma nella testimonianza della figlia _. Sia quest'ultima sia _ – egli obietta – hanno fornito versione discordanti. Il Procuratore pubblico trascura però che i primi giudici hanno avvertito il problema, rilevando che soltanto dopo avere sentito la deposizione della figlia il prevenuto si è ricordato che la proposta di accompagnarlo in Germania gli era stata fatta da _ non dopo essere ritornati dalla Mecedonia, come in un primo momento aveva sostenuto, ma già durante il viaggio di ritorno (sentenza, pag. 9). Come si è visto, essi hanno però precisato che le contraddizioni emerse al riguardo – come pure su altri episodi – non erano tali da minare la credibilità del soggetto, ove si consideri che l'esperienza insegna come non sia sempre facile rievocare il passato su dettagli di contorno, specialmente ove chi li ripropone non vi attribuisce particolare importanza, e che, per il resto, non sono emersi fatti suscettibili di smentire l'accusato. Il ricorrente considera arbitrarie anche tali considerazioni, facendo carico ai primi giudici di avere sottovalutato le contraddizioni fondandosi sull'esperienza giudiziaria anziché valutarne il significato nell'ambito delle versioni fornite dal prevenuto. A torto, giacché la Corte di assise non si è accontentata di esaminare la credibilità dell'accusato sulla sola scorta delle considerazioni richiamate nel ricorso (ossia limitandosi a rilevare che le contraddizioni in cui l'accusato sarebbe caduto potevano essere finanche scusabili), ma ha valutato l'affidabilità del soggetto anche alla luce di altri riscontri oggettivi – esenti da arbitrio – suscettibili a suo giudizio di confermarne i contenuti essenziali (sentenza, pag. 11). Anche su questo punto la sentenza impugnata è pertanto esente da arbitrio.
4.
Il Procuratore pubblico rimprovera alla Corte delle assise criminali di avere errato manifestamente, ritenendo che l'assenza di _ al momento di varcare le frontiere non costituisse ancora un elemento idoneo a rendere poco credibile la giustificazione addotta dal compagno di viaggio, segnatamente quella di voler incontrare persone che fossero in grado di orientarlo sul paese in cui si trovavano i profughi. _ – soggiunge il Procuratore pubblico – era per l'imputato un albanese del Kosovo, uno "spitar", ovvero una persona sgradita e inaffidabile. L'argomentazione non dimostra però la manifesta insostenibilità dell'opinione espressa dalla prima Corte, stando alla quale l'assenza di _ alla partenza da Rijeka e in prossimità dei passaggi di confine, segnatamente nei pressi della dogana svizzera, non doveva necessariamente insospettire l'imputato. La prima Corte ha infatti considerato a suo favore che anche durante la precedente trasferta in Macedonia _ non lo aveva coinvolto nei suoi spostamenti e negli incontri con le persone ivi incontrate e che già poche ore dopo il fermo in dogana egli aveva rivelato la presenza nella zona dello stesso _, fornendone i connotati, ciò che mal si concilia con una collusione tra i due (sentenza, pag.12). Domandandosi inoltre se i pretesi amici "italiani" esistessero soltanto nella fantasia di _ – escludendo comunque che il prevenuto lo potesse supporre – i primi giudici hanno rilevato altresì che il tassista _ aveva riferito di avere accompagnato nel corso dell'estate precedente lo stesso _ alla stazione dei bus di Trieste, dove costui avrebbe dovuto incontrare una persona che arrivava da Milano e dove, senza averla vista, costui ha ricevuto sul cellulare una telefonata alla quale aveva risposto in albanese, per poi chiedergli di riportarlo a Fiume passando da Kopra e non da Kuzine (sentenza, pag. 12). Senza incorrere in arbitrio di sorta i primi giudici hanno dunque saputo spiegare le ragioni che li hanno spinti a credere all'imputato.
Il Procuratore pubblico fa valere dipoi che durante il viaggio in Macedonia, il cui scopo era identico a quello successivo culminato nell'arresto dell'accusato, _ si era comportato diversamente, nel senso che aveva passato anch'egli i valichi doganali insieme con l'accusato. L'obiezione non è insignificante, ma nemmeno decisiva. Anche in Macedonia infatti l'accusato soleva rimanere da solo quando si incontrava con altre persone. Non è quindi arbitrario ritenere che _ non si sia comportato in modo così diverso, dicendo all'imputato che lo avrebbe raggiunto più tardi e scendendo dall'automobile in prossimità del valico doganale di Chiasso per incontrare le persone che, a suo dire, lo avrebbero aiutato nel trovare i profughi che intendeva aiutare. Secondo il Procuratore pubblico la giustificazione addotta da _ (l'intenzione di incontrarsi con persone che gli fornissero informazioni) non impediva al prevenuto di accompagnare lo stesso _ all'incontro lungo il tragitto che essi erano intenzionati a compiere insieme e, quindi, di riprendere insieme il viaggio una volta sistemata la questione. Nondimeno – egli rileva – la Corte di assise non si è seriamente chiesta perché il prevenuto non si sia insospettivo di fronte al comportamento tenuto da _, sebbene fosse più logico rimanere insieme anziché separarsi alla partenza e prima di entrare in Svizzera, per ritrovarsi qualche chilometro più oltre. La doglianza è però appellatoria e in ogni modo non consente ancora di ravvisare estremi dell'arbitrio nella conclusione alla quale la Corte di assise è giunta vagliando gli elementi favorevoli e sfavorevoli all'imputato (sentenza, pag. 11 e 12).
5.
A mente del Procuratore pubblico è arbitrario ritenere che l'imputato non dovesse insospettirsi per l'assenza di _ ai passaggi alle frontiere solo perché già in Macedonia costui non lo aveva coinvolto nei suoi spostamenti e nei suoi incontri con terzi, tanto meno se si pensa che l'accusato non si è mai fondato su tale motivo. Neppure tale argomentazione può essere condivisa. È vero che l'imputato non ha preteso di non avere considerato sospetto il comportamento di _ alla partenza da Fiume e presso il confine con l'Italia solo perché in Macedonia _ si era comportato analogamente. Non si vede però perché la Corte di merito avrebbe errato manifestamente, domandandosi se il comportamento tenuto da costui in Macedonia fosse diverso da quello assunto successivamente e quindi se l'imputato potesse ancora credere di trovarsi nella medesima situazione.
Il Procuratore pubblico considera pure arbitraria l'opinione della Corte di assise, secondo cui _ avrebbe dato all'accusato anche presso il valico doganale svizzero una soluzione che poteva stare, ovvero quella dell'incontro con amici "italiani". Nel verbale del 17 novembre 1998 (act. 48/10, pag. 3) – egli assevera – l'accusato ha dichiarato che gli sarebbe andato bene di aspettare _ dappertutto e che egli nulla si era domandato sul comportamento del compagno. Il ricorrente trascura nondimeno che nel verbale del 23 marzo 1999 (class. 1, act. 6, pag. 4) l'imputato ha saputo illustrare nel dettaglio le ragioni (riportate nella sentenza impugnata) che lo avevano indotto a non indagare oltre sul comportamento di _ alla partenza da Fiume e in prossimità dei valichi doganali.
Il Procuratore pubblico si duole anche che la Corte di merito ha escluso una collusione tra i due unicamente per il fatto che l'imputato ha informato gli inquirenti della presenza in zona di _ poche ore dopo dopo il suo fermo. I primi giudici avrebbero trascurato infatti il reale motivo di tale rivelazione, ossia che l'imputato non poteva escludere che la polizia sapesse già della presenza di _ per averlo nel frattempo arrestato e che costui, interrogato, avesse già fatto affermazioni compromettenti. In occasione dell'interrogatorio del 21 settembre 1998 l'accusato – sempre secondo il Procuratore pubblico – ha peraltro chiesto al Giudice dell'istruzione e dell'arresto se _ fosse stato a sua volta arrestato; ciò dimostrerebbe che egli temporeggiava. La natura appellatoria dell'argomentazione risulta però evidente, donde la sua inammissibilità. Nel seguito del gravame, il Procuratore pubblico insiste invero su questo punto, contestando che la chiamata in causa di _ da parte dell'imputato costituisca un indizio suo favorevole. Se non che, di nuovo egli fa capo ad argomenti improponibili in un ricorso per cassazione fondati sul divieto dell'arbitrio, limitandosi a prospettare una diversa valutazione delle risultanze processuali come se la Corte di cassazione e di revisione penale fosse un'autorità munita di pieno potere cognitivo anche nell'accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove. Ciò non è tuttavia il caso.
6.
Alla Corte di assise il Procuratore pubblico rimprovera di non avere sufficientemente approfondito, accanto all'assenza di _ sulla Mercedes al passaggio delle frontiere, la delega rilasciata dallo stesso _ al prevenuto per condurre il veicolo. A suo parere essa avrebbe inspiegabilmente dimenticato che, interrogato sul motivo per cui era stato redatto tale documento, l'imputato non era stato in grado di dare spiegazioni, quando invece sapeva già dal 4 settembre 1998, giorno del rilascio della delega e della partenza per la Macedonia, che avrebbe guidato il veicolo da solo. L'argomentazione del Procuratore pubblico è però, una volta ancora, appellatoria, mirante unicamente a prospettare una diversa versione dell'accaduto. Per tacere del fatto che, come risulta dal verbale del 9 gennaio 1999 (act. 48/11 pag. 7), il ricorrente aveva spiegato che la delega era il documento che lo abilitava a guidare legalmente. Inoltre il documento costituisce se mai un indizio a favore di lui, giacché egli poteva supporre senza arbitrio che _ non gli avrebbe consegnato un tale compromettente scritto se avesse occultato nel veicolo sostanze stupefacenti.
7.
Riferendosi al considerando 4.2 della sentenza impugnata, il Procuratore pubblico fa valere che le contraddittorie e incredibili dichiarazioni dell'accusato sul serbatoio della Mercedes, la sua capacità e il numero dei rifornimenti eseguiti durante il tragitto, come pure sulla persona che si sarebbe occupato di questi ultimi e sui litri di volta in volta immessi, sono state arbitrariamente vagliate dalla Corte di assise con motivazioni che non trovano riscontro negli atti. Ora, considerati i pochi litri di carburante versati nel serbatoio a ogni rifornimento (da 16 a 25, quando il pieno è di 70 litri), può invero suscitare qualche perplessità la conclusione dei primi giudici, stando ai quali cui le contraddizioni emerse porterebbero in fin dei conti a una doppia interpretazione, nel senso che esse potrebbero costituire indizio di malafede, ma anche di difficoltà mnemonica e quindi di buona fede, ove si consideri che il prevenuto avrebbe potuto eludere il problema se appena si fosse limitato ad affermare che dei rifornimenti si era sempre occupato il proprietario dell'automobile (sentenza, consid. 13). Dubbi può destare il fatto, in particolare, che l'imputato si sia fermato in Italia due o tre volte a far benzina quando la lancetta dell'indicatore segnava ancora press'a poco la metà. Ciò potrebbe far pensare ch'egli fosse consapevole della ridotta capacità del serbatoio (da 70 a 40 litri). Senza incorrere in arbitrio i primi giudici hanno spiegato però perché la prudenza di cui ha dato prova l'accusato non può ancora essere considerata come indizio a suo carico. Rilevato che il prevenuto non è persona particolarmente cognita di automobili, essi hanno ritenuto credibile che costui ignorasse che il serbatoio poteva contenere fino a 70 litri di benzina; quanto alla previdenza dimostrata nei frequenti rifornimenti, essi hanno ricondotto tale comportamento proprio al senso di prudenza stesso o semplicemente al fatto di profittare delle pause-caffè per rifornirsi di benzina, senza attendere che la lancetta dell'indicatore si avvicinasse alla riserva (sentenza, pag. 13). Trattasi di argomentazioni magari opinabili, ma sicuramente non insostenibili.
Il Procuratore pubblico evoca affermazioni che l'accusato avrebbe proferito durante l'inchiesta per quanto attiene alla quantità di carburante immessa nel serbatoio, affermazioni suscettibili di denotare malafede e inaffidabilità, lo stesso accusato nemmeno avendo addotto tutte le giustificazioni riportate nella sentenza impugnata. Per il ricorrente, l'imputato non poteva ignorare l'esatta capacità del serbatoio, né la prima Corte non poteva dimenticare la tanica di benzina rinvenuta nel bagagliaio, la cui presenza è stata giustificata dall'imputato con motivazioni contraddittorie. Egli richiama pure il comportamento dell'accusato durante il viaggio di ritorno dalla Mecedonia, asseverando che costui, a differenza di quanto era avvenuto in Italia e in Ungheria, ha viaggiato con l'indicatore della benzina poco sopra lo zero. Una volta di più tuttavia il pubblico Ministero confonde il ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio con un atto di appello, insistendo nel contrapporre alla fattispecie accertata dalla Corte di assise una diversa ricostruzione degli accadimenti fondata su riscontri che consentirebbero di giudicare il caso in altro modo. Ma ciò non basta per dimostrare che i primi giudici siano trascesi in arbitrio ritenendo che gli indizi raccolti non fossero concludenti, in particolare che essi potevano essere risolti sia a sfavore, sia a favore del prevenuto, onde l'applicazione del principio
in dubio pro reo
. In altri termini alla Corte di merito può essere fatto carico tutt'al più di avere emanato un giudizio discutibile; ciò non è ancora sufficiente, tuttavia, per accogliere una doglianza di arbitrio.
8.
Secondo il Procuratore pubblico, la Corte di assise sarebbe ulteriormente incorsa in arbitrio rilevando che "non desta incredulità il fatto che quando il motore dell'automobile si spense in Ungheria _ e _ abbiano in un primo tempo pensato all'assenza di carburante sebbene l'indicatore non era completamente a zero". L'unica interpretazione plausibile – egli assevera – è quella di un guasto da attribuire al serbatoio modificato durante la trasferta in Macedonia, ove si considerino la presenza della figlia dell'imputato (assente invece durante il viaggio in Germania), la presenza di _ ai passaggi di frontiera in occasione della prima trasferta (assente per contro durante il viaggio culminato con il sequestro della droga) e i controlli cui i tre erano stati sottoposti alle dogane durante il viaggio di ritorno dalla Macedonia. Di fronte a tali riscontri, la consapevolezza del prevenuto sulla modifica del serbatoio risulterebbe evidente, a meno di incorrere in arbitrio. Anche su questo punto il ricorso dimostra però la sua netta appellatorietà, il Procuratore pubblico dolendosi bensì di arbitrio, ma motivando le sue censure come se si rivolgesse a una corte munita di pieno potere cognitivo. Ciò vale anche quando il ricorrente dissente anche dalla conclusione della prima Corte, per la quale l'imputato avrebbe potuto scansare ogni responsabilità affermando che dei rifornimenti si era occupato _. Il prevenuto – egli obietta – non sapeva se anche _ fosse stato fermato e interrogato, ragione per cui egli avrebbe potuto riferire in quel modo anche per non rischiare di essere contraddetto. L'argomento è una volta ancora appellatorio. Di nuovo l'ammissibilità del ricorso non è pertanto data.
9.
Il Procuratore pubblico richiama le contraddizioni in cui il prevenuto sarebbe caduto indicando l'ora di partenza da Fiume e il tempo impiegato per raggiungere _ in Italia presso del valico doganale con la Slovenia. Egli fa carico alla prima Corte di essere trascesa in arbitrio nel non avere conferito la giusta rilevanza a tali riscontri, ma ancora una volta il ricorso è destinato all'insuccesso. In effetti la Corte di assise non ha disconosciuto la durata del citato spostamento né l'ipotesi che durante tale lasso di tempo l'imputato avrebbe potuto caricare o far caricare eroina nel serbatoio modificato in Macedonia, né ha scartato a priori l'evenienza che l'accusato possa avere "spostato" gli orari di incontro con _ per non ammettere che il carico della droga è avvenuto in Italia. Essa ha semplicemente concluso per l'impossibilità di accertare quanto era realmente avvenuto e al riguardo non le si può rimproverare arbitrio.
Il Procuratore pubblico assume che la mancanza di un compenso per i servizi prestati costituirebbe un'ulteriore prova della malafede dell'accusato, non potendosi spiegare allora domandare come mai una persona che da anni non lasciava la Croazia, disoccupata, senza disponibilità finanziaria, uscita da poco da prigione, senza concrete prospettive, abbia speso denaro per un nuovo passaporto al solo scopo di compiacere ad _, persona di cui nemmeno si fidava. Tali obiezioni mirano però a dimostrare, una volta ancora, che sarebbe stato possibile giudicare la fattispecie in modo diverso. Gli estremi dell'arbitrio connotano però un errore qualificato dei primi giudici, non solo un ragionamento opinabile.
Il Procuratore pubblico censura infine le considerazioni dei primi giudici sul modo con cui _ aveva agito verso la fine di agosto del 1998, ingaggiando come autista _ in un viaggio del tutto analogo a quello in esame, sia per quanto riguarda i movimenti e gli incontri con persone in Macedonia, sia per quanto concerne il motivo dell'assunzione di quell'autista (_ era sprovvisto di patente di guida), sia per quanto attiene alla presenza di _ nel solo viaggio In Macedonia, sia per quel che è del viaggio in Germania, intrapreso senza _ (sentenza, pag. 15). Anche in proposito non è possibile però individuare estremi di arbitrio solo perché la Corte di assise ha richiamato tale circostanze esaminando l'ipotesi che un trafficante di droga profitti dell'ignoranza di un autista per mandare tale autista allo sbaraglio, senza chiedersi se un tale atteggiamento sia consono ad _ (sentenza, loc. cit.).
10.
Il Procuratore pubblico asserisce infine che l'arbitrario accertamento dei fatti e l'arbitraria valutazione delle prove comportano anche la violazione dell'art. 18 cpv. 2 CP (dolo). In realtà quel che l'autore di un reato sa o non sa, quello che vuole o l'eventualità delittuosa cui egli consente è una problema legato solo all'accertamento dei fatti e alla valutazione delle prove (DTF 121 IV 92 consid. 2b con rinvii). Valutando globalmente le risultanze processuali, la Corte di assise ha ammesso di essere rimasta nel dubbio circa la consapevolezza dell'imputato nel trasportare droga. Come si è rilevato, tale conclusione potrà fors'anche apparire discutibile, ma non è l'esito di accertamenti arbitrari. Certo, l'ipotesi che il prevenuto abbia agito consapevolmente, o almeno non abbia escluso la possibilità di infrangere la legge è tutt'altro che remota, ove si pensi che in prossimità dei valichi doganali – ovvero in vista di controlli – _ si è comportato in modo sospetto, scendendo dalla Mercedes e lasciando proseguire l'accusato da solo. Inoltre le contraddizioni in cui il prevenuto è caduto descrivendo i fatti e le perplessità espresse dalla Corte delle assise sul tempo impiegato dall'accusato per raggiungere il confine italiano passando dalla Slovenia getta ombre lunghe sulla buona fede conclamata dall'accusato. Non a torto la Corte di assise ha rilevato però che gli indizi raccolti non l'avevano convinta, non potendosi sufficientemente escludere che i fatti si fossero svolti come pretendeva l'imputato. Prosciogliendo quest'ultimo per insufficienza di prove, essa non ha quindi violato il diritto federale.
11.
Gli oneri del giudizio odierno vanno a carico dello Stato (art. 9 cpv. 4 e 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bc6c6935-3392-5541-82d8-1a51bf0764cb | in fatto: A.
Il 1° dicembre 1999 _ si è recato a casa del cognato _ per discutere talune questioni legate all'eredità relitta dal suocero, deceduto senza lasciare testamento. Tra i due è ben presto sorto un litigio, nel corso del quale, secondo quanto ha riferito l'agente di polizia _, _ ha detto a _: “Tua madre è una puttana”. In seguito alla querela sporta da _ il 2 dicembre 1999, con decreto di accusa del 27 marzo 2000 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di ingiuria e lo ha condannato a una multa di fr. 500.–. Statuendo su opposizione dell'accusato, con sentenza del 19 ottobre 2000 il Pretore della giurisdizione di Mendrisio Nord ha confermato l'imputazione e la pena.
B.
Contro la sentenza appena citata _ ha inoltrato il 24 ottobre 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione del ricorso, del 20 novembre 2000, egli chiede di essere prosciolto dall'accusa o quanto meno, in subordine, che la multa inflittagli sia ridotta. Nelle sue osservazioni del 15 gennaio 2001 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. Analoga conclusione ha formulato il 24 gennaio 2001 la parte civile _. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a e 295 cpv. 1 CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell’arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
2.
Il Pretore ha accertato che in concreto, durante la lite, _ ha rivolto a _ la frase “Tua madre è una puttana”, riferita alla madre di lui. La circostanza è stata confermata al dibattimento dall'agente della polizia comunale _, intervenuto sul posto. Il ricorrente sostiene che il primo giudice, fondandosi solo su tale testimonianza e ignorando altri elementi a lui favorevoli, come la deposizione di _, è caduto in arbitrio. Afferma inoltre di avere proferito l'epiteto non riferendosi alla suocera, bensì alla figliastra di lei, tale _, e che nella confusione l'agente di polizia ha verosimilmente travisato il destinatario dell'ingiuria. Se non che, argomenti del genere non sono inidonei a sostanziare una censura di arbitrio. In effetti il ricorrente si limita a negare di avere apostrofato di “puttana” la madre del querelante, ma la deposizione resa dal testimone _, che ha confermato quanto dichiarato in fase istruttoria, non danno adito a dubbi, né sul contenuto della frase né sul fatto che destinataria era l'anziana madre del querelante (si veda anche l'act. 2: verbale del 4 dicembre 1999, pag. 2 in fine). Quanto alla deposizione di _, essa riguarda i rapporti ereditari tra le parti, ma non l'accaduto del 1° dicembre 1999, episodio cui essa non ha neppure assistito.
3.
Il ricorrente invoca l'art. 177 n. 3 CP, asserendo che il querelante lo ha insultato per primo, provocando la sua reazione. A norma dell'art. 177 cpv. 3 CP, in effetti, il giudice può mandare esenti da pena le parti, o una di esse, se all'ingiuria si è immediatamente risposto con ingiuria o con vie di fatto. Scopo della norma è di permettere al giudice di soprassedere a un'inflizione di pena se le parti si sono fatte giustizia da sé, sul luogo, e la disputa è tanto insignificante che l'interesse pubblico non richiede un'ulteriore sanzione (
Trechsel
, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Kurzkommentar, 2
a
edizione, n. 8 ad art. 177 CP; DTF 82 IV 181, 72 IV 22). Analoga finalità persegue l'art. 177 cpv. 2 CP, secondo cui il giudice può mandare esente da pena il colpevole se l'ingiuria è stata provocata direttamente dall'ingiuriato con un contegno sconveniente.
a)
Dal giudizio impugnato si desume che durante l'alterco _ ha rimproverato a _, alludendo alla nota eredità, di avere nascosto fr. 200'000.–, e di detenere mobili non tutti suoi. _ ha negato e ha sfidato l'antagonista a dimostrare l'accusa per mezzo del suo avvocato, soggiungendo: “I nostri soldi non devono servire per mantenere le tue amanti”. _ ha reagito, dicendo che alla sorella di lui (cioè del querelante) egli non aveva mai fatto mancare nulla. Al che _ ha replicato: “Qui siamo in Svizzera, non siamo in Italia, non si fa così”. _ ha duplicato allora con la frase incriminata, proprio mentre l'anziana madre di _ si affacciava alla finestra dell'appartamento soprastante, attratta dalle grida dei litiganti.
b)
In concreto risulta, come detto, che in un crescendo di invettive _ ha accusato _ (sposato con sua sorella) di avere relazioni extraconiugali, biasimandolo indirettamente per le sue origini italiane. L'altro ha reagito con la frase ingiuriosa. Ora, l'esenzione di pena dell'art. 177 cpv. 2 CP si applica proprio ai casi in cui l'ingiuriato causa la reazione illecita dell'antagonista con un contegno sconveniente o reprensibile (
Corboz
, Les principales infractions, Berna 1997, pag. 216, n. 34 con rinvii). Contrariamente a quanto reputa il Pretore (sentenza pag. 5, cpv. 2), non occorre che la gravità delle offese si equivalga: basta che la persona lesa abbia tenuto un comportamento riprovevole, il quale ha provocato nell'autore una comprensibile reazione violenta, manifestatasi immediatamente con l'ingiuria (
Corboz
, op. cit.). Nemmeno è necessario che l'autore dell'ingiuria abbia querelato il provocatore (
Trechsel
, op. cit. art. 177 n. 8).
c)
Non fa dubbio che nella fattispecie _ ha provocato sconvenientemente _, dicendogli che il denaro della successione non era destinato a sostentare le sue relazioni clandestine e riconducendo tale contegno adultero alle origini etniche di lui. A tale provocazione è altrettanto manifesto che il cognato ha reagito con l'ingiuria. Ciò non toglie che in sostanza le parti si siano fatte giustizia da sé, sul luogo dell'offesa, e che un'ulteriore sanzione non è di interesse pubblico. Il caso rientra dunque nelle previsioni dell'art. 177 cpv. 2 CP, il che rende superfluo domandarsi se – come asserisce il ricorrente – si ravvisino in concreto i presupposti dell'art. 177 cpv. 3 CP. È vero che il giudice non è obbligato a esentare l'autore da pena, né secondo l'art. 177 cpv. 2 CP né secondo l'art. 177 cpv. 3 CP (DTF 109 IV 43 consid. 4b). Non si vede tuttavia perché nel caso specifico il giudice dovrebbe prescindere da tale facoltà in una disputa di carattere eminentemente privato e personale, ove la persona direttamente ingiuriata (l'anziana madre di _) ha rinunciato a presentare querela. Non che l'imputato benefici di un'assoluzione: egli è semplicemente esentato da pena. Ne segue che il ricorso dev'essere accolto entro tali limiti, con conseguente riforma della sentenza impugnata (art. 296 cpv. 1 CPP).
4.
Gli oneri del presente giudizio seguono la vicendevole soccombenza, nel senso che lo Stato sopporta le spese posteriori all'atto che ha determinato la cassazione (art. 15 CPP). Il ricorrente non ottiene l'assoluzione postulata in via principale, ma si vede mandare esente da pena. Appare equo ch'egli sopporti quindi la metà degli oneri processuali. Per quanto riguarda l'altra metà, trattandosi di processi di azione privata, essa potrebbe essere caricata al querelante (art. 9 cpv. 3 CPP). Nella fattispecie, nondimeno, la querela in sé appariva legittima, di modo che non si giustifica di addebitare spese a costui. L'altra metà degli oneri va posta quindi a carico dello Stato. Quanto ai costi del decreto di accusa e della sentenza impugnata, essi seguono la medesima sorte. Non si attribuiscono ripetibili all'imputato (art. 9 cpv. 6 CPP), il cui grado di vittoria è pari a quello di soccombenza. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bc771532-0a57-5a84-89e1-1a23694bc9b1 | in fatto
a.
In data _, dall’unione tra RE 1 e _, è nato _. Nel corso del mese di marzo 2011 sono iniziati i primi problemi di salute del neonato, che ne hanno provocato vari ricoveri presso l’ospedale _ di _ (in seguito _).
L’ultimo ricovero, d’urgenza, presso l’_ risale al 16.4.2011, data nella quale la dr.ssa med. _ ha riscontrato, mediante una TAC del cranio del bambino un “
allargamento degli spazi liquorali extra ventricolari sia infra che sovra tentoriali, emorragia intracerebrale frontale sin, sottoaracnoidea fronto-parietale sin e sotto durale frontale bilaterale e temporale dx
” (cfr. lettera d’uscita 16.4.2011 presente nella cartella medica - agli atti - di _), con conseguenti “
movimenti tonico-clonici della gamba e del braccio destro nonché una deviazione dello sguardo verso destra
” (verbale di interrogatorio 5.5.2011 di _, p. 7, AI 99, inc. MP _).
Vista la gravissima situazione in cui versava, _ è stato trasportato mediante la Rega al _ di _.
In questa struttura è stato riscontrato un forte sospetto di maltrattamento infantile/trauma da scuotimento (cfr. diagnosi tradotta in italiano dal perito dr. med. _, p. 1, AI 183).
b.
A seguito della segnalazione operata dal nosocomio _, in data 19.4.2011 _ e RE 1 sono stati provvisoriamente arrestati dalla Polizia cantonale di _ per ipotizzati maltrattamenti sul figlio.
Il giorno seguente la Staatsanwaltschaft IV di _ ha chiesto – per competenza territoriale – l’assunzione del procedimento penale al Ministero pubblico del Cantone Ticino, il quale l’ha assunto (cfr. AI 1-3, inc. MP _).
c.
Sempre in data 20.4.2011, il procuratore pubblico Andrea Pagani ha decretato l’apertura dell’istruzione nei confronti di _ e, rispettivamente, RE 1, per i reati di lesioni gravi sub. lesioni colpose gravi nonché abbandono sub. omissione di soccorso “
in relazione alle gravi lesioni subite da _ (_) a _ e in altre imprecisate località nel periodo 14.02.2011 / 16.04.2011
” (cfr. AI 4 e 5).
d.
Nel corso dell’istruttoria, in particolare in sede di verbale di interrogatorio 20.4.2011 RE 1 ha esposto degli episodi, “
frutti di sue disattenzioni, potenzialmente pericolosi per l’integrità fisica di suo figlio
” (decreto di abbandono 26.2.2013, p. 4, ABB _).
Lo stesso ha dichiarato che, dopo circa tre settimane dalla nascita, “
verso metà marzo 2011, _ ha iniziato ad avere qualche problema nel senso che ogni volta che aveva bevuto il latte (...), vomitava. Inoltre talvolta faceva degli scatti. Mi ricordo un episodio: un giorno lo stavo tenendo in braccio e lui ha avuto uno dei suoi scatti e con la sua testa ha cozzato contro un osso della mia spalla, procurandosi un ‘blu’ alla sinistra del suo mento
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 2-3, AI 21).
“
Do prima di tutto atto che _ ha sempre pianto tanto e che io ero esasperato dai suoi pianti. Do anche atto che quando _ piangeva mentre l’avevo in braccio io, perdevo la pazienza e lo ‘passavo’ a mia moglie, (...), io, quando passavo il bambino dalle mie braccia a quelle di mia moglie non ho mai fatto gesti bruschi o di stizza. L’unico scuotimento, ma comunque non forte, che ho fatto a _ (quando lo avevo in braccio), l’ho eseguito quando il bambino aveva circa 1 mese, comunque prima del primo ricovero in ospedale. In quell’occasione _ mi sembrava un po’ tanto addormentato o intontito. Al che l’ho preso con le mie due mani sotto le ascelle e l’ho un po’ scosso, tant’è che si è ripreso. Dopo sono stato sgridato da mia moglie
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 6, AI 21).
Il reclamante ha infine esposto che “
in casa, per farlo smettere di piangere, lo tenevo seduto sulla mia testa. Io camminavo per casa tenendolo con le mie mani al suo corpo. A domanda del PP rispondo che effettivamente quando tenevo _ sulla mia testa e camminavo, non gli tenevo la testa. Ogni tanto roteavo il mio busto per fargli vedere la casa. Io in quei frangenti non vedevo cosa faceva la sua testa. Comunque non ho mai saltellato, non ho mai molleggiato sulle mie gambe, non ho nemmeno mai fatto scatti bruschi
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 6, AI 21).
e.
Dopo aver esperito svariate indagini preliminari, e nel frattempo scarcerato entrambi i coniugi RE 1 in data 11.5.2011 (cfr. AI 111 e 112), con decisione 16.1.2013 il magistrato inquirente ha decretato la chiusura dell’istruzione, prospettando - tra gli altri - a RE 1 l’emanazione di un decreto di abbandono nei suoi confronti, comunicando altresì che eventuali istanze probatorie avrebbero dovuto essere presentate entro il 28.1.2013 ed entro lo stesso termine RE 1 veniva anche invitato a formulare eventuali pretese d’indennizzo e di torto morale, producendo la documentazione a sostegno della richiesta (AI 246).
f.
In data 19/20.2.2013, dopo aver richiesto ed ottenuto una proroga del termine di cui sopra, per il tramite del suo patrocinatore - avv. PR 1 - RE 1 ha presentato al magistrato inquirente una richiesta di indennizzo pari a complessivi CHF 41'178.20, di cui CHF 10'000.-- per torto morale, CHF 13’840.-- per danni economici e CHF 17'338.20 per spese legali (AI 250).
g.
Con decisione 26.2.2013 il procuratore pubblico ha decretato l’abbandono del procedimento nei confronti - tra gli altri - di RE 1, “
per insufficienza di prove in ordine al nesso causale fra ogni singolo comportamento degli imputati (pericoloso per l’integrità fisica del lattante) e le lesioni (cerebrali) subite da _
” (decreto d’abbandono 26.2.2013, p. 8, ABB _).
Al punto 5 del dispositivo della decisione di cui sopra il magistrato inquirente ha poi negato di accordare indennizzi e non ha riconosciuto la riparazione del torto morale a RE 1, considerato come nella fattispecie lo stesso, unitamente alla moglie _, avrebbe “
concorso all’apertura del procedimento penale a loro carico e alla delicata progressione dell’inchiesta, la quale, lo si ribadisce, viene sì abbandonata, ma solo perché l’istruttoria non ha permesso di dimostrare quale/i precisa/e azione/i (e di quale dei due genitori) ha/nno cagionato le gravi lesioni a _
” (decreto d’abbandono 26.2.2013, p. 14, ABB _).
h.
Con gravame 8/11.3.2013 RE 1 ne postula l’accoglimento e di conseguenza l’annullamento del dispositivo no. 5 del decreto di abbandono in questione ed il riconoscimento di un indennizzo complessivo di CHF 41'178.20.
RE 1 critica la conclusione alla quale è giunto il magistrato inquirente, riprendendo i fatti in maniera dettagliata e sostenendo che non si potrebbe “
ragionevolmente escludere che _ abbia riportato le note lesioni durante le sue degenza all’ospedale di _, o in altre occasioni, quando non era con la madre o con il padre
” (reclamo 8/11.3.2013, p. 5).
Ritiene che dopo la sua incarcerazione, unitamente alla moglie - durata più di tre settimane -, il procedimento penale a suo carico “
è durato più di due anni non certo per colpa loro
” (reclamo 8/11.3.2013, p. 5).
Il reclamante afferma poi che l’eventuale colpa a sua carico non comporterebbe l’esclusione di qualsivoglia risarcimento da parte dello Stato, in quanto si tratterebbe in ogni caso di “
atti commessi per lievi negligenze
” (reclamo 8/11.3.2013, p. 5).
RE 1 conclude affermando che “
nella fattispecie in esame sostenere il contrario equivale non soltanto a violare l’art. 340 CPP e gli art. 41 ss. CO, ma pure la presunzione di innocenza. A quest’ultimo proposito è sufficiente leggere le argomentazioni del PP Pagani per rendersi conto che la sua conclusione, nonostante il proscioglimento formale, equivale a ritenere il reclamante comunque colpevole di quanto inizialmente addebitatogli
” (reclamo 8/11.3.2013, p. 5).
Chiede quindi che gli venga riconosciuto un indennizzo, anche ridotto, nel caso in cui si volesse ritenere una certa colpa a suo carico. | in diritto
1.
1.1.
Le parti possono impugnare entro dieci giorni il decreto di abbandono dinanzi alla giurisdizione di reclamo (art. 322 cpv. 2 CPP).
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame – inoltrato l’8/11.3.2013 – contro la decisione 26.2.2013 del procuratore pubblico con cui ha abbandonato il procedimento penale a carico dell’imputato e non ha assegnato alcun indennizzo ex art. 429 CPP (dispositivo no. 5, _), è tempestivo.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1
quale imputato nei cui confronti il procedimento è stato abbandonato ex art. 429 cpv. 1 CPP, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio che ha negato pretese a’ sensi dell’art. 429 CPP.
Il reclamo è – di conseguenza – ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l’art. 429 cpv. 1 CPP, se è pienamente o parzialmente assolto o se il procedimento nei suoi confronti è abbandonato, l’imputato ha diritto a:
a. un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali;
b. un’indennità per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento penale;
c. una riparazione del torto morale per lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali, segnatamente in caso di privazione della libertà.
L’autorità penale esamina d’ufficio le pretese dell’imputato. Può invitare l’imputato a quantificarle e comprovarle (art. 429 cpv. 2 CPP).
L’indennizzo e la riparazione del torto morale possono essere ridotti o rifiutati a determinate condizioni (art. 430 CPP).
2.2.
L’art. 429 CPP
fonda una responsabilità causale dello Stato, indipendente quindi da una colpa delle autorità penali (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 6; ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 6; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, FF 2006 p. 1231), chiamato a rispondere della totalità del danno [spese di patrocinio, danno economico e torto morale (Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 4 ss.)] cagionato all’imputato (cfr., sul concetto di imputato, BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 8; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 2 s.).
Il nocumento deve presentare un nesso causale, ai sensi del diritto della responsabilità civile, con il procedimento penale (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 9; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231) conclusosi con un decreto di abbandono oppure anche di parziale abbandono o, ancora, con un’assoluzione totale oppure soltanto parziale (ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 3; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 1/4; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 3).
Le autorità penali devono pronunciarsi d’ufficio sulle pretese di indennizzo e di riparazione del torto morale, come peraltro stabilisce esplicitamente l’art. 429 cpv. 2 CPP (decisione TF 1B_475/2011 dell’11.1.2012 consid. 2.2.; decisione 1.9.2011 di questa Corte in re F.C., consid. 5.2., inc. CRP _).
3.
Il procedimento penale promosso nei confronti, tra gli altri, di RE 1, imputato ai sensi dell’art. 111 cpv. 1 CPP, è stato abbandonato con decreto 26.2.2013.
Il procuratore pubblico non gli ha accordato alcun indennizzo né riparazione del torto morale (art. 429 CPP) poiché, a suo dire, RE 1 e la moglie _ avrebbero “
concorso all’apertura del procedimento penale a loro carico e alla delicata progressione dell’inchiesta
” (decreto di abbandono 26.2.2013, p. 14, ABB _).
4.
4.1.
Ai sensi dell’art. 430 cpv. 1 CPP l’autorità penale può ridurre o non accordare l’indennizzo o la riparazione del torto morale se: l’imputato ha provocato in modo illecito e colpevole l’apertura del procedimento penale o ne ha ostacolato lo svolgimento (a.); l’accusatore privato è tenuto a indennizzare l’imputato (b.); o le spese dell’imputato sono di esigua entità (c.).
4.2.
Il primo caso (lit. a. dell’art. 430 cpv. 1 CPP), il solo che entri in linea di conto nella fattispecie, permette di ridurre o escludere l’indennità o la riparazione se l’imputato prosciolto ha provocato in modo illecito e colpevole l’apertura del procedimento o ne ha ostacolato lo svolgimento.
Medesimo concetto è formulato all’art. 426 cpv. 2 CPP, che consente di addossare le spese del procedimento, in tutto o in parte, all’imputato assolto o destinatario di un decreto di abbandono.
Siffatto comportamento esclude in generale qualsiasi obbligo di indennizzo o di riparazione del torto morale da parte dello Stato. Se invece la colpa è lieve, può entrare il linea di conto una riduzione dell’indennizzo o della riparazione del torto morale (Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, op. cit., p. 1232; BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 430 CPP n. 9 ss.).
4.3.
Per la nozione di illecito e di colpevole si può far riferimento alle analoghe nozioni utilizzate all’art. 41 CO. Illecito è un agire che viola delle regole di comportamento scritte o non dell’ordinamento giuridico (Commentario CPP – M. MINI, art. 430 CPP n. 2 e riferimenti).
Come ricordato dalla giurisprudenza del TF, i
l
giudice deve riferirsi ai principi generali della responsabilità per atti illeciti, fondare il suo giudizio su fatti incontestati o chiaramente stabiliti e prendere in considerazione ogni norma giuridica, appartenente al diritto federale o cantonale, pubblico o privato, scritto o non scritto, per determinare se il comportamento in questione giustifichi la riduzione dell'indennità (decisione TF 6B_87/2012 del 27.4.2012; 1P.212/2006 del 10.4.2007).
Il
rifiuto o la riduzione dell’indennità sono compatibili con la Costituzione (art. 32 cpv. 1 Cost.) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 6 cifra 2 CEDU) quando l’interessato ha provocato l’apertura del procedimento penale o ne ha complicato lo svolgimento con un comportamento colpevole sotto il profilo del diritto civile, lesivo di una regola giuridica, e che è in rapporto di causalità con l’importo imputatogli (decisione TF 6B_87/2012 del 27.4.2012; 1P.212/2006 del 10.4.2007).
Deve esservi un nesso causale fra la violazione di norme giuridiche, da una parte, e l’apertura dell’indagine o l’intralcio a quest’ultima, dall’altra parte. La condotta in questione deve avere fatto sorgere, secondo il corso ordinario delle cose e l’esperienza della vita, il sospetto di un comportamento punibile tale da giustificare l’apertura di un procedimento penale.
La presunzione d’innocenza, garantita dall’art. 6 cifra 2 CEDU e 10 cpv. 1 CPP, dev’essere rispettata. La riduzione o l’esclusione di indennizzo non deve infatti lasciare intendere che l’imputato prosciolto sia colpevole delle infrazioni che gli sono state addebitate (CR CPP – C. MIZEL / V. RÉTORNAZ, art. 430 CPP n. 4).
4.4.
La riduzione/esclusione dell’indennizzo nel CPP corrisponde alla giurisprudenza sviluppata dall’allora Camera dei ricorsi penali sino al 31.12.2010 con la vigenza del CPP TI.
Prima dell’entrata in vigore del nuovo CPP, avvenuta in data 1.1.2011, era l’art. 319a cpv. 1 CPP-TI che prevedeva che l’indennità poteva essere negata o ridotta nel caso di colpa grave esclusiva o concolpa dell’accusato prosciolto. Questa norma formalizzava la giurisprudenza dell’allora CRP in applicazione dell’art. 44 cpv. 1 CO, che permette al giudice di escludere o ridurre il risarcimento se il danneggiato ha consentito nell’atto dannoso o se le circostanze, per le quali egli è responsabile, hanno contribuito a cagionare od aggravare il danno od a peggiorare altrimenti la posizione dell’obbligato, segnatamente
se l’accusato ha determinato per sua colpa l’apertura dell’inchiesta o la sua incarcerazione oppure ancora ha intralciato lo svolgimento della procedura (
R. HAUSER / E. SCHWERI / K. HARTMANN, Schweizerisches Strafprozessrecht, 6. ed., § 109 n. 10).
Lo scopo era ed è ancora quello di evitare che lo Stato, e di riflesso i contribuenti, debbano sopportare i costi di una procedura penale aperta in seguito al comportamento riprovevole di un accusato (decisioni dell’allora Camera dei ricorsi penali 14.3.2006 in re V.P., inc. 60.2004.395; 13.1.2006 in re E.P., inc. 60.2005.76; 14.3.2006 in re C.G., inc. 60.2003.421; 10.7.2006 in re M.B., inc. 60.2005.344; 28.6.2006 in re A.B., inc. 60.2005.240; 24.7.2006 in re F.F., inc. 60.2005.424).
Il diritto civile non scritto vieta infatti di creare una situazione tale da causare un danno ad altri senza prendere le necessarie precauzioni (DTF 126 III 113): i costi diretti ed indiretti di una procedura penale, compresa l’indennità che deve eventualmente essere rifusa all’accusato prosciolto (ora imputato assolto), costituiscono certamente un danno per la collettività (decisione TF 1P.301/2002 del 22.7.2002).
5.
5.1.
L’inchiesta ha appurato quanto segue.
In data 16.4.2011 _, dopo essere stato portato all’_ in quanto in preda a delle convulsioni, è stato trasferito d’urgenza - tramite la Rega - al _ di _. Le sue condizioni sono subito apparse molto gravi, il piccolo era infatti in pericolo di morte.
Il 19.4.2011 i medici curanti di tale struttura ospedaliera hanno informato la Staatsanwaltschaft di _ circa il fatto che le gravi lesioni riscontrate su _ fossero dovute, con alto grado di verosimiglianza, a ripetute “
Kindmisshandlungen durch Schütteln
”.
Dagli atti trasmessi all’autorità inquirente dall’ospedale di _ (cfr. Gefährdungsmeldung 19.4.2011, in AI 1), nonché dall’Istituto di medicina legale sempre di _ [cfr. Körperliche Untersuchung (Vorbericht) 20.4.2011, AI 7], è risultato quindi che _ avrebbe patito alcune emorragie cerebrali, in diversi momenti temporali, causate con alto grado di verosimiglianza appunto da ripetuti scuotimenti.
Tale segnalazione è avvenuta dopo che i medici hanno escluso una diversa origine delle lesioni subite dal bambino, quali ad esempio malattie “naturali” cagionanti sanguinamenti cerebrali.
Il medico legale _ avrebbe inoltre interpretato una probabile frattura cranica ed una calcificazione del femore del bambino, come causate da urti/colpi (cfr. AI 1 e 7).
Come risulta dal rapporto di polizia 19.4.2011 del Cantone _, le valutazioni mediche espresse nella segnalazione al Ministero pubblico di _ e sottoscritte dalla dr.ssa med. _ (Oberärztin) e dal dr. med. _ (Assistentarzt), sono pure condivise da un altro medico del _, il dr. med. _ (cfr. AI 2, p. 4).
5.2.
È in seguito a questi elementi che, in data 19.4.2011, la Polizia _ ha quindi provveduto all’arresto provvisorio dei genitori di _.
Come riportato nei considerandi in fatto, in data 20.4.2011 il Ministero pubblico del Cantone Ticino ha poi assunto – per competenza – il procedimento penale a carico dei coniugi RE 1.
L’apertura dell’istruzione formale a carico degli stessi è avvenuta mediante decreto 20.4.2011 (AI 4 e 5).
5.3.
Come detto (cfr. considerando d.), in sede di verbale di interrogatorio RE 1
ha
dichiarato che, dopo circa tre settimane dalla nascita, “
verso metà marzo 2011, _ ha iniziato ad avere qualche problema nel senso che ogni volta che aveva bevuto il latte (...), vomitava. Inoltre talvolta faceva degli scatti. Mi ricordo un episodio: un giorno lo stavo tenendo in braccio e lui ha avuto uno dei suoi scatti e con la sua testa ha cozzato contro un osso della mia spalla, procurandosi un ‘blu’ alla sinistra del suo mento
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 2-3, AI 21).
“
Do prima di tutto atto che _ ha sempre pianto tanto e che io ero esasperato dai suoi pianti. Do anche atto che quando _ piangeva mentre l’avevo in braccio io, perdevo la pazienza e lo ‘passavo’ a mia moglie, (...), io, quando passavo il bambino dalle mie braccia a quelle di mia moglie non ho mai fatto gesti bruschi o di stizza. L’unico scuotimento, ma comunque non forte, che ho fatto a _ (quando lo avevo in braccio), l’ho eseguito quando il bambino aveva circa 1 mese, comunque prima del primo ricovero in ospedale. In quell’occasione _ mi sembrava un po’ tanto addormentato o intontito. Al che l’ho preso con le mie due mani sotto le ascelle e l’ho un po’ scosso, tant’è che si è ripreso. Dopo sono stato sgridato da mia moglie
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 6, AI 21).
Il reclamante ha infine esposto che “
in casa, per farlo smettere di piangere, lo tenevo seduto sulla mia testa. Io camminavo per casa tenendolo con le mie mani al suo corpo. A domanda del PP rispondo che effettivamente quando tenevo _ sulla mia testa e camminavo, non gli tenevo la testa. Ogni tanto roteavo il mio busto per fargli vedere la casa. Io in quei frangenti non vedevo cosa faceva la sua testa. Comunque non ho mai saltellato, non ho mai molleggiato sulle mie gambe, non ho nemmeno mai fatto scatti bruschi
” (verbale di interrogatorio 20.4.2011, p. 6, AI 21).
6.
6.1.
Ora, come indicato nel considerando precedente risulta che l’inchiesta penale è stata avviata a seguito della segnalazione del _ di _ ad opera dei medici che avevano in cura il piccolo _, dopo il suo ricovero d’urgenza.
Tale segnalazione è partita in conseguenza dell’esito degli esami medici effettuati sul bambino. Diversi specialisti hanno infatti escluso, in modo concorde, che delle cause naturali avessero provocato le lesioni riscontrate sullo stesso. I medici hanno infatti concluso che _ è stato vittima - con alto grado di verosimiglianza - di maltrattamenti infantili e/o traumi da scuotimento (cfr. traduzione della diagnosi da parte del perito dr. med. _, AI 183).
In sede di verbale di interrogatorio poi, il reclamante ha esposto suoi comportamenti assunti nei confronti del figlio, che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi per l’integrità fisica di _.
In queste circostanze, è certo che i comportamenti di RE 1 (cfr.
verbale di interrogatorio 20.4.2011, AI 21) e/o quelli della moglie abbiano un nesso con l’apertura del procedimento penale di cui all’inc. MP _.
6.2.
Esclusa ogni e qualsivoglia ipotesi di reato, come rettamente ritenuto dal procuratore pubblico nella decisione impugnata, per l’applicazione dell’art. 430 CPP occorre far riferimento ad un comportamento lesivo di una regola giridica.
Ai sensi dell’art. 302 cpv. 1 CCS i
genitori devono educare il figlio secondo la loro condizione, promuovendone e proteggendone lo sviluppo fisico, intellettuale e morale.
In queste circostanze si deve ritenere che RE 1 ha assunto comportamenti contrari in generale al diritto, in particolare contrari agli obblighi imposti dall’art. 302 CCS.
Infatti, i comportamenti - ammessi dal reclamante - sono anzitutto contrari ai doveri essenziali che un genitore ha nei confronti del figlio.
A ragione quindi il magistrato inquirente ha negato la concessione di indennizzi e la riparazione del torto morale ai sensi dell’art. 430 CPP, posto come il reclamante con il suo comportamento abbia violato i propri doveri, e quindi concorso alla realizzazione dei fatti che hanno portato all’apertura del procedimento penale, assumendosi in tal modo la responsabilità dei danni che ne sono derivati.
Nella fattispecie non si può neppure ritenere che la colpa di RE 1 sia lieve, contrariamente a quanto da lui ritenuto nel reclamo in esame, a maggior ragione se si pensa che il reclamante, nella sua qualità di genitore, aveva/ha proprio l’obbligo di tutelare e preoccuparsi della salute del figlio.
Il decreto di abbandono 26.2.2013 del procuratore pubblico è quindi meritevole di tutela.
7.
Il gravame è respinto. Spese e tassa di giustizia sono poste a carico di RE 1, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
bd11967e-7f38-5ec4-9281-2321c85f5a0d | in fatto: A.
Il 7 giugno 2002, alle 17.15 circa, PC 1, in possesso unicamente della licenza di allievo conducente, è sfuggito a un controllo di polizia allo svincolo autostradale di Lugano Nord. Percorso il viadotto sopra l'autostrada a forte velocità, giunto all'incrocio con la strada Bioggio-Manno egli ha svoltato a destra in direzione di Manno, ma a causa della velocità eccessiva ha invaso la preselezione che permette ai conducenti provenienti da Manno di accedere al viadotto, costringendo il motociclista RI 1 a una brusca virata verso destra per evitare di essere investito. Constatato che dal viadotto stava sopraggiungendo un veicolo della polizia con i segnali prioritari accesi e resosi conto che si trattava di un inseguimento, RI 1 ha deciso a sua volta di tallonare il fuggitivo, indicando agli
agenti la via da quegli seguita.
Nel frattempo PC 1 aveva svoltato dietro uno stabile in cui si trovava la vecchia sede dell'UBS a Manno. Stando alla versione di RI 1, costui ha poi abbandonato il veicolo e ha cercato di nascondersi in fondo a una rampa che permette di accedere al sottosuolo dell'edificio. Se non che, vistosi scoperto, era risalito e lo aveva aggredito, torcendogli un pollice e costringendolo a usare la forza per trattenerlo fino all'arrivo della polizia. Secondo PC 1, invece, RI 1 lo ha raggiunto non appena egli era uscito dalla vettura e lo aveva tempestato di pugni al volto senza che lui lo avesse minimamente aggredito.
B.
Co
n decreto di accusa del 24 novembre 2003 il Procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di lesioni semplici per avere colpito PC 1 con pugni al volto e ne ha proposto la condanna a 5 giorni di detenzione sospesi condizionalmente con un periodo di prova di 2 anni. Statuendo su opposizione, con sentenza del 21 aprile 2004 il presidente della Pretura penale ha confermato l'imputazione contenuta nel decreto di accusa, ma ha ridotto la pena a una multa di fr. 100.– poiché l'accusato aveva agito in stato di
legittima difesa, ancorché eccedendo nella reazione.
C.
Contro il predetto giudizio RI 1 ha inoltrato il 22 aprile 2004 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 27 maggio 2004 egli chiede la sua assoluzione o quanto meno, in subordine, l'esenzione da ogni pena, rivendicando almeno fr. 5'000.– di ripetibili da porre a carico dello Stato o di PC 1. Nelle sue osservazioni del 9 giugno 2004 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. PC 1, pure costituitosi parte civile, non ha di contro ritirato l'invio raccomandato contenente il ricorso con l'invito a formulare osservazioni. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
2.
Giusta l'art. 33 cpv. 1 CP ognuno ha il diritto di respingere in modo
adeguato alle circostanze un'aggressione ingiusta o la minaccia ingiusta di un'aggressione fatta a sé o ad altri. Se chi respinge l'aggressione ha ecceduto i limiti della legittima difesa, il giudice attenua la pena secondo il suo libero apprezzamento (art. 66 CP); se l'eccesso della legittima difesa può essere attribuito a scusabile eccitazione o a sbigottimento, l'imputato va esente da pena (art. 33 cpv. 2 CP). La formulazione della norma lascia al giudice un ampio potere d'apprezzamento nel valutare la proporzionalità della difesa. A tal fine entra in linea di conto la gravità dell'attacco o della minaccia, come pure la rilevanza del bene giuridico minacciato e quella del bene giuridico leso con la reazione difensiva (DTF 107 IV 12 consid. 3;
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar, 2
a
edizione, n. 10 ad art. 33 CP; CCRP, sentenza del 17 aprile 1991 in re N., consid. 3).
L'eccesso di legittima difesa è, appunto, una reazione sproporzionata alle circostanze (
Trechsel
, op. cit., 16 ad art. 33 CP). In tal caso il giudice attenua la pena dell'autore secondo libero apprezzamento (art. 66 CP) oppure prescinde da ogni pena (art. 33 cpv. 2 seconda frase CP). L'imputato va esente da pena, però, solo se l'attacco ingiusto ha provocato – almeno preponderatamente – uno stato di eccitazione e di sbigottimento che le circostanze e le modalità dell'attacco fanno apparire scusabile. Non ogni minimo stato di eccitazione e di sbigottimento basta per mandare esente da pena l'autore. Facendo uso del suo potere di apprezzamento che gli compete, il giudice usa un metro di valutazione tanto più severo quando più pericolosa appaia la reazione dell'imputato. Come nel caso dell'art. 113 CP, è necessario esaminare se di fronte a un attacco come quello subìto dall'imputato una persona normalmente intenzionata (
rechtlich gesinnt
) sarebbe caduta nel medesimo stato di eccitazione e di sbigottimento (
Trechsel
, op. cit., n. 17 ad art. 33 CP). Per applicare l'art. 33 cpv. 2 seconda frase CP il giudice deve indicare chiaramente, ad ogni modo, se l'autore fosse o no in preda a eccitazione o sbigottimento e, in caso affermativo, se l'eccitazione o lo sbigottimento fosse scusabile (DTF 115 IV 167 consid. 4c pag. 172).
3.
Di fronte alle versioni contrastanti dell'imputato e della parte lesa, il primo giudice ha ritenuto più attendibile quella di RI 1, ossia che, vedendosi scoperto, PC 1 era risalito la nota rampa di accesso e, nel tentativo di trovare una via di fuga prima dell'arrivo della polizia, aveva aggredito l'imputato che gli ostacolava il passaggio (consid. 10 pag. 6 in fine e 7 in alto). A quel momento l'accusato aveva reagito, ma esagerando. Non si era limitato infatti a respingere l'attacco e a trattenere il fuggitivo, ma aveva colpito quest'ultimo con numerosi pugni e gomitate, tanto da lasciargli tracce importanti e permanenti. Donde la sproporzione della difesa (consid. 11, pag. 7).
4.
Il ricorrente sostiene, in estrema sintesi, che la controparte aveva iniziato l'aggressione colpendolo con pugni, spintoni e gomitate disordinati, sicché non gli era rimasta altra possibilità se non l'uso della stessa forza e degli stessi mezzi allo scopo di neutralizzare l'attacco. Data la concitazione e gli animi surriscaldati, a suo dire il metodo utilizzato per respingere l'aggressione era adeguato all'attacco disperato del fuggiasco e proporzionato alle circostanze. Ora, a parte il fatto che invano si cercherebbe nel ricorso una qualsivoglia censura (anche solo implicita) di arbitrio nell'accertamento dei fatti o nella valutazione delle prove, dalla sentenza impugnata non risulta che la parte civile abbia cominciato l'attacco sferrando pugni, spintoni e gomitate disordinati. Del resto, in aula l'imputato si è limitato a dichiarare che la controparte lo aveva aggredito, torcendogli fra l'altro il pollice (sentenza, consid. 2 pag. 3 in alto), ma non ha preteso che l'intensità dell'aggressione fosse quella asserita nel ricorso.
Certo, il ricorrente si è opposto a un'aggressione, tant'è che gli è stato riconosciuta una situazione di legittima difesa, ma il primo giudice ha accertato altresì che egli non si è limitato a respingere l'attacco e a trattenere l'antagonista, bensì aveva assunto un ruolo attivo, sferrando numerosi pugni e gomitate. Su questa fase della colluttazione il ricorrente non spende una parola, incentrando i suoi argomenti sul momento iniziale, quando si era trovato a respingere l'aggressione. Anzi, egli sovverte persino gli accertamenti del primo giudice allorché pretende che mal si concilia con la dottrina e la giurisprudenza del Tribunale federale relativa all'art. 33 cpv. 1 CP il rimprovero a lui rivolto di avere non solo respinto l'attacco, ma di essere divenuto parte attiva. In realtà, appurato in modo vincolante per questa Corte che l'imputato si era sì difeso, ma aveva poi assunto un ruolo attivo, sferrando una serie di pugni e gomitate, la conclusione che l'interessato abbia ecceduto nella sua difesa con una reazione sproporzionata all'aggressione e al pericolo reale resiste alla critica. Ciò posto, rimane da esaminare, se per quanto riguarda la pena, il primo giudice abbia tratto le giuste conseguenze, in particolare rinunciando a esentare l'imputato da ogni sanzione. Il problema sarà ripreso più avanti (consid. 7).
5.
Le conseguenze subìte dalla parte civile sono ampiamente descritte dal presidente della Pretura penale, il quale ha riprodotto nella sentenza impugnata un certificato rilasciato l'11 luglio 2003 dal dott. _ _ attestante (consid. 3, pag. 4) “dolori cronici articolazioni temporo mandibolari bilaterali, soprattutto a destra con destabilizzazione dell'articolazione di destra; scatti dolorosi in apertura e chiusura e difetto di occlusione delle due arcate dentarie; disturbo cronico di respirazione nasale soprattutto a sinistra su deviazione traumatica del setto; scheggiatura di quattro denti; disturbo conseguente della masticazione; obbligo a seguire dieta di cibi molli, disturbi digestivi funzionali; disturbo conseguente della locuzione, con pronuncia strascicata a bocca semiaperta, inesistente prima del trauma; stati ansiosi recidivanti, nell'ambito di possibile sindrome da stress postraumatico”. In qualità di medico curante dal 1990, il medico ha attestato “che quanto segnalato sopra è apparso esclusivamente dopo l'incidente, e ne è conseguenza diretta”. “A distanza di un anno dal fatto – egli ha continuato – siamo confrontati con un insieme di danni
definitivi, gravi
che influiranno in modo netto sulla qualità di vita dell'interessato”.
6.
A parere del ricorrente le lesioni subite dalla parte civile non sono così gravi come il noto certificato medico di compiacenza sembra lasciar desumere, in contrasto con altri certificati resi da medici e istituti coinvolti. Anche su questo punto l'apprezzamento del primo giudice sfugge tuttavia a censura. Mal si comprende in quale arbitrio sarebbe caduto il presidente della Pretura penale, in effetti, scartando l'eventualità di affezioni preesistenti esposta a mero titolo di ipotesi dal dott. _ _ in un certificato del 4 settembre 2003 e qualificando come incompleto il certificato rilasciato dall'Ospedale Civico di Lugano, che si limitava a riportare l'esito della visita al pronto soccorso (consid. 3, pag. 4, e 9, pag. 6 in alto). Né si vede perché dovrebbe essere arbitrario non condividere l'argomento della difesa circa le conseguenze minime patite dalla parte lesa, il certificato dell'11 luglio 2003 rilasciato dal dott. _ fondandosi sulla diagnosi diretta e sulla conoscenza preventiva del paziente (consid. 9, pag. 5 in fondo e 6 in alto). Quanto alla pretesa compiacenza, genericità e inesattezza di tale certificato, il ricorrente si esaurisce nell'affermare opinioni personali, limitandosi a contrapporre le risultanze di attestati medici più consoni alla propria tesi, ma così facendo non sostanzia alcuna doglianza di arbitrio, nemmeno implicita. Si ricordi che per motivare una censura di arbitrio non basta criticare la sentenza impugnata né contrapporre una propria versione dei fatti, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato (sopra, consid. 1).
7.
Da ultimo il ricorrente ritiene, in via subordinata, che il giudice lo avrebbe dovuto esentare da pena per avere egli agito in stato di sensibile eccitazione e di sbigottimento, dovuti sia alla messa in pericolo per la manovra sconsiderata della controparte in fuga a bordo della vettura che all'attacco subito. Tale questione non è stata separatamente trattata in prima sede, come richiede la giurisprudenza (DTF115 IV 167 consid. 4c, pag. 172), il presidente della Pretura penale essendosi limitato ad analizzare la fattispecie sotto il profilo dell'art. 33 cpv. 2 prima frase CP, senza ulteriori distinzioni. La mancanza rimane però priva di conseguenze. È vero che il ricorrente era sicuramente eccitato a causa del comportamento del fuggitivo, il quale prima lo aveva costretto a una brusca sterzata con la motocicletta per evitare l'investimento e poi lo aveva aggredito per sfuggire agli agenti di polizia. Considerando tuttavia l'insieme delle circostanze accertate, una persona normalmente intenzionata non si sarebbe lasciata trasportare dall'alterazione fino a reagire con tanta violenza. La situazione in cui è venuto a trovarsi il ricorrente era senz'altro sgradevole e irritante, ma non al punto da giustificare una perdita di controllo tale da legittimare le lesioni all'avversario accertate dal primo giudice. Si può capire la rabbia del ricorrente, ma non la totale perdita di senso della misura culminata in atti di violenza qualificati e completamente inutili per trattenere il soggetto fino all'arrivo imminente della polizia. Condannando l'imputato a una multa di fr. 100.– il presidente della Pretura penale non ha pertanto denotato eccesso o abuso del proprio potere di apprezzamento nel valutare le circostanze che entrano in considerazione ai fini dell'art. 33 cpv. 2 CP, sia nella sua prima che nella seconda variante.
Anche al proposito il ricorso è destinato quindi all'insuccesso.
8.
Gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bd398da6-1b2e-5549-8135-c8c1695bef89 | in fatto: A.
Con sentenza 24 novembre 2010, la Corte delle assise criminali ha dichiarato AP 1 autore colpevole di assassinio per avere, il 25 marzo 2010, a _, agendo con particolare mancanza di scrupoli, intenzionalmente ucciso la moglie. Poiché la donna era incinta, uccidendola, AP 1 ha interrotto senza il suo consenso la gravidanza ed è, quindi, stato riconosciuto colpevole anche di interruzione punibile della gravidanza.
In applicazione della pena, la Corte delle assise criminali ha condannato AP 1 alla pena detentiva a vita, da dedursi il carcere preventivo sofferto.
AP 1 è, inoltre, stato condannato a versare l’importo complessivo di fr. 390'058.05 (composto da fr. 47'855.15 quale risarcimento delle spese legali, fr. 17'202.90 quale risarcimento delle spese funerarie, di sepoltura e annessi e fr. 325'000.- quale riparazione del torto morale) alle parti civili che, per ogni eventuale maggior danno, sono state rinviate al competente foro civile.
Nei confronti di AP 1 è, infine, stato ordinato un trattamento ambulatoriale ex art. 63 CP da eseguirsi durante l’espiazione della pena.
B.
I fatti posti alla base del giudizio della Corte delle assise criminali sono, in sintesi, i seguenti.
1.
AP 1, oggi trentatreenne, e A. (di quattro anni maggiore di lui) si conobbero nel 1999 poiché entrambi frequentavano l’associazione denominata “_” che gestisce una banda musicale carnascialesca. La coppia si sposò nel 2002 e, il 3 marzo 2003, A. diede alla luce un figlio, B.. Dopo il parto, la madre lasciò il suo impiego in banca per dedicarsi alla famiglia e alla casa. Il desiderio, inizialmente condiviso da entrambi i coniugi, di avere altri figli venne, purtroppo, sempre deluso, A. avendo subito quattro aborti spontanei (nel settembre 2004, nel gennaio 2005, nell’aprile 2008 e nel marzo 2009; cfr. sentenza impugnata, consid. 1, pag. 8).
AP 1 (che lavorava come fisioterapista all’80% alle dipendenze della _ e, per il rimanente 20%, come indipendente a _) aveva un reddito netto complessivo di circa fr. 6'300.- mensili (che sperava di incrementare grazie ad una formazione in medicina cinese che aveva intrapreso nel 2007). Secondo gli accertamenti della Corte di prime cure, grazie anche all’oculata e parsimoniosa gestione di A., dal profilo finanziario la famiglia viveva bene (tanto più che, nel 2004, il padre di A. aveva donato alla figlia un appezzamento di terreno su cui la giovane coppia ha, poi, costruito la propria casa; cfr. sentenza impugnata, consid. 1, pag. 7-10).
2.
Sia prima che durante il matrimonio, AP 1 ha avuto, all’insaputa della moglie, relazioni con altre donne conosciute tramite internet oppure sue pazienti e/o conoscenti (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 11).
Dopo avere sottolineato come i testi sentiti durante l’istruttoria abbiano unanimemente descritto i coniugi AP 1 come una coppia felice ed affiatata e malgrado A. non si fosse mai lamentata con terzi del marito rispettivamente del suo matrimonio, la prima Corte ha annotato che AP 1 ha sostenuto che, dopo la nascita del figlio B. e con il succedersi degli aborti, il rapporto con la moglie si era via via raffreddato e che, già dal 2006, egli mal sopportava la monotonia della vita matrimoniale impostagli da A., nei cui confronti, i suoi sentimenti erano cambiati (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 11). Al proposito, la prima Corte ha, però, accertato che, prima del gennaio 2010, egli non aveva mai manifestato a terzi tale sua insoddisfazione (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 37).
La prima Corte ha, poi, rilevato che, sempre a dire del condannato, man mano che si susseguivano gli aborti, il suo desiderio di avere altri figli scemava (al punto che, dopo l’ultimo aborto del marzo 2009, egli era “stufo” e non voleva più riprovarci) mentre che tale desiderio diveniva, sempre più pressante, se non ossessivo, per A. tanto che, dal settembre 2009, la donna si sottopose a cure di fertilità (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 11 e consid. 2, pag. 16).
Il desiderio della donna si realizzò nel gennaio dell’anno successivo: il 21 gennaio 2010 la sua ginecologa accertò che A. era incinta, situando il concepimento attorno al 7 gennaio 2010 (con uno scarto di più o meno cinque giorni; cfr. sentenza impugnata, consid. 2, pag. 16).
Dopo esserne venuto a conoscenza, il ricorrente non rivelò a nessuno la gravidanza della moglie. A. parlò di tale suo stato soltanto ad un’amica cui raccomandò di mantenere la cosa segreta poiché il marito non voleva che si sapesse che era incinta (sentenza impugnata, consid. 2, pag. 17 e consid. 5, pag. 38).
3.
Il 4 gennaio 2010, AP 1 ha conosciuto D, giovane medico impiegato presso la _. I due hanno subito simpatizzato e, il 17 gennaio 2010, si sono scambiati il primo bacio. La ragazza sapeva che l’uomo era sposato e che viveva con la moglie ed il figlio, ma - a suo dire - egli le aveva fatto credere che il matrimonio era finito da tempo e che egli, da ormai due anni, non aveva più rapporti sessuali con la moglie. L’uomo sapeva - poiché D. lo aveva chiarito sin da subito - che lei non avrebbe mai accettato di avviare una relazione con lui se avesse saputo che aveva ancora rapporti intimi con la moglie, tanto che i due avevano tra loro concordato che AP 1 sarebbe uscito di casa dopo il Carnevale, ossia verso inizio marzo 2010 (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 41).
Dicendo alla moglie di recarsi ad incontri della “_”, il ricorrente passava quasi tutto il suo tempo libero con l’amante di cui si era pazzamente innamorato e che considerava la donna della sua vita. Con lei ha pure trascorso il fine settimana del 22-23 gennaio 2010 a _, dove sono avvenuti i primi approcci sessuali (non sfociati in un rapporto completo poiché l’uomo ebbe disturbi di erezione, problema che si ripresentò puntualmente anche in seguito; cfr. sentenza impugnata, consid. 6, pag. 41-43).
I due amanti hanno trascorso insieme anche il week-end del 6-7 marzo 2010 a _, dove il ricorrente si trovava con la “_” e dove diversi membri della banda li hanno visti insieme (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 43).
Dopo _, i due hanno iniziato a cercare un appartamento per AP 1. La Corte di prime cure ha, tuttavia, rilevato che, in tale operazione di ricerca, l’uomo si è impegnato meno dell’amante (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 43-44).
I due amanti non si curavano di tenere nascosta la loro relazione ai colleghi di lavoro. In particolare, dopo essersi innamorato di _, l’uomo parlò delle sue difficoltà coniugali e della sua intenzione di separarsi e/o divorziare da A. a diverse persone (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 37 e consid. 6, pag. 42).
Non ne parlò, invece, alla moglie: la prima Corte ha, infatti, accertato diversi elementi - quali l’ordinazione di 20 kg di carne da riporre nel congelatore, il previsto rientro anticipato dalle vacanze per poter stare qualche giorno con il marito prima della sua partenza per la _, il fatto di non aver mai confidato all’amica _ di avere problemi coniugali, l’invito fatto il pomeriggio del 25 marzo 2010, giorno in cui fu uccisa, al suocero e alla cognata per la cena del lunedì di Pasqua - che depongono contro una crisi coniugale conclamata e dimostrano, piuttosto, che A. non aveva affatto sentore di una possibile futura separazione (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 39-40).
4.
Tra il mese di febbraio e l’inizio del mese di marzo del 2010, il ricorrente ha sottratto furtivamente un blister contenente 10 pastiglie da 10 mg cadauna di Stilnox dall’armadietto-farmacia del padre che, da anni, faceva regolarmente uso di tale sonnifero. Stando al ricorrente, tornato a casa, egli ha tolto una ad una le compresse dalla confezione originale (sul cui retro compare il nome del farmaco) e le ha riposte in una scatolina metallica che ha depositato nell’armadietto del bagno al piano superiore. In seguito, egli avrebbe personalmente assunto unicamente due pastiglie (in due diverse circostanze; cfr. sentenza impugnata, consid. 1, pag. 12-13 e consid. 7, pag. 62-63).
5.
Il 25 marzo 2010, nella pausa di mezzogiorno, il ricorrente ha avuto
“un battibecco più duro del solito”
con D. che lo rimproverava di non darsi abbastanza da fare per trovare un appartamento. Egli ha, quindi, promesso a D. che quella sera avrebbe affrontato la moglie per dirle che tra loro era finita.
E ciò malgrado - secondo gli accertamenti della prima Corte - egli non abbia mai seriamente pensato di lasciare la casa di _ (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 45-46).
Verso le 18.00 di quel giorno, il ricorrente ha acquistato presso una drogheria di _una tisana calmante, asseritamente per far fronte ai suoi pretesi problemi di insonnia.
Alle 18.50 egli si è, poi, incontrato con il presidente della “_” in un bar di _per annunciargli che non avrebbe potuto partecipare alla riunione prevista per quella sera, confidandogli, per la prima volta in quell’occasione, di avere problemi con la moglie (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 47).
6.
Nonostante le molteplici versioni fornite dal ricorrente durante l’inchiesta, la Corte delle assise criminali ha accertato che, alle 19.32, poco prima di rincasare, il ricorrente ha inviato a D. un SMS nel quale le confermava che si stava apprestando ad affrontare la moglie (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 47).
Tornato a casa, il ricorrente ha dapprima cenato.
Dopo aver accompagnato B. in camera verso le 20.00, avere giocato con lui per qualche minuto, essersi fatto la doccia (ed avere, probabilmente in quel frangente, alle 20.17, inviato un altro SMS a D. nel quale faceva riferimento ad un problema intestinale che affliggeva la ragazza in quei giorni), egli è sceso in salotto portando con sé un maglioncino grigio.
A. era, nel frattempo, salita al primo piano dell’abitazione per mettere a letto B. (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 48).
Il ricorrente ha sostenuto che, in quel momento, lui disse alla moglie che voleva lasciarla e che ne nacque un’accesa discussione. La prima Corte non ha accertato nulla al riguardo, limitandosi a dichiarare poco plausibile - ma, comunque, irrilevante per il giudizio - tale circostanza (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 67-68).
La prima Corte ha, invece, accertato che, ad un certo punto della serata, il ricorrente ha preparato due tazze della tisana da lui appena acquistata, una per sé e l’altra per la moglie, mettendo nella tazza destinata alla moglie, insieme all’acqua bollente ed alle erbe, le otto pastiglie di Stilnox rimaste nella scatolina metallica (che AP 1 ha riferito di avere, poi, gettato nell’immondizia e, quindi, in un cassonetto; cfr. sentenza impugnata, consid. 7, pag. 63 e 68-69).
Dopo avere bevuto la sua tisana, A. ha accusato un capogiro e si è sdraiata sul divano, al che il ricorrente l’ha raggiunta, si è seduto su una poltroncina vicino al divano e - sempre a suo dire - i due hanno ripreso la discussione che si era interrotta a causa del giramento di testa avvertito dalla moglie (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 52 e 65).
Per ammissione dello stesso ricorrente, in quei momenti, pur respirando normalmente, A. faceva fatica a parlare ed era rallentata. Senza che la moglie abbia avuto una qualsivoglia reazione che lo abbia indotto ad agire (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 66), ad un certo punto, AP 1 è scattato in piedi, si è girato verso di lei, le ha messo il maglioncino grigio sul volto, con la mano sinistra le ha tappato il naso (stringendolo tra il pollice e l’indice) e, con l’altra, le ha tappato la bocca.
Ancora stando al ricorrente, A. ha tentato di liberarsi cercando con le mani di afferrare le braccia del marito che, però, non ha lasciato la presa.
A quel punto la donna, divincolandosi, si è girata, mettendosi in ginocchio davanti al divano, con la faccia verso la seduta dello stesso. Il ricorrente, rimasto dietro di lei, ha continuato a tapparle il naso e la bocca, facendo pressione con il suo corpo contro il corpo della moglie per impedirle di muoversi. Sempre stando al ricorrente, dopo qualche minuto - che a lui
“comunque è sembrato un’eternità” -
A. ha emesso un rantolo e, dopo che lui lasciò la presa, si è accasciata al suolo (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 49- 56).
La Corte delle assise criminali ha, così, accertato che A. - che era all’inizio del quarto mese di gravidanza - è stata uccisa mediante soffocamento, poco dopo avere ingerito almeno 60 milligrammi di Zolpidem, principio attivo contenuto in diversi farmaci, tra cui lo Stilnox (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 21 e 26).
7.
Subito dopo avere ucciso la moglie, AP 1 ha portato davanti alla porta d’entrata della casa la sua vettura VW Passat nel cui baule ha occultato (tirando l’apposita “tendina”) il cadavere, insieme alle scarpe e ad un giaccone di lei ed è, poi, subito rientrato per pulire sommariamente alcune macchie del sangue di A. che avevano sporcato il copridivano e il pavimento.
In seguito, l’uomo si è messo al volante della vettura - lasciando B., che dormiva, solo in casa - e ha guidato sino a Bellinzona (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 70).
Alle 22.50 (mentre era in viaggio: l’antenna attivata era quella del _), AP 1 ha inviato all’amante un SMS in cui diceva di avere lasciato la moglie e di stare facendo un giro per cercare di calmarsi un po’ prima di tornare a casa a prendere le sue cose per l’indomani.
Alle 23.16, allorquando egli ancora si trovava nel Bellinzonese, l’uomo ha ricevuto una telefonata dall’amica con cui ha chiacchierato per 5 minuti e 30 secondi (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 48).
Rincasato, AP 1 ha posteggiato (contrariamente al solito e analogamente a quanto fatto nei due giorni successivi) la vettura con il baule contro il muro (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 70).
8.
Nei giorni successivi all’uccisione di A., il condannato ha propinato a familiari, amici, colleghi e amante la preconfezionata versione secondo cui la moglie si era allontanata - volontariamente e a sua insaputa - dal domicilio coniugale a seguito di una discussione avvenuta tra i coniugi la sera del 25 marzo 2010 durante la quale egli le aveva manifestato la sua intenzione di separarsi da lei .
Inoltre, dal 26 marzo 2010 e fino al suo arresto, AP 1 ha usato il cellulare della moglie per mandare SMS a se stesso nonché ai familiari e alle amiche della defunta moglie (che, ingannati, l’hanno a loro volta interpellata via SMS) allo scopo di far credere che ella, sconvolta, si era allontanata da casa per riflettere in solitudine sulla sua situazione matrimoniale. Per convincere i destinatari che era effettivamente A. a scrivere i messaggi, l’uomo ha avuto cura di inserirvi dei nomignoli che solo A. usava.
Inoltre, egli ha fatto credere che la moglie si era rivolta ad uno psicologo/psichiatra (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 71-91).
9.
Il 26 e il 27 marzo 2010 il cadavere è rimasto nel baule della VW Passat.
In quei giorni, per i suoi spostamenti, AP 1 ha utilizzato la vettura della moglie (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 72-78).
Pressato, però, dalla necessità di liberarsi del corpo, la sera del 27 marzo 2010 l’uomo ha creato il pretesto per potersi allontanare da casa per alcune ore e nottetempo senza destare sospetti (lasciando la sorella di A. a fare da babysitter a B.) facendo credere che la moglie sarebbe tornata a casa quella sera per incontrare la sorella a condizione che lui non fosse stato presente.
La prima Corte ha, quindi, accertato che, verso le 19.00 di quella sera, AP 1 è partito con la VW Passat alla volta dell’Italia, ha attraversato il valico doganale con il cadavere della moglie nel bagagliaio, ha guidato fino alle porte di _ (parlando, pure, di calcio al telefono con uno zio) per poi, verso le 22.30-22.45, tornare nella zona di _. Verosimilmente tra le 22.45 e le 23.22, AP 1 si è fermato in località di _.
Dopo avere posteggiato in una piazzuola della strada che costeggia il lago, ha preso una sega che già aveva nel baule e con essa ha tagliato il collo della moglie a partire dalla parte anteriore. Ha, poi, desistito dal suo macabro proposito poiché non è riuscito, nonostante gli sforzi, a tagliare il rachide e si è liberato del cadavere della moglie gettandolo nel lago dove ha gettato anche le scarpe ed il giaccone della donna.
Dopo aver fatto credere - con un messaggio inviato dal cellulare di A. a quello della di lei sorella - che la moglie non aveva avuto la forza di tornare a casa, il ricorrente ha fatto rientro al suo domicilio dove si è accorto di una macchia di sangue sul paraurti della sua vettura, che ha subito pulito, prima di portare l’auto a lavare il giorno dopo.
Nei giorni successivi egli ha gettato la sega nei boschi di _ (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 78-83).
10.
Su insistenza dell’amante, il 31 marzo 2010 il ricorrente si è rivolto all’avv. DI 1 cui ha chiesto ragguagli sulle condizioni per la separazione o il divorzio (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 89-90).
11.
Il 1. aprile 2010, saputo della relazione extraconiugale intrattenuta dal cognato, il fratello di A. ha cominciato a nutrire dei sospetti di cui fece via via parte anche gli altri familiari (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 92-97). Confrontato con la concreta prospettiva che la famiglia C. si rivolgesse alla polizia, ancora il 1. aprile 2010, AP 1 ha contattato, privatamente, l’amica E., ispettrice della polizia cantonale, alla quale - dopo aver raccontato la versione preconfezionata dell’accaduto ed essersi lamentato dei sospetti nutriti dalla famiglia della moglie nei suoi confronti - ha chiesto consiglio su come procedere, stante che una parte della famiglia voleva sporgere denuncia mentre lui e la sorella di A. preferivano aspettare.
All’amica, AP 1 ha, pure, chiesto se e come la polizia potesse localizzare l’utenza telefonica della moglie e le ha, altresì, chiesto di incontrare i suoceri e la cognata, ciò che ella ha fatto, consigliando loro di denunciare la scomparsa di A. alla polizia.
L’ispettrice ha, peraltro, chiesto al ricorrente il numero di cellulare della moglie per poter provare a mettersi in contatto con lei, ciò che ha fatto, ricevendo dall’utenza di A. una risposta mediante un SMS digitato dal ricorrente stesso (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 94-99).
Quella sera AP 1 ha spento il cellulare di A., riaccendendolo il giorno dopo per inviare - sempre spacciandosi per la defunta moglie - messaggi ai familiari di lei per farli desistere dal sollecitare l’intervento della polizia (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 99-100).
Quindi, nel pomeriggio, sulla strada del ritorno da _, per timore che la polizia potesse localizzarlo, egli ha spezzato il telefonino della moglie e, dopo essersi sbarazzato della carta SIM in un tombino di _, lo ha buttato in zona _.
Nei giorni precedenti egli si era già disfatto, nei pressi del centro commerciale di _, del borsello e di due carte di credito della moglie che aveva fatto sparire da casa per rendere più plausibile la tesi dell’allontanamento volontario (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 101).
12.
Il 2 aprile 2010 dalle acque del lago di _ (all’altezza del comune di _) è stato ripescato il corpo di una donna che presentava un profondo taglio alla gola.
La salma è stata trasportata all’Ospedale _ (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 18-19).
13.
Il 3 aprile 2010, la madre di A., accompagnata da due dei suoi figli, si è recata al posto di polizia di _per formalizzare la denuncia di scomparsa della figlia, indicando quale presunto motivo della scomparsa un diverbio avuto con il marito in relazione all’annuncio di una possibile separazione e precisando che la figlia, in cura da uno psicologo, soffriva di turbe psichiche (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 17).
Al momento della stesura della denuncia, AP 1 non era presente ma - su invito della polizia - ha raggiunto più tardi il posto di _e ha informato gli agenti che A. aveva preso con sé il suo borsellino nonché la seconda chiave della VW Passat (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 18).
14.
Un ispettore della polizia cantonale, che sapeva sia della denuncia di scomparsa di A. che del ritrovamento del corpo di una donna nel _, ha avuto l’intuizione di collegare i due eventi e, già la sera del 3 aprile 2010, ha accompagnato a _per un tentativo di identificazione PC 6, fratello di A., che tuttavia non è stato in grado di riconoscere con certezza la sorella (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 20).
L’identificazione della salma è avvenuta il 4 aprile 2010 (domenica di Pasqua), ed è stata possibile grazie al confronto dell’arcata dentaria della donna rinvenuta nel lago con quella di A..
Le autorità italiane hanno, quindi, autorizzato la consegna della salma agli inquirenti svizzeri che hanno, poi, ordinato l’esecuzione di un’autopsia (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 20).
15.
Interrogato quello stesso giorno, AP 1 ha ammesso, non senza reticenze, di avere ucciso la moglie e, al termine dell’interrogatorio, è stato tratto in arresto.
Per ordine dello psichiatra del penitenziario, egli ha trascorso 23 giorni in cella di isolamento (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 30-36).
C.
AP 1 ha presentato, il 25 novembre 2010, dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale contro la sentenza della Corte delle assise criminali.
Nei motivi del gravame, presentati il 13 gennaio 2011, AP 1 contesta la commisurazione della pena inflittagli - che ritiene eccessivamente severa e lesiva del principio della parità di trattamento - e ne postula la riduzione a 16 anni.
D.
Con osservazioni 9 febbraio 2011, il procuratore pubblico ha chiesto, in via principale, che il ricorso venga dichiarato irricevibile e, in via subordinata, che esso venga respinto.
Le parti civili non hanno formulato osservazioni. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP TI - applicabile in forza dell’art. 453 CPP (fed) - il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (lett. a e b), nella misura in cui l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP TI) e ritenuto che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2.
Nel gravame, AP 1 non contesta la sua condanna per assassinio e interruzione punibile della gravidanza - non contesta, quindi, di avere ucciso intenzionalmente e senza scrupoli la moglie A. e, di conseguenza, il figlio che ella portava in grembo - ma si limita a censurare la commisurazione della pena operata dai primi giudici.
In relazione ad essa, il ricorrente censura, anzitutto, di arbitrio gli accertamenti relativi all’esistenza di un “
disegno articolato e lucido ... di un piano criminale studiato in precedenza”
(ricorso, pag. 6).
2.1.
I primi giudici hanno accertato che AP 1 ha soffocato la moglie a causa di una “
generale sua insofferenza e malsopportazione del matrimonio con A., che lo costringeva a condurre «una vita che per lui non era più vita», tanto più intollerabile per lui da quando aveva incontrato D., la «donna della sua vita»
”, ritenuto che la moglie e il nascituro erano diventati per lui “
l’ostacolo da eliminare
” per poter vivere “
liberamente e senza intralci
” la nuova relazione (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 57 e 66).
Ciò detto, dopo avere escluso che l’uccisione di A. sia stata il frutto della rabbia di un momento - così come dichiarato da AP 1 in alcuni verbali - cioè sia stata frutto improvviso della rabbia provocata da due frasi minacciose (
“se te ne vai adesso, non vedrai più B.”
e
“se trovo quella troia, l’ammazzo”
) a lei attribuite
(sentenza impugnata, consid. 6, pag. 50 e consid. 7, pag. 66), la prima Corte ha accertato che l’omicidio è stato il frutto di “
un articolato, perverso, disegno
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 68).
a.
Con particolare riferimento alla premeditazione dell’atto, la Corte delle assise criminali ha rilevato come, nella vicenda, si possa individuare un
“filo rosso”
che collega l’insofferenza del ricorrente per la vita matrimoniale (acuitasi sensibilmente a partire da gennaio 2010 a causa del suo innamoramento per D. e della gravidanza della moglie) con la furtiva sottrazione al padre delle pastiglie di Stilnox, con la poca o nulla convinzione dimostrata nella ricerca di un appartamento per sé (causa del battibecco avuto con l’amante sul mezzogiorno del 25 marzo 2010, risoltosi con la promessa di AP 1 che quella sera avrebbe chiuso con la moglie), con la circostanza che la gravidanza di A. procedeva per il meglio per cui ben presto il
“segreto”
sarebbe stato svelato a parenti ed amici.
E quel “
filo rosso che concatena fra loro tutti questi fatti
” - hanno continuato i primi giudici - “
si ricollega, innegabilmente, al singolare acquisto, proprio quella sera, di un pacchetto di tisana calmante che sarebbe pura mistificazione ricondurre, nelle descritte circostanze, ad una semplice coincidenza
”. In realtà - hanno spiegato - dato che il piccolo B. dormiva al piano di sopra con la porta aperta, AP 1 doveva superare le difese della moglie e coglierla inerme al fine di soffocarla senza urla e rumori, ragion per cui egli ha “
drogato
” la tisana e, non appena ha visto A. stordita ed incapace di difendersi, l’ha soffocata (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 66-67).
a.1.
Più nel dettaglio, la Corte di prime cure non ha creduto alla dichiarazione di AP 1 secondo cui lui aveva sottratto lo Stilnox al padre (consumatore abituale di tale medicamento) per curare la sua insonnia.
Non gli ha creduto per una serie di motivi.
Dapprima, perché AP 1 non ha fatto parola con nessuno di soffrire di tale problema: in particolare, non se ne era lamentato né con l’amante (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 12-13), né con il padre, né con il medico curante (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 62).
Poi, per le modalità furtive adottate per entrare in possesso del medicamento: al proposito, i primi giudici hanno ritenuto inverosimile la versione di AP 1 secondo cui egli non aveva detto al padre di necessitare dello Stilnox per non farlo preoccupare, ritenuto come questi fosse un consumatore abituale di tale sonnifero che assumeva da anni senza patirne danno (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 63).
Infine, perché era stato accertato che l’uomo (così come A.) preferiva far capo alla medicina alternativa anziché a quella tradizionale tanto che egli da alcuni anni controllava con l’agopuntura - che praticava lui stesso - eventuali suoi problemi di salute (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 12).
Sulla scorta di queste considerazioni, la prima Corte ha concluso di non potere “
dare torto alla pubblica accusa quando afferma che AP 1 sottrasse a suo padre il blister da 10 Stilnox di mg 10 cadauna avendo già in qualche modo in mente di farne l’uso che poi effettivamente fece
” (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 13).
a.2.
Riguardo alle pastiglie di Stilnox, la Corte di prime cure ha, poi, accertato che il ricorrente le ha tolte dalla confezione originale - sul retro della quale figura il nome del farmaco - e le ha messe in una scatolina di metallo (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 13 rispettivamente consid. 7, pag. 62-63).
Pur se con qualche nota dubitativa, i primi giudici hanno accertato (nonostante il categorico diniego del ricorrente) che AP 1 aveva polverizzato le otto compresse rimaste (dopo che lui stesso ne aveva assunte due in due diverse occasioni) per facilitarne la dissoluzione nell’acqua bollente (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 69). Infatti - hanno spiegato - la diversa versione di AP 1 (che ha preteso di avere messo nella bevanda le pastiglie intere) contrasta con i riscontri tecnici secondo cui il tempo di dissoluzione di un quantitativo compreso tra cinque e dieci pastiglie di Stilnox nella tisana è di 12-13 minuti, la bevanda apparendo, poi, come una soluzione molto torbida nella quale restano visibili le pellicole di rivestimento delle compresse (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 29). E’ inverosimile - hanno spiegato i primi giudici - che in una situazione di conflitto coniugale, con una discussione in corso a seguito dell’annuncio del marito di voler divorziare, la moglie abbia pazientemente atteso, seduta in salotto, che l’uomo impiegasse più di 10 minuti per sciogliere le compresse e togliere, poi, le pellicole di rivestimento (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 69).
a.3.
Continuando nel lavoro di ricostruzione dei fatti, i primi giudici hanno accertato che è stato soltanto dopo essersi innamorato di D. che AP 1 ha iniziato a parlare delle sue asserite difficoltà coniugali e della sua intenzione di lasciare la moglie a diverse persone, in particolare alla collega di lavoro _, al cognato _nonché agli amici _ (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 37).
Essi hanno, pure, rilevato che il ricorrente aveva fatto credere all’amante che il suo matrimonio era finito da tempo e che da due anni egli non aveva più rapporti sessuali con la moglie, sottacendole - quando ne fu informato - la gravidanza della moglie poiché sapeva che, se ne fosse venuta a conoscenza, l’amante lo avrebbe subito lasciato (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 41).
I primi giudici hanno, poi, accertato che AP 1 disse all’amante che avrebbe lasciato la moglie e sarebbe uscito di casa dopo il Carnevale (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 41) ma che nelle ricerche di una nuova abitazione egli fu molto meno sollecito dell’amante che ne ebbe a male tanto che, il 25 marzo 2010, fra i due vi fu, a tale proposito, una lite che terminò con la promessa dell’uomo di affrontare la sera stessa la moglie per comunicarle la sua intenzione di separarsi (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 43-46).
A questo proposito, i primi giudici hanno, ancora, accertato che “
tra le 12.00 e le 19.00 di quel giorno, l’esigenza di D. affinché egli lasciasse finalmente la moglie e la casa di _, è stata al centro delle loro conversazioni
” (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 47).
a.4.
La Corte delle assise criminali ha, poi, accertato che, verso le 18.00 di quel 25 marzo 2010, AP 1 -
“meditando l’inganno”
- ha acquistato una tisana calmante (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 47; consid. 7, pag. 68 e consid. 10, pag. 110).
a.5.
Infine, la prima Corte ha accertato che AP 1 aveva convinto la moglie a non rivelare a nessuno la sua gravidanza - asseritamente per non alimentare false speranze nel caso in cui si fosse verificato un nuovo aborto (sentenza impugnata, consid. 2, pag. 17) - ma, in realtà, ben sapendo che, se si fosse saputo che era incinta, nessuno avrebbe creduto ad una sua partenza volontaria (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 112).
b.
Sulla scorta di queste circostanze - analizzate anche alla luce delle diverse versioni fornite da AP 1 - la Corte delle assise criminali ha concluso che la volontà del ricorrente
“è stata, sin dall’inizio, quella di eliminare la moglie e il nascituro”
(sentenza impugnata, consid. 7, pag. pag. 57-59 e 64-65) poiché
“più o meno in febbraio, o all’inizio di marzo, tra i pensieri di AP 1 si è insinuato anche quello secondo cui l’eliminazione fisica di A. incinta poteva essere «la soluzione» ai suoi problemi, la più, per lui, conveniente via d’uscita”
(sentenza impugnata, consid. 7, pag. 67).
La Corte di prime cure ha precisato che il pensiero “
era verosimilmente ancora solo tale quando sottrasse al padre lo Stilnox, ma che di sicuro aveva ormai preso forma e consistenza quando, dopo il battibecco con D. e la promessa fattale di chiudere quella sera il suo rapporto con la moglie, comprò la tisana
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 67).
Per i primi giudici, “
quella sera, l’accusato è rincasato pronto a mettere in atto quel pensiero che ormai da tempo gli ruotava in testa, inteso ad eliminare la moglie incinta che, per tutta una serie di motivi (personali, di relazione con B., famigliari ed economici) era diventata un ostacolo, un intralcio alla sua libertà e alla sua nuova vita con D.
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 68).
L’eliminazione della moglie incinta è stata portata a termine sulla base di un piano - ha ancora precisato la prima Corte - che
“prevedeva di rendere (come ha effettivamente reso) A. incapace di difendersi e, quindi, di soffocarla in silenzio. Di farla poi “scomparire” e anche di rendere plausibile l’ipotesi che fosse stata lei ad allontanarsi da casa volontariamente, per cui, in preda allo sconforto, non sarebbe più tornata e si sarebbe «suicidata»”
(sentenza impugnata, consid. 7, pag. 68).
Per la prima Corte, dunque, AP 1
“ha saputo ideare e dare attuazione ad un disegno articolato e complesso”
tendente ad uccidere la moglie incinta e a mettere in scena - avvalendosi del cellulare di lei e di altri espedienti - il suo volontario allontanamento da casa per rendere plausibile quello che egli aveva previsto quale esito della sua sceneggiata, ovvero il “suicidio” della moglie (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 70 e consid. 10, pag. 112-113).
2.2.
Nel suo ricorso, il condannato nega l’esistenza di un
“disegno articolato e lucido”
studiato in precedenza. Avesse premeditato il suo gesto - argomenta - egli non si sarebbe ritrovato a vagare, dopo i fatti, con la propria vettura per almeno due ore senza sapere cosa fare, non avrebbe tenuto per due giorni il corpo della defunta moglie nel baule della propria auto, non avrebbe vagato per un sera intera sulle strade del nord Italia con il cadavere della vittima occultato nel baule della sua vettura e non avrebbe lasciato incompiuto il tentativo di fare a pezzi il cadavere (ricorso, pag. 6).
Il ricorrente contesta che vi siano elementi a sostegno di una fredda premeditazione, evidenziando la situazione emotivamente coinvolgente che il perito psichiatrico ha riscontrato al momento dei fatti e riconducendola alle persistenti problematiche coniugali, alle sempre più insistenti pressioni dell’amante per fargli abbandonare la famiglia, alla sicuramente pressante discussione avuta con la moglie la sera del 25 marzo 2010 e all’incapacità di avere rapporti sessuali completi con l’amante (ricorso, pag. 6).
Dopo avere ucciso la moglie - precisa - egli si è trovato a dovere affrontare, peraltro in preda alla forte emozione evidenziata dal perito, le conseguenze del suo gesto e
“nel vano tentativo di farla franca”
ha fatto quel che ha fatto senza, però, che vi fosse nulla di prestabilito. In realtà - precisa - la situazione “
gli è sfuggita di mano ed ha trasformato una persona normale in un assassino
”(ricorso, pag. 6).
2.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 6P.218/2006 del 30 marzo 2007 consid. 3.4.1) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati da errore qualificato (DTF 133 I 149 consid. 3.1 con rinvii). È, infatti, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, destituita di fondamento serio e oggettivo, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta, contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia (DTF 135 V 2 consid. 1.3; 133 I 149 consid. 3.1; 132 I 13 consid. 5.1; 131 I 217 consid. 2.1; 129 I 173 consid. 3.1 con richiami) o si basa unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b; 112 Ia consid. 3).
In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisone presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1).
Secondo la giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 135 V 2 consid. 1.3; 133 I 149 consid. 3.1, 132 I 13 consid. 5.1, 131 I 217 consid. 2.1, 129 I 8 consid. 2.1, 173 consid. 3.1).
2.4.
La censura è irricevibile.
Dapprima, essa è irricevibile nella misura in cui contesta l’accertamento dell’esistenza di un piano “
lucido
”: la prima Corte ha accertato l’esistenza di un piano “
articolato
”, “
perverso
” e “
complesso
”. Ciò che è ancora diverso da un “
piano lucido
” nella misura in cui con tale espressione si intende - come sembra fare il ricorrente - un piano che si riveli, poi, privo di errori.
Ma, in ogni, caso, la censura è irricevibile poiché il ricorrente si limita a proporre una propria lettura degli eventi senza confrontarsi con gli argomenti che hanno indotto i primi giudici a ritenere che egli ha agito sulla scorta di un piano che, dopo la sottrazione dello Stilnox, è andato delineandosi fino a prendere la sua forma definitiva in quel 25 marzo 2010 e al quale egli ha dato attuazione la sera stessa di quel 25 marzo e a cui ha continuato,
“imperterrito, a dare attuazione
” fino al 4 aprile successivo (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 68).
Proponendo, su un binario parallelo a quello seguito dalla prima Corte, una sua interpretazione dei fatti, il ricorrente non tenta nemmeno di spiegare perché l’accertamento relativo all’esistenza di un piano omicida cui egli ha dato attuazione sarebbe viziato da arbitrio.
Il ricorrente non ottempera, certo, questo obbligo di motivazione proponendo la tesi secondo cui l’assenza di un piano preventivamente studiato risulta evidente dal fatto che, dopo l’omicidio, egli ha conservato per ben due giorni il cadavere della moglie nel bagagliaio, ha vagato fra il Ticino e l’Italia prima di decidersi a gettarlo nel _e nemmeno è riuscito nell’intento di farlo a pezzi.
Perché il suo ricorso raggiungesse la soglia della ricevibilità, egli avrebbe dovuto almeno tentare di spiegare perché sarebbero arbitrari gli accertamenti sulla passione maturata per la giovane dottoressa, sulle condizioni poste da quest’ultima per l’avvio di una relazione, sul suo desiderio di vivere indisturbato la nuova relazione, sull’improvvisa ed estemporanea sua rivelazione a terzi di (in realtà, inesistenti) dissapori con la moglie, sulla sottrazione furtiva delle pastiglie di Stilnox, sulle richieste sempre più pressanti dell’amante affinché lui lasciasse la famiglia, sulla sua mancata partecipazione alle ricerche di un nuovo appartamento intraprese dall’amante, sul litigio e sulla promessa fatta all’amante il 25 marzo 2010 e, infine, sull’acquisto inopinato di una tisana calmante.
Oppure, avrebbe dovuto almeno tentare di dimostrare perché sarebbe arbitraria la conclusione che la prima Corte ha tratto da questi accertamenti, e meglio perché sarebbe arbitraria la conclusione secondo cui l’uccisione della moglie era stata da lui meditata in un piano, nato come solo pensiero fra tanti nelle prime settimane della nuova relazione e i cui contorni si sono progressivamente delineati nelle settimane e nei giorni precedenti il fatto.
Con gli accertamenti e le considerazioni della prima Corte, invece, il ricorrente non si confronta e, perciò, su questo punto il suo ricorso non può che essere dichiarato irricevibile.
A titolo abbondanziale, si rileva che, quand’anche questa Corte volesse superare la questione della ricevibilità per entrare nel merito, la censura andrebbe, comunque, respinta. Con le argomentazioni proposte, infatti, il ricorrente potrebbe, tutt’al più, dimostrare l’approssimazione, nel piano omicida, della definizione del luogo in cui far sparire il cadavere o la difficoltà di esecuzione di tale piano laddove esso prevedeva il depezzamento del cadavere ma non dimostrerebbe, certo, l’assenza di un piano preventivo così come accertato dalla prima Corte. Cioè non dimostrerebbe l’assenza di un piano che - secondo gli accertamenti della prima Corte - è nato con la sottrazione dello Stilnox ed ha conservato forma di pensiero sino a quando, pressato dalle richieste dell’amante, egli ne ha precisato il contenuto in una forma cui non può essere negato carattere articolato visto che prevedeva, non solo l’uccisione, ma anche la messa in atto di una sceneggiata ad essa successiva e che doveva svolgersi in più atti.
3.
Continuando nel suo esposto, ancora con riferimento alla commisurazione della pena, il ricorrente contesta, siccome arbitrari, gli accertamenti relativi alla collaborazione da lui fornita agli inquirenti (ricorso, pag. 8).
3.1.
Pur dando atto che AP 1 è giunto al dibattimento sostanzialmente reo confesso sui fatti imputatigli, i primi giudici hanno evidenziato che
“di certo non si è trattato di una confessione spontanea né immediata”
ritenuto come egli abbia confessato
“un po’ alla volta”
, aspettando di essere confrontato con gli accertamenti medici e peritali per ammettere di avere saputo che A. era incinta e per ammettere di averle somministrato una massiccia dose di sonnifero prima di ucciderla. Accertato, poi, come le amnesie con cui egli giustificava le sue reticenze fossero un semplice
“espediente tattico”,
la prima Corte ha concluso che AP 1 ha confessato
“decisamente a rimorchio degli inquirenti”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 114).
3.1.1.
La prima Corte è giunta alla convinzione che le pretese lacune con cui AP 1 voleva giustificare le sue tardive ammissioni erano un semplice espediente tattico sulla scorta di una serie di valutazioni.
a.
Dapprima, la Corte delle assise criminali ha preso atto che il perito non ha potuto fornire, al riguardo, alcuna certezza: sulla questione, in effetti, lo psichiatra ha potuto soltanto fare considerazioni di natura ipotetica senza poter affermare né che AP 1 abbia davvero sofferto delle asserite lacune mnestiche (non potendo, neppure, al riguardo, ipotizzare un altrettanto ipotetico inizio) né che l’uomo abbia finto di averne sofferto rilevato come “
la differenziazione più difficile è quella riguardante la simulazione consapevole dell’amnesia”
, simulazione che
“è in genere associata”
, fra le altre cose, con “
possibili sentenze di morte o di carcerazione”
(sentenza impugnata, consid. 2, pag. 27-29).
b.
Ciò rilevato, i primi giudici hanno proceduto all’analisi delle diverse dichiarazioni rese da AP 1 nel corso dell’inchiesta per concludere che da esse emerge con chiarezza che le amnesie lamentate sono soltanto un espediente difensivo. Più che di ricordi riaffioranti da reconditi recessi - hanno spiegato i primi giudici - le dichiarazioni via via rese hanno natura di mere modifiche fatte per adeguare, con circospezione e prudenza, la propria versione alle risultanze dell’inchiesta ritenuto come nelle diverse versioni rese (e poi modificate) AP 1 abbia saputo dare (mentendo) anche dei particolari, ciò che contrasta con evidenza con la tesi dell’amnesia.
Emblematico, in tal senso, è stato considerato il - menzognero - racconto articolato, sfumato e preciso (fornito nelle prime lunghe venti pagine del primo verbale da lui reso alla polizia) del volontario allontanamento da casa della moglie dopo che lui le comunicò la sua decisione di separarsi ed emblematico è stato considerato il fatto che fu soltanto dopo che gli inquirenti gli comunicarono l’avvenuta identificazione del cadavere della moglie che egli cominciò ad accusare le pretese amnesie e lamentare stati confusionali.
Parimenti emblematico e rivelatore della vera natura delle amnesie lamentate è, poi, stato considerato il fatto che esse si manifestarono sempre per giustificare silenzi o menzogne su questioni indicative dell’atrocità di quanto commesso quando queste - come la gravidanza della moglie, l’utilizzo dei sonniferi, ecc. - venivano portate alla luce del sole dal lavoro degli inquirenti (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 30-36 e consid. 7, pag. 48-69).
In particolare, i primi giudici hanno considerato che la versione secondo cui AP 1 bevve parte della tisana servita alla moglie - resa in un momento in cui solo lui sapeva di avere avvelenato la bevanda e in cui, comunque, già lamentava di faticare a ritrovare i ricordi - è stata proposta al solo scopo di distogliere l’attenzione degli inquirenti: il carattere utilitaristico della dichiarazione prova - hanno spiegato i primi giudici - che essa non era riconducibile né ad un
“falso ricordo”
né ad una confusione ma che era, unicamente, un
“segno di scaltrezza”
(sentenza impugnata, consid. 7, pag. 69). Del resto, in parole povere, un’amnesia ti fa dimenticare quello o parte di quel che è accaduto ma non ti fa ricordare cose non accadute.
Altrettanto emblematiche della natura delle lamentate amnesie sono, poi - hanno precisato i primi giudici - le diverse e contrastanti versioni proposte via via da AP 1 sul movente e sul momento dell’uccisione della moglie (sentenza impugnata, consid. 7. pag. 48-54, 57-59 e 64-66).
Altrettanto indicatrici di un atteggiamento strumentale e non di una patologia passeggera sono, poi, state considerate le modalità in cui alcune nuove versioni sono state rese: in particolare, rivelatrici sono state considerate la circospezione e la prudenza con cui AP 1 ha, ad inchiesta ormai avanzata, prima annunciato di avere “
importanti dichiarazioni da fare
” e, poi, ammesso di avere somministrato lo Stilnox alla moglie prima di ucciderla. “
Tanta circospezione (prima i dinieghi, poi il «memoriale», poi il colloquio con il Difensore, infine il verbale)
”
-
hanno precisato i primi giudici - “
la dice lunga sulla pretestuosità «dell’amnesia» addotta da AP 1
”
(sentenza impugnata, consid. 7, pag. 59-62 e 64-66).
Infine, sono state ritenute altrettanto rivelatrici di un atteggiamento menzognero ben diverso dalle lacune mnemoniche e dalla confusione tipica di chi è in preda ad una patologia le diverse versioni sulle modalità di preparazione della tisana rese da AP 1. Questi, infatti, non ha, in un primo tempo, detto di non ricordare il dettaglio ma ha sostenuto - come un fatto certo - che il sonnifero si era sciolto
“in poco tempo, un paio di minuti”
per poi, al dibattimento, adeguare la sua versione alle risultanze degli esami tecnici, modificando le proprie dichiarazioni e affermando, per la prima volta, di avere visto le
“pellicole bianche”
venire a galla e di averle tolte, insieme alle erbe, con un cucchiaino prima di servire la tisana a A. (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 63 e 69).
c.
La Corte delle assise criminali ha, quindi, esaminato il comportamento di AP 1 dopo l’uccisione di A. per giungere alla conclusione che questi non è credibile quando afferma di avere vissuto in quei giorni in una
“realtà parallela”
.
Al riguardo, la prima Corte ha ritenuto coerente con il piano e lucido il comportamento tenuto dopo i fatti da AP 1 che ha subito nascosto il cadavere della moglie - insieme a delle scarpe e ad un giaccone - nel baule della propria vettura, ha pulito il copridivano ed il pavimento dalle macchie di sangue, ha guidato fin quasi a _verosimilmente per sbarazzarsi della salma e, al rientro, ha avuto cura di posteggiare - diversamente dal solito ma come ha, poi, fatto anche nei due giorni successivi - l’auto con il baule contro il muro,
“ben consapevole che dentro v’era il cadavere di A. e che occorreva impedire a chicchessia di vedere/guardare dentro il baule!”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 70).
La prima Corte ha, poi, messo l’accento sulla sceneggiata successivamente messa in atto dal ricorrente per far credere a tutti - parenti, colleghi e amici - che la moglie se ne era andata di sua spontanea volontà a seguito dell’accesa discussione avuta con lui in merito alla sua intenzione di lasciarla. I primi giudici hanno, in particolare, osservato come, il giorno dopo i fatti, al risveglio, quando ha inviato un SMS al suo superiore per giustificare la sua assenza dal lavoro (per asseriti disturbi gastrointestinali), il ricorrente fosse perfettamente consapevole di non potersi recare al lavoro, ritenuto che aveva ucciso la moglie ed aveva
“ben altro da fare”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 70). Pure pienamente consapevole AP 1 era - per la prima Corte - quando, pochi minuti dopo, ha scritto a D. per dirle che A. non era in casa e che lui aspettava che lei rispondesse al messaggino che le aveva mandato e quando, dopo soli tre minuti, inviava i primi due SMS al cellulare di A. (che era in suo possesso): non è, infatti, credibile - ha precisato la prima Corte -
“che egli digitasse tali sms in stato di «trance», poco dopo avere molto realisticamente scritto al suo capo che quel giorno non poteva andare al lavoro”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 71).
Continuando nel loro esame, i primi giudici hanno ritenuto che il riferimento alla
“discussione di ieri sera”
fatto, circa una mezz’ora dopo, in un SMS (che egli si è inviato dal cellulare della moglie) costituiva un’altra dimostrazione che AP 1
“stava consapevolmente ordendo la sua trama”
che prevedeva, appunto, di far credere ai familiari della moglie (anche mostrando loro tale messaggino) che A., sconvolta dopo la discussione, aveva sentito il bisogno di allontanarsi per riflettere in solitudine (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 71).
Un altro indizio di lucidità, la Corte delle assise criminali lo ha trovato nella decisione di AP 1 di far uso, in quei giorni, dell’autovettura della moglie: egli era
“ben consapevole”
che nel bagagliaio della propria vettura - di cui, per maggior cautela, ha nascosto la seconda chiave (sostenendo, in seguito, che l’aveva presa con sé A.) - era celato il cadavere della moglie che aveva appena ucciso (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 72 e 76-77).
Parimenti indiziante di lucida consapevolezza, la prima Corte ha ritenuto il fatto che, il 27 marzo 2010, AP 1 si è recato in moto all’appuntamento con D., ottenendo (con una scusa) che lei prendesse la sua auto: ciò dimostra - hanno ancora spiegato i primi giudici - che AP 1 aveva
“costante e totale consapevolezza”
che la propria vettura non poteva essere utilizzata poiché, da ormai quasi trentasei ore, nascondeva il cadavere della moglie (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 76 e 78).
Pure indiziante di uno stato di lucidità è stato ritenuto il piano con il quale AP 1 - consapevole “
dell’improrogabile urgenza”
di liberarsi del cadavere della moglie che giaceva nel baule della vettura da ben due giorni - si è creato il pretesto per assentarsi da casa un paio d’ore e nottetempo senza destare sospetti, e meglio, facendo credere che A., nella notte del 27 marzo 2010, sarebbe tornata a casa per incontrare la sorella a condizione che lui non fosse stato presente (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 78-80). Per la prima Corte, infine, anche la scelta del luogo in cui gettare il cadavere indica come AP 1 fosse lucido ritenuto come essa risponda alla necessità di un luogo all’estero ma, comunque, raggiungibile in un tempo non troppo lungo (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 80). Parimenti, la Corte ha trovato segni di “
lucidità
” e di
“razionalità”
anche nelle modalità in cui AP 1 ha tentato di depezzare il cadavere rilevando come egli abbia avuto cura, dopo avere sufficientemente
“tirato tardi”
, di posteggiare la vettura con il baule rivolto verso il muro della piazzuola della strada che costeggia il lago affinché le automobili in transito non potessero notare alcunché (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 81). L’ennesimo elemento che - secondo i primi giudici - prova che AP 1
“era ben lucido e consapevole e non immerso in nessuna «realtà parallela»
” è, poi, il fatto che egli, mettendo in atto il piano elaborato, ha gettato nel lago, oltre al corpo, le scarpe ed il giaccone della vittima (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 82).
La Corte di prime cure ha, poi, sottolineato come anche il contenuto del SMS inviato all’amante subito dopo essersi sbarazzato del cadavere - SMS in cui, rispondendo alla donna che gli chiedeva informazioni sulla moglie, diceva che
“tra poco se non si fa viva vado a casa io” -
provi che AP 1 stava lucidamente mettendo in atto il suo piano:
“è impossibile credere che in quei momenti (subito dopo aver gettato la salma nel lago)”
egli
“vivesse in una «realtà parallela»”, in cui A. era viva e anch’egli - come tutti gli altri famigliari - era in trepida attesa del rientro di lei!!!”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 82), tanto più che, giunto al domicilio, egli, accortosi di una macchia di sangue sul paraurti della Passat, si è premurato di subito pulirla con uno straccio e di portare, poi, l’indomani, l’auto a lavare (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 83).
Continuando nell’esposizione di quanto accaduto nei giorni che seguirono l’uccisione di A., i primi giudici hanno annotato che il ricorrente ha dato ulteriore prova di essere stato, anche nei giorni immediatamente successivi al fatto, lucido e coerente nella messa in atto del piano poiché ha fatto credere a familiari ed amici che la moglie vedesse uno psicologo rispettivamente uno psichiatra, e ciò proprio allo scopo di rendere verosimile l’ipotesi del suicidio della moglie (cui aveva alluso in un SMS inviato già il 26 marzo 2010 all’amante), cioè proprio per rendere verosimile e comprensibile quello che, nel suo piano (fallito a causa del riaffioramento del cadavere), doveva essere, per tutti, l’epilogo della vicenda (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 72-73 e 83-89).
A riprova della lucidità di AP 1, il giudizio impugnato ricorda, poi, che egli - su insistenza dell’amante - si è rivolto all’avv. Frigerio per chiedere informazioni sulla prassi da seguire in caso di separazione o divorzio (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 89-90).
La prima Corte ha scorto lucidità e freddezza anche nell’accertata abilità del ricorrente di manipolare le persone, in particolare mediante l’uso, negli SMS, di nomignoli che soltanto A. usava - “
patatin”
per il figlio B. e “
Nux
” per l’amica - per far credere che fosse davvero lei a scrivere tali messaggi nonché nella sua capacità, in quel particolare contesto, di ricordare (e scrivere in uno degli SMS attribuiti a A.) quale dei fratelli della moglie avesse il
“carattere più corazzato”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 88 e 90).
I primi giudici hanno, poi, rilevato come il ricorrente abbia lucidamente saputo far fronte al mutato atteggiamento di alcuni membri della famiglia di A. - che, il 1. aprile 2010, avevano iniziato a dubitare che la sua “scomparsa” potesse essere collegata alla relazione extraconiugale che egli da qualche tempo intratteneva e di cui essi erano appena venuti a conoscenza - inviando due SMS al cellulare della moglie facendo riferimento a tali sospetti e invitando A. a telefonare a qualcuno di loro per evitare un intervento della polizia (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 91-93). Inoltre, la Corte di prima sede ha considerato
“un chiaro segnale della costante integrale consapevolezza dell’accusato e di aver ucciso la moglie e di star conducendo un vero e proprio «teatro»”
il fatto che questi abbia attribuito a A. (in un messaggino inviato dal cellulare di lei al padre) l’intenzione di telefonare al marito (in un momento che per lui stava diventando assai delicato) allo scopo di tranquillizzare il padre di lei (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 91).
La prima Corte ha, poi, rilevato come AP 1 abbia continuato a dimostrarsi
“sempre vigile e accorto”
nonché ben collocato nella realtà vera
“e non in quella romanzesca da lui creata”
quando - vista la mal parata - ha anticipato i familiari della moglie contattando (ancora il 1. aprile 2010) una sua buona amica, ispettrice della polizia cantonale, alla quale - dopo aver raccontato la versione preconfezionata dell’accaduto ed essersi lamentato dei sospetti nutriti dalla famiglia della moglie nei suoi confronti - ha chiesto di incontrare privatamente i genitori e la sorella di A. per rassicurarli e presso la quale si è informato sulle possibilità della polizia di localizzare il cellulare della moglie (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 93-95). La Corte di prime cure ha osservato come è stato proprio il certamente razionale timore che la polizia potesse localizzare il telefonino della moglie a spingere, poi, AP 1 a spezzarlo e buttarlo nel pomeriggio del 2 aprile 2010, non prima di avere inviato dallo stesso dei messaggi nei quali, sempre spacciandosi per A., cercava di dissuadere i suoi familiari dall’avvertire le autorità (sentenza impugnata, consid. 8, pag. 98-100). Infine, anche il fatto che AP 1 aveva già provveduto a disfarsi del borsello e delle due carte di credito di A. che aveva fatto sparire da casa sempre nel disegno di rendere più plausibile la tesi del suo allontanamento volontario è stato visto come la dimostrazione di una
“scaltra lucidità”
e della
“lampante volontà di «farla franca» e di non lasciare prove compromettenti”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 100).
Sulla scorta di tutte queste considerazioni, la prima Corte ha, dunque, accertato che AP 1 - il cui agire dopo i fatti è stato sempre caratterizzato da
“lucidità, freddezza e determinazione”
(sentenza impugnata, consid. 8, pag. 76) -
“non ha perso mai né lucidità né razionalità”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 111).
3.2.
Il ricorrente sostiene che la Corte di prime cure ha arbitrariamente ignorato il parere del perito psichiatrico che ha ritenuto
“perfettamente possibili”
le sue amnesie sulla somministrazione alla moglie di una massiccia dose di sonnifero. Rinviando a quanto emerso dalla delucidazione orale della perizia, il ricorrente adduce che
“è perfettamente possibile infatti che il ricordo sia stato rimosso e che, solamente quando AP 1 è stato confrontato con elementi oggettivi atti a superare il blocco, lo stesso è riapparso”
(ricorso, pag. 8). Assevera il ricorrente che - alla luce del fatto che, grazie alla sua formazione sanitaria,
“non poteva certo ignorare che tracce del sonnifero sarebbero state riscontrate”
durante l’autopsia - la sola ragione per cui non ha parlato del sonnifero è che egli aveva effettivamente rimosso la circostanza. Escludendo l’ipotesi a lui più favorevole di un’esclusione selettiva dalla memoria, la Corte - conclude il ricorrente - ha violato il principio in dubio pro reo (ricorso, pag. 8).
3.3.
Il precetto
in dubio pro reo
è un corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia il riparto dell'onere probatorio. Per quanto attiene alla valutazione delle prove - cui nel caso di specie il ricorrente in sostanza si richiama - il principio
in dubio pro reo
afferma che il giudice penale non può dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie. Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (STF 6B_253/2009 del 26 ottobre 2009 consid. 6.1; 6B.230/2008 del 13 maggio 2008 consid. 2.1; 1P.20/2002 del 19 aprile 2002 consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a; 124 IV 86 consid. 2a; 120 Ia 31 consid. 2c). Sotto questo profilo il precetto
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 133 I 149; 120 Ia 31 consid. 4b).
3.4.
Va, in primo luogo, chiarito che, concludendo per la non credibilità delle amnesie riferite dal ricorrente, i primi giudici non hanno affatto ignorato il parere del perito psichiatrico. Al contrario, essi hanno tenuto conto dell’opinione del dott. _sulla questione, ma hanno evidenziato come questi si sia espresso in forma dubitativa, senza poter fornire alla Corte alcuna certezza.
Infatti, dopo aver illustrato la funzione psicologica dell’amnesia (che è, in sintesi, quella di proteggere il soggetto dai ricordi per lui insopportabili), il perito ha spiegato che soltanto nell’ipotesi in cui per il ricorrente l’uso del sonnifero fosse più vergognoso - e, quindi, più difficile da accettare - dell’uccisione stessa è possibile che, ad un certo momento, egli ricordasse di aver ucciso la moglie, ma non di averle somministrato del sonnifero. Tuttavia, l’ipotesi appena ricordata è stata formulata come tale dal dott. _ che ha espressamente indicato che “
si tratta di un’ipotesi
” (cfr. verbale di delucidazione 15.9.2010 citato nella sentenza impugnata, consid. 3, pag. 28). Tale ipotesi, non soltanto non ha potuto essere in qualche modo ancorata nella realtà, ma è stata subito implicitamente negata dallo stesso perito che ha precisato come, in un verbale reso prima di ammettere l’uso del sonnifero, il ricorrente abbia indirettamente segnalato agli inquirenti l’assunzione da parte di A. di un farmaco, interpretando tale circostanza come un possibile
“lapsus”
dovuto al cosiddetto
“impulso a confessare”
(sentenza impugnata, consid. 3, pag. 27-28). Impulso che, evidentemente, presuppone che AP 1 ricordasse quel che, invece, pretende di non ricordare.
In queste circostanze, è in un procedimento scevro da arbitrio che - preso atto che il perito, alla semplice possibilità teorica di un’amnesia, aveva aggiunto considerazioni che, concretamente, deponevano contro la realizzazione concreta di tale ipotesi - la prima Corte ha esaminato dichiarazioni e comportamenti per dare risposta al quesito posto da AP 1.
E forza è concludere che, in questo procedimento, la prima Corte ha trovato e dettagliatamente illustrato nella sentenza impugnata una miriade di elementi sulla cui base ha - senza arbitrio - concluso che AP 1 ha sempre avuto lucida consapevolezza di quanto fatto e non ha mai vissuto - contrariamente a quanto da lui preteso - in una
“realtà parallela”
in cui avrebbe
“come rimosso quanto successo”
e dalla quale sarebbe man mano riemerso durante la sua carcerazione.
Adducendo che “
è perfettamente possibile infatti che il ricordo sia stato rimosso e che, solamente quando AP 1 è stato confrontato con elementi oggettivi atti a superare il blocco, lo stesso è riapparso
”, il ricorrente non fa altro che proporre una sua personale interpretazione dei fatti, senza confrontarsi minimamente con le numerose argomentazioni che hanno portato la prima Corte a respingere la tesi da lui sostenuta.
La censura non raggiunge, pertanto, la soglia della ricevibilità.
Di chiara natura appellatoria è anche la tesi secondo cui, se avesse ricordato di aver somministrato il sonnifero a A., AP 1 ne avrebbe parlato poiché, data la sua formazione sanitaria, non poteva non sapere che l’esame autoptico avrebbe evidenziato la presenza di tracce di tale sostanza nel corpo della moglie.
Anche così argomentando, il ricorrente non si confronta in alcun modo con le considerazioni che hanno portato i primi giudici a non credere alle sue amnesie. Egli - dimenticando il limitato potere di esame di cui gode questa Corte riguardo l’accertamento dei fatti - non tenta nemmeno di dimostrare dove essi abbiano violato il loro margine di apprezzamento e dove la conclusione cui sono pervenuti sia non solo manchevole, discutibile o finanche inesatta, ma viziata da errore qualificato, manifestamente insostenibile, destituita di fondamento serio e oggettivo, in chiaro contrasto con gli atti o basata unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre.
Ne discende l’inammissibilità del rimedio.
A titolo abbondanziale, si osserva, comunque, che l’argomentazione è priva di pregio nel merito nella misura in cui un esame autoptico non comprende necessariamente un esame tossicologico che deve essere espressamente richiesto. Ciò che è avvenuto in concreto, il 6 aprile 2010, poiché a quel momento gli inquirenti già avevano maturato un sospetto in tale direzione (cfr. AI 8).
4.
Continuando nel suo esposto, il ricorrente sostiene - pur se con una formulazione imprecisa - che è con arbitrio che la prima Corte ha accertato che egli, uccidendo la moglie, non ha agito in preda ad una
“forte carica emotiva”
(ricorso, pag. 6 e 12).
4.1.
Al proposito, i primi giudici hanno accertato che, nel suo referto del 3 settembre 2010, il perito psichiatrico non ha evidenziato
“alcuna turba psichica rilevante (...) al momento dei fatti”,
ha indicato che
“i reati presi in considerazione non sono in relazione con una turba psichica”
ed ha concluso che
“il peritando non era limitato nella sua capacità di valutare il carattere illecito e nemmeno in quella di conseguentemente agire”
(sentenza impugnata, consid. 1, pag. 13). La Corte di prime cure ha, altresì, precisato che, durante la delucidazione orale della perizia, “
in merito alla capacità di intendere e di volere”
di AP 1 al momento dei fatti, il perito ha spiegato che - dopo avere considerato tre possibilità alternative (quella di un’azione commessa in uno stato di incapacità di intendere e di volere, quella di un delitto commesso freddamente con piena consapevolezza del carattere illecito del gesto e ferma determinazione a portarlo a compimento nonché una forma intermedia in cui è presente una carica emotiva comunque non tale da determinare una diminuzione della capacità di intendere e volere) - ha scartato l’ipotesi del “raptus” così come quella di una perfetta freddezza poiché il contesto in cui è avvenuto il reato era
“emotivamente significativo e perché lo stato dell’imputato dopo i fatti, nella misura in cui è stato possibile ricostruirlo sulla base delle testimonianze, è fortemente indicativo di una componente emotiva sicuramente posteriore all’uccisione stessa ma con ogni probabilità anche contemporanea al gesto”
e ha concluso che, in concreto,
“non resta dunque che la terza possibilità”
secondo cui vi era
“nel momento dei fatti e successivamente”
una
“forte carica emotiva”
.
Ciò detto, la prima Corte ha evidenziato che, comunque, lo stesso perito ha precisato che “
sono le stesse dichiarazioni dell’imputato (in merito al momento dell’uccisione della moglie) che portano ad escludere una turba della coscienza significativa
” (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 13-14).
In aggiunta alle considerazioni di natura peritale, la prima Corte ha esaminato, per il giudizio sulla questione, i comportamenti di AP 1 prima e dopo i fatti. In particolare, essa ha rilevato che il ricorrente si è lucidamente procurato il sonnifero (sottraendolo al padre) e altrettanto coerentemente, senza confusione alcuna, ha acquistato la tisana, avendo già in mente l’uso che ne avrebbe poi fatto (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110). Secondo la Corte di prima sede, poi, il ricorrente ha dato prova di lucidità anche inviando all’amante, subito dopo i fatti (e meglio nel tragitto verso Bellinzona), un messaggio in cui, coerentemente con il proprio disegno, le comunicava di avere lasciato la moglie (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 48, consid. 8, pag. 70 e consid. 10, pag. 111). Nuova prova di lucidità ha, poi, dato - secondo la prima Corte - AP 1 quando, poco dopo l’invio del messaggino, ha avuto un colloquio telefonico con l’amante senza
“minimamente tradirsi e senza manifestare un particolare turbamento”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 111). Sempre per valutare la questione della lucidità o meno del condannato, i primi giudici hanno, pure, rilevato che, subito dopo l’uccisione della moglie incinta, l’uomo ha eseguito meticolosamente tutto quanto necessario a nascondere ogni traccia dell’accaduto. Egli ha, infatti, spostato davanti alla porta di casa la sua vettura, nel cui baule ha occultato la salma della vittima, curando di far sparire con lei anche le scarpe ed un giaccone per simulare un suo allontanamento volontario da casa. Allo stesso scopo, egli ha, pure, fatto sparire il borsello e le carte di credito di A., conservando invece il telefonino di lei, indispensabile per la messa in scena successiva. Dopo aver tirato la tendina del baule per impedire che qualcuno potesse guardarvi dentro, egli ha poi guidato fin quasi a _ verosimilmente allo scopo di sbarazzarsi del cadavere. Rientrato al suo domicilio, egli ha curato di posteggiare con il baule contro il muro il veicolo di cui ha, pure, fatto scomparire la seconda chiave, sempre per inscenare la partenza volontaria di A.. Successivamente, egli ha lavato le tazze in cui aveva servito la tisana e ha pulito le macchie di sangue che avevano sporcato il copridivano e il pavimento.
La mattina seguente - ha, poi, precisato la prima Corte - AP 1 ha dato inizio all’
“imponente sceneggiata del volontario allontanamento da casa di A.”,
sceneggiata
che ha consapevolmente portato avanti per nove giorni durante i quali ha razionalmente fatto in modo di disfarsi del cadavere della moglie, non prima di avere tentato di decapitarlo per impedirne l’identificazione (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 111).
Sulla scorta, dunque, delle conclusioni peritali e dell’esame del comportamento tenuto da AP 1, in particolare subito dopo l’uccisione della moglie, rilevato come la carica emotiva di cui ha dato atto il perito fosse semplicemente da ricondurre
“al fatto di avere narcotizzato e soffocato in casa propria, a pochi passi dal proprio figlio dormiente, la propria moglie incinta
”, la prima Corte ha ritenuto l’accusato
“pienamente capace di valutare l’estrema illiceità del suo gesto e di conseguentemente condursi”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110).
4.2.
Il ricorrente rimprovera ai primi giudici di avere ignorato l’opinione del perito psichiatrico per tutto quanto non utile a legittimare l’irrogazione di una pena esemplare. In particolare, AP 1 lamenta il fatto che i primi giudici non hanno tenuto conto del parere del perito psichiatrico che ha riconosciuto a suo favore
“una fase intermedia (tra irresponsabilità e piena freddezza)”
caratterizzata da una
“forte carica emotiva”
, respingendo l’alternativa della
“freddezza pienamente consapevole”
(ricorso, pag. 6 e 12). La mancata considerazione delle valutazioni peritali è - a mente del ricorrente -
“sorprendente, arbitraria e contraria al principio in dubio pro reo”
(ricorso, pag. 12). E ciò, secondo il ricorrente, a maggior ragione se si pon mente al fatto che, pur respingendo il parere dell’esperto in relazione al suo stato emotivo al momento della commissione dei reati, la Corte delle assise criminali ha ordinato un trattamento ambulatoriale giusta l’art. 63 CP che, per legge, soggiace alla condizione che esista una grave turba psichica in relazione con il reato commesso (ricorso, pag. 13).
4.3.
Occorre, anzitutto, rilevare che - contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente - il perito non ha concluso, sulla questione della sua responsabilità penale, per uno stato intermedio
“tra irresponsabilità e piena freddezza”
. L’esperto ha, infatti, chiaramente indicato che
“la forte carica emotiva nel momento dei fatti e successivamente”
non ha, in alcun modo, determinato “
una diminuzione della capacità di intendere e di volere”
del ricorrente e ha, di conseguenza, concluso che AP 1 era pienamente capace di valutare il carattere illecito del suo gesto e di agire secondo tale valutazione (cfr. verbale di delucidazione 15.9.2010, pag. 2 e risposte ai quesiti peritali 2.1-2.5).
Ciò precisato, non si può non rilevare che, ancora una volta, il ricorrente propone una sua personale valutazione del materiale probatorio senza confrontarsi con le argomentazioni (riassunte al considerando 4.1) che hanno portato la prima Corte ad accertare che - al di là della carica emotiva insita nel gesto compiuto e ad esso conseguente - egli ha agito con piena consapevolezza, lucidità e razionalità.
Pertanto, ancora una volta il ricorso si rivela irricevibile.
Ciò detto, a titolo abbondanziale si osserva che é in un procedimento del tutto scevro da arbitrio che i primi giudici hanno accertato, sulla scorta delle conclusioni peritali confortate dall’esame dei comportamenti del condannato, che la “
carica emotiva”
cui il perito ha fatto riferimento non gli ha tolto lucidità né ha limitato la sua capacità di agire razionalmente nell’attuazione del suo piano. Concludendo per la piena imputabilità del ricorrente, i primi giudici non si sono, quindi, affatto scostati dalle conclusioni peritali.
Di transenna, si osserva, poi, che, riconducendo l’origine della “
carica emotiva
” evocata dal perito durante la delucidazione orale al “
fatto di aver narcotizzato e soffocato in casa propria, a pochi passi dal proprio figlio dormiente, la propria moglie incinta
”, la Corte non è incorsa in alcun arbitrio (come sembra, invece, sostenere il ricorrente a pag. 6 del suo esposto). In effetti, se è vero che nel verbale di delucidazione peritale si legge che il fatto è avvenuto in un “
contesto emotivamente significativo
” (ossia, in un contesto non privo di emozioni così come è, di norma, qualsiasi contesto relazionale), è anche e soprattutto vero che il perito ha precisato che la “
forte
(sott. del red.)
carica emotiva
” era presente soltanto dopo l’uccisione e, solo probabilmente, durante l’uccisione stessa (cfr. verbale di delucidazione 15.9.2010, pag. 2 in cui parla di “
una componente emotiva sicuramente posteriore all’uccisione stessa ma con ogni probabilità anche contemporanea al gesto
”). In queste circostanze, non può dirsi frutto di una lettura arbitraria delle valutazioni peritali l’accertamento secondo cui la forte componente emotiva non era all’origine del gesto ma era in esso insita e ad esso conseguente.
Infine, si rileva che la decisione di ordinare un trattamento ambulatoriale da eseguirsi durante l’espiazione della pena non presta il fianco a critica alcuna nella misura in cui essa si fonda, non tanto sulla raccomandazione dell’esperto, ma soprattutto sul desiderio, espresso dal ricorrente stesso, di essere sottoposto ad un tale trattamento.
Del resto, occorre rilevare che il trattamento consigliato dal perito non ha natura tipicamente terapeutica (nel senso che lo stesso perito ha precisato che non c’è una “turba psichica” da curare) ma è piuttosto da intendersi come un trattamento di “sostegno” (è stato, al proposito, evidenziato come AP 1 sia “
confrontato con una situazione di notevole difficoltà
”, cfr. perizia 3.9.2010, pag. 94)
Quand’anche fosse ricevibile, dunque, la censura andrebbe respinta.
5.
Continuando nel suo esposto, il ricorrente sostiene che la Corte delle assise criminali ha violato il diritto federale abusando del proprio potere di apprezzamento ed applicando in modo errato i criteri per la commisurazione della pena.
5.1.
La Corte delle assise criminali, dopo avere ricordato i principi applicabili in materia (in particolare, il criterio fondamentale della gravità della colpa), ha evidenziato una serie di elementi - che ha elencato al considerando 10 della sentenza impugnata - sulla cui scorta ha concluso che la colpa oggettiva e soggettiva di AP 1 è di
“così estrema gravità”
da rendere necessaria la pronuncia della pena massima (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 109).
I primi giudici hanno, anzitutto, tenuto conto delle condizioni personali del ricorrente, osservando come si tratti di un “
uomo adulto, marito e padre di famiglia, ben scolarizzato, ben inserito professionalmente e socialmente, sano di corpo e di mente, pienamente capace di valutare l’estrema illiceità del suo gesto e di conseguentemente condursi
” (sentenza impugnata, consid. 10. pag. 109).
Essi hanno, poi, rilevato come, uccidendo intenzionalmente la moglie ed il figlio che essa portava in grembo, AP 1 abbia consapevolmente privato
“il piccolo B. dell’affetto e delle cure della propria madre, i genitori e i fratelli di A. della loro figlia e sorella”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 109).
Il movente del ricorrente - ovvero chiudere una vita matrimoniale che gli era venuta a noia e che, ancor più con un secondo figlio in arrivo, era di ostacolo alla sua nuova e più gratificante relazione sentimentale
“senza passare attraverso le molteplici difficoltà di una procedura di separazione o di divorzio”
- è stato definito
“basso ed egoistico”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 109-110).
La Corte delle assise criminali ha, quindi, osservato come “
l’inganno, la menzogna, la manipolazione delle persone
” siano “
una sorta di terribile costante nel modo di pensare e di agire di AP 1
”
, ritenuto come egli - somministrando il sonnifero alla moglie ignara - abbia dato prova di “
un tradimento tale della fiducia, cui ben raramente è dato di assistere
” e abbia dimostrato il “
suo totale disprezzo per la vita di lei e per quella che dentro di lei stava crescendo
”. I primi giudici hanno, poi, sottolineato “
la brutalità del soffocamento
” eseguito su una persona ormai “
stordita e incapace di difendersi
” e compiuto “
con mani esperte, in pochi minuti ed in silenzio, così da non svegliare il figlio che dormiva di sopra con la porta aperta
” (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110).
I primi giudici hanno, poi, evidenziato che, “
nonostante la «carica emotiva» che necessariamente comporta il fatto di aver narcotizzato e soffocato in casa propria, a pochi passi dal proprio figlio dormiente, la propria moglie incinta, AP 1 non ha perso mai né lucidità né razionalità
”. In effetti - hanno spiegato - dopo i fatti, “
determinato ed efficiente
” e “
deciso a «farla franca»
”, ha eseguito “
senza nulla tralasciare, tutte quelle mansioni che doveva fare per nascondere ogni traccia dell’accaduto
” mettendo in atto “
un’imponente sceneggiata
” per far credere al volontario allontanamento della moglie. Al riguardo, i primi giudici hanno sottolineato come il “
terribile «teatro»
” consapevolmente messo in scena subito dopo i fatti qualifica la colpa di AP 1 poiché in esso egli ha dimostrato “
tutto il suo cinismo e la sua freddezza d’animo
” non esitando, in tale sceneggiata, ad alludere apertamente al suicidio della moglie che “
nella sua testa
” sarebbe dovuto essere il normale epilogo della messinscena, se il cadavere non fosse stato identificato. Tale modo d’agire - hanno ritenuto i primi giudici - “
fa stato di una mente così avvezza a mentire, a ingannare il prossimo (chiunque esso sia, genitori, altri famigliari, amici, amante compresa) da doversi definire colpevolmente perversa
” (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110-111).
La prima Corte ha, poi, considerato che le
“impressionanti e inquietanti”
capacità di manipolazione dimostrate aggravano la colpa di AP 1 ritenuto come egli sia riuscito, in particolare, dapprima a convincere la moglie a mantenere per più di tre mesi il segreto sulla gravidanza ben sapendo che, se essa fosse stata resa nota, nessuno avrebbe creduto ad una sua spontanea partenza e come, poi, sia riuscito a manipolare i propri amici (cui ha confidato i suoi problemi matrimoniali, ma ha sottaciuto la nuova gravidanza della moglie), l’amica di A. che tanto si preoccupava per lei (usando, in un messaggio inviatole dal cellulare della moglie, un nomignolo che solo lei usava), i familiari della moglie, il figlio e, financo, l’amica ispettrice di polizia, abituata per mestiere ad essere diffidente, che pure ha coinvolto, “
in prima persona nel perverso gioco dei «falsi messaggi»”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 112).
In sintesi, per la prima Corte la colpa di AP 1 è particolarmente grave poiché egli, in modo
“crudele e impietoso”
è stato in grado di “
ideare e dare attuazione a un disegno articolato e complesso”
che prevedeva non solo di uccidere la moglie incinta - come ha effettivamente fatto - ma anche di farla “sparire”, rendendo plausibile che fosse stata lei stessa, sconvolta, ad andarsene da casa. I primi giudici hanno sottolineato come egli abbia
“consapevolmente portato avanti”
per nove giorni la sua sceneggiata
“nella quale - senza battere ciglio, cinicamente, senza più alcun ritegno morale - ha coinvolto il figlioletto, i disperati genitori di A., gli afflitti suoi fratelli e sorelle”
, prendendosi gioco di loro ed
“infischiandosene della sofferenza e del dolore che provocava”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 112). Secondo i primi giudici,
“un agire così spietato da parte di un uomo cui la vita aveva dato molto”
e che, ciononostante, “
è stato capace di narcotizzare e soffocare la moglie incinta, di gettarne il corpo nel lago e parimenti di ordire una trama incredibile”,
fingendo la di lei volontaria partenza da casa e facendola “parlare” attraverso falsi messaggi (
“ora di falsa disperazione, ora di falsa speranza”
) allo scopo ultimo di rendere verosimile l’esito (ovvero il suo “suicidio”) che lui aveva previsto per il caso in cui il cadavere non fosse stato trovato ed identificato e che, pur di farla franca,
“avrebbe privato per sempre suo figlio e i famigliari di A. financo di una tomba su cui deporre un fiore”
rende la colpa di AP 1
“grave in modo così estremo, sconvolgente e inquietante, da evocare la necessità di una sanzione adeguatamente pesante”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113).
Premesso che, in concreto, la pena massima comminata dall’art. 112 CP si giustificherebbe già solo per il reato di assassinio, la prima Corte è giunta alla conclusione che la pena detentiva a vita si imporrebbe comunque
“quand’anche ci si dovesse dipartire, per il reato di assassinio, da una pena inferiore”
a quella massima: in quel caso, per il reato di assassinio
“sarebbe senz’altro equa e proporzionata all’estrema gravità della colpa una pena di venti anni”
che dovrebbe essere adeguatamente aggravata per effetto del concorso con l’ulteriore crimine commesso da AP 1 (e meglio, l’interruzione punibile della gravidanza ex art. 118 cpv. 2 CP) e non potrebbe, pertanto, che tornare ad essere la pena detentiva a vita (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113).
Passando all’esame delle circostanze attenuanti, i primi giudici hanno dapprima considerato l’incensuratezza di AP 1: rilevando che
“in un uomo di trentatré anni ben scolarizzato e con una professione e una condizione benestante, socialmente ben inserito, essa appare quasi scontata”
, essi hanno concluso che, comunque sia, essa non basta a compensare o ad incidere in modo significativo sulla gravità della colpa (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113-114).
Quanto alla collaborazione con gli inquirenti, pur rilevando che “
per finire, AP 1 è giunto al dibattimento sostanzialmente confesso sui fatti imputatigli
”, la prima Corte ha osservato che “
di certo non si è trattato di una confessione spontanea né immediata
”, ritenuto come egli abbia confessato “
un po’ alla volta
” ammettendo la conoscenza della gravidanza della moglie e la somministrazione del sonnifero soltanto “
decisamente a rimorchio degli inquirenti (e degli accertamenti medici e peritali che andavano acquisendo)
”. La Corte di prime cure ha, pertanto, qualificato di “
debole e incompleta
” l’accertata assunzione di colpa e di responsabilità da parte di AP 1 annotando come egli, “
più volte durante l’inchiesta (ma anche in aula)
”, abbia “
preferito ricorrere a espedienti tattici (“non so”, “non ricordo”) piuttosto che privilegiare la verità
” (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 114).
È, infine, stato considerato che il ricorrente ha rinunciato, a favore del figlio, al saldo (pari a fr. 11'000.- circa) del CCP, al provento della vendita della moto e della VW Passat, all’eredità di A. e (quando sarà possibile) alla donazione che A. gli aveva fatto di metà del fondo (a sua volta donatole dal padre) su cui sorge la casa in cui abitava la famiglia AP 1. Pur definendo
“lodevoli”
tali rinunce, la prima Corte ha ritenuto che
“a fronte del terribile male procurato, sarebbe stato invero imbarazzante non darvi seguito”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 114).
Dopo avere considerato anche il carcere preventivo sofferto (in particolare quello patito, su ordine dello psichiatra del carcere, in cella d’isolamento durante le prime tre settimane), la sensibilità alla pena (
“il fatto di dover espiare in carcere una pena lunga e pesante”
), i primi giudici hanno concluso che -
“considerate una ad una e poi nel loro complesso”
- le attenuanti del caso non assumono
“un rilievo tale da consentire la pronuncia di una pena inferiore”
così che
“per l’estrema, inaudita, gravità oggettiva e soggettiva della colpa, la pena adeguata da infliggere a AP 1”
è quella della detenzione a vita (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113-114).
A questa pena è stata affiancata - come raccomandato dal perito e auspicato dal ricorrente stesso - la misura del trattamento ambulatoriale ex art. 63 CP quale
“trattamento terapeutico di sostegno”
da eseguirsi in carcere (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 114).
5.2.
AP 1 rimprovera alla prima Corte di non avere applicato correttamente l’art. 47 CP e di avergli, pertanto, inflitto una pena arbitrariamente severa (ricorso, pag. 6). Pur non negando la gravità della sua colpa e dando atto che essa giustifica una sanzione molto pesante, il ricorrente ritiene che la pena detentiva a vita é una sanzione
“ingiusta”
e, peraltro,
“criticata, antiquata e (giuridicamente) contraria al sistema”
(ricorso, pag. 5).Tutti i manuali moderni - argomenta il ricorrente - considerano tale sanzione, non solo antiquata, ma anche
“antisociale ed astratta”
poiché contraria al buon senso, tanto che nel progetto Schultz relativo alla revisione della parte generale del CP tale sanzione era stata abbandonata e, ancora recentemente, il noto penalista André Kuhn ne ha proposto l’abolizione indicando come nei casi molto gravi di criminali davvero pericolosi la soluzione non sia la detenzione a tempo indeterminato bensì la pronuncia di
“misure di durata indeterminata in stabilimenti appropriati”
e ricordando che i sistemi penali più moderni (quale, ad esempio, quello norvegese) hanno da tempo abolito tale sanzione (ricorso, pag. 4).
Entrando nel merito, AP 1 rimprovera ai primi giudici di avere ignorato il parere del perito psichiatrico, ritenendo a suo carico
“l’ipotesi più grave dell’estrema lucidità invece che la via mediana dello stato di coinvolgimento emotivo”.
Pur affermando di concordare con il giudizio circa la qualifica giuridica dei reati, la gravità della colpa, il movente, le manipolazioni e le modalità di esecuzione del reato, il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere commisurato la sua colpa considerando che egli ha premeditato lucidamente l’eliminazione della moglie: in ciò - spiega - i primi giudici hanno dimenticato che il perito psichiatrico ha attestato che egli si trovava
“in una situazione emotivamente coinvolgente”
e che ha sempre agito
“in preda a forti tensioni ed a sentimenti contrastanti”
(ricorso, pag. 6).
Proseguendo nel suo esposto, il ricorrente sostiene, poi, che la prima Corte - influenzata dall’eco mediatica della vicenda e dalla sete di vendetta manifestata dall’opinione pubblica - ha pronunciato una pena esemplare dopo avere di fatto respinto
“siccome «ininfluenti»”
le circostanze attenuanti dell’incensuratezza, della confessione e degli interventi riparatori in favore del figlio B. e della famiglia di A. e senza minimamente considerare, a suo favore, né le particolari modalità dell’inchiesta, né il regime di carcerazione da lui subito né, infine, l’effetto della pena sulla sua vita (ricorso, pag. 5).
Relativamente all’incensuratezza, il ricorrente - ponendo in evidenza la sua generale buona reputazione - sostiene che è
“giuridicamente assurdo”
il ragionamento che ha spinto la prima Corte a banalizzarne la portata attenuante (ricorso, pag. 7).
Relativamente alla collaborazione con gli inquirenti, il ricorrente - evidenziando come egli abbia ammesso di avere ucciso la moglie già durante il suo primo interrogatorio del 4 aprile 2010 e osservando che, già cinque giorni dopo, l’inchiesta poteva dirsi pressoché conclusa, ritenuto che erano già stati individuati il colpevole, il movente, le modalità e le circostanze aggravanti - rimprovera ai primi giudici di non avere riconosciuto valore attenuante a tale sua piena confessione. Egli sottolinea come la non tempestiva ammissione della somministrazione del sonnifero sia da addebitare ad un’amnesia e si duole del fatto che la prima Corte ha completamente ignorato il parere del perito psichiatrico che ha ritenuto
“perfettamente possibile”
tale
“lacuna mnemonica”
(ricorso, pag. 7-8).
Proseguendo nell’esame di quelle che sono - a suo parere - le circostanze attenuanti indebitamente ignorate dalla prima Corte, il ricorrente, premessa l’impossibilità di riparare le conseguenze di un omicidio, sostiene di avere messo in atto tutti
“quegli interventi di diritto privato che le circostanze imponevano”
e che le sue limitate disponibilità finanziarie gli permettevano e di avere, così, fatto
“tutto quanto poteva per «riparare» all’omicidio”
(ricorso, pag. 8). Al proposito, egli precisa di avere sin da subito rinunciato al saldo del CCP a favore della famiglia C. che
“già poteva contare su tutti gli altri conti cointestati a A., per i quali vi è stata la pura rinuncia”
, al provento della vendita della sua motocicletta nonché all’eredità di A. e all’autorità parentale sul figlio ed aggiunge di avere pure subito acconsentito all’annullamento della cessione della quota di comproprietà della casa di _. Continuando sull’argomento, il ricorrente osserva, altresì, che, malgrado avesse sollecitato le parti civili ad indicare le loro pretese per potere determinarsi su di esse già prima del processo, le stesse sono state formalizzate soltanto in aula, occasione in cui egli le ha riconosciute nel principio. Non tenendo conto di tutti questi sforzi - “
per nulla scontati”
e che dimostrano, con la sua volontà di
“venire incontro, «riparando» nel limite del possibile quello che «umanamente» più non era riparabile”,
il suo
“sincero pentimento” -
la prima Corte ha, secondo il ricorrente, violato il diritto federale (ricorso, pag. 9).
Inoltre - continua il ricorrente - la prima Corte “
non ha saputo e voluto tenere conto”
del
“sincero pentimento”
da lui dimostrato accettando un regime di carcerazione - a suo dire - molto particolare e poco rispettoso dei diritti fondamentali.
Dopo essersi dichiarato convinto che “
la vera espiazione passa (...) attraverso la sofferenza
” e dopo avere dichiarato che, “
da quando si è reso conto della gravità di quanto capitato
”, egli ha chiesto perdono “
riconoscendo le proprie responsabilità senza mai cercare di sottrarsi a quella che dovrà essere una giusta punizione
”, AP 1 ha sostenuto che i primi giudici hanno totalmente disatteso il fatto che egli ha trascorso oltre 20 giorni nella cella di contenimento del carcere giudiziario e che, ogni giorno di quel periodo, egli ha passato “
23 ore in mutande in perfetta solitudine
”, in “
uno spazio angusto a piano terreno con pareti imbottite ed un materasso posto sul pavimento
”, senza disporre neppure di un libro e senza essere “
costantemente seguito
” - contrariamente a quanto emerge dalla sentenza impugnata - dallo psichiatra del carcere che ha incontrato in sole cinque occasioni. Del tutto ignorato dalla Corte di prima sede sarebbe, poi, stato il fatto che, anche nei successivi cinque mesi di detenzione preventiva, egli non ha potuto, per decisione del magistrato inquirente, né ricevere visite (tranne quelle dei genitori, della sorella e di un sacerdote), né telefonare, né ricevere e/o scrivere lettere (ricorso, pag. 10-13).
AP 1 rimprovera, poi, alla Corte di prime cure di avere completamente ignorato le particolari modalità dell’inchiesta. Egli evidenzia di aver ammesso di aver ucciso la moglie in esito ad un interrogatorio di polizia durato oltre 12 ore e reso senza la presenza del suo difensore, confermando - al termine dello stesso verbale - le sue dichiarazioni al magistrato titolare dell’inchiesta
“comparso improvvisamente alle 20.46 al posto di polizia di
_
”
(ricorso, pag. 9). Il ricorrente sottolinea come - nonostante egli sia stato sentito in ulteriori cinque occasioni (il 5 aprile 2010 dal GIAR e il 5, 6, 9, e 10 aprile 2010 dalla polizia) sempre senza la presenza del suo difensore, con il quale neppure aveva ancora potuto conferire liberamente (il primo colloquio libero essendosi tenuto il 12 aprile 2010) - già il 9 aprile 2010 egli abbia ammesso (in un memoriale da lui consegnato alla polizia, confermato a verbale sia davanti alla polizia che davanti al procuratore pubblico intervenuto al termine dell’interrogatorio) le principali questioni oggetto dell’inchiesta, tralasciando - poiché non se ne ricordava - unicamente l’uso del sonnifero (ricorso, pag. 10). E’ singolare - continua il ricorrente - che, solo qualche mese prima dell’entrata in vigore del Codice di diritto processuale svizzero che prevede la presenza del difensore anche davanti alla polizia, le prime battute dell’inchiesta siano state svolte con modalità
“tutt’altro che paritarie”
, escludendo di fatto la difesa. Pur dando atto che
“(forse) una più tempestiva presenza del difensore”
avrebbe potuto in concreto
“risultare ininfluente”
, AP 1 osserva che la presenza del suo avvocato sin dai primi interrogatori di polizia
“avrebbe, per lo meno, permesso d’evitare versioni discordanti (utilizzate poi arbitrariamente dal Magistrato e dalla Corte giudicante per evidenziare la cosiddetta «mancanza di collaborazione del ricorrente»...)”
(ricorso, pag. 10). In ogni modo - continua il ricorrente - accettando
“tutto quanto gli veniva imposto, senza creare complicazioni”
, egli ha dimostrato
“la sua chiara volontà collaborare spontaneamente”
con gli inquirenti. Del resto - precisa - è soltanto grazie alle sue indicazioni che è stato possibile il ritrovamento della sega e del pezzo del cellulare di A. e la localizzazione del luogo in cui egli ha gettato il cadavere nel lago.
Inoltre - continua il ricorrente - i primi giudici non hanno per nulla tenuto conto, contrariamente a quanto stabilito dal nuovo art. 47 CP, dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita, cioè non hanno tenuto conto del criterio che
“funge da «contrappeso» alla colpa”
(ricorso, pag.
11).
Premesso che
“nel nostro sistema giudiziario una seconda opportunità è di principio data a tutti”
e rilevato che il perito ha escluso che egli - al suo primo (seppur estremamente grave) reato - possa essere considerato pericoloso, il ricorrente afferma che il carcere a vita è
“una pessima soluzione”
poiché,
“in quanto sanzione astratta”,
non permette al condannato
“di considerare la possibilità di una sua redenzione nell’ottica di una vita futura”
ciò che è tanto più ingiusto se si considera che egli ha un figlio (con cui desidera recuperare i rapporti), una famiglia (che è sempre stata al suo fianco) e una professione che ha sempre esercitato con successo e soddisfazione (ricorso, pag. 12).
Ribadendo, infine, che la prima Corte ha di fatto considerato soltanto la gravità delle circostanze, senza tenere seriamente conto delle attenuanti e ricordando che
“il vero obiettivo della sanzione penale è la risocializzazione del reo”
, il ricorrente conclude affermando che al suo caso è adeguata, non già la pena detentiva a vita, ma una pena detentiva di 16 anni, ritenuto come egli, comunque, abbia già perso
“tutto quanto aveva”
(ricorso, pag. 13-14).
5.3.
5.3.1.
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. Come il Tribunale federale, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo laddove la sanzione si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all’art. 47 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest’ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare eccesso o abuso del potere di apprezzamento (DTF 135 IV 191 consid. 3.1; 134 IV 17 consid. 2.1; 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti; 128 IV 73 consid. 3b pag. 77; 127 IV 10 consid. 2 pag. 19; 123 IV 150 consid. 2a STF 6B_540/2010 del 21 ottobre 2010 consid. 1.3; 6B_470/2009 del 23 novembre 2009 consid. 2.2; 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.3, 6B_370/2007 del 12 marzo 2008 consid. 2.3). Questa Corte - come il TF - non sostituisce, quindi, la propria valutazione a quella dei primi giudici e interviene, sanzionando una violazione del diritto federale, unicamente nel caso in cui essi facciano un uso davvero insostenibile del margine di apprezzamento che il diritto federale accorda loro (DTF 127 IV 101 consid. 2c; 123 IV 150 consid. 2a).
Ai sensi dell’art. 47 CP - che, tuttavia, non elenca in modo dettagliato ed esauriente gli elementi pertinenti (STF 6B_738/2007 dell’11 aprile 2008 consid. 3.1) - il giudice commisura la pena alla colpa dell'autore, tenendo conto della sua vita anteriore e delle sue condizioni personali, nonché dell'effetto che la pena avrà sulla sua vita (cpv. 1). La colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell'offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché, tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l'autore aveva di evitare l'esposizione a pericolo o la lesione (cpv. 2).
Come nel vecchio diritto (art. 63 vCP), dunque, il giudice commisura la pena essenzialmente in funzione della colpevolezza del reo (DTF 136 IV55). Il legislatore ha ripreso, al cpv. 1, i criteri della vita anteriore e della condizione personale cui ha aggiunto la necessità di tener conto dell'effetto che la pena avrà sulla vita dell'autore. Con riguardo a quest'ultimo criterio, il messaggio precisa che la misura della pena delimitata dalla colpevolezza non deve essere sfruttata necessariamente per intero se una pena più tenue potrà presumibilmente trattenere l'autore dal compiere altri reati (messaggio del 21 settembre 1998 concernente la modifica del codice penale svizzero e del codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile, FF 1999, pag. 1744; STF 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.2; 6B_370/2007 del 12 marzo 2008 consid. 2.2; DTF 128 IV 73 consid. 4 pag. 79, 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). La legge codifica, così, la giurisprudenza secondo cui occorre, di principio, evitare di pronunciare sanzioni che ostacolino il reinserimento del condannato (DTF 128 IV 73 consid. 4c pag. 79; 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). Questo criterio di prevenzione speciale permette, tuttavia, soltanto di effettuare correzioni marginali, la pena dovendo in ogni caso essere proporzionata alla colpa (STF 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.2; 6B_370/2007 del 12 marzo 2008 consid. 2.2; 6B_14/2007 del 17 aprile 2007 consid. 5.2 e riferimenti; Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht, AT II, Berna 2006, n. 72 ad § 6).
Riprendendo
mutatis mutandis
la giurisprudenza relativa all’art. 63 vCP (Stratenwerth/Wohlers, Strafgesetzbuch, n. 4 ad art. 47 CP), l'art. 47 cpv. 2 CP fornisce un elenco esemplificativo di criteri che permettono di determinare la gravità della colpa dell'autore: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l’intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto (ovvero il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso), l’eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato (ovvero la reprensibilità dell'offesa), l’entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell’illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento; DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2 pag. 289).
Vanno inoltre considerati - sempre secondo la giurisprudenza - la situazione familiare e professionale dell’autore, l’educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l’integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289). Non va trascurata nemmeno la sensibilità personale all'espiazione della pena (
Strafempfindlichkeit
) per rapporto allo stato di salute, all'età, agli obblighi familiari, alla situazione professionale, ai rischi di recidiva ecc. (DTF 102 IV 231 consid. 3 pag. 233; STF 6B.14/2007 del 17 aprile 2007 consid. 6.4; STF 6P.152/2005 del 15 febbraio 2006 consid. 8.1 e 6S.163/2005 del 26 ottobre 2005 consid.
2.1 con rinvii;
Stratenwerth
,
Schweizerisches Strafrecht, AT II, Berna 2006, n. 60 e segg. ad § 6).
Esigenze di prevenzione generale, per converso, svolgono solo un ruolo di secondo ordine (DTF 118 IV 342 consid. 2g pag. 350).
5.3.2.
Giusta l’art. 112 CP, se l’autore di un omicidio intenzionale ha agito con particolare mancanza di scrupoli, segnatamente con movente, scopo o modalità particolarmente perversi, la pena è una pena detentiva a vita o una pena detentiva non inferiore a dieci anni.
Per l’art. 118 cpv. 2 CP, chiunque interrompe una gravidanza senza il consenso della gestante è punito con una pena detentiva da uno a dieci anni.
Secondo l’art. 49 cpv. 1 CP, quando per uno o più reati risultano adempiute le condizioni per l’inflizione di più pene dello stesso genere, il giudice condanna l’autore alla pena prevista per il reato più grave aumentandola in misura adeguata. Non può tuttavia aumentare di oltre la metà il massimo della pena comminata. È in ogni modo vincolato al massimo legale del genere di pena.
5.3.3.
Giusta l’art. 40 CP, di regola la durata della pena detentiva è di almeno sei mesi, mentre la durata massima è di venti anni. La pena detentiva è a vita se la legge lo dichiara espressamente.
a.
La pena detentiva a vita è la pena più severa che conosce il Codice penale svizzero. Essa dura, di principio, fino alla morte del condannato (Brägger in: Basler Kommentar, StGB I, Basilea 2007, n. 7 ad art. 40 CP). Al condannato a vita la liberazione condizionale può essere concessa dall’autorità competente al più presto dopo 15 anni (art. 86 cpv. 5 CP in combinazione con il cpv. 1) ritenuto che al liberato condizionalmente va imposto un periodo di prova di una durata compresa tra uno e cinque anni (art. 87 cpv. 1 CP).
L’autorità competente esamina d’ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente (art. 86 cpv. 2 CP) e, se non concede la liberazione condizionale, essa riesamina la questione almeno una volta all’anno (art. 86 cpv. 3 CP).
Eccezionalmente, alle condizioni dell’art. 86 cpv. 4 CP, il condannato può essere liberato condizionalmente già dopo 10 anni (art. 86 cpv. 5 CP).
La liberazione condizionale trascorsi 15 anni dalla condanna sembra essere, nella prassi, divenuta la regola. Se si paragonano i termini cui soggiace la liberazione condizionale, emerge che, di fatto, il carcere a vita costituisce ormai soltanto un grado supplementare nella scala delle pene di durata determinata, il condannato ad una pena detentiva a vita liberato condizionalmente dopo 15 anni avendo in effetti scontato soltanto un anno e otto mesi in più di colui che è stato condannato ad una pena detentiva della durata (determinata) di vent’anni e che beneficia al più presto della liberazione condizionale (Disch, L’homicide intentionnel, Losanna 1999, pag. 296).
b.
Il Codice penale prevede la pena detentiva a vita per il reato di assassinio (art. 112 CP) e per il reato di genocidio (art. 264 CP). Non si tratta, però, di una pena obbligata: in entrambi i casi, il giudice può, invece, della pena detentiva a vita, infliggere una pena detentiva non inferiore a dieci anni.
Nel Codice penale la possibilità di infliggere una pena detentiva a vita è, inoltre, prevista - ma unicamente in casi particolarmente gravi - per il reato di presa d’ostaggio (art. 185 cifra 3 CP) e per attentati contro l’indipendenza della Confederazione (art. 266 cifra 2 cpv. 2 CP).
A partire dal 1. gennaio 2011, la stessa possibilità è stata prevista, sempre soltanto per i casi particolarmente gravi, anche per i crimini contro l’umanità (art. 264a cifra 2 CP) e per alcuni crimini di guerra (art. 264c cifra 3 CP e cpv. 2 degli art. 264 d-h CP).
Infine, la facoltà di condannare ad una pena detentiva a vita è prevista per alcuni reati contemplati nel Codice penale militare.
c.
Nella pratica dei tribunali svizzeri, la pena detentiva a vita è pronunciata quasi esclusivamente in caso di assassinio (Baechtold, Exécution des peines, Berna 2008, n. 8, pag. 90) e ciò accade, secondo le statistiche criminali, in media una volta all’anno (Kuhn in: Commentaire romand, Code pénal I, Basilea 2009, n. 20 ad art. 40 CP; messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero e del Codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile del 21 settembre 1998, FF 1999 II 1716-1717, dal quale emerge che tra il 1990 e il 1995 sono state pronunciate mediamente 1,3 pene perpetue all’anno).
La possibilità alternativa di infliggere all’autore colpevole di assassinio il carcere a vita o una pena detentiva non inferiore a dieci anni è stata introdotta il 1. gennaio 1990. Infatti, secondo la norma precedentemente in vigore, l’assassinio era punibile unicamente con la reclusione perpetua.
Tale sanzione aveva, tuttavia, sempre dato adito a discussioni poiché era considerata dai suoi oppositori inumana e poco compatibile con la politica, la psicologia e la pedagogia criminali. Secondo i suoi oppositori, poiché i suoi effetti dipendevano dall'età del delinquente, la pena perpetua non era commisurata alla colpa commessa e poteva essere, dunque, fonte di gravi disparità di trattamento. Preso atto di tali critiche e preso atto sia della prassi giudiziaria secondo cui venivano ammessi motivi di attenuazione della pena talvolta piuttosto artificiosi per evitare di dover pronunciare la reclusione perpetua - così come dimostrato dalle statistiche criminali riferite al vecchio art. 112 CP che indicavano che l'assassino era raramente condannato alla reclusione perpetua - sia del fatto che nella prassi l’art. 112 CP aveva progressivamente ceduto il passo alla norma che reprime l’omicidio intenzionale
, il
legislatore ha conferito al giudice la facoltà di pronunciare, invece della reclusione perpetua, una pena di reclusione di durata determinata, non inferiore ai dieci anni (messaggio
concernente la modifica del Codice penale e del Codice penale militare
del 26 giugno 1985, FF 1985 II 913; Disch, L’homicide intentionnel, Losanna 1999, pag.302 e segg.; Stratenwerth/Jenny/Bommer, Schweizerisches Strafrecht, BT I, n. 26 ad § 1, pag. 34;
cfr., in particolare sulla minor applicazione dell’art. 112 CP prima del 1990, Hurtado Pozo, Droit pénal, Partie spéciale, Ginevra/Zurigo/Basilea 2009, n. 150 ad § 3, pag. 51; Disch,
L’homicide intentionnel, Losanna 1999, pag. 302 e segg.)
.
Nella procedura di consultazione, la modifica dell’art. 112 CP era stata ampiamente criticata. Una parte degli oppositori contestava il principio stesso di un allentamento della sanzione temendo che, con l’applicazione di ulteriori motivi di attenuazione, si giungesse a pronunciare pene sensibilmente inferiori ai dieci anni e, quindi, inadeguate a punire gli omicidi più gravi, commessi senza alcuno scrupolo. Altri oppositori, pur approvando l'allentamento della sanzione, proponevano, invece, una pena minima di 12 o 15 anni (m
essaggio concernente la modifica del Codice penale e del Codice penale militare
del 26 giugno 1985, FF 1985 II 911 e segg.).
In ogni caso - ha spiegato all’epoca il CF - essendo prevista nella parte generale del CP, la pena perpetua in quanto tale avrebbe potuto venir messa in discussione soltanto nell’ambito di una futura revisione di tale parte del CP (messaggio
concernente la modifica del Codice penale e del Codice penale militare
del 26 giugno 1985, FF 1985 II 913;
Hurtado Pozo, Droit pénal, Partie spéciale, Ginevra/Zurigo/Basilea 2009, n. 149 ad § 3, pag. 51).
d.
In occasione della revisione della parte generale del Codice penale, entrata in vigore il 1. gennaio 2007, la possibilità di infliggere il carcere a vita è, per finire, stata mantenuta. Nonostante l’avamprogetto redatto da Schultz nel 1987 ne prevedesse l’abolizione (Schultz, Bericht und Vorentwurf, pag. 77 e segg.; Brägger in: Basler Kommentar, StGB I, Basilea 2007, n. 5 ad art. 40 CP; Disch,
L’homicide intentionnel, Losanna 1999, pag. 355
), nel 1993 la commissione d’esperti ha, infatti, discretamente (e senza spiegazione alcuna) reintrodotto tale sanzione (avamprogetto 1993, pag. 14) e il legislatore ha condiviso tale impostazione.
Tale scelta è, tuttavia, stata criticata da una parte della dottrina. Ancora recentemente Kuhn, con riferimento a quanto previsto nei sistemi penali più moderni del continente europeo (quale quello norvegese dal 1981), ha, infatti, proposto di abolire la pena detentiva a vita (e/o di abbassare il limite massimo di 20 anni della pena detentiva) al fine di rendere più umano e moderno il sistema delle sanzioni vigente in Svizzera (Kuhn in: Commentaire romand, Code pénal I, Basilea 2009, n. 19-20 ad art. 40 CP).
Il Consiglio federale ha, invece, respinto la proposta, avanzata da più parti, di introdurre una pena detentiva “effettivamente a vita” (mozione Béguin, mozione Keller, mozione Scherrer) o almeno una pena detentiva di 30 anni non riducibile (mozione Béguin), considerando - al di là dell’importante maggior onere finanziario a carico della comunità che l’accoglimento di tale proposta avrebbe comportato - che è, di principio, impossibile prevedere come evolverà un condannato nel corso dei 15-20 anni successivi alla sua condanna e che una pena detentiva effettivamente a vita negherebbe al condannato la facoltà e la volontà di cambiare, privandolo di qualsiasi prospettiva positiva di vita (messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero e del Codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile del 21 settembre 1998, FF 1999 II 1716-1718; Hurtado Pozo, Droit pénal, Partie générale, Ginevra/Zurigo/Basilea 2008, n. 1590 ad § 7, pag. 506).
Dando seguito all’annosa ed unanime critica della dottrina, il legislatore ha, invece, rinunciato alla differenziazione concettuale - ritenuta antiquata e, per il condannato, diffamante - tra reclusione e detenzione, la cui forma d’esecuzione non si differenziava, peraltro, più ormai dalla seconda revisione parziale del CP del 1971 (messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero e del Codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile del 21 settembre 1998, FF 1999 II 1714; Brägger in: Basler Kommentar, StGB I, Basilea 2007, n. 5 ad art. 40 CP).
5.4.
5.4.1.
In concreto, occorre, innanzitutto, rilevare che la pena detentiva a vita inflitta al ricorrente si situa nel quadro edittale applicabile, ritenuto, da un lato, già solo per il reato di assassinio, la comminatoria di pena dell’art. 112 CP e considerato, dall’altro, l’incidenza sulla pena del concorso di reati, visto che AP 1 risponde, non solo di assassinio, ma anche di interruzione punibile della gravidanza (che, come il primo, è un crimine ai sensi dell’art. 10 cpv. 2 CP).
5.4.2.
Resta da verificare se la pena si fonda su criteri estranei all’art. 47 CP, disattende elementi di valutazione prescritti da tale norma oppure è eccessivamente severa.
a.
Preliminarmente, va detto che il Tribunale federale ha già avuto modo di stabilire che circostanze aggravanti e circostanze attenuanti possono compensarsi (STF 6S.20/2006 del 12.6.2006 consid. 4; 6S.444/2004 del 14.3.2006 consid. 2; STF 6S.151/2004 del 15.6.2004 consid. 2.2; 6S.145/2003 del 13.6.2003 consid. 4.1; DTF 127 IV 101 consid. 2b, 116 IV 300 consid. 2a) sicché la pena massima prevista per un reato - in concreto, la pena detentiva a vita - può essere pronunciata anche in presenza di circostanze attenuanti, nella misura in cui queste siano compensate da circostanze aggravanti la colpa come, ad esempio, in caso di concorso di reati (cfr. DTF 116 IV 300 in cui il TF ha, fra l’altro, stabilito che, in caso di concorso fra assassinio commesso in stato di responsabilità scemata e un altro reato, può essere pronunciata la pena detentiva a vita).
In concreto, dato il concorso del reato di assassinio con il reato di interruzione punibile della gravidanza - reato che, lo si ricorda, è punito con una pena detentiva variante da un minimo di un anno a un massimo di dieci - e il conseguente importante aggravamento della colpa e, quindi, della pena che da esso discende, soltanto elementi a favore complessivamente di grande peso avrebbero potuto incidere in senso attenuante sulla pena inflitta a AP 1 (cfr. STF 6S.309/2003 del 9 ottobre 2003 consid. 4.4 in cui l’Alta Corte federale ha ritenuto che i fattori di attenuazione della pena costituiti dall’incensuratezza, dalla buona reputazione, dal comportamento positivo tenuto dall’accusato nel corso della procedura, durante la quale ha ammesso i fatti, dimostrato pentimento e presentato le sue scuse, aderendo peraltro alle pretese di parte civile non compensavano l’aggravamento della colpa derivante dal concorso del reato di assassinio con quello di turbamento della pace dei defunti).
Nel considerando dedicato alla commisurazione della pena, la Corte delle assise criminali ha proceduto all’esame delle attenuanti applicabili al caso di specie, concludendo che esse non erano tali da compensare l’aggravamento della colpa - e, di conseguenza, della pena - risultante dal concorso di reati.
Con tale argomentazione, il ricorrente neppure si confronta.
Ad ogni buon conto, come si vedrà in seguito, i primi giudici non hanno abusato del loro potere di apprezzamento ritenendo che tali elementi di attenuazione della pena o non sussistono o non hanno una portata tale da diminuire in modo significativo la valenza aggravante delle circostanze qualificanti la colpa di AP 1.
b.
La censura relativa alla mancata considerazione dell’incensuratezza quale circostanza attenuante è irricevibile.
Da un lato, poiché - contrariamente a quanto sembra pretendere il ricorrente - i primi giudici hanno tenuto conto dell’assenza di precedenti penali a suo carico. Semplicemente, essi hanno considerato che tale circostanza - avuto, in particolare, riguardo alla giovane età e alla buona situazione personale e professionale dell’autore -
“non è ad ogni buon conto di così particolare rilievo da compensare la descritta gravità della colpa, o comunque da incidere su di essa in modo significativo”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113-114).
D’altro lato, poiché il ricorrente non spiega i motivi per cui tale attenuante avrebbe dovuto essere maggiormente considerata.
A titolo abbondanziale, si osserva, qui, che, quand’anche fosse ricevibile, la censura andrebbe respinta poiché nulla può essere rimproverato alla prima Corte per aver ritenuto che,
“in un uomo di trentatré anni ben scolarizzato e con una professione e una condizione benestante, socialmente ben inserito”,
l’assenza di precedenti penali
“appare quasi scontata”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 113). Infatti, tale considerazione altro non fa che concretizzare la giurisprudenza del Tribunale federale che ha recentemente criticato il fatto che l’assenza di precedenti penali venga presa in considerazione dai tribunali in modo indiscriminato - indipendentemente, cioè, dalla diversa rilevanza che l’incensuratezza ha se vantata da un giovane adulto (per cui non costituisce una particolare prestazione) oppure da una persona più in là con gli anni - e ha concluso che, per la valutazione di tale circostanza attenuante, non si può fare astrazione dalle circostanze concrete.
Il Tribunale federale è, poi, andato oltre, modificando - sulla scorta, tra l’altro, di queste considerazioni - la sua giurisprudenza e stabilendo che, di regola, l’incensuratezza ha, nell’ambito della commisurazione della pena, un effetto neutro e, di conseguenza, non deve venir valutata in senso attenuante, a ragione, in particolare, del rischio di disparità che la considerazione indiscriminata di tale circostanza comporta. Secondo il TF, l’assenza di precedenti penali può essere presa in considerazione nella valutazione della personalità dell’autore ed acquisire una rilevanza per l’attenuazione della pena quando essa è indice di una particolare diligenza nel rispetto della legge da parte dell’autore (come è il caso, per esempio, per un autista professionista che si rende colpevole di un’infrazione alla LCStr soltanto dopo anni di attività; DTF 136 IV 1 consid. 2.6).
Ciò non è, evidentemente il caso in concreto: non vi sono elementi che rendono particolarmente meritoria l’incensuratezza del ricorrente.
c.
La censura con cui il ricorrente rimprovera alla prima Corte di non avere tenuto conto del suo stato emotivo al momento dei fatti cade nel vuoto nella misura in cui si diparte da uno stato di fatto diverso da quello accertato senza arbitrio dalla prima Corte.
Come visto sopra, infatti, è in un procedimento esente da pecche rilevabili in questa sede che la prima Corte ha accertato che AP 1 - nonostante l’emotività “
necessariamente
” scatenata dai fatti - ha conservato lucidità e capacità di agire razionalmente e, dunque, non ha agito in uno stato di alterazione, ancorché non patologica.
Va, poi, comunque, rilevato che di quell’emotività - che, in ogni modo, lo si ricorda, non ha mai alterato né la coscienza né la volontà dell’autore - la prima Corte ha, in qualche modo, tenuto conto (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110-111). E, al riguardo, non si può, ragionevolmente, sostenere che - a fronte di un gesto gravissimo per movente, modalità d’esecuzione e danno arrecato - un simile stato sia sufficiente a diminuire in qualche modo la colpa dell’autore. Da un lato, perché si trattava di una “carica emotiva” che, secondo gli accertamenti peritali, non ha in alcun modo alterato le capacità mentali dell’autore. D’altro - e soprattutto - se si considera che, senza arbitrio, la prima Corte ha accertato che quella carica emotiva non era all’origine del gesto ma ad esso era connaturata nella misura in cui un tale gesto non può non avere un impatto emotivo su chi lo compie (
“la carica emotiva che necessariamente comporta il fatto di avere narcotizzato e soffocato in casa propria, a pochi passi dal proprio figlio dormiente, la propria moglie incinta”
; sentenza impugnata, consid. 10, pag. 110; cfr. supra, consid. 4.3).
d.
Nemmeno giova al ricorrente la censura relativa alla considerazione, quale aggravante della sua colpa, della premeditazione dell’uccisione.
Infatti, come visto al considerando 2.4, i primi giudici hanno accertato che il ricorrente ha premeditato il suo gesto in un disegno che è nato con la sottrazione dello Stilnox ed ha conservato forma di pensiero sino a quando, pressato dalle richieste dell’amante, egli ne ha precisato il contenuto ed ha iniziato a metterlo in atto.
Tale accertamento ha resistito alla censura d’arbitrio e, pertanto, vincola questa Corte che non può che concludere che nulla può essere rimproverato alla prima Corte per avere tenuto conto, nella valutazione della colpa e, di riflesso, nella commisurazione della pena, di tale circostanza.
e.
Il gravame non è destinato a miglior sorte nemmeno in relazione alla critica secondo cui la prima Corte avrebbe dovuto tenere conto in senso maggiormente attenuante della confessione del ricorrente. Infatti, come visto sopra, è senza abusare del loro potere di apprezzamento che, dopo avere constatato che,
“per finire, AP 1 è giunto al dibattimento sostanzialmente confesso sui fatti imputatigli”
, i primi giudici hanno precisato che
“di certo non si è trattato di una confessione spontanea né immediata”
, concludendo che
“l’assunzione di colpa e di responsabilità”
da parte del ricorrente -
“che pure c’è stata”
- si è rivelata
“ancora debole e incompleta”
(sentenza impugnata, consid. 10, pag. 114). E, pertanto, è in modo conforme al diritto federale che a tale circostanza i primi giudici non hanno attribuito un valore attenuante sufficiente a ridurre in modo significativo la gravità della colpa del ricorrente.
Come dettagliatamente esposto al considerando 3.1, il ricorrente ha, in effetti, assai stentato a “ritrovare i suoi ricordi” di quanto avvenuto la sera del 25 marzo 2010 ed è solo a poco a poco che egli ha svelato agli inquirenti come si sono svolti i fatti.
Come correttamente rilevato dalla prima Corte, la sua confessione non può, dunque, dirsi immediata. Neppure essa può essere considerata spontanea, ritenuto che AP 1 ha aspettato di essere posto a confronto con i riscontri oggettivi per ammettere di avere somministrato alla moglie una massiccia dose di sonnifero prima di soffocarla.
La tesi del ricorrente che rimprovera alla prima Corte di non avere tenuto conto, nella commisurazione della pena, che l’amnesia è l’unica ragione del suo ritardo ad ammettere la somministrazione del sonnifero non merita tutela poiché si diparte da un’ipotesi di fatto diversa da quella accertata con un procedimento scevro da arbitrio dai primi giudici che hanno ritenuto che le amnesie, con le quali AP 1 ha giustificato le sue tardive ammissioni, non erano reali (cfr. supra, consid. 3.4).
Il fatto che - come evidenziato nel gravame - il ricorrente ha reso la sua confessione (riservata la questione dell’uso del sonnifero) ancor prima di aver potuto conferire con il suo difensore è irrilevante nella misura in cui, come visto, nella commisurazione della pena, la prima Corte ha considerato - seppur con le riserve di cui si è appena detto - che AP 1 si è presentato al dibattimento sostanzialmente reo confesso.
Inoltre, fino al 31 dicembre 2010, la procedura penale ticinese non ammetteva la presenza del difensore dell’accusato agli interrogatori effettuati dalle autorità di polizia (art. 61 cpv. 3 CPP TI) e prevedeva che l’imputato in stato di arresto aveva il diritto di conferire liberamente con il proprio difensore soltanto a condizione che l’interesse dell’istruzione formale o motivi di sicurezza non vi si opponessero (art. 64 cpv. 2 CPP TI). Certo, il Codice di diritto processuale penale svizzero prevede che
“in caso di interrogatori da parte della polizia l’imputato ha il diritto di esigere la presenza del suo difensore e che questi possa a sua volta porre domande”
(art. 159 cpv. 1) e che, se è privato della sua libertà personale (in caso, quindi, di arresto provvisorio oppure di carcerazione preventiva rispettivamente di sicurezza), l’interrogato ha il diritto (assoluto) di conferire liberamente con il suo difensore (art. 159 cpv. 2 e 223 cpv. 2). Tali norme non erano, tuttavia, ancora in vigore nel 2010, quando era in corso l’inchiesta a carico di AP 1. Nella misura in cui l’inchiesta è stata condotta secondo i crismi della procedura in vigore all’epoca e non avendo il ricorrente spiegato perché gli inquirenti avrebbero violato i diritti della difesa limitando i colloqui tra accusato e difensore, la censura cade nel vuoto. Del resto, il ricorrente stesso ammette che “(
forse) una più tempestiva presenza del difensore”
avrebbe potuto in concreto
“risultare ininfluente”
. D’altro canto, AP 1 sostiene che la presenza del suo legale sin dai primi interrogatori di polizia
“avrebbe, per lo meno, permesso d’evitare versioni discordanti”
che il procuratore pubblico e la Corte di prima sede hanno, poi, arbitrariamente utilizzato per evidenziare la mancanza di collaborazione da parte sua. Così argomentando, il ricorrente dimentica che la Corte delle assise criminali, dopo avere escluso la credibilità delle amnesie da lui riferite, ha dovuto prendere atto che egli ha sempre tentato di fornire una versione a lui più favorevole, sottacendo la verità, e ciò senz’altro fino ai primi di agosto del 2010, quando egli ha finalmente ammesso di aver somministrato il sonnifero a A.. A quel momento, però, il difensore aveva ormai già da tempo potuto conferire liberamente con il suo assistito e partecipare agli interrogatori. Ciò dimostra che neppure l’intervento del legale ha convinto AP 1 a collaborare pienamente con gli inquirenti.
Anche nella misura in cui si duole della mancata presa in considerazione nella commisurazione della pena della confessione rispettivamente della collaborazione fornita dal ricorrente, il gravame si rivela, dunque, nella limitata misura della sua ammissibilità, infondato.
f.
Parimenti, la censura relativa a quello che il ricorrente chiama “sincero pentimento” - senza tuttavia invocare l’applicazione dell’attenuante specifica dell’art. 48 lett. d CP - cade nel vuoto.
In effetti, contrariamente a quanto sostenuto nel gravame, la prima Corte ha tenuto conto - considerandole circostanze attenuanti - sia del regime di carcerazione patito da AP 1 (non senza precisare che l’isolamento nel quale ha trascorso le prime settimane di detenzione è stato deciso dallo psichiatra del carcere al fine di garantire la sua stessa sicurezza) sia della sua rinuncia al saldo del suo CCP e dei conti cointestati a A., al provento della vendita della sua motocicletta e della sua vettura, nonché all’eredità della moglie ed alla donazione di metà del fondo su cui si erge la casa di _.
Nulla può essere rimproverato alla prima Corte per avere definito “
dovute
” - pur se “
lodevoli”
- tali rinunce e per averne, perciò, implicitamente relativizzato la portata attenuante. Non può, infatti, essere dato alcun peso alla rinuncia all’eredità della moglie ritenuto che il ricorrente non avrebbe comunque potuto goderne in forza dell’art. 540 cpv. 1 cifra 1 CC in base al quale chi ha volontariamente cagionato la morte del defunto va considerato d’ufficio indegno di succedere.
Neppure grande peso va attribuito alla rinuncia all’autorità parentale sul figlio B.. Non avendo contestato la qualifica giuridica del reato di assassinio ed essendo ben conscio dell’incidenza sulla pena del concorso tra tale reato e quello di interruzione punibile della gravidanza, AP 1 non poteva aspettarsi altro che una sanzione molto severa, verosimilmente superiore al numero di anni che separano B. dalla maggiore età. Inoltre, va detto che, alla luce del fatto che egli ne ha ucciso la madre, le competenti autorità civili avrebbero comunque verosimilmente privato il ricorrente dell’autorità parentale sul figlio (cfr. art. 311 cpv. 1 cifra 2 CC).
Con queste argomentazioni che sottostanno alla conclusione della prima Corte secondo cui le rinunce erano “dovute” , il ricorrente non si confronta. O, in ogni caso, non spiega perché tali sue rinunce avrebbero dovuto venire maggiormente apprezzate.
Nemmeno il ricorrente spiega perché le condizioni di carcerazione patite/accettate avrebbero dovuto pesare maggiormente di quanto ritenuto dalla prima Corte e portare ad un’attenuazione della sua colpa talmente importante da imporre una diminuzione della pena.
La relativa censura è, quindi, irricevibile.
In ogni modo, a titolo abbondanziale, si richiamano, qui, per il merito, le DTF 116 IV 300 consid. 2a e 127 IV 101 consid. 2b, nonché le STF 6S.309/2003 del 9 ottobre 2003 consid. 4.4, 6S.145/2003 del 13.6.2003 consid. 4.1; 6S.151/2004 del 15.6.2004 consid. 2.2; 6S.444/2004 del 14.3.2006 consid. 2; 6S.20/2006 del 12.6.2006 consid. 4.
Sempre a titolo abbondanziale, questa Corte osserva che, per analoghe considerazioni, la censura ricorsuale andrebbe respinta (sia in ordine che nel merito) qualora con essa AP 1 avesse voluto rimproverare alla prima Corte di avere violato il diritto federale non riconoscendogli l’attenuante specifica del sincero pentimento ex art. 48 lett. d CP ritenuto, in particolare, che soltanto atti particolarmente meritori con cui il reo dimostra di avere preso coscienza delle sue colpe e di essersene pentito ne giustificano l’applicazione (FF 1999, p. 1868; STF 6B_614/2009 del 10 agosto 2009 consid. 1.1; 6B_827/2008 del 7 gennaio 2009 consid. 2.2.2; 6B_822/2008 del 5 novembre 2008 consid. 2.3; 6B_78/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.5; 6B_622/2007 dell’8 gennaio 2008 consid. 3.2; 6S.17/2003 del 3 febbraio 2003 consid. 2.1; 6S.146/1999 del 26 aprile 1999 consid. 3a; DTF 118 IV 342 consid. 2d; DTF 107 IV 98 consid. 1 e rif.; CCRP 17.2001.8 del 13 febbraio 2001 consid. 2).
g.
Non giova al ricorrente nemmeno l’argomentazione secondo cui la Corte delle assise criminali non ha per nulla considerato l’impatto della sanzione sul suo avvenire.
Da un lato, infatti, non va dimenticato che la portata attenuante di tale circostanza - quand’anche fosse realizzata - non può essere enfatizzata in quanto, per costante giurisprudenza, essa permette soltanto attenuazioni marginali della pena che deve, comunque e sempre, rimanere adeguata alla gravità della colpa dell’autore (STF 6B_289/2009 del 16 settembre 2009 consid. 2.4).
D’altro lato, sempre per costante dottrina e giurisprudenza , il giudice deve tener conto, quale circostanza attenuante nell’ambito dell’art. 47 CP, della sensibilità personale all'espiazione della pena (
Strafempfindlichkeit)
per rapporto allo stato di salute, all'età, agli obblighi familiari, alla situazione professionale, ecc. (DTF 102 IV 231 consid. 3 pag. 233; STF 6P.152/2005 del 15 febbraio 2006 consid. 8.1 e 6S.163/2005 del 26 ottobre 2005 consid. 2.1 con rinvii; Wiprächtiger, op. cit., n. 117 ad art. 47; Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht, AT II, Berna 2006, n. 60 e segg. ad § 6), soltanto se la situazione personale invocata (stato di salute, età, situazione familiare,...) si scosta in modo particolare dalla comune esperienza e rende, perciò, la pena comprensibilmente e sensibilmente più dura da sopportare per il condannato che per altri (STF 6B_540/2010 del 21 ottobre 2010 consid. 1.4.2; 6B_470/2009 del 23 novembre 2009 consid. 2.5; 6B_664/2009 del 26 ottobre 2009 consid. 1.3; 6B_921/2008 del 21 agosto 2009 consid. 6.4; 6B_895/2008 del 14 aprile 2009 consid. 4.3.4; 6B_968/2008 del 20 marzo 2009 consid. 1.2.2; 6B_426/2008 del 29 agosto 2008 consid. 3.2; 6B_228/2008 del 19 giugno 2008 consid. 2.3; 6S.163/2005 del 26 ottobre 2005 consid. 2.1; 6S.144/2001 del 28 gennaio 2002; 6S.703/1995 del 26 marzo 1996; 6S.750/1995 del 13 marzo 1996; Wiprächtiger, op. cit., n. 118 ad art. 47; Bruns, Das Recht der Strafzumessung, 2. Auflage, Köln etc., 1985, p. 197 e segg.; Stratenwerth, op. cit., n. 60 e segg. ad § 6; Queloz/Humbert, Commentaire romand, Code pénal I, Basilea 2009, n. 82 e segg. ad art. 47 CP; Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, Zurigo/San Gallo 2008, n. 33 ad art. 47).
In concreto, il ricorrente ha un figlio di otto anni che vive in Ticino così come la sua famiglia d’origine (genitori e sorella) e che, perciò, avrà la possibilità di regolarmente vedere, secondo quanto stabilito dal regolamento carcerario e dalla competente autorità di esecuzione della pena.
In queste circostanze, la situazione familiare di AP 1 non lo pone in una condizione particolarmente più gravosa di quella di un qualsiasi altro detenuto con famiglia condannato ad una pena simile a quella inflitta a lui. Non può, quindi, essere ammessa una sua particolare sensibilità alla pena in ragione dei suoi legami familiari, ritenuto come ogni pena detentiva abbia delle ripercussioni sulla famiglia e sui figli (STF 6B_470/2009 del 23 novembre 2009 consid. 2.5).
Neppure giustificano un’attenuazione della pena inflitta al ricorrente quelle che sembrano essere preoccupazioni relative al suo futuro reinserimento nel mondo lavorativo ritenuto che, secondo costante giurisprudenza, il criterio fondamentale per la commisurazione della pena rimane la gravità della colpa mentre che, come detto, considerazioni relative a difficoltà di natura sociale e/o professionale giocano un ruolo soltanto marginale (STF 6B_664/2009 del 26 ottobre 2009 consid. 1.3; 6B_289/2009 del 16 settembre 2009 consid. 2.4; 6B_895/2008 del 14 aprile 2009 consid. 4.3.4; 6B_968/2008 del 20 marzo 2009 consid. 1.2.2).
Per il resto, si osserva che - contrariamente a quanto addotto dal ricorrente - la pena detentiva a vita non esclude qualsiasi prospettiva di un futuro vissuto a piede libero, ritenuto che la liberazione condizionale può essere concessa dopo 15 anni o, eccezionalmente, già dopo dieci anni dalla condanna (cfr. art. 86 cpv. 5 CP).
h.
Ritenuto quanto sopra in relazione alle circostanze attenuanti, non si può non precisare che la Corte di prime cure non ha ecceduto nel suo potere d’apprezzamento infliggendo a AP 1 la pena detentiva a vita.
La colpa del ricorrente è, infatti, particolarmente grave non soltanto per avere egli ucciso la moglie e il figlio che lei portava in grembo per liberarsene e potere vivere senza problemi la nuova relazione sentimentale - ciò che da solo configura assassinio (DTF 101 IV 279 consid. 4 pag. 283; 77 IV 56 consid. 3 pag. 64) in concorso con l’interruzione punibile della gravidanza e concretamente realizza la soppressione di due vite - ma anche per avere, a lungo, premeditato tali gesti, in ogni caso a partire dalla sottrazione dello Stilnox al padre tra il mese di febbraio e l’inizio di marzo 2010 (cfr., in particolare, STF 6B_1092/2009 del 22 giugno 2010 in cui il Tribunale federale ha precisato che la premeditazione del gesto rende la colpa dell’assassino particolarmente grave), e per avere lasciato durante un intero mese che quello che, dapprima, era solo un pensiero acquistasse forma e sostanza, per avere, poi, soppresso la vita della moglie e del nascituro nelle modalità accertate dalla prima Corte ed a cui non è estranea una certa forma di crudeltà, per avere, in seguito, inscenato per ben nove giorni con cinismo e lucidità, incurante delle sofferenze aggiuntive che così infliggeva ai famigliari della moglie, la sceneggiata che doveva garantirgli l’impunità e per avere, infine, infierito crudelmente sul cadavere della moglie dimostrando - se ancora ve ne fosse stato bisogno - anche in quella circostanza una sconcertante spietatezza.
A fronte di una colpa di tale gravità, la conclusione della prima Corte secondo cui le circostanze attenuanti riconosciute non erano atte - per qualità - ad incidere in modo significativo sulla pena non presta il fianco a critica alcuna (cfr. STF 6S.309/2003 del 9 ottobre 2003 in cui il TF ha confermato una condanna alla pena perpetua per assassinio e turbamento della pace dei defunti annotando che il fattore di aggravamento della pena costituito dal concorso di reati controbilanciava gli elementi ritenuti a favore del condannato e cioè l’assenza di precedenti, una buona reputazione, un comportamento positivo durante il procedimento nell’ambito del quale aveva ammesso i fatti, espresso rimorso e presentato le sue scuse, aderendo alle pretese civili della famiglia della vittima; cfr. pure sentenza CCRP in re A. del 18.12.2007 che ha confermato la pena di 18 anni di detenzione inflitta ad un autore colpevole di assassinio per avere ucciso la moglie senza premeditazione, con riconoscimento delle attenuanti dell’incensuratezza, della qualità di giovane adulto, di una particolare sensibilità alla pena e della disponibilità a versare l’intero peculio ai familiari della vittima; cfr., pure, sentenza 1. aprile 2011 con cui, a _, è stata inflitta la pena detentiva a vita ad una coppia che ha ucciso l’amante dell’uomo perché la ragazza rifiutava di abortire, bruciando, poi, il cadavere e ricoprendolo di calce nel tentativo di impedirne il ritrovamento).
6.
Il ricorrente sembra, altresì, lamentare una disparità di trattamento nell’ambito della commisurazione della pena ponendo a confronto il suo e l’ultimo caso svizzero (giurassiano) a lui noto che si è concluso con una condanna all’ergastolo dell’autore che, per vendetta nei confronti della madre del piccolo, aveva sgozzato il proprio figlio di sei anni, dopo essere penetrato nell’abitazione della donna, da cui viveva separato, ed averla stuprata. Dopo avere ricordato che, in quel caso, l’autore aveva dato prova di assenza di scrupoli, intento vendicativo e volontà omicida (finalizzata a fare del male) che andavano
“oltre ogni comprensione”
, il ricorrente sostiene che, al contrario, egli non ha premeditato il suo gesto ma ha agito in una
“situazione «emotivamente pregnante» nella quale il Male ha sopraffatto il Bene”
(ricorso, pag. 13).
6.1.
Nell’ambito della commisurazione della pena, il principio della parità di trattamento può essere invocato solo nelle rare ipotesi in cui pene determinate in modo di per sé conforme alle norme applicabili diano luogo ad un'obiettiva disuguaglianza. Il confronto con processi analoghi suole, invece, essere infruttuoso, ogni caso dovendo essere giudicato in base alle sue particolarità oggettive e soggettive (DTF 123 IV 150 consid. 2a pag. 163; 116 IV 292 consid. 2 pag. 294; Corboz, La motivation de la peine, in: ZBJV 131/1995 pag. 12 seg.; cfr. anche DTF 124 IV 44 consid. 2c pag. 47). La giurisprudenza ha, del resto, sottolineato il primato del principio della legalità su quello della parità di trattamento (DTF 124 IV 44 consid. 2c), per cui non è sufficiente che il ricorrente citi l’uno o l’altro caso in cui una pena particolarmente mite è stata fissata per poter pretendere lo stesso trattamento (STF 6B_116/2008 del 19 novembre 2008 consid. 1.2; 6S.345/2005 del 19 ottobre 2005 consid. 1.1; DTF 120 IV 136 consid. 3a), ritenuto che una certa disuguaglianza nell'ambito della commisurazione della pena si spiega normalmente con il principio dell'individualizzazione, voluto dal legislatore (DTF 135 IV 191, consid. 3.1; 124 IV 44 consid. 2c).
Ne segue che in materia di parità di trattamento la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo - come il Tribunale federale (DTF 135 IV 191, consid. 3.1) - quando il giudice del merito abbia ecceduto o abusato del suo potere di apprezzamento, dando luogo ad una disparità flagrante (sentenza CCRP 17.2003.7 del 28 marzo 2003 consid. 4; sentenza CCRP 17.2000.49 del 15 marzo 2001 consid. 6d/aa; sentenza CCRP 17.2001.34 del 23 ottobre 2001 consid. 7).
6.2.
Il ricorrente si limita a raffrontare la pena inflittagli con quella pronunciata in un caso deciso nel Canton _, senza spiegare perché nel caso giurassiano
“l’intento vendicativo”
e
“la volontà omicida (per fare del male)”
sarebbero andati
“oltre ogni «comprensione»”
mentre così non sarebbe nel suo caso. Premesso che le argomentazioni addotte dal ricorrente (assenza di premeditazione e momentanea vittoria del Male sul Bene) sono irricevibili già perché si dipartono da un’ipotesi fattuale diversa da quella accertata senza arbitrio dalla prima Corte, va detto che richiami del genere, privi di precise citazioni, non seguiti da una circostanziata disamina delle fattispecie e dei motivi che sorreggono le condanne sono totalmente inadatti a sostanziare una disparità di trattamento in quanto, come visto, la Corte di cassazione e di revisione penale non è autorità munita di pieno potere cognitivo in materia di commisurazione della pena.
Anche su questo aspetto, il ricorso si rivela, dunque, inammissibile.
A titolo abbondanziale si osserva, poi, che, anche volendo far astrazione dall’irricevibilità della censura, essa andrebbe, comunque, respinta già solo per il fatto che, come visto, non basta che il ricorrente citi un solo caso risoltosi con una condanna più mite rispetto a quella pronunciata nei propri confronti per poter pretendere lo stesso trattamento (STF 6S.345/2005 del 19 ottobre 2005 consid. 1.1; DTF 120 IV 136 consid. 3a; cfr., infine, DTF 124 IV 44 consid. 2c in cui il TF ha precisato che il principio della parità di trattamento ha un’importanza limitata sul piano intercantonale tanto che le Corti cantonali non sono vincolate alle decisioni rese in un altro Cantone).
Soltanto di transenna, si osserva, poi, che, per quanto è dato di sapere, dal confronto del caso (deciso il 21 ottobre 2010 dalla Corte criminale del _) con quello che qui ci occupa non emergono tanto le differenze, quanto il tratto comune costituito dal concorso dell’assassinio con un altro grave crimine (in quello, la violenza carnale e, in questo, l’interruzione punibile della gravidanza).
7.
All’inizio del suo esposto - ma la censura viene trattata dopo le altre per ragioni strutturali - il ricorrente sostiene che la prima Corte è incorsa in un vizio essenziale di procedura a causa di una
“insufficiente ed arbitraria motivazione della pena”
(ricorso, pag. 3).
Il ricorrente lamenta, in particolare, che, “
nelle 119 pagine della sentenza, il tema della sanzione è sviluppato da pag. 108 a pag. 114
”
(ricorso, pag. 5).
7.1.
Con il titolo marginale
“obbligo di motivazione”
, l'art. 50 CP riprende la giurisprudenza elaborata sotto il vecchio diritto (FF 1999, pag. 1747) prevedendo che, se la sentenza deve essere motivata, il giudice vi espone anche le circostanze rilevanti per la commisurazione della pena e la loro ponderazione. Questo significa che, nella sua decisione, il giudice deve indicare gli elementi da lui considerati decisivi relativi al reato o all'autore, in modo che sia possibile controllare se e in quale modo tutti i fattori rilevanti, sia a favore che a sfavore del condannato, sono stati effettivamente ponderati. Il giudice può passare sotto silenzio gli elementi che, senza abuso del potere di apprezzamento, gli appaiono non pertinenti o di importanza minore. In altre parole, la motivazione deve giustificare la pena pronunciata e permettere in particolare di seguire il ragionamento che ne è alla base. Il giudice non è tenuto a diffondersi necessariamente su ogni fattore, né ad indicare in cifre o in percentuali l'importanza attribuita ai singoli elementi considerati nella commisurazione della pena. Egli deve, però, motivare in modo da permettere al condannato e, poi, all’autorità superiore di seguire e valutare il percorso che l’ha portato alla commisurazione della pena (DTF 136 IV 55 consid. 5.5; 134 IV 17 consid. 2.1; 127 IV 101 consid. 2c; STF 6B_470/2009 del 23 novembre 2009 consid. 2.2; 6B_116/2008 del 19 novembre 2008 consid. 1.2; 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.4; 6B_370/2007 del 12 marzo 2008 consid. 2.4; 6B_472/2007 del 27 ottobre 2007 consid. 8.1 e rinvii; 6B.14/2007 del 17 aprile 2007 consid. 5.3; Stratenwerth/Wohlers, op. cit., n. 2 ad art. 50 CP). Ciò detto, va precisato che, secondo la giurisprudenza, un mero elenco di elementi pro e contro l'imputato non è comunque sufficiente (STF 6S.390/2005 del 27 febbraio 2005 consid. 3). Al contrario. Più la pena è rigorosa, più la motivazione deve essere completa, soprattutto qualora - pur mantenendosi nei limiti edittali - la sanzione appaia complessivamente molto severa (DTF 127 IV 101 consid. 2c) o corrisponde alla pena massima (STF 6S.21/2002 del 17 aprile 2002 consid. 3). Ove la commisurazione della pena risulti conforme al diritto, in ogni modo, l'accoglimento di un ricorso per cassazione non si giustifica solo per far migliorare o integrare un singolo considerando della sentenza (STF 6B_540/2010 del 21 ottobre 2010 consid. 1.3; DTF 127 IV 101 consid. 2c).
7.2.
Nel caso concreto, nell’ambito della commisurazione della pena, la Corte di prime cure ha, in un primo tempo, elencato le circostanze che l’hanno portata a ritenere estremamente grave la colpa di AP 1, per poi analizzare le circostanze attenuanti applicabili. Dalla sentenza sono, perciò, deducibili gli aspetti che i primi giudici hanno considerato come aggravanti la colpa e quali sono, invece, stati considerati a sua attenuazione.
Certo i primi giudici non hanno fornito indicazioni numeriche circa il peso attribuito ai singoli elementi considerati, ma la giurisprudenza del Tribunale federale non esige che il giudice si esprima in cifre o in percentuali su ogni elemento che cita. Nel caso concreto, le motivazioni dei primi giudici appaiono lineari e, comunque, sufficienti a permetterne un esame ai sensi di quanto sopra. Inoltre, ritenuto che la pena inflitta appare, comunque, conforme al diritto, non si giustificherebbe l’accoglimento del ricorso solo per integrare la relativa motivazione (DTF 127 IV 101 consid. 2c).
Anche su questo punto, dunque, il ricorso deve essere respinto.
8.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza e vanno, pertanto, posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 CPP combinato con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bd775b3d-e7a4-5f4a-ac3d-d611ded7f9c9 | in fatto: A.
Nell’ambito di una procedura di misure a protezione dell’unione coniugale avviata da PC 1 il 6 aprile 2005, il Pretore di _, con decreto supercautelare 8 novembre 2005, ha condannato RI 1 a versare fr. 2'500.- per la moglie e fr. 1'200.- per ciascuna delle due figlie minorenni, E. ed I., a titolo di contributi alimentari mensili.
Tale assetto è stato confermato, il 3 maggio 2006, da un ulteriore decreto supercautelare del Pretore di _.
B. RI 1
non ha mai versato alla moglie e alle figlie gli importi fissati nei summenzionati decreti. Di conseguenza, nel dicembre 2005, PC 2 (in seguito PC 2) ha iniziato ad anticipare gli alimenti per E. e I..
C.
In data 20 ottobre 2006, PC 1 ha sporto querela contro il marito per il reato di trascuranza degli obblighi di mantenimento per sé e per le figlie.
PC 2, surrogato nei diritti della madre giusta l’art. 289 cpv. 2 CC, in data 7 settembre 2007, ha a sua volta querelato RI 1 per i contributi da questi non corrisposti alle figlie minorenni.
In data 30 luglio 2007, PC 1 ha denunciato il marito anche per i reati di minaccia, diffamazione e calunnia (cui ha aggiunto quello di “
maltrattamenti psicologici a minori”
).
D.
Con decreto d’accusa 16 maggio 2008, il procuratore pubblico ha dichiarato RI 1 autore colpevole di ripetuta trascuranza degli obblighi di mantenimento e di minaccia, proponendo la sua condanna alla pena pecuniaria – sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni – di fr. 18’000.- (corrispondenti a 90 aliquote giornaliere da fr. 200.-) e ad una multa di fr. 3'000.-. Il magistrato ha, inoltre, proposto il versamento alla parte civile PC 1 dell’importo di fr. 78'460.- e alla parte civile PC 2 dell’importo di fr. 62'240.- a titolo di risarcimento.
Contro il decreto d’accusa il prevenuto ha sollevato tempestiva opposizione.
E.
Dopo il dibattimento, con sentenza 17 marzo 2009, il giudice della Pretura penale – statuendo sull’opposizione – ha confermato la condanna di RI 1 per ripetuta trascuranza degli obblighi di mantenimento. In applicazione della pena, egli lo ha condannato alla pena pecuniaria – sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni – di fr. 3'000.- (corrispondente a 60 aliquote giornaliere da fr. 60.-) e ad una multa di fr. 800.-. Il primo giudice ha altresì confermato l’obbligo e l’entità di risarcimento delle parti civili così come proposto nel decreto d’accusa.
RI 1 è stato, per contro, prosciolto dall’imputazione di minaccia per difetto di giurisdizione.
F.
Il condannato è insorto contro tale sentenza con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data 23 marzo 2009.
Nella motivazione scritta presentata il 27 aprile 2009, RI 1 postula la propria assoluzione.
G.
Senza formulare particolari osservazioni, con scritto 8 maggio 2009, il procuratore pubblico chiede la reiezione del ricorso e la contestuale conferma della sentenza impugnata.
La parte civile PC 2, con scritto 14 maggio 2009, chiede la conferma della sentenza della Pretura Penale.
Con osservazioni 25 maggio 2009, la parte civile PC 1 postula la reiezione del ricorso siccome inammissibile, irricevibile, rispettivamente infondato. | Considerando
in diritto: 1.
Nelle sue osservazioni, la parte civile sostiene che la dichiarazione di ricorso inoltrata da RI 1 il 23 marzo 2009 è tardiva e il ricorso, di conseguenza, irricevibile.
Giusta l’art. 276 cpv. 2 CPP (applicabile in forza del rinvio di cui all’art. 278 CPP), il ricorrente può presentare la dichiarazione di ricorso per cassazione entro 5 giorni dalla comunicazione verbale dei dispositivi della sentenza.
Giusta l’art. 20 cpv. 1 CPP, il termine fissato a giorni non comprende il giorno da cui comincia a decorrere e, in forza del cpv. 2 dello stesso articolo, se l’ultimo giorno del termine scade il sabato, la domenica o un giorno ufficialmente riconosciuto come festivo, la sua scadenza è protratta al prossimo giorno feriale.
In concreto, i dispositivi della sentenza impugnata sono stati comunicati al ricorrente il giorno del dibattimento che si è tenuto il 17 marzo 2009. Ne discende che il termine di cinque giorni ex art. 276 cpv. 2 CPP è venuto a scadenza domenica 22 marzo 2009 e, quindi, in forza di quanto sopra, è stato protratto al lunedì successivo: la dichiarazione di ricorso, spedita lunedì 23 marzo 2009, è quindi tempestiva e il ricorso per cassazione di RI 1 è ricevibile.
2.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) nella misura in cui l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
3.
RI 1
lamenta, anzitutto, un vizio essenziale di procedura affermando - in modo invero confuso - di non comprendere perché il primo giudice non abbia sospeso l’azione penale ex art. 5 CPP nonostante sapesse che, il 2 marzo 2009, lui aveva chiesto la revisione della decisione dell’PC 2 con la quale veniva accolta l’istanza di anticipo degli alimenti (ricorso, pag. 2).
Prescindendo dalla (perlomeno dubbia) fondatezza nel merito di un’eventuale richiesta di sospensione ex art. 5 CPP in ragione dell’inoltro di un’istanza di revisione della decisione dell’PC 2, si osserva che nulla al proposito risulta né dagli atti né dal verbale del dibattimento.
Ritenuto che, giusta l’art. 288 lett. b CPP, le pretese irregolarità di natura procedurale vanno eccepite
“non appena possibile”
, in concreto, il ricorrente avrebbe dovuto protestare in ogni caso già in occasione del dibattimento.
Sollevato la prima volta con il ricorso per cassazione, il rimprovero al primo giudice di non aver sospeso l’azione penale ex art. 5 CPP si rivela già di primo acchito inammissibile.
4.
Il ricorrente solleva, poi, un’altro vizio di procedura nella misura in cui egli sostiene che il primo giudice, discutendo dei presupposti oggettivi del reato, si è espresso in modo poco comprensibile affermando che
“i primi due presupposti oggettivi del reato sono adempiuti”
senza però spiegare quali essi erano e senza nemmeno
“concedere la possibilità di intuirli, visto che prima della frase citata descrive quattro presupposti”
(ricorso, pag. 12-13).
La censura è palesemente infondata. Il primo giudice ha, infatti, ben spiegato quali sono gli elementi costitutivi dell’infrazione di cui all’art. 217 cpv. 1 CP, ovvero l’esistenza di un obbligo di mantenimento, la violazione di quest’obbligo e la possibilità effettiva di fornire la prestazione ed ha, poi, altrettanto ben illustrato come i primi due presupposti erano pacificamente adempiuti e come, dunque, rimanesse ancora da analizzare la sussistenza del terzo presupposto, ovvero la possibilità effettiva di fornire la prestazione (sentenza, consid. 11.2 pag. 12).
La sentenza, sotto quest’aspetto, è dunque perfettamente conforme al principio dell’obbligo di motivazione della sentenza (cfr. art. 260 cpv. 1 lett. m CPP, a sua volta scaturente dal diritto di essere sentito giusta gli artt. 6 cifra 1 CEDU e 29 cpv. 2 Cost.).
5.
RI 1 assevera, poi, che il primo giudice ha arbitrariamente accertato la sua situazione finanziaria poiché non ha tenuto conto delle dichiarazioni fiscali da lui prodotte al dibattimento che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, attestano in modo fedefacente, anche senza la relativa decisone dell’autorità, il suo reddito.
Il ricorrente, inoltre, sostiene che le donazioni ricevute dalla famiglia (che gli hanno permesso, nonostante la cattiva situazione finanziaria, di far fronte alle uscite rilevate dal primo giudice) sono, probabilmente, molto più consistenti rispetto a quanto stabilito nella prima sentenza. Purtroppo – continua il ricorrente – complice anche il fatto che la legge italiana ha soppresso l’imposta di donazione, egli non è in grado di dimostrare quale è stata la reale consistenza di tali donazioni (ricorso, pag. 8 e 13).
5.1.
Sapere quale é la situazione finanziaria del debitore e, pertanto, definire se egli è in grado di far fronte al proprio obbligo alimentare è una questione legata all’accertamento dei fatti e alla valutazione delle prove (Corboz, Les infractions en droit suisse, vol. I, Berna 2002, n. 22 ad art. 217 CP; CCRP sentenza del 19 maggio 2009 inc. 17.2008.81, consid. 1).
5.2.
Con i suoi argomenti, il ricorrente è ben lungi dal sostanziare la critica di arbitrio. Egli, infatti, non si confronta con le considerazioni del primo giudice, il quale ha esaustivamente spiegato – in modo assolutamente sostenibile - perché il ricorrente, nel descrivere la propria situazione finanziaria, non sia riuscito a sostanziare la pretesa sua situazione di indigenza.
Il primo giudice, in particolare, ha correttamente rilevato che, in assenza di una relativa decisione dell’autorità competente, alle sole dichiarazioni fiscali non può essere data alcuna forza probante e spiegato, con argomentazioni diffuse e sostenibili, le ragioni per cui egli non ha ritenuto credibile che il ricorrente abbia ricevuto aiuti dai famigliari nell’ampiezza – peraltro rimasta indeterminata – da lui pretesa (sentenza, consid. 11.2.1. pag. 14).
Non giova al ricorrente sostenere (senza, peraltro, minimamente sostanziare l’assunto e ammettendo di non essere in grado di dimostrarne l’entità) che le donazioni erogate dai fratelli sono verosimilmente maggiori rispetto a quelle accertate nella prima sentenza: in un ricorso per cassazione non è ammissibile argomentare come se ci si trovasse di fronte ad una corte d’appello con pieno potere cognitivo, ma occorre illustrare come, dove e perché i primi giudici sarebbero incorsi, oltre che in presunti errori di valutazione, in sbagli o mancanze qualificate che facciano apparire il loro ragionamento non solo errato, ma indifendibile.
Il ricorso, lungi dall’adempiere simili requisiti data la sua palmare indole appellatoria, deve, su questo punto, essere dichiarato inammissibile.
6.
Passando alle censure di diritto (art. 288 lett. a CPP), il ricorrente sostiene, innanzitutto, che il primo giudice ha erroneamente applicato l’art. 31 CP non avendo rilevato che il diritto di querela della moglie si era estinto,
In realtà, come correttamente osservato dal primo giudice (sentenza, pag. 10), in ambito di trascuranza di obblighi alimentari, qualora il debitore non paghi per un certo periodo e senza interruzione gli alimenti, il termine di tre mesi per presentare querela inizia a decorrere solo dall’ultima omissione colpevole, ritenuto che la querela vale per tutto il periodo durante il quale l’autore ha commesso il reato senza interruzione (DTF 126 IV 132 consid.
2a, 121 IV 175 consid. 2a,
Corboz, op. cit., n. 37 ad art. 217 CP).
In concreto, RI 1 non ha mai corrisposto alla moglie gli alimenti stabiliti nei decreti supercautelari
8 novembre 2005 e 3 maggio 2006 per cui, il 20 ottobre 2006, il diritto di querela di PC 1 non era certamente ancora estinto.
7.
Il ricorrente
assevera inoltre che l’PC 2 non aveva il diritto di querelarlo per il reato di cui all’art. 217 CP, perché
“non essendo adempiute le condizioni legali cui era subordinato il pagamento (ndr. degli alimenti da parte del Cantone), l’PC 2 non era surrogato nel diritto a ottenere gli alimenti per i figli minorenni”
(ricorso, pag. 8).
Già solo per il fatto che dalle decisioni dell’PC 2 agli atti (cfr. AI 20) emerge chiaramente l’adempimento delle condizioni per ottenere l’anticipo alimenti, l’assunto è palesemente infondato e non merita ulteriore disamina.
8.
Il ricorrente sostiene, poi, che l’art. 217 cpv. 1 CP è stato applicato erroneamente.
8.1.
Dal profilo oggettivo, il primo giudice, dopo aver ricordato i presupposti applicativi dell’art. 217 cpv. 1 CP, ha innanzitutto rilevato che l’obbligo contributivo dell’accusato è stato sancito dai
decreti 8 dicembre 2005 e 3 maggio 2006 del Pretore di _ ed ha precisato che tali provvedimenti cautelari sono provvisoriamente esecutiv
i
in forza dell’art. 310 cpv. 4 lett. c CPC e che “
la loro efficacia ed esecutività anche in Italia è stata pronunciata in via definitiva dalla Corte di Appello di _ il 19 dicembre 2007”
.
Continuando nel suo esposto, il primo giudice ha, poi, osservato come sia certo
“che l’accusato non abbia versato alcunché a titolo di obbligo alimentare nelle mani della moglie (fatto salvo l’importo di 4'800.- euro dal novembre 2005 all’aprile 2006 compresi) rispettivamente, per le figlie minorenni, nelle mani della madre prima e, dopo cessione delle pretese, all’Ufficio cantonale preposto”
(sentenza, consid. 11.1 pag. 12-13).
Per quanto attiene all’effettiva possibilità di fornire la prestazione, il primo giudice ha accertato che il ricorrente non si trovava in una situazione d’indigenza. Ma anche se così fosse – ha spiegato il pretore -
“nel passato RI 1 ha saputo dimostrare capacità e intraprendenza”
, riuscendo ad emergere nel campo immobiliare così da procurarsi possibilità economiche tali da garantirsi una qualità di vita da lui stesso definita elevata. Il primo giudice ha, anche, evidenziato come, in seguito, vista la crisi nel settore immobiliare, il ricorrente si sia laureato in diritto a quasi cinquant’anni e come, nel periodo degli studi, pur vivendo momenti finanziariamente non facili, sia sempre riuscito a mantenere, più che dignitosamente, sé stesso e la famiglia.
Il primo giudice ha, poi, osservato come il ricorrente non possa essere seguito quando afferma di essere limitato nella possibilità di esercitare la sua professione di avvocato, perché obbligato a dedicare 5-6 ore di lavoro al giorno alle cause che l’oppongono alla moglie.
“L’ultimo decreto del Pretore di _ ”
- spiega il primo giudice –
“è in vigore, inalterato, dal maggio 2006; la causa civile inoltrata presso il Tribunale di _ è sospesa dal mese precedente. Non si vede per quali motivi, perlomeno negli ultimi due anni, l’accusato avrebbe dovuto dedicare oltre 30 ore a settimana per le vertenze che lo oppongono alla moglie”
.
Sulla scorta di queste considerazioni, ricordando che egli ha l’obbligo di svolgere anche altre (diverse da quella scelta) attività lucrative che possano permettergli di far fronte ai propri obblighi contributivi ma che dagli atti, in merito ai suoi sforzi per cercare di migliorare le sue fonti di reddito, nulla risulta, il primo giudice ha concluso che non si può credere che RI 1
“non possa fare di più”
(sentenza, consid. 11.2.1-2 e 4 pag. 14-17).
Determinandosi sul fatto che il ricorrente ha comunque sempre pagato le rette delle scuole frequentate dalle figlie, il primo giudice ha spiegato che
“il debitore non può scegliere di pagare direttamente a terzi ciò che meglio crede, diminuendo la pensione alimentare dell’importo corrispondente e privando così il creditore della somma sulla quale deve poter contare per assicurare i suoi bisogni quotidiani”
(sentenza, consid. 11.2.3. pag. 16).
Rilevando, infine, che RI 1, volontariamente, non ha ossequiato il proprio obbligo alimentare “
malgrado, almeno in minima parte, ne avesse avuto i mezzi”,
il pretore ha concluso che
“il reato di cui all’art. 217 CP è adempiuto
” (sentenza, consid. 11.3 pag. 17).
8.2.
Il ricorrente, nel suo confuso esposto, sembra sostenere che il principio – applicato dal primo giudice - secondo cui
“il giudice penale deve attenersi all’importo dell’alimento fissato dal giudice civile”
viola la LDIP, la Costituzione Federale e la Convenzione tra la Svizzera e l’Italia circa il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni giudiziarie (ricorso, pag. 12)
Egli sostiene, poi, che in ogni caso i contributi da lui non corrisposti derivano da provvedimenti nulli, perché emanati da un giudice incompetente, e comunque non conformi ai disposti di cui all’art. 285 CC (ricorso, pag. 8 e 12).
Il ricorrente, inoltre, fa carico al primo giudice di non avere considerato che la decisione 9 gennaio 2006 con cui l’PC 2 stabiliva l’anticipo degli alimenti a favore di E. ed I. non rispetta le condizioni poste dalla legge affinché sia dato il diritto a tale anticipo.
Per quanto attiene all’effettiva possibilità di fornire la prestazione, RI 1 ribadisce di non essersi potuto procurare i mezzi per pagare gli alimenti a causa delle procedure giudiziarie che lo vedono opposto alla moglie e dell’allestimento dei quasi 200 atti giudiziari che le stesse hanno comportato. Su questa questione, elencando alcuni atti allestiti tra aprile 2006 e aprile 2009, egli afferma che ha sbagliato il primo giudice ritenendo che l’ultimo decreto del pretore di _ risale al 2006 e che, dunque, dopo d’allora, l’attività a tutela dei suoi interessi non si giustifica più. Perciò, è sbagliando che il primo giudice ha preteso da lui una maggiore operosità (ricorso, pag. 9, 15-16).
Infine, il ricorrente sostiene di non aver agito intenzionalmente poiché, in realtà, egli “
si è sempre occupato delle figlie pagando, finché ha potuto, anche le rette scolastiche
” (ricorso pag. 9).
8.3.
L'art. 217 cpv. 1 CP punisce, a querela di parte, chiunque non presta gli alimenti o i sussidi che gli sono imposti dal diritto di famiglia benché abbia o possa avere i mezzi per farlo.
Per determinare se l'accusato ha rispettato o meno gli obblighi di mantenimento, non basta constatare l'esistenza di un obbligo di mantenimento previsto dal diritto di famiglia, ma è anche necessario determinarne l'estensione. Secondo il cosiddetto metodo indiretto qualora l'importo del contributo alimentare è già stato fissato da una decisione valida ed esecutiva del giudice civile (anche una decisione straniera riconosciuta in Svizzera), il giudice penale chiamato a decidere in applicazione dell'art. 217 CP è vincolato da tale somma (cfr. DTF 106 IV 36; Corboz, op. cit., n. 12 ad art. 217 CP, Donatsch, Strafrecht IV, Delikte gegen die Allgemeinheit, 3. edizione, Zurigo 2004, pag. 6 e segg.).
L'obbligo di mantenimento è violato, dal profilo oggettivo, quando il debitore non fornisce al creditore integralmente e tempestivamente la prestazione di mantenimento che egli deve in virtù del diritto di famiglia (Corboz, op. cit., vol. I, n. 14 ad art. 217 CP).
Il reato presuppone che l’autore abbia i mezzi per adempiere il proprio obbligo. Non occorre che egli abbia i mezzi sufficienti per onorare integralmente la prestazione ma è sufficiente che egli possa versare di più di quanto effettivamente pagato (DTF 114 IV 124 consid. 3b).
Il debitore non può adempiere al proprio obbligo contributivo in altro modo: egli non può, per esempio, liberarsi pagando direttamente i debiti del creditore (DTF 106 IV 37) né può scegliere tra una prestazione in natura o in contanti. Se la sentenza del giudice civile prevede il versamento di una somma di denaro, il debitore non può, dunque, decidere di usare tale somma per comprare dei regali al figlio o per pagargli delle vacanze, ritenuto che il genitore che ne ha la custodia conta proprio sul denaro per garantire il suo mantenimento corrente (Corboz, op. cit., vol. I, n. 17 e seg. ad art. 217 CP).
Per stabilire se l’accusato può far fronte, anche solo parzialmente, all’obbligo alimentare tornano applicabili i principi derivanti dall’art. 93 LEF: si deve quindi accertare, per il periodo in questione e in ogni caso sull’arco di più mesi, l’insieme delle entrate del debitore e il suo reale fabbisogno (DTF 121 IV 272 consid. 3c pag. 277 e 3d pag. 278). Nel caso in cui risulti che l’obbligato non dispone dei mezzi necessari per dare seguito al suo obbligo contributivo, occorre ancora verificare se egli ha la possibilità di conseguirli. L’art. 217 CP esige, infatti, dal debitore che egli faccia tutto quanto si può da lui ragionevolmente pretendere per procurarsi le risorse necessarie ad onorare il debito (DTF 126 IV 131 consid. 3aa/cc pag. 134).
Dal profilo soggettivo, l’art. 217 CP presuppone l’intenzionalità dell’autore su tutti gli elementi oggettivi del reato. Egli deve, dunque, essere consapevole della portata del suo obbligo di mantenimento e del fatto che gli è possibile ossequiarlo almeno in parte ma, ciononostante, avere la volontà di non rispettarlo almeno parzialmente. Il dolo eventuale è sufficiente (Corboz, op. cit., vol. I, n. 30 ad art. 217 CP).
8.4.
In concreto il ricorrente, sostenendo che il metodo indiretto viola la LDIP, la Costituzione federale nonché la Convenzione tra la Svizzera e l’Italia circa il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni giudiziarie, si diffonde in una tesi ardita che contrasta palesemente con una giurisprudenza ormai consolidata (cfr., per tutte, DTF 73 IV 178, 93 IV 2, 6s.180/2002) e supportata dalla più autorevole dottrina (cfr. per tutti Corboz, op. cit., vol.
I, n. 12; ad art. 217 CP, Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, Zurigo/San Gallo 2008, ad art. 217 n. 7 e 8, Bosshard
,
Basler Kommentar, Strafgesetzbuch II, ad art. 217 n. 20).
Tale tesi non merita, dunque, di essere vagliata oltre.
Non votata a miglior sorte è la censura con cui il ricorrente solleva la nullità – per incompetenza del giudice civile – e l’irregolarità dei provvedimenti cautelari che hanno definito il suo obbligo di mantenimento. Il ricorrente dimentica che non è questa la sede per doglianze relative al giudizio civile che ha fissato e definito il contributo alimentare. D’altra parte egli, a suo tempo, ha avuto modo di sollevare l’eccezione d’incompetenza del pretore di _ e di contestare l’esecutività in Italia dei summenzionati provvedimenti, sennonché egli, in entrambi i procedimenti, è risultato soccombente (cfr. sentenza impugnata, consid. 2 pag. 6 e AI 35).
Quanto detto vale anche per l’assunto relativo alla decisone 9 gennaio 2006 dell’PC 2: non è compito di questa Corte pronunciarsi sulla validità di una decisione regolarmente cresciuta in giudicato, a maggior ragione se il preteso vizio è soltanto dichiarato ma non sostanziato.
Spregiudicata e al limite della temerarietà è, poi, la tesi ricorsuale secondo cui da lui non si poteva pretendere nulla più di quanto egli ha fatto per far fronte al proprio obbligo – e, cioè nulla – poiché le sue forze erano totalmente impegnate nelle diverse procedure giudiziarie pendenti a seguito del fallimento del matrimonio. Per quanto impegnativa possa essere la conduzione di una procedura di protezione dell’unione coniugale o di divorzio, non si può certo ragionevolmente pretendere che essa lo sia al punto da esigere un impegno lavorativo a tempo pieno.
Per quanto attiene, infine, all’aspetto soggettivo – questione di natura fattuale – le argomentazioni ricorsuali non sono pertinenti. Non è rilevante il fatto che il ricorrente si sia sempre – come egli sostiene – occupato delle figlie pagando loro anche le rette scolastiche. Quel che conta – e che il primo giudice ha accertato senza arbitrio – è che egli ha consapevolmente e volontariamente (sapendo di dover pagare ed essendo in grado o potendo essere in grado di farlo) mancato al proprio obbligo alimentare.
Ne discende che nessun appunto può essere mosso alla condanna di RI 1 per il reato di cui all’art. 217 cpv. 1 CP.
Anche su questo punto, pertanto, il suo ricorso, nella misura in cui è ricevibile, deve essere respinto.
9.
Nel suo gravame, infine, RI 1 sostiene di aver agito in uno stato di necessità esimente giusta l’art. 17 CP (ricorso, pag. 9 e 15). Nella misura in cui egli non spiega quale bene giuridico egli avrebbe inteso preservare commettendo il reato di cui all’art. 217 cpv. 1 CP, la sua tesi, peraltro del tutto scevra di logica e buon senso, non merita di essere ulteriormente esaminata.
10.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza e sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) che verserà a PC 1, che ha presentato osservazioni per il tramite di un avvocato, fr. 800.- per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bda3ef27-e7d5-507f-98e0-7fd8d6c05695 | in fatto: A.
Con decreto del 31 maggio 2000 il Procuratore pubblico ha posto in stato di accusa _ dinanzi alla Corte delle assise correzionali di Lugano per trascuranza degli obblighi di mantenimento. All'accusata il Procuratore pubblico imputava di avere omesso di riversare all'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento, pur disponendo dei mezzi necessari, i contributi mensili anticipati dall'Ufficio in favore dei figli _ e _
dal 1° agosto 1992 al 7 aprile 1999, accumulando arretrati per complessivi fr. 53'696.90. Contro il decreto di accusa _ ha presentato opposizione.
B.
Con sentenza del 19 settembre 2000 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha assolto _ per intervenuta prescrizione dell'azione penale. Egli ha accertato che l'unica querela sporta dall'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento, costituitosi parte civile, contro l'accusata risaliva all'8 marzo 1993, onde l'estinzione di ogni perseguibilità. Di conseguenza il presidente della Corte non si è pronunciato nemmeno sulle pretese avanzate dall'Ufficio nei confronti dell'accusata.
C.
Avverso la sentenza di assise il Procuratore pubblico e l'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento hanno inoltrato il 19 settembre 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 10 e 17 ottobre 2000, essi postulano la conferma del decreto di accusa sia per quanto riguarda il reato, sia per quanto attiene alla proposta di pena; in via subordinata essi propongono di rinviare gli atti alla Corte di assise per nuovo giudizio. Non sono state chieste osservazioni ai ricorsi. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a e 295 CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4, 174 consid. 2g, 123 I 5 consid. 4a,121 I 114 consid. 3a; nell'ambito dell'apprezzamento delle prove: DTF 118 Ia 118 Ia 30 consid. 1b).
I. Sul ricorso del Procuratore pubblico
2.
Il Procuratore pubblico rimprovera anzitutto al primo giudice di avere violato l'art. 31 CP ritenendo che la parte civile (l'Ufficio cantonale preposto) abbia desistito dalla querela. A suo parere l'Ufficio in questione ha ripetutamente aggiornato la querela stessa, come da prassi invalsa, comunicandola di volta in volta al Ministero pubblico. In realtà la critica è finanche priva di oggetto. Il presidente della Corte di assise non ha accertato infatti che la parte civile abbia desistito dalla querela. Si è limitato a rilevare che la sola querela agli atti risale all'8 marzo 1993. Invece il primo giudice ha escluso che negli anni successivi l'Ufficio abbia validamente esteso gli effetti della querela al mancato pagamento dei contributi alimentari accumulati dall'imputata fra il 1993 e il 1999, essendosi riservato unicamente di aggiornare la richiesta di rimborso. Tale conclusione si fonda sull'ammissione del responsabile dell'Ufficio, il quale ha esplicitamente confermato in aula “che tutti gli scritti successivi alla querela non costituiscono nuova querela, ma unicamente l'aggiornamento contabile del debito della prevenuta, e con ciò l'aggiornamento della domanda risarcitoria”. Nelle circostanze descritte è superfluo domandarsi se il presidente della Corte abbia avuto corretta nozione dell'art. 31 CP. Come si è visto, in effetti, egli nemmeno ha alluso a un'eventuale desistenza della parte civile. Ha soltanto accertato l'assenza di altre querele dopo l'8 marzo 1993.
3.
Un altro problema è sapere se il presidente della Corte di assise avesse fondati motivi per domandare al rappresentante dell'Ufficio se gli scritti successivi alla querela andassero realmente intesi come reiterazione dell'atto. Il Tribunale federale ha già avuto modo di precisare, in effetti, che ove un debitore ometta colpevolmente di prestare durante un certo periodo e senza interruzione gli alimenti dovuti, il temine per sporgere querela inizia a decorrere solo dall'ultima omissione, al momento per esempio in cui il debitore riprende i versamenti o al momento in cui, per mancanza di mezzi, costui si trova senza colpa nell'impossibilità di adempire i suoi obblighi (DTF 121 IV 275 consid. 2a, 118 IV 320 consid. b). Finché dura l'omissione colposa, di conseguenza, il termine per la querela nemmeno comincia a decorrere. Spetta alla parte lesa stabilire quando è giunto il momento di agire. Essa potrà procedere unicamente, tuttavia, quando viene a sapere che l'infrazione ha preso fine (DTF 121 IV 275 consid. a;
Corboz
, Les principales infractions, Berna 1997, n. 37 e 38 ad art. 217 CP).
a)
Dagli atti sembra evincersi che nel caso in esame l'imputata ha persistito nel mancato pagamento degli alimenti dal 1° agosto 1992 fino al 7 aprile 1999 (il periodo prospettato nel decreto di accusa). Prima del 7 aprile 1999 il termine per inoltrare querela non era quindi neppure iniziato a decorrere, dato il perdurare dell'omissione, né risulta che l'Ufficio cantonale avesse elementi per ritenere con un minimo di affidabilità che a un certo momento l'infrazione avesse preso fine (pagamenti da parte del debitore, indigenza non colposa della debitrice). Sarebbe bastato perciò che l'Ufficio dichiarasse di sporgere querela con lo scritto del 7 aprile 1999 (act. 8), il quale precede di poco il decreto di accusa del 31 maggio 1999. Se non che, l'unica querela risale nella fattispecie all'8 marzo 1993 e si riferisce al periodo dal 1° agosto 1992 al 28 febbraio 1993. Lo stesso rappresentante della parte civile ne ha dato conferma al dibattimento, affermando senza equivoci – come detto – che “tutti gli scritti successivi alla querela non costituiscono nuova querela, ma unicamente l'aggiornamento contabile della prevenuta, e con ciò l'aggiornamento della domanda risarcitoria” (verbale del processo, pag. 3). Con ciò egli ha dato un'interpretazione autentica non soltanto dello scritto 7 aprile 1999 (act.1, annessi), che sarebbe bastato per estendere la querela al periodo successivo, ma anche dei precedenti.
b)
Il Procuratore pubblico afferma che gli scritti successivi alla querela sono chiari, giacché consentono di desumere l'intenzione di confermarsi nel perseguimento penale della prevenuta. L'argomento non è fondato. Le svariate missive indirizzate dall'Ufficio cantonale al Ministero pubblico dal 30 novembre 1994 al 7 aprile 1999 non evocavano una nuova querela, ma miravano unicamente ad aggiornare l'importo accumulato dalla debitrice con riferimento alla querela dell'8 marzo 1993 (si vedano in particolare gli scritti del 16 dicembre 1998 e del 7 aprile 1999). Nulla permette di dedurre con qualche certezza che l'Ufficio intendesse ogni volta rinnovare la querela. Dagli scritti risulta soltanto l'intento palese di richiamare l'attenzione del Ministero pubblico sull'ammontare degli importi maturati dopo la presentazione della nota querela e sul proposito di non rinunciare all'incasso. In una situazione del genere, tutt'altro che chiara, poco importa che il presidente della Corte di assise abbia invitato a ragione o a torto il rappresentante dell'Ufficio a spiegare il significato degli scritti successivi alla querela dell'8 marzo 1993. Per di più, come si è visto, il funzionario ha per finire confermato i dubbi del presidente della Corte, escludendo senza ambagi che i suoi scritti mirassero a querelare di nuovo la prevenuta per gli scoperti maturati successivamente. Su questo punto la sentenza impugnata resiste pertanto alla critica.
c)
Al ricorrente non soccorre nemmeno la giurisprudenza menzionata nella sentenza di assise, peraltro superata (DTF 121 IV 273), che fa decorrere il termine per la presentazione della querela dall'ultima omissione colpevole. In tale precedente questa Corte ha ritenuto manifestamente eccessivo pretendere che la parte lesa, sporta querela, ne presenti un'altra ogni tre mesi per nuove violazioni dell'art. 217 CP qualora l'autorità penale si sta già occupando del caso. In circostanze del genere il periodo incriminato si estende fino alla data dell'ultimo atto istruttorio, a condizione che il prevenuto abbia potuto esprimersi sugli addebiti (CCRP, sentenza del 29 dicembre 1995 in re B. citata, con riferimento a SJ 1985 pag. 215, secondo cui è necessario altresì che la parte leso manifesti l'intenzione di estendere gli effetti della querela iniziale fino alla data dell'ultimo atto istruttorio). Nella fattispecie, sia come sia, il rappresentante dell'Ufficio cantonale ha spiegato chiaramente di non avere inteso querelare la prevenuta con gli scritti successivi alla querela, ma di avere inteso unicamente aggiornare il credito. Poco importa che poi, in coda al dibattimento, egli si sia associato alle proposte del Procuratore pubblico (verbale del processo, pag. 3). Come detto, invero, il funzionario preposto ha confermato che dopo la querela all'Ufficio interessava solo riscuotere l'arretrato. Ciò che non basta, con ogni evidenza, a denotare rilievo penale.
d)
Si aggiunga che il primo giudice non ha trascurato di vagliare il problema neppure nell'ipotesi più favorevole all'Ufficio. Ha concluso però che, anche volendo applicare in concreto la citata giurisprudenza favorevole alla parte lesa, la sostanza delle cose rimaneva invariata. Dal verbale del 18 aprile 1999 non risultava infatti che alla prevenuta fosse stata contestata la violazione dell'art. 217 CP per il periodo successivo alla presentazione della querela e che il solo accenno durante quell'interrogatorio a fatti avvenuti posteriormente (la sentenza emessa il 30 luglio 1997 dalla Pretura del Distretto di Lugano sui contributi di mantenimento e la conoscenza da parte della prevenuta del proprio obbligo alimentare) non bastava per ravvisare una implicita estensione dell'accusa. Certo, il Procuratore pubblico dissente anche da tali considerazioni, rimproverando al primo giudice di essere caduto in arbitrio. Scorrendo però il verbale del 18 aprile 1999 – il quale parte dal presupposto che la querela sia appunto quella dell'8 marzo 1993 (act. 11, pag. 1) – non si può dire tuttavia che la Corte di merito abbia errato in modo manifesto, accertando che durante quell'interrogatorio non si sia discusso della possibile estensione della querela ai fatti accaduti dopo l'8 marzo 1999. Per di più il problema è stato esaminato dal primo giudice a titolo abbondanziale, nell'ipotesi che la contestata ammissione del rappresentante della parte civile al dibattimento non potesse da sola essere considerata decisiva.
e)
È vero che al dibattimento la parte civile si è per finire associata alle richieste di condanna del Procuratore pubblico (verbale del processo, pag. 3). Con ciò essa non ha però sanato l'assenza di querela riferita ai fatti indicati nel decreto di accusa. Poco giova interrogarsi se, prima di porre la prevenuta in stato di accusa, il Ministero pubblico non dovesse chiedere alla parte civile di formalizzare la situazione, precisando se ritenesse maturi i tempi per querelare la prevenuta per i fatti successivi alla querela. Il verbale del 18 aprile 1999 invero non poteva supplire alla mancanza. Ma tant'è: rilevata l'assenza di un presupposto processuale, al primo giudice non rimaneva che accertare la prescrizione dell'azione penale e decretare la sospensione del procedimento (
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar, 2a edizione, ad art. 28 n. 11). È vero che egli ha addirittura prosciolto l'imputata, ma ciò non è contestato nel ricorso. Questa Corte non può dunque modificare la sentenza di propria iniziativa.
4.
Il Procuratore pubblico si diffonde in ulteriori considerazioni sia sull'interpretazione della dichiarazione resa in aula dal rappresentante dell'Ufficio, sia sulla facoltà e sull'opportunità del presidente della Corte di verbalizzarla, sia sulla forza probatoria di tale dichiarazione alla luce dell'art. 255 cpv. 3 CPP, che a suo avviso regola le modalità di allestimento del verbale per quanto attiene alle risposte dell'accusato, di un testimone o del perito, ma non della parte lesa. Egli assevera che non si tratta in ogni modo di una verbalizzazione, ma di una annotazione scritta del giudice, frutto del suo intendere. Ancorché riportata in buon fede – soggiunge il Procuratore pubblico – essa è manifestamente arbitraria e in urto con le risultanze scritte e con la prassi costante in casi del genere. La censura non ha consistenza. Annotando la dichiarazione del funzionario, il primo giudice ha riportato a verbale una risultanza emersa nel corso del dibattimento, ossia una precisazione che la parte civile ha formulato all'attenzione della Corte, ciò che è senz'altro consentito dall'art. 255 cpv. 2 CPP. D'altro canto il Procuratore pubblico nemmeno pretende che la contestata verbalizzazione sia avvenuta senza che egli potesse rendersene conto; anzi, dal verbale del processo risulta che egli ha tentato di rimediare alla situazione richiamando l'interrogatorio della prevenuta dell'8 marzo 1999 e sostenendo, in particolare, che in tale verbale sarebbero stati contestati gli importi complessivi maturati sino a quella data, così da rendere superflua una nuova querela (verbale, pag. 3). Ciò rende finanche inammissibile la critica all'operato del primo giudice (art. 288 lett. b CPP). Quanto alle doglianze sulla fedefacenza della verbalizzazione, è appena il caso di ricordare che il contenuto di un verbale può essere impugnato soltanto con denuncia di falso (art. 256 cpv. 2 CPP).
5.
Rivelandosi per le considerazioni che precedono infondato, il ricorso in esame può pertanto essere deciso con la procedura dell'art. 291 cpv. 1 CPP. Gli oneri processuali seguono la soccombenza dello Stato (art. 15 cpv. 1 CPP).
II. Sul ricorso della parte civile
6.
Anche la parte civile rimprovera al primo giudice di avere trascurato in modo arbitrario la reale portata degli scritti successivi alla querela dell'8 marzo 1993 e di essere caduto in ulteriore arbitrio, accertando che la mancata intenzione di ritirare la querela sarebbe stata espressamente confermata al dibattimento dal suo rappresentante. Essa trascura però che la contestata circostanza è stata riportata a verbale a seguito della risposta che il funzionario ha dato al presidente della Corte su precisa domanda all'inizio del dibattimento e che il contenuto del verbale può esse impugnato soltanto con denuncia di falso (art. 256 cpv. 2 CP). Quanto poi al fatto che l'interessato si sia associato alle richieste di giudizio del Procuratore pubblico durante la requisitoria, va ribadito che – come si è visto – ciò non supplisce all'assenza di querela, la quale andava presentata per i fatti successivi alla querela dell'8 marzo 1993 prima che il Procuratore pubblico emanasse il decreto di accusa.
7.
La ricorrente invoca la giurisprudenza del Tribunale federale e in particolare la sentenza DTF 121 IV 273 relativa al momento da cui decorre il termine (perentorio) per sporgere querela. Se non che, alla parte lesa il primo giudice non ha rimproverato di avere omesso di presentare querela ogni tre mesi (ciò che sarebbe stato contrario al diritto federale, visto che la violazione dell'obbligo di mantenimento risulta essere durata ininterrottamente nel tempo), ma di non avere querelato la prevenuta nel corso dei numerosi anni successivi all'8 marzo 1993, tanto meno nello scritto precedente di poco l'emanazione del decreto di accusa. In altri termini, preso atto in aula dell'esplicita dichiarazione del rappresentante dell'Ufficio preposto, il presidente della Corte di assise ha per finire constatato che il decreto di accusa non è stato preceduto da altre querele se non da quella dell'8 marzo 1993. A ragione la parte civile sostiene che il termine per presentare querela decorre soltanto dall'ultima omissione colpevole, ma ciò non le è di aiuto. Mentre essa ancora tergiversava, come ha ammesso il suo rappresentante, il Procuratore pubblico ha deciso infatti di procedere, senza rendersi conto dell'assenza di formale querela per i periodi successivi. D'altro canto lo stesso Procuratore ha atteso fino al mese di maggio per emanare il decreto di accusa. Fosse stato convinto che la parte civile intendeva procedere già negli anni precedenti, avrebbe agito prima. Quanto alla giurisprudenza pubblicata in SJ 1985 pag. 215 e alla sua eventuale applicazione alla fattispecie, si rinvia al consid. 3c che precede.
8.
Da ultimo la parte lesa rimprovera al presidente della Corte una violazione del diritto federale per avere ritenuto prescritta l'azione penale riferita alla querela dell'8 marzo 1993. Essa pretende che l'inadempienza della prevenuta, continuata anche negli anni successivi, costituisce un'azione unica, sicché il termine di prescrizione è iniziato a decorrere unicamente dal giorno in cui è stato commesso l'ultimo atto. L'obiezione cade nel vuoto. È vero che in caso di trascuranza degli obblighi alimentari più infrazioni possono essere considerate come un reato unico ai fini della prescrizione (DTF 124 IV 61). Nella fattispecie, tuttavia, l'ultimo atto punibile che entra in considerazione riguarda omissioni antecedenti la querela dell'8 marzo 1993 (sentenza, pag. 6). Diverso sarebbe stato il caso, qualora la ricorrente avesse querelato la prevenuta anche per le omissioni degli alimenti maturati dall'8 marzo 1993 all'aprile del 1999. In tale eventualità la prescrizione sarebbe iniziata a decorrere dall'ultima omissione indicata nel decreto di accusa e l'azione penale si sarebbe estesa a tutte le precedenti omissioni, anche a quelle relative alla querela dell'8 marzo 1993. Una simile ipotesi però, come si è illustrato, non si verifica in concreto.
9.
Ne segue che pure il ricorso della parte civile si rivela infondato e può essere deciso con la procedura dell'art. 291 cpv. 1 CPP.
III. Sulle spese
10.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza dello Stato (art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
be3c626d-ddae-5d30-82f0-93797a121ae4 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito di un controllo di un veicolo proveniente dalla _ avvenuto il 25.07.2010, in entrata al valico autostradale _ _, è stata ordinato (poi confermato) l’arresto di PI 1 (_), cittadina _, con domicilio nel Canton Ticino, con contestuale promozione dell’accusa (ai sensi del CPP TI) nei suoi confronti per varie ipotesi di reato (inc. MP _).
Nell’ambito della fase istruttoria, in data 28.10.2010 l’allora Camera dei ricorsi penali (dall’1.01.2011 Corte dei reclami penali) ha accolto ai sensi dei considerandi l’istanza 1/22.09.2010 presentata dall’Ufficio assicurazione invalidità, autorizzando un suo collaboratore a consultare gli atti dell’incarto penale MP _ concernente la persona di PI 1 (inc. CRP _).
Il procedimento penale, esperite le indagini, è dapprima sfociato nel decreto di accusa 7.05.2012 emanato dal procuratore pubblico, mediante il quale
ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 1 siccome ritenuta colpevole di infrazione alla LF che promuove la ginnastica e lo sport, contravvenzione alla LF sugli agenti terapeutici, infrazione alla LF sull’assicurazione invalidità, guida senza licenza di condurre e infrazione alla LStr ed ha in particolare proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 60 aliquote da CHF 60.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 3'600.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, alla multa di CHF 600.--, nonché al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (DA _).
Statuendo sull’opposizione di PI 1 contro il suddetto decreto d’accusa, con sentenza 13.11.2012 il presidente della Pretura penale Marco Kraushaar l’ha dichiarata autrice colpevole di infrazione alla LF che promuove la ginnastica e lo sport, contravvenzione alla LF sugli agenti terapeutici, infrazione alla LF sull’assicurazione contro gli infortuni (ndr. e non
infrazione alla LF sull’assicurazione invalidità)
, guida senza licenza di condurre e infrazione alla LStr e l’ha condannata alla pena pecuniaria di
60 aliquote da CHF 60.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 3'600.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, alla multa di CHF 600.--, nonché al pagamento della tassa di giustizia e delle spese.
La predetta sentenza è passata in giudicato il 18.12.2012
(inc. _).
2.
Con la presente istanza la IS 1 informa anzitutto di essere venuta a conoscenza del decreto di accusa emanato a carico di PI 1. La predetta autorità, richiamando gli art. 32 cpv. 1 LPGA, 101 e 102 CPP e 62 cpv. 4 LOG, chiede di ottenere l’autorizzazione ad esaminare il suddetto incarto penale, con facoltà di trasmettere i dati agli altri enti dell’Istituto delle assicurazioni sociali (Cassa cantonale per gli assegni familiari, Cassa cantonale di assicurazione contro la disoccupazione, Ufficio dell’assicurazione invalidità) allo scopo di verificare, nell’ambito delle singole mansioni loro attribuite, l’eventuale violazione del diritto delle assicurazioni sociali. In particolare postula di ottenere tutte le informazioni e la documentazione necessaria per la determinazione, la modifica o la restituzione di prestazioni, per la prevenzione di versamenti indebiti e per fissare e riscuotere i contributi. Precisa inoltre che, nella misura in cui vi fossero indizi riguardanti il lavoro nero, le informazioni e la documentazione raccolta dovranno essere trasmesse all’Ufficio per la sorveglianza del mercato del lavoro, che a sua volta, se del caso, le trasmetterà agli altri organi esecutivi giusta gli art. 11 e 12 LLN (doc. CRP 1).
3.
Come esposto in entrata, il magistrato inquirente e PI 1 non si oppongono alla richiesta (doc. CRP 3 e 4).
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
Giusta l’art. 32 cpv. 1 LPGA le autorità amministrative e giudiziarie della Confederazione, dei Cantoni, distretti, circoli e Comuni comunicano gratuitamente agli organi delle singole assicurazioni sociali, su richiesta scritta e motivata nei singoli casi, i dati necessari per determinare, modificare o restituire prestazioni (lit. a), per prevenire versamenti indebiti (lit. b) per fissare e riscuotere i contributi (lit. c) e per intraprendere azioni di regresso contro terzi responsabili (lit. d).
Alle stesse condizioni gli organi delle singole assicurazioni si prestano reciprocamente assistenza (art. 32 cpv. 2 LPGA).
5.2.
L’istituto delle assicurazioni sociali, la cui missione è l’elaborazione e l’applicazione della sicurezza sociale, ha tra l’altro, il compito di prelevare i contributi sociali e di erogare prestazioni sociali. Il predetto istituto ingloba diversi enti autonomi con personalità giuridica propria, tra cui vi è la Cassa cantonale di compensazione AVS/AI/IPG, con sede a Bellinzona.
In particolare il IS 1 (uno dei quattro servizi dell’Ufficio dei contributi) qui istante si occupa dell’affiliazione degli assicurati, della fissazione dei contributi e del controllo dell’obbligo assicurativo (www.iasticino.ch).
5.3.
Nella fattispecie in esame – tenuto conto di quanto sopra esposto e visti inoltre il contenuto dell’incarto penale _ (contenente anche l’incarto MP _), i motivi posti alla base della presente richiesta e le mansioni attribuite all’autorità istante – appare, di principio adempiuto un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG da parte della stessa prevalente sui diritti personali di PI 1 ad ottenere le informazioni richieste, e ciò in particolare con riferimento alla fattispecie di cui all’imputazione di infrazione alla LF sull’assicurazione contro gli infortuni per la quale quest’ultima è stata condannata dalla Pretura penale il 13.11.2012 (inc. _).
A ciò aggiungasi che PI 1 e il procuratore pubblico non si sono opposti alla richiesta.
In siffatte circostanze un funzionario della IS 1 è autorizzato ad esaminare l’intero incarto _
(contenente anche l’incarto MP _) riguardante PI 1 presso la Pretura penale di Bellinzona, concordando i tempi di accesso con i collaboratori della cancelleria compatibilmente con i loro impegni. Il funzionario è, se del caso, autorizzato a fotocopiare esclusivamente i documenti utili e necessari per le sue incombenze.
La IS 1 viene inoltre autorizzata da questa Corte a trasmettere la documentazione raccolta, la quale deve essere in
connessione con le rispettive mansioni,
agli altri enti dell’Istituto delle assicurazioni, in particolare alla Cassa cantonale per gli assegni familiari, alla Cassa cantonale di assicurazione contro la disoccupazione e all’Ufficio assicurazione invalidità, nonché all’Ufficio per la sorveglianza del mercato del lavoro nero per verificare se PI 1
abbia rispettato le disposizioni delle assicurazioni sociali rispettivamente le norme della LLN.
Va da sé che le persone – in casu i collaboratori dell’autorità istante e i collaboratori di eventuali altre autorità cantonali coinvolte – che partecipano all'esecuzione e al controllo o alla sorveglianza dell'esecuzione delle leggi d'assicurazione sociale devono mantenere il segreto nei confronti di terzi (art. 33 LPGA).
Inoltre i dati raccolti possono essere utilizzati soltanto per l’obiettivo perseguito.
6.
L’istanza è accolta ai sensi dei precedenti considerandi. Stante la natura della richiesta, si rinuncia al prelievo della tassa di giustizia e delle spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
be6b33a8-eacf-5d8c-9d85-7218f1ed7e55 | in fatto
a.
In data 10.10.2013 la Corte delle assise criminali ha riconosciuto PI 1 autore colpevole di truffa per mestiere e lo ha condannato ad una pena detentiva, parzialmente aggiuntiva a tre sentenze estere (una francese del 16.12.2011 con condanna a 3 anni di pena detentiva di cui 2 sospesi condizionalmente, una belga del 7.11.2012 con condanna a 1 anno di pena detentiva sospesa con la condizionale e una tedesca del 28.3.2013 con condanna a 2 anni di pena detentiva sospesi con la condizionale) di 14 mesi fermi, da dedursi il carcere preventivo e di sicurezza sofferti (punto 2. del dispositivo della sentenza della Corte delle assise criminali del 10.10.2013, inc. TPC _).
Dalla stessa sentenza (a pag. 2) risulta altresì che PI 1 è stato posto in carcerazione preventiva dal 25.6.2013 al 26.8.2013 (63 giorni) e in carcerazione di sicurezza dal 27.8.2013 al 10.10.2013 (44 giorni).
La sentenza della Corte delle assise criminali è passata in giudicato.
b.
In esecuzione della sentenza della Corte di merito, il giudice dei provvedimenti coercitivi il 6.11.2013, dovendosi determinare sul collocamento iniziale del condannato, ha ordinato il collocamento di quest’ultimo in sezione chiusa e ha stabilito che in data 24.8.2014 (salvo ulteriori decisioni sulla scarcerazione) la pena sarebbe stata interamente scontata (punti 1. e 2. del dispositivo della decisione 6.11.2013, inc. GPC _).
Nella medesima decisione, ritenuto che l’esecuzione della pena ha avuto inizio il 10.10.2013 e considerati i periodi di carcerazione preventiva indicati nella sentenza di merito, sono stati determinati i seguenti termini di espiazione:
1/3 13.11.2013
1/2 23.01.2014
2/3 04.04.2014
Termine 24.08.2014
c.
Il 7.11.2013 la Sezione della popolazione, Bellinzona, ha deciso l’allontanamento di PI 1 dal nostro territorio non appena scarcerato.
d.
Con esposto 11/12.11.2013 PI 1 ha interposto reclamo davanti a questa Corte contro la decisione 6.11.2013 del giudice dei provvedimenti coercitivi, chiedendo di fissare il termine di fine pena al 5.3.2014, stante che, a suo parere, nel computo della carcerazione preventiva sofferta, dovevano essere considerati anche i periodi di detenzione preventiva ed estradizionale subiti nell’ambito dei procedimenti esteri e non solo il carcere preventivo e la carcerazione di sicurezza scontati in Svizzera.
Il 12.12.2013 la Corte dei reclami penali ha dichiarato il reclamo irricevibile, ritenuto che la questione riguardante il computo della carcerazione subita prima del processo compete al giudice del merito in base al chiaro testo dell’art. 51 CP.
Stabilito che quanto richiesto nel gravame riguardava la comprensione del punto 2.1. del dispositivo della sentenza di merito
−
in particolare a sapere se nella carcerazione preventiva e di sicurezza da dedurre dalla pena detentiva pronunciata andasse computata unicamente quella sofferta in Svizzera o anche quella scontata all’estero in relazione alle sentenze estere considerate per fissare la pena parzialmente aggiuntiva
−
la Corte dei reclami penali, sulla base dell’art. 83 cpv. 1 CPP, considerando lo scritto 11/12.11.2013 del reclamante quale richiesta di interpretazione della sentenza di merito, lo ha trasmesso d’ufficio alla Corte delle assise criminali per evasione, giusta l’art. 39 cpv. 1 CPP (inc. CRP _).
Questa decisione è passata in giudicato.
e.
In data 8.1.2014 la Corte delle assise criminali ha respinto l’istanza d’interpretazione 11/12.11.2013, precisando che il carcere preventivo e di sicurezza da dedurre dalla pena pronunciata di cui al dispositivo 2.1. della sentenza di merito, faceva riferimento, in modo chiaro ed inequivocabile, al solo periodo di detenzione precedente il processo sofferto in Svizzera e indicato a pag. 2 della sentenza del 10.10.2013, senza lasciare alcuno spazio per il computo di altre forme di carcerazione avvenute all’estero, nemmeno menzionate in detta sentenza (inc. TPC _).
Tale decisione non è stata impugnata, per cui, sulla base dei termini di esecuzione indicati nella decisione di collocamento iniziale del giudice dei provvedimenti coercitivi, nel febbraio 2014 è stato allestito il Piano di Esecuzione della Sanzione penale [PES] (doc. 13, inc. GPC _).
f.
Raccolti i preavvisi della Direzione delle strutture carcerarie e dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa
−
entrambi favorevoli
−
, acquisita la documentazione pertinente e sentito in udienza PI 1, con decisione 21.3.2014 il giudice dei provvedimenti coercitivi, valutando la prognosi non sfavorevole circa il pericolo di recidiva, ha concesso la liberazione condizionale a far tempo dal 4.4.2014, fissando nel contempo un periodo di prova di 1 anno.
Il giudice ha altresì disposto il rimpatrio di PI 1 in _ con imbarco su un volo _ di medesima data, per il tramite del Gruppo rimpatri della Polizia cantonale.
g.
Con esposto 31.3.2014 il procuratore pubblico interpone reclamo contro la suddetta decisione, postulando in via principale l’emanazione di una nuova decisione che non conceda la liberazione condizionale; in via subordinata chiede l’annullamento della decisione impugnata e il rinvio alla giurisdizione inferiore per nuovo giudizio.
Il procuratore pubblico contesta in particolare che nella fattispecie sia adempiuto il presupposto dell’aver scontato i due terzi della pena imposto dall’art. 86 cpv. 1 CP, necessario per la concessione della liberazione condizionale.
Riprendendo le motivazioni e il punto 2. del dispositivo della sentenza del 10.10.2013 della Corte delle assise criminali, il magistrato inquirente sostiene che, visto il concorso retrospettivo, la liberazione condizionale potrebbe avvenire solamente quando il detenuto ha scontato i due terzi della pena complessiva (4 anni e 11 mesi), valutata dal giudice di merito tenendo conto delle condanne estere, e non i due terzi della pena residua (14 mesi).
A suo avviso la normativa sulla liberazione condizionale non potrebbe essere applicata ad un detenuto che, secondo i propri calcoli, ha passato in carcere 15 mesi (di cui 173 giorni all’estero, come carcere preventivo ed estradizionale, e circa 9 mesi e 10 giorni in Svizzera, per il procedimento sfociato nella condanna del 10.10.2013) a fronte di una pena complessiva di 4 anni e 11 mesi, ovverossia un detenuto che ha espiato poco più di un quarto della pena. Di fatto, giusta l’art. 43 cpv. 3 CP, l’istituto della liberazione condizionale non sarebbe applicabile alla parte da espiare delle pene parzialmente sospese.
Osserva inoltre, che soltanto grazie all’applicazione del concorso retrospettivo sancito dall’art. 49 cpv. 2 CP, PI 1 è stato condannato in Svizzera a 14 mesi di pena detentiva; in assenza delle precedenti sentenze estere, come precisato dalla Corte di merito, la pena sarebbe invece stata di 2 anni e 11 mesi. Analogamente, nella valutazione della liberazione condizionale ex art. 86 CP, dovrebbe essere considerata la pena complessiva e, nel caso in cui alcune pene estere siano state sospese con la condizionale, dovrebbe essere ritenuto il carcere complessivo effettivamente sofferto. In caso contrario si snaturerebbe, a suo avviso, un sistema che ha quale unico obiettivo quello di essere giusto e di non discriminare chi è stato giudicato da tribunali diversi; non invece quello di evitare il carcere ad un criminale che ha delinquito in vari Stati.
Infine il magistrato postula la concessione dell’effetto sospensivo al reclamo.
h.
Con scritto 1.4.2014 questa Corte non lo ha concesso. Preso atto di ciò, il procuratore pubblico con lettera 2.4.2014 ha prodotto una serie di documenti, annessi agli atti (AI 3), formulando altresì alcune osservazioni.
i.
Nel contempo in data 2.4.2014 l’Ufficio federale della migrazione, Berna, ha pronunciato il divieto d’entrata nei confronti di PI 1 a tempo indeterminato, mentre il 4.4.2014 alle ore 12.30 egli è stato imbarcato a _ su un volo con destinazione _ (rapporto di complemento 4.4.2014, allegato a all’AI 10).
l.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi, nelle sue osservazioni 7/8.4.2014, chiede a questa Corte di pronunciarsi preliminarmente sulla tardività e/o carenza di motivazione del reclamo.
In particolare evidenzia che il gravame non si esprimerebbe in relazione ai motivi alla base della concessione della liberazione condizionale, bensì contesta il calcolo del termine dei due terzi. Calcolo questo oggetto della decisione di collocamento iniziale 6.11.2013, nel frattempo passata in giudicato. A mente del giudice ciò apparirebbe non solo tardivo ma anche lesivo del principio di buona fede.
Osserva inoltre che il reclamo sarebbe carente nella motivazione: l’esposto non preciserebbe infatti quali norme di diritto sarebbero state violate con il calcolo dei due terzi effettuato dal giudice dei provvedimenti coercitivi. Gli art. 42 cpv. 3 CP (sospensione condizionale), 49 cpv. 2 CP (concorso retrospettivo) e 68 CP (pubblicazione della sentenza) menzionati nel gravame, non riguarderebbero infatti le modalità di computo dei due terzi.
Per il resto, non ritiene di esprimersi “nel merito” delle contestazioni sollevate dal reclamante, prima che vengano risolte le asserite questioni preliminari. Tuttavia, qualora queste ultime dovessero essere risolte a favore del reclamante, il magistrato si riserva il diritto di completare le proprie osservazioni. Segnala comunque sin d’ora che “
le norme federali in materia prevedono che, in caso di più pene detentive (da espiare), il termine minimo per la liberazione condizionale è calcolato in base alla loro durata totale solo nel caso di pene eseguibili simultaneamente
” (osservazioni 7/8.4.2014, p. 2). Ciò, a suo avviso, confermerebbe, tra l’altro, il fatto che l’autorità d’esecuzione dovrebbe occuparsi, nelle sue specifiche decisioni, solo della durata delle pene che può o è tenuta a far eseguire. Conclude pertanto che anche le argomentazioni di “merito” del reclamo sarebbero prive di fondamento.
m.
Con osservazioni di replica 28/29.4.2014, il procuratore pubblico rileva preliminarmente la sussistenza di un interesse all’emanazione di una decisione in punto al suo reclamo anche dopo il rimpatrio di PI 1, in quanto
−
ai fini, a suo parere, di una corretta espiazione delle pene inflitte
−
quest’ultimo, qualora ricomparisse in Svizzera, potrebbe essere fermato e chiamato ad espiare il residuo di pena.
Il magistrato inquirente contesta dipoi le censure di tardività e di violazione del principio di buona fede sollevate dal giudice dei provvedimenti coercitivi, sostenendo che a essere passati in giudicato sarebbero i dispositivi 1. (riguardante il collocamento in sezione chiusa) e 2. (inerente al termine di fine pena) della decisione di quest’ultimo e quindi non i termini di espiazione della pena, non oggetto del dispositivo.
Egli contesta altresì la censura di carente motivazione del reclamo. Evidenzia come nel gravame si rimprovera un’errata applicazione dell’art. 86 CP e precisa che in concreto la concessione della liberazione condizionale allo scadere dei 2/3 della pena aggiuntiva di 14 mesi, inflitta con sentenza 10.10.2013, violerebbe lo spirito di detta norma di legge. Infatti il detenuto non avrebbe espiato i 2/3 della pena globale ritenuta dalla Corte di merito, rispettivamente avendo egli scontato solo una piccola parte delle pene inflittegli, presenterebbe una prognosi negativa.
Il legislatore, a suo avviso, non avrebbe previsto una situazione come quella del caso in questione, in specie tre sentenze estere che si ignorano reciprocamente, precedenti la sentenza ticinese. Pertanto in difetto di una chiara norma nonché di dottrina o di giurisprudenza, che trattino il caso specifico, si dovrebbe, a suo parere, “
far prevalere con buon senso lo scopo e lo spirito
” dell’art. 86 CP.
Infine il magistrato inquirente ritiene le argomentazioni di “merito” espresse dal giudice dei provvedimenti coercitivi prive di fondamento, riconfermando in conclusione le argomentazioni esposte nel reclamo e in replica, e postulando l’emanazione da parte di questa Corte di una nuova decisione che neghi a PI 1 la liberazione condizionale.
n.
PI 1, per parte sua, non ha fatto pervenire a questa Corte alcuna osservazione.
o.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi, in duplica, con scritto 5/6.5.2014 riconferma le proprie argomentazioni e conclusioni. Aggiunge brevemente che nemmeno la decisione impugnata indica nel dispositivo il calcolo dei 2/3; ad ogni modo l’esigenza di segnalazione tempestiva potrebbe pure essere desunta dall’art. 75 cpv. 6 CP. Infine osserva che “situazioni del genere” sono previste (per sussunzione o conclusione) dagli art. 4 e 5 dell’Ordinanza sul Codice penale e sul Codice penale militare (OCP-CPM), a condizione che si tratti di pene eseguibili (poiché non sospese e/o rientranti nella competenza della specifica autorità d’esecuzione). | in diritto
1.
1.1.
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), all'art. 439 cpv. 1 CPP, lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
L'art. 10 cpv. 1 della Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti del 20.4.2010 (LEPM) conferisce al giudice dell'applicazione della pena − in Ticino dall’1.1.2011 al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi giusta l'art. 73 LOG − la competenza, fra l'altro, di adottare le decisioni relative alla liberazione condizionale da una pena detentiva (lit. j).
Contro tali decisioni è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli art. 393 ss. CPP presso la Corte dei reclami penali (art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM).
Con il reclamo si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche,
sentenze TF 6B_69/2014 del 9.10.2014 consid. 2.4.; 6B_776/2013 del 22.7.2014 consid. 1.5.; 1B_460/2013 del 22.1.2014 consid. 3.1;
1B_768/2012 del 15.1.2013 consid. 2.1.).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione. In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 31.3.2014 dal Ministero pubblico − legittimato ex lege − alla Corte dei reclami penali contro la decisione 21.3.2014 del giudice dei provvedimenti coercitivi (inc. GPC _), è tempestivo oltre che proponibile, giusta l’art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate.
2.
2.1.
In generale, l'art. 86 cpv. 1 CP stabilisce che quando il detenuto ha scontato i due terzi della pena, ma in ogni caso almeno tre mesi, l'autorità competente lo libera condizionalmente se il suo comportamento durante l'esecuzione della pena lo giustifica e non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti.
L'autorità competente esamina d'ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente. Chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario. Il detenuto deve essere sentito (art. 86 cpv. 2 CP). Se non concede la liberazione condizionale, l'autorità competente riesamina la questione almeno una volta all'anno (art. 86 cpv. 3 CP).
2.2.
La concessione della liberazione condizionale è dunque subordinata a tre condizioni: il detenuto deve innanzitutto aver espiato buona parte della propria pena privativa della libertà (per l'art. 86 cpv. 1 CP i due terzi della pena ed almeno tre mesi), secondariamente il suo comportamento durante l'esecuzione della pena non deve opporvisi, infine non vi deve essere il timore che egli commetta nuovi crimini o delitti (A. BAECHTOLD,
Exécution des peines
, p. 257, n. 4).
La liberazione condizionale è una modalità d'esecuzione della pena detentiva.
Non costituisce né un diritto, né un favore, né un atto di clemenza o di grazia che il detenuto è libero di accettare o di rifiutare (DTF 101 Ib 452 consid.
1; StGB PK – S. TRECHSEL, art. 86 CP n. 2 e 12; CR CP I – A. KUHN, art. 86 CP n. 16).
Si tratta della quarta ed ultima fase del regime progressivo d'espiazione della condanna, prima della liberazione definitiva (DTF 133 IV 201 consid. 2.3; 124 IV 193 consid. 4d; 119 IV 5 consid. 2; PRA 6/2000, p. 534). Abbrevia la durata effettivamente subita della pena privativa di libertà pronunciata dal giudice ed è sottoposta a condizione risolutoria, visto che il suo perdurare dipende in principio dalla buona condotta dell’interessato durante il periodo di prova (art. 86 CP; CR CP I – A. KUHN, art. 86 CP n. 2).
L’adempimento delle condizioni per la sua concessione deve essere esaminato d’ufficio dalla competente autorità, che chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario (art. 86 cpv. 2 CP).
3.
Nel presente caso ad essere oggetto di contestazione è la prima condizione per la concessione della liberazione condizionale, segnatamente il calcolo dei due terzi della pena, previsto dall’art. 86 cpv. 1 CP.
A mente del Pubblico ministero tale condizione non sarebbe adempiuta nel caso concreto, siccome il termine dei due terzi dovrebbe venire calcolato sulla pena complessiva (di 4 anni e 11 mesi) valutata dal giudice della Corte di merito nelle sue motivazioni, tenendo conto dei fatti oggetto dell’atto d’accusa chiamato a giudicare nonché delle tre precedenti condanne subite da PI 1 all’estero e inerenti a reati commessi precedentemente a quelli in giudizio.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi ritiene in buona sostanza di avere, conformemente alle proprie competenze in ambito di esecuzione pene, correttamente calcolato, nella procedura per la concessione della liberazione condizionale, il termine dei due terzi sulla base della pena pronunciata dalla Corte di merito (di 14 mesi) oggetto del dispositivo della sentenza del 10.10.2013, passato in giudicato. Calcolo questo anche oggetto della propria conseguente decisione di collocamento iniziale del 6.11.2013, nel frattempo pure passata in giudicato.
Pertanto le censure sollevate dal reclamante sarebbero, a suo avviso, tardive, carenti nella motivazione, lesive del principio della buona fede ed erronee.
4.
4.1.
In concreto, si ha che la Corte di merito, nella sentenza 10.10.2013, ha pronunciato nei confronti di PI 1 una pena detentiva di 14 mesi da espiare, parzialmente aggiuntiva a tre precedenti condanne estere, avendo tenuto conto del concorso retrospettivo previsto dall’art. 49 cpv. 2 CP, che impone al giudice − qualora egli deve giudicare un reato che l’autore ha commesso prima di essere stato condannato per un altro fatto − di determinare una pena complementare in modo che l’autore non sia punito più gravemente di quanto sarebbe stato se i diversi reati fossero stati compresi in un unico giudizio.
La medesima autorità giudicante, sulla base dell’art. 51 CP, ha altresì determinato e disposto il computo sulla pena pronunciata, unicamente del carcere preventivo e di sicurezza (di complessivi 107 giorni) sofferti dal condannato per il procedimento svoltosi sul nostro territorio.
Tutto ciò non è stato oggetto di appello giusta gli art. 398 ss. CPP, unico rimedio giuridico possibile per censurare la commisurazione della pena e il computo del carcere subito prima della condanna. Pertanto il dispositivo della sentenza è passato in giudicato.
Nemmeno c’è stato spazio per un’altra interpretazione, in particolare circa il computo del carcere preventivo ed estradizionale patiti dal condannato all’estero, avendo la Corte di merito respinto in data 8.1.2014 un’istanza di interpretazione volta in tal senso.
4.2.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi, nei limiti di competenza impostigli dall’art. 10 LEPM in combinazione con l’art. 73 LOG, è (correttamente) intervenuto in veste di esecutore delle pene, emanando la decisione 6.11.2013 di collocamento iniziale e stabilendo il termine di fine pena nel 24.8.2014 (oggetto del dispositivo di tale decisione). Termine questo, che chiaramente è stato calcolato sulla base della sentenza della Corte di merito, e dunque considerando la pena detentiva pronunciata di 14 mesi, dedotti 107 giorni di carcere preventivo e di sicurezza, e ritenuto il 10.10.2013 quale inizio dell’espiazione.
Di riflesso, i termini di esecuzione pena − fra cui quello dei due terzi −, per calcolo matematico, non possono che situarsi nell’arco di tempo fra tale termine di inizio e di fine pena.
Già per questo, l’idea che il detenuto debba espiare 2/3 della pena complessiva, comporterebbe una carcerazione ben più lunga dei 14 mesi inflitti dalla Corte di merito. In tal caso, il procuratore pubblico avrebbe dovuto ricorrere in appello sulla commisurazione della pena.
Pertanto oltre che tardiva, risulta totalmente inconsistente e poco seria la censura del procuratore pubblico sollevata in questa sede, secondo cui il calcolo dei termini di espiazione operato dal giudice dei provvedimenti coercitivi nella decisione 6.11.2013, non essendo oggetto del dispositivo, non sarebbe a tutt’oggi passato in giudicato e sarebbe quindi ancora impugnabile.
Ciò che appare ancor più temerario, se si considera che il magistrato inquirente, anziché aggravarsi tempestivamente contro la suddetta decisione (e prima ancora, come detto sopra, ricorrendo in appello) solleva le proprie censure soltanto nell’imminenza della liberazione condizionale e del rimpatrio del detenuto.
4.3.
Per non incorrere nelle censure di tardività e di irricevibilità, il termine dei due terzi deve, in questa sede, essere esclusivamente valutato quale presupposto dell’art. 86 CP per la concessione della liberazione condizionale.
Esso non deve riferirsi al calcolo matematico operato dal giudice dei provvedimenti coercitivi nella di lui decisione di collocamento iniziale. Nemmeno deve essere un modo per rivalutare l’applicazione del concorso retrospettivo ex art. 49 cpv. 2 CP considerato dal giudice di merito nel commisurare la pena − impugnabile solo mediante appello alla Corte di appello e di revisione penale (ciò che il magistrato inquirente non ha fatto) − oppure per rivedere il computo del carcere preventivo previsto dall’art. 51 CP, di esclusiva competenza del giudice di merito.
4.4.
L’istituto della liberazione condizionale si applica alle pene detentive di durata superiore ai tre mesi, non sospese condizionalmente, ed eseguibili (“
auf
unbedingt vollziehbare zeitliche Freiheitsstrafen von mehr als drei Monaten
”), come pure alle pene detentive a vita (“
auf lebenslängliche Freiheitsstrafen
”).
È applicabile inoltre alla pena unica (“
Gesamtstrafe
”), da pronunciare dal giudice di merito ex art. 49 CP a motivo della revoca della liberazione condizionale di una pena divenuta esecutiva in seguito ad un nuovo reato, giusta l’art. 89 cpv. 6 CP (“
auf nach dem Widerruf einer bedingen Entlassung gebildete Gesamtstrafen
”), purché la durata della stessa superi complessivamente i tre mesi, così come alle pene detentive eseguibili simultaneamente (“
auf gleichzeitig vollziehbare Freiheitsstrafen
”) [BSK − Strafrecht I − C. KOLLER, 3. ed., vor art. 86 CP n. 6].
Se vi è concorso di più pene detentive nell’ambito dell’esecuzione, l’Ordinanza sul Codice penale e sul Codice penale militare (OCP-CPM) del 19.9.2006 stabilisce in particolare, che tali pene siano eseguite congiuntamente conformemente agli art. 76-79 CP, secondo la loro durata totale (art. 4 OCP-CPM).
ll termine minimo per la liberazione condizionale delle pene detentive di durata limitata eseguibili simultaneamente, è calcolato in base alla loro durata totale (art. 5 OCP-CPM).
Per finire l’istituto della liberazione condizionale trova altresì applicazione alle pene detentive sostitutive, conseguenti alla commutazione di una pena pecuniaria (art. 36 CP) o del lavoro di pubblica utilità (art. 39 CP) [BSK − Strafrecht I − C. KOLLER, op. cit., vor art. 86 CP n. 6].
Esso è invece escluso alla parte di pena da eseguire in caso di sospensione parziale di una pena detentiva, secondo il chiaro testo dell’art. 43 cpv. 3 CP, e ciò per evitare una “doppia erosione” delle pene detentive e per accontentare gli oppositori dell’istituto della condizionale parziale (CR − CP I − A. KUHN, art. 86 CP n. 10).
Prevedendo espressamente i casi di applicabilità così come quelli di esclusione, il legislatore ha regolamentato l’istituto della liberazione condizionale in modo chiaro e completo, senza lasciare spazio ad eventuali lacune, contrariamente a quanto sostenuto dal procuratore pubblico, il quale del resto non ha sostanziato la sua censura con un qualche riferimento dottrinale e/o giurisprudenziale.
4.5.
Nel calcolo del termine minimo per la concessione della liberazione condizionale, il periodo di carcerazione preventiva sofferto va interamente dedotto dalla pena privativa della libertà personale nella quale esso è computato, conformemente all’art. 51 CP. La decisione di computo rientra nella competenza del giudice di merito e non delle autorità d’esecuzione (BSK − Strafrecht I − C. KOLLER, op. cit., art. 86 CP n. 1), che non hanno alcun margine di manovra in quest’ambito (CR − CP I − Y. JEANNERET, art. 51 CP n. 7).
4.6.
In concreto, la Corte di merito ha pronunciato (dispositivo 2. della sentenza 10.10.2013, passato in giudicato) una pena ferma di 14 mesi, aggiuntiva, in quanto, in applicazione del concorso retrospettivo imposto dall’art. 49 CP, la stessa è stata commisurata tenendo conto delle tre precedenti condanne estere.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi è chiamato a far eseguire tale pena; non invece anche le tre condanne estere, che, ritenuto quanto sopra esposto, non sono eseguibili simultaneamente (fra l’altro, due delle tre pene pronunciate all’estero sono pure sospese condizionalmente), e sono fuori dalla sua competenza.
Dal quantum della suddetta pena va poi dedotto il carcere preventivo e di sicurezza già sofferti dal detenuto (in Svizzera), così come definiti imperativamente dalla Corte di merito nella sentenza 10.10.2013 (passata in giudicato) e riconfermati nella decisione 8.1.2014 quo all’istanza di interpretazione, ovvero complessivamente 107 giorni.
Infatti nell’ambito della liberazione condizionale da una pena aggiuntiva pronunciata in Svizzera, non va tenuto conto della pena espiata all’estero (“
Nicht zu berücksichtigen ist dagegen die im Ausland verbüsste Strafe für die bedingte Entlassung aus einer in der Schweiz ausgefällten Zusatzstrafe
”, BSK − Strafrecht I − C. KOLLER, op. cit., art. 86 CP n. 2).
Pertanto sulla base di ciò, il termine di espiazione dei due terzi, venuto a scadere il 4.4.2014, quale primo presupposto per la liberazione condizionale, è in concreto adempiuto.
Realizzati altresì gli ulteriori presupposti di cui all’art. 86 CP − rimasti incontestati − la decisione 21.3.2014 del giudice dei provvedimenti coercitivi resiste alle censure del procuratore pubblico e merita di essere tutelata.
5.
Il reclamo, nella misura in cui è ricevibile, è respinto. Non si prelevano tasse, né spese, trattandosi del Ministero pubblico a soccombere.
Non si assegnano ripetibili, in quanto PI 1 non ha presentato osservazioni nella presente procedura e nemmeno le ha protestate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
be8cbdef-adfa-5ae9-858f-2349378cf8a7 | in fatto
a
. Con ordine di data 26.4.2011 – nel contesto del procedimento penale promosso nei confronti dell’avv. RE 1 per, tra altri, anche reati contro il patrimonio – il procuratore pubblico ha disposto la perquisizione presso _, _, della rubrica _ concernente il conto clienti del predetto legale ed il sequestro di ogni avere presente e della documentazione.
Questa Corte, con giudizi 27.2.2012, ha respinto il reclamo 19/20.9.2011 dell’avv. RE 1 contro il citato ordine (inc. CRP 60.2011.301) rispettivamente il reclamo 16/19.9.2011 dell’imputata contro l’ordine 29.8.2011 che disponeva il sequestro di sue relazioni presso _ (inc. CRP 60.2011.303).
b
. Con decisione 18.7.2013 il magistrato inquirente ha dissequestrato, in applicazione dell’art. 267 cpv. 2 CPP, i fondi sulla menzionata rubrica presso _ a favore di PI 2, al quale gli averi patrimoniali in essere sarebbero stati riconducibili.
Ha esposto che la documentazione agli atti del procedimento penale, in particolare il rapporto dell’équipe finanziaria (AI 141), avrebbe comprovato che i fondi confluiti sulla rubrica erano quelli precedentemente depositati presso _ e, ancora prima, presso _. Gli atti avrebbero dimostrato che PI 2 era avente diritto degli averi, concretamente suoi perché compensi per sue prestazioni lavorative. L’avv. RE 1 non avrebbe mai voluto quantificare o anche solo indicare quali pretese avrebbe vantato e a che titolo o a chi sarebbero appartenuti gli averi, se non a PI 2. Di lei eventuali pretese o altre contestazioni venali sarebbero risultate sufficientemente coperte dagli importi sequestrati sui conti presso _ (pari, all’11.6.2012, ad Euro 390'651.22).
Il 7.10.2013 questa Corte ha respinto il reclamo 5/6.8.2013 dell’imputata contro detta decisione (inc. CRP 60.2013.248).
Con giudizio 24.10.2014 il Tribunale federale, da lei adito, ha accolto – per quanto ammissibile – il ricorso annullando la decisione 7.10.2013 di questa Corte: in assenza di una situazione giuridica sufficientemente chiara, il dissequestro non poteva essere ordinato giusta l’art. 267 cpv. 2 CPP (inc. TF 1B_410/2013).
c
. Con atto 27.2.2014 il pubblico ministero ha promosso l’accusa davanti alla Corte delle assise criminali nei confronti dell’avv. RE 1 siccome accusata di ripetuta appropriazione indebita, ripetuta sottrazione di cose requisite o sequestrate, ripetuta amministrazione infedele, estorsione (tentata), sub. coazione (tentata), ripetuta coazione, ripetute soppressioni di documento, diffamazione e ripetuta violazione del segreto professionale.
Dall’atto di accusa (ACC 27/2014), che indica quali accusatori privati PI 1, PI 2 e PI 3, risulta che sono sequestrati, presso _, il conto corrente n. _ (legato alla relazione n. _ Studio legale avv. RE 1) di Euro 1'985'153.50 e, presso _, la relazione nominativa n. _ intestata all’avv. RE 1 di Euro 54'644.01 e, ancora, la relazione nominativa n. _ intestata all’avv. RE 1 di Euro 390'651.22.
d
. Il 21.10.2014 il procuratore pubblico ha redatto un atto di accusa aggiuntivo, promuovendo l’accusa a carico dell’avv. RE 1, davanti alla medesima Corte di merito, siccome accusata di ripetuta diffamazione a pregiudizio degli avv.ti _, _ e, anche, _ [ACC 106/2014].
e
. Con istanza 16/17.11.2014 l’avv. RE 1, premesse le di lei notorie difficoltà a reperire i mezzi finanziari per assicurarsi ulteriormente la propria esistenza, e nello specifico la difesa, in ragione dei sequestri in essere, ha chiesto il dissequestro, dai conti presso _ o _, dell’importo di Euro 25'000.00 (minimo di Euro 20'000.00) per la difesa inerente al processo in _.
f
. Con decreto 17.11.2014 il giudice Marco Villa, presidente della Corte delle assise criminali, ha rinviato al magistrato inquirente gli atti formanti gli ACC 27/2014 e 106/2014 per completazione.
Gli ha trasmesso anche l’istanza 16/17.11.2014 per evasione.
g
. Con pronuncia 9.12.2014 il procuratore pubblico ha respinto la predetta istanza: ha indicato che i fondi sequestrati presso _ non appartenevano all’avv. RE 1 e che gli averi presso _ erano in parte stati trasferiti direttamente dai conti _ (e dunque non nella di lei pertinenza) e in parte erano oggetto di sequestro risarcitorio per le somme ritenute malversate.
Nella decisione ha inoltre preso posizione su istanze probatorie del 28-29.11.2014 inerenti all’audizione di alcune persone, respingendole, considerato – anche – che non reputava di dover riaprire l’istruttoria sulle fattispecie già oggetto di atto di accusa.
h
. Con decisione 7.4.2015 questa Corte ha parzialmente accolto, per quanto ricevibile, il reclamo 22/23.12.2014 presentato dall’avv. RE 1 contro la decisione 9.12.2014, annullandola.
Ha ritenuto, ricordato il diritto applicabile e ammessa l’esistenza di sufficienti indizi per reati patrimoniali, che – per quanto riguardava gli averi presso _ [conto n. _ di Euro 1'985'153.50 (ACC 27/2014, p. 6)], considerato il sussistere di elementi indizianti per l’appartenenza a PI 2 degli averi – si poteva certamente reputare proporzionale il mantenimento del sequestro e che – per quanto riguardava i fondi presso _ (relazioni nominative n. _ di Euro 54'644.01 e n. _ di Euro 390'651.22, entrambe intestate all’avv. RE 1) – il magistrato inquirente non aveva quantificato rispettivamente menzionato l’entità dell’indebito profitto semmai pervenuto all’imputata (inc. CRP 60.2014.437).
i
. Lo stesso giorno, 7.4.2015, questa Corte ha respinto il reclamo di quest’ultima per denegata e ritardata giustizia del procuratore pubblico, che non si era pronunciato sulla sua istanza 10/12.12.2014 che aveva postulato – segnatamente – il dissequestro di tutte le sue relazioni (inc. CRP 60.2015.69), sentenza confermata dall’Alta Corte il 29.5.2015 (inc. TF 1B_184/2015).
j
. Con decisione 28.4.2015 – chiusa l’istruzione il 31.3.2015 – il pubblico ministero si è espresso nuovamente sulle richieste (che l’imputata aveva ribadito il 15.4.2015 e il 24.4.2015).
Il magistrato inquirente, in relazione ai fondi presso _, ha fatto riferimento al consid. 4.4.2.1. del giudizio 7.4.2015 di questa Corte, che aveva ritenuto proporzionale il provvedimento.
In merito agli averi presso _, ha indicato che sui conti erano confluite importanti somme (Euro 345'000.00 e Euro 85'000.00) direttamente provenienti da relazioni riconducibili a PI 2, per cui l’imputata non aveva alcun valido titolo per operare: esse erano dunque da considerare indebito profitto e provento di reato. Il loro importo complessivo non eccedeva il danno, quantificato in Euro 454'188.90 e CHF 25'000.00 (già solo con riferimento al punto 1. dell’ACC 27/2014). I restanti averi erano stati sequestrati in applicazione dei disposti di cui alla decisione 7.4.2015 di questa Corte, consid. 3., ovvero in considerazione del fatto che solo in parte gli importi malversati erano direttamente confluiti sulla relazione presso _; il resto era stato utilizzato per altri scopi. Al predetto indebito profitto (in merito alla relazione PI 2) si doveva aggiungere quello per la posizione di PI 1, pari ad Euro 185'000.00.
Per assicurare le somme malversate non c’era inoltre altra possibilità che il sequestro: esso appariva dunque proporzionale.
k
. Con gravame 29.4.2015
(inc. 60.2015.155)
l’avv. RE 1 postula che, in accoglimento dell’impugnativa, gli ordini di perquisizione e sequestro emanati nel 2011 inerenti ai conti presso _ e _ siano accertati nulli e che, quindi, la suddetta decisione 28.4.2015 sia accertata nulla subordinatamente sia annullata.
La reclamante, riprodotte le considerazioni e le conclusioni di cui ai suoi reclami contro gli ordini di perquisizione e sequestro 26.4.2011 e 29.8.2011, sostiene che esse si sarebbero rafforzate e rimpolpate nel tempo: avrebbe apportato la prova che PI 2 non sarebbe proprietario della somma di Euro 2 mio sequestrata, ma sarebbe l’autore del reato di appropriazione indebita di tale somma; inoltre, la sentenza 24.10.2014 del Tribunale federale avrebbe confermato le condotte illecite di favoreggiamento, concorso in riciclaggio e appropriazione indebita da parte del magistrato inquirente per avere aiutato PI 2 nel tentativo di appropriarsi illecitamente della refurtiva.
La pronuncia 28.4.2015 dovrebbe essere annullata perché non rispetterebbe i dettami del giudizio 7.4.2015 di questa Corte.
l
. Con ulteriore gravame 1/5.6.2015
(inc. 60.2015.195)
l’avv. RE 1 chiede che, in suo accoglimento, gli ordini di perquisizione e sequestro del 2011 siano accertati nulli subordinatamente annullati e dunque sia fatto ordine al procuratore pubblico di procedere urgentemente al dissequestro dei conti a lei riconducibili.
Delle di lei argomentazioni e delle osservazioni delle parti ai gravami si dirà, se necessario per il giudizio, in corso di motivazione. | in diritto
1
. Gli inc. 60.2015.155 (reclamo 29.4.2015) e 60.2015.195 (reclamo 1/5.6.2015) sono congiunti nella trattazione e nel giudizio.
2
. Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto, entro il termine di dieci giorni, contro le decisioni e gli atti procedurali e, in ogni momento, contro le omissioni della polizia, del pubblico ministero e, ancora, delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui esso è espressamente escluso dal CPP oppure quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
3
. Il gravame 29.4.2015, inoltrato contro la decisione 28.4.2015 del magistrato inquirente con cui ha mantenuto il sequestro delle relazioni presso _ e _, è proponibile
(BSK StPO – F. BOMMER / P. GOLDSCHMID, 2. ed., art. 263 CPP n. 68; BSK StPO – P. GUIDON, op. cit., art. 393 CPP n. 10; ZK StPO – S. HEIMGARTNER, 2. ed., art. 263 CPP n. 27; ZK StPO – A.J. KELLER, op. cit., art. 393 CPP n. 15) e tempestivo (siccome presentato nel termine di dieci giorni ex art. 396 cpv. 1 CPP).
Anche il reclamo 1/5.6.2015 è tempestivo. Esso censura denegata e ritardata giustizia del procuratore pubblico nel procedimento: non soggiace ad alcun termine (art. 396 cpv. 2 CPP).
L’avv. RE 1, imputata e titolare dei conti bancari oggetto della decisione di sequestro, è legittimata a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della pronuncia che le impedisce di disporre liberamente sulle relazioni (decisioni TF 6B_128/2014 del 23.9.2014 consid. 1.1.; 6B_422/2013 del 6.5.2014 consid. 1.2.; 1B_94/2012 del 2.4.2012 consid. 2.1.; decisione TPF BB.2012.71 del 20.12.2012 consid. 1.2.) rispettivamente all’avanzamento e alla conclusione del procedimento.
Le esigenze di forma e motivazione dei reclami sono rispettate.
I gravami, in queste circostanze, sono ricevibili in ordine.
reclamo 29.4.2015 contro la decisione 28.4.2015
(inc. 60.2015.155)
4
. 4.1.
A’ sensi dell’art. 263 cpv. 1 CPP all’imputato e a terzi possono essere sequestrati oggetti e valori patrimoniali se questi saranno presumibilmente utilizzati come mezzi di prova (a), utilizzati per garantire le spese procedurali, le pene pecuniarie, le multe e le indennità (b), restituiti ai danneggiati (c) oppure confiscati (d).
Il sequestro, provvedimento eminentemente cautelare, ha di conseguenza lo scopo di acquisire e conservare gli oggetti per il dispiegamento della procedura e quindi per le necessità dell’istruzione preliminare, per le decisioni del magistrato requirente e per quelle del giudice del merito nella prospettiva – tra le altre cose – della produzione e valutazione delle prove (sequestro probatorio secondo l’art. 263 cpv. 1 lit. a CPP) e della decisione di confisca, restituzione oppure devoluzione, come agli art. 69 ss. CP (sequestro confiscatorio giusta l’art. 263 cpv. 1 lit. d CPP) [decisione TF 1B_1/2015 del 19.3.2015 consid. 3.1.
; ZK StPO – S. HEIMGARTNER, op. cit., art. 263 CPP n. 15 ss.].
Il sequestro (quale misura coercitiva che restringe la garanzia della proprietà ex art. 26 Cost.) è legittimo – secondo l’art. 197 CPP – solo se si fonda su una base legale, in presenza concorrente di sufficienti indizi di reato (decisioni TF 1B_212/2014 del 14.10.2014 consid. 3.2.; 1B_193/2014 del 2.9.2014 consid. 2.1.), se gli obiettivi con esso perseguiti non possono essere raggiunti mediante misure meno severe (proporzionalità), se l’importanza del reato lo giustifica (proporzionalità) e se vi è connessione tra questo e l’oggetto che così occorre salvaguardare per gli incombenti di istruttoria e, poi, di giudizio (decisione TF
1B_109/2015 del 3.6.2015 consid.
2.1.; BSK StPO – F. BOMMER / P. GOLDSCHMID, op. cit.,
vor
art. 263-268 CPP n. 11 ss.).
La decisione sulla sorte degli oggetti e dei valori patrimoniali sequestrati giusta l’art. 263 CPP è disciplinata dall’art. 267 CPP.
4.2.
4.2.1.
Giusta l’art. 70 cpv. 1 CP il giudice ordina la confisca [nei confronti dell’imputato oppure nei confronti di terzi (in quest’ultimo caso alle condizioni secondo l’art. 70 cpv. 2 CP)] dei valori patrimoniali che costituiscono il prodotto di un reato oppure erano destinati a determinare o a ricompensare l’autore di un reato, a meno che debbano essere restituiti alla persona lesa allo scopo di ripristinare la situazione legale (DTF 140 IV 57 consid. 4.1.1.).
La confisca è assicurata con il sequestro giusta l’art. 263 CPP.
4.2.2.
Se i valori patrimoniali sottostanti alla confisca non sono più reperibili (siccome consumati, dissimulati o alienati), il giudice ordina – secondo l’art. 71 cpv. 1 CP – in favore dello Stato un risarcimento equivalente, allo scopo di impedire “
(...) che colui il quale si è liberato dei valori patrimoniali soggetti a confisca sia avvantaggiato rispetto a chi li ha conservati
” (FF 1993 III 221; decisioni TF 6B_236/2015 del 30.4.2015 consid. 1.4.1.; 1B_1/2015 del 19.3.2015 consid. 3.1.; DTF 140 IV 57 consid. 4.1.2.).
L’autorità – in applicazione dell’art. 71 cpv. 3 prima frase CP – in vista dell’esecuzione può sequestrare i valori patrimoniali dell’interessato (imputato oppure entro certi limiti terzo) “
(...), prodotto diretto o indiretto del reato, come pure quelli di provenienza lecita fino a concorrenza dell’importo presumibile del provento del reato. Spetta poi al giudice, sulla base dei risultati della procedura d’assunzione delle prove, ordinare una confisca, oppure, oltre a questa misura, mantenere il sequestro a copertura di un risarcimento compensativo pronunciato
” (FF 1993 III 223; decisioni TF 1B_40/2014 del 15.4.2014 consid. 5.1.2.; 1B_300/2013 del 14.4.2014 consid. 5.3.1.; 1B_163/2013 del 4.11.2013 consid. 4.1.4.; 1B_711/2012 del 14.3.2013 consid. 4.1.2.;
DTF 140 IV 57 consid.
4.1.2.;
StGB Praxiskommentar – S. TRECHSEL / M. PIETH / M. JEAN-RICHARD, 2. ed., art. 71 CP n. 3; BSK Strafrecht I – F. BAUMANN, 3. ed., art. 70/71 CP n. 69).
Il risarcimento compensativo, quale provvedimento sostitutivo della confisca a’ sensi dell’art. 70 cpv. 1 CP (decisione TF 1B_40/2014 del 15.4.2014 consid. 5.1.2.; BSK Strafrecht I – F. BAUMANN, op. cit., art. 70/71 CP n. 65) qualora i valori patrimoniali provento di reato non sono più reperibili [“
In ragione del suo carattere sussidiario, il risarcimento compensativo può essere pronunciato soltanto se, qualora i valori patrimoniali fossero stati disponibili, la confisca sarebbe stata pronunciata. Può quindi essere pronunciato l’ordine di risarcimento compensativo anche nei confronti di un terzo presso il quale sarebbero stati confiscati i valori patrimoniali dai quali egli si è separato
” (FF 1993 III 221 s.)], presuppone che i valori siano pervenuti all’interessato dal sequestro. L’esigenza di detto presupposto – esistenza di un indebito profitto di carattere patrimoniale – è attestata dallo scopo del risarcimento, che impedisce che colui che si è liberato dei valori patrimoniali soggetti a confisca
sia avvantaggiato rispetto a chi li ha conservati [“
il crimine non paga
” (decisione TF 6B_236/2015 del 30.4.2015 consid. 1.4.1.; DTF 140 IV 57 consid. 4.1.2.)], circostanza che implica necessariamente che essi gli siano pervenuti. L’ottenimento di un valore patrimoniale (che può concretizzarsi parimenti nella diminuzione dei passivi) è dunque indispensabile (
StGB Praxiskommentar – S. TRECHSEL / M. PIETH / M. JEAN-RICHARD, op. cit., art. 71 CP n. 1).
5
.
Con decisione 28.4.2015 il pubblico ministero ha respinto la richiesta di dissequestro totale e parziale degli averi sui noti conti.
5.1.
Il magistrato inquirente, in merito ai fondi presso _, ha fatto riferimento, per respingere la domanda di dissequestro dell’avv. RE 1, al consid. 4.4.2.1. del giudizio 7.4.2015 di questa Corte, che aveva ritenuto proporzionale il sequestro. A ragione.
Questa Corte [che al consid. 4.3.2. della citata pronuncia aveva ammesso, stante l’atto di accusa 27.2.2014 (ACC 27/2014) a carico dell’imputata, sufficienti indizi di colpevolezza nei di lei confronti per, anche, reati patrimoniali, conclusione – peraltro non esplicitamente contestata dalla reclamante – che si deve confermare anche oggi], al citato considerando, aveva ritenuto:
“
Per quanto riguarda gli averi presso _ [conto n. _ di Euro 1'985'153.50 (ACC 27/2014, p. 6)], dal rapporto dell’équipe finanziaria 2.7.2012 emerge che “
Dalle verifiche effettuate risulta che, tra gennaio e marzo 2009, PI 2 ha trasferito liquidità e titoli (per complessivi EUR 2.7 mio) dalla relazione intestata a _ (società _ a lui riconducibile) presso _ a favore della relazione intestata allo Studio legale dell’avv. RE 1 presso _, _ (...). (...) A fine ottobre 2009 il denaro (titoli e liquidità, al netto dei pagamenti fatti nell’interesse di PI 2) è stato trasferito da _, _, a favore della relazione dello Studio legale dell’avv. RE 1 presso _ (_); la liquidità è stata inizialmente accreditata a favore del conto “clienti” (_) (...). A gennaio 2010, parte della liquidità in conto (...) è stata trasferita a favore della rubrica denominata _ (aperta per conto di PI 2)
” [p. 3, AI 141]. Risulta inoltre, sempre dal medesimo rapporto 2.7.2012, che “
La rubrica denominata _ è riconducibile a PI 2, così come indicato nei due formulari A del 15.12.2009: (...)
” [p. 10, AI 141]. In queste circostanze, ritenuta l’esistenza di elementi indizianti per l’appartenenza, a PI 2, dei noti averi, si può certo reputare proporzionale il mantenimento del sequestro, condizione a cui il magistrato inquirente ha implicitamente alluso
.” (p. 10 s., inc. CRP 60.2014.437).
Questa conclusione, non essendosi nel frattempo modificate le circostanze, deve essere confermata ancora oggi. Si ricorda peraltro che il sequestro è una misura conservativa fondata sulla verosimiglianza, riferita a pretese ancora incerte (DTF 140 IV 57 consid. 4.1.1.). E’ soltanto al momento del giudizio di merito che saranno eventualmente sanciti una confisca, un risarcimento equivalente oppure un’assegnazione alla parte lesa (decisione TF 1B_170/2015 del 29.6.2015 consid. 3.1.). Fintanto che il procedimento penale non è concluso e che permane una delle citate possibilità, il sequestro deve di conseguenza essere mantenuto (decisione TF 1B_170/2015 del 29.6.2015 consid. 3.1.).
Le asserzioni della reclamante, secondo cui – in sostanza – gli averi sequestrati non sarebbero di proprietà di PI 2, il quale si sarebbe indebitamente appropriato dei medesimi, non sono sufficienti – a questo stadio del procedimento – per inficiare la suddetta conclusione, fondata sulla verosimiglianza.
La questione della titolarità degli averi potrà, e dovrà, certamente essere discussa al momento del giudizio di merito davanti alla competente Corte, alla quale l’imputata sarà (presto) deferita.
A quel momento l’avv. RE 1 potrà (conformemente al diritto di essere sentita) esprimersi sugli averi sequestrati, sui quali si determinerà la competente Corte delle assise criminali.
Fino ad allora, essendone dati i presupposti, come sopra indicato, gli averi devono restare sequestrati. Il provvedimento conservativo può del resto essere revocato soltanto nell’ipotesi in cui sia immediatamente manifesto ed indubbio che non siano (e non possano essere) adempiute le condizioni di legge per cui è stato disposto (decisione TF 1B_252/2014 del 3.11.2014 consid. 2.1.): ciò che nondimeno non è il caso nella fattispecie qui in esame.
5.2.
La medesima conclusione si impone per i conti presso _.
5.2.1.
Nel giudizio 7.4.2015 questa Corte ha dovuto constatare che il magistrato inquirente non aveva distinto gli averi che sarebbero arrivati da _ (non di pertinenza dell’avv. RE 1) da quelli – per suo dire – oggetto di sequestro risarcitorio per le somme considerate malversate e che – inoltre – non aveva quantificato rispettivamente menzionato l’entità dell’indebito profitto che sarebbe pervenuto all’imputata. La Corte ha ricordato che il provvedimento del sequestro risarcitorio implicava – con riferimento agli art. 70 s. CP – valori patrimoniali che costituivano il prodotto di un reato oppure che erano destinati a determinare o a ricompensare l’autore di un reato: era invero necessario che all’interessato dal sequestro fossero pervenuti averi provento di reato, dei quali si era poi spossessato. Era quindi imperativo determinare la portata dell’indebito profitto: anche se il danno alle parti lese fosse stato superiore ai beni complessivi sequestrati, il sequestro degli averi riconducibili all’avv. RE 1 avrebbe potuto estendersi solo all’entità dei beni che le erano arrivati quale (indebito) profitto, non alla globalità del danno. Era imprescindibile che fosse chiarito se i reati ipotizzati a di lei carico avessero generato un indebito profitto e se questo le fosse pervenuto (consid. 4.4.2.2., p. 11 s., inc. CRP 60.2014.437).
Si tratta ora di esaminare se il pubblico ministero si sia (ri)pronunciato avuto riguardo alle indicazioni di questa Corte.
5.2.2.
Il magistrato inquirente – nella decisione 28.4.2015 – ha menzionato che sui conti erano confluite importanti somme (Euro 345'000.00 e Euro 85'000.00) direttamente provenienti da relazioni riconducibili a PI 2, per cui l’imputata non aveva alcun valido titolo per operare: esse erano dunque da considerare indebito profitto e provento di reato. Il loro importo complessivo non eccedeva il danno, quantificato in Euro 454'188.90 e CHF 25'000.00 (già solo con riferimento al punto 1. dell’ACC 27/2014). I restanti averi erano stati sequestrati in applicazione dei disposti di cui alla decisione 7.4.2015 di questa Corte, consid. 3., ovvero in considerazione del fatto che solo in parte gli importi malversati erano direttamente confluiti sulla relazione presso _; il resto era stato utilizzato per altri scopi. Al predetto indebito profitto (in merito alla relazione PI 2) si doveva aggiungere quello per la posizione PI 1, pari ad Euro 185'000.00. Ha concluso ritenendo che gli importi sequestrati fossero da considerare, per la relazione n. _, interamente quale provento di reato e indebito profitto e, per la relazione n. _, in ragione di Euro 345'000.00 quale provento di reato e indebito profitto e per la rimanenza quale risarcimento compensativo per l’indebito profitto. Per assicurare le somme malversate non c’era inoltre altra possibilità che il sequestro: esso appariva dunque proporzionale.
Il procuratore pubblico – con questa esposizione dei fatti – si è di tutta evidenza compiutamente ed esaustivamente pronunciato in ossequio a quanto indicato da questa Corte nel noto giudizio.
Ha infatti esplicitato i beni provenienti da relazioni riconducibili a PI 2, averi – che si trovano sui conti n. _ (Euro 345'000.00) e n. _ (Euro 85'000.00) – che costituivano, secondo la tesi accusatoria, indebito profitto e provento di reato. Ha espresso il danno, quantificato in Euro 454'188.90 e CHF 25'000.00 (già solo con riferimento al punto 1. dell’ACC 27/2014). Ha aggiunto che la differenza tra l’importo di Euro 345'000.00 e quanto sul conto n. _ (secondo l’ACC 27/2014: Euro 390'651’22) era sequestrato a fine risarcitorio. Il pregiudizio, come cifrato, era superiore agli averi sequestrati: per garantire le somme malversate, si doveva mantenere il sequestro in essere, misura proporzionale.
In queste circostanze, accertato che le motivazioni addotte sono condivisibili nel merito, come si evince in particolare dal rapporto dell’équipe finanziaria 2.7.2012 (p. 13 ss., AI 141), tenuto presente che il giudizio di questa Corte si deve basare sulla verosimiglianza e non sulla certezza e che la tesi accusatoria da cui emerge l’ipotizzato nocumento sarà oggetto di verifica da parte della Corte di merito, si deve confermare la pronuncia 28.4.2015.
La reclamante non si confronta del resto con le cifre indicate dal magistrato inquirente; si limita a sostenere che “
(...) contesta recisamente la decisione del PP in tutti i suoi punti e rinuncia a chinarvisi singolarmente principalmente in ragione della manifesta nullità degli OPS e a casco
(?)
di quella della decisione qui impugnata
” (reclamo 29.4.2015, p. 16). L’onere di motivazione del gravame spetta nondimeno a chi lo inoltra, secondo i combinati art. 396 cpv. 1 CPP (secondo cui i reclami vanno motivati) e 385 cpv. 1 CPP (le cui lit. a/b prevedono esplicitamente che devono essere indicati, con precisione, i punti della decisione che si intendono impugnare e i motivi a sostegno di una diversa decisione) [sentenza TF 6B_207/2014 del 2.2.2015 consid. 5.2.].
In ogni caso, come si dirà, il riferimento alla “
nullità degli OPS
” – che chiede di constatare – non prova il fondamento del gravame.
5.2.3.
Gli ordini di perquisizione e sequestro a cui fa accenno la reclamante, di data 26.4.2011 e 29.8.2011, sono già stati oggetto di decisione: con giudizi 27.2.2012 questa Corte ha respinto i reclami 16/19.9.2011 (inc. CRP 60.2011.303) e 19/20.9.2011 (inc. CRP 60.2011.301) contro i predetti ordini, sentenze che l’avv. RE 1 non ha contestato davanti al Tribunale federale.
Una decisione viziata è peraltro nulla – nullità che deve essere ammessa solo in casi eccezionali, quando la mera annullabilità non offre manifestamente sufficiente tutela – soltanto se il difetto è particolarmente grave, manifesto o comunque facilmente identificabile e la sua constatazione non mette seriamente in pericolo la sicurezza del diritto (decisioni TF 1B_332/2014 del 16.10.2014 consid. 2.1.; 6B_640/2012 del 10.5.2013 consid. 1.1.).
Il fatto che la reclamante ritenga che PI 2 non debba avere la qualità di accusatore privato nel procedimento penale [questione già sollevata e evasa da questa Corte, che ha riconosciuto detta qualità (decisione 5.10.2012, inc. CRP 60.2012.298, sentenza confermata dal Tribunale federale, inc. TF 1B_698/2012 dell’8.3.2013)] non è evidentemente circostanza idonea a rendere nulli gli ordini di perquisizione e sequestro che hanno bloccato averi apparentemente (consid. 5.1. e 5.2.2.) riconducibili a PI 2 su conti bancari a lei intestati.
La qualità di accusatore privato e il destino dei beni saranno peraltro oggetto di discussione davanti al giudice di merito.
La questione a sapere se effettivamente un reato è adempiuto (sotto il profilo della fattispecie, dell’illiceità e della colpa) è infatti risolta unicamente al momento della decisione di merito. Fino a quell’istante il reato resta pertanto una mera ipotesi. La posizione processuale della persona lesa si fonda quindi su una supposizione provvisoria – all’inizio del procedimento frequentemente soltanto sulla descrizione dei fatti da parte del leso – e deve essere costantemente esaminata nel corso del procedimento (BSK StPO –
G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, op. cit., art. 115 CPP n. 20; DTF 141 IV 1 consid. 3.1.). Di modo che la posizione di PI 2 potrà e dovrà essere riesaminata al processo.
Non si comprende peraltro il nesso tra la contestata qualità di accusatore privato di PI 2 e i sequestri in opera.
Il sequestro, che può essere disposto nei confronti dell’imputato e di terzi (art. 263 cpv. 1 CPP), è legittimo – come detto più sopra (consid. 4.1.) – se sono adempiuti determinati presupposti di legge (sufficienti indizi, connessione, proporzionalità). Se ne sono date le condizioni, il procuratore pubblico deve procedere d’ufficio al sequestro, a prescindere da istanze delle parti o di eventuali terzi. Non è invero necessario che ci sia un accusatore privato: secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, infatti, il fatto che il danneggiato rinunci al risarcimento del danno in seguito, segnatamente, ad una transazione, non fa mutare il carattere di reato dell’atto che ha cagionato il nocumento, di modo che l’eventuale provento di reato deve comunque essere confiscato (decisione TF 6B_479/2012 del 18.4.2013 consid. 3.3.).
Qualora, dunque, per ipotesi, la Corte di merito non dovesse riconoscere a PI 2 la qualità di accusatore privato, essa non sarà dispensata dall’esaminare la condotta dell’imputata in relazione alle ipotesi accusatorie a suo carico, segnatamente dal verificare se quest’ultima si sia appropriata di denaro comunque non nella di lei proprietà (ma di terze persone).
La decisione 24.10.2014 del Tribunale federale (inc. TF 1B_410/2013) non ha peraltro “
(...) demolito strutturalmente l’impianto accusatorio contro RE 1 perché sancisce, inter alia, la decadenza ex tunc della qualità di parte danneggiata di PI 2
” (reclamo 29.4.2015, p. 13): l’Alta Corte si è limitata a constatare l’assenza in concreto di una situazione giuridica sufficientemente chiara, per cui il dissequestro – sulla base dell’art. 267 cpv. 2 CPP – non poteva essere disposto (consid. 3.5.). Null’altro.
6
. Il gravame 29.4.2015 è respinto. Tassa di giustizia, spese e ripetibili sono poste a carico dell’avv. RE 1, soccombente.
reclamo 1/5.6.2015 (denegata e ritardata giustizia)
(inc. 60.2015.195)
7
. 7.1.
L’avv. RE 1, con ulteriore gravame (inviato al giudice dei provvedimenti coercitivi, che l’ha trasmesso a questa Corte), domanda che gli ordini di perquisizione e sequestro del 2011 siano accertati nulli subordinatamente annullati e sia ingiunto al procuratore pubblico di procedere urgentemente al dissequestro.
7.2.
La reclamante, considerato che i fatti a lei contestati sarebbero occorsi prima dell’1.1.2011, domanda di applicare al caso il diritto procedurale secondo il vCPP/TI, in vigore fino al 31.12.2010.
L’art. 448 cpv. 1 CPP prevede però che i procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore del CPP siano continuati secondo il nuovo diritto, in quanto le norme di legge non prevedano altro (BSK StPO – H. USTER, op. cit., art. 448 CPP n. 1 s.).
Al procedimento penale deve dunque essere applicato il CPP.
7.3.
7.3.1.
Commette diniego di giustizia e viola l’art. 29 cpv. 1 Cost. l’autorità che, chiamata ad evadere le procedure di sua competenza in un tempo adeguato, in relazione a natura e complessità della causa, non si pronuncia su un tema sottopostole nella forma, nella motivazione e nei termini corretti (cfr., in merito, per esempio, decisione TF 6B_865/2014 del 2.4.2015 consid. 2.1.).
7.3.2.
Il principio di celerità, sancito in generale per esempio dagli art. 29 cpv. 1 Cost., 10 cpv. 3 Cost. TI, 6 cifra 1 CEDU, 14 cifra 3 lit. c Patto ONU II e 5 cpv. 1 CPP e, per quanto concerne la carcerazione preventiva, dagli art. 31 cpv. 3 Cost., 5 cifra 3 CEDU (cfr., sul tema, M. MINI, Il principio della celerità in materia penale, in Diritto senza devianza, p. 555 ss.) e 5 cpv. 2 CPP, impone alle autorità di procedere con la dovuta speditezza non appena l’imputato è informato dei sospetti che pesano su di lui, al fine di non lasciarlo inutilmente nello stato di angoscia che una tale procedura suscita (decisione TF 6B_751/2014 del 24.3.2015 consid. 1.4.; BSK StPO – S. SUMMERS, op. cit., art. 5 CPP n. 1).
L’art. 5 CPP concretizza il principio di celerità per il diritto penale.
Secondo l’art. 5 cpv. 1 CPP le autorità penali avviano senza indugio i procedimenti penali e li portano a termine senza ritardi ingiustificati. In applicazione dell’art. 5 cpv. 2 CPP, se l’imputato è in stato di carcerazione, il procedimento a suo carico ha priorità.
Questi principi devono essere ossequiati dalle autorità di perseguimento penale (art. 12 / 15 ss. CPP) e giudicanti (art. 13 / 18 ss. CPP) [decisione TF 1B_549/2012 del 12.11.2012 consid. 2.3.], dal momento in cui l’imputato viene a conoscenza del procedimento e fino al momento in cui cresce in giudicato la sentenza di ultima istanza (ZK StPO – W. WOHLERS, op. cit., art. 5 CPP n. 6 s.; BSK StPO – S. SUMMERS, op. cit., art. 5 CPP n. 2).
La questione a sapere se il principio di celerità sia stato violato va decisa in base ad un apprezzamento globale del lavoro effettuato dalle autorità; tempi morti sono inevitabili e, se nessuno di essi ha avuto una durata scioccante, è l’apprezzamento globale ad essere decisivo. Si devono considerare, segnatamente, la gravità dei reati, la complessità del caso in esame, i relativi atti istruttori, la condotta dell’imputato ed il comportamento delle autorità (decisioni TF 6B_590/2014 del 12.3.2015 consid. 5.3.; 6B_605/2014 del 22.12.2014 consid. 2.2.; BSK StPO – S. SUMMERS, op. cit., art. 5 CPP n. 7 ss.; ZK StPO – W. WOHLERS, op. cit., art. 5 CPP n. 8 ss.; M. MINI, Il principio della celerità in materia penale, in Diritto senza devianza, p. 538 ss.). Anche il tempo trascorso tra il rinvio a giudizio dell’imputato ed il dibattimento deve essere valutato alla luce di tutte le circostanze del caso (decisione TF 1B_313/2012 del 15.6.2012 consid. 3.1.).
Il principio è leso anche se alle autorità non è imputabile alcuna colpa. Un cronico sovraccarico o deficienze strutturali non giustificano infatti una violazione del postulato: compete allo Stato dotare le autorità del personale e dei mezzi necessari per poter statuire in tempi ragionevoli ed ai tribunali organizzare la loro attività in modo da poter evadere le vertenze loro sottoposte entro un termine adeguato (decisione TF 1B_549/2012 del 12.11.2012 consid.
2.4.2.; BSK StPO – S. SUMMERS, op. cit., art. 5 CPP n. 14; ZK StPO – W. WOHLERS, op. cit., art. 5 CPP n. 10).
L’art. 5 CPP non prevede sanzioni in caso di violazione dell’imperativo di celerità. La sua lesione può però comportare, segnatamente, l’accertamento della violazione del principio, l’esenzione o l’attenuazione dalla/della pena, il risarcimento del danno, la riparazione del torto morale o l’archiviazione del procedimento penale (cfr., in generale, BSK StPO – S. SUMMERS, op. cit., art. 5 CPP n. 15 ss.; ZK StPO – W. WOHLERS, op. cit., art. 5 CPP n. 12 s.; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, 2. ed., art. 5 CPP n. 3; M. MINI, Il principio della celerità in materia penale, in Diritto senza devianza, p. 542 ss.; in materia di carcerazione, decisione TF 1B_343/2014 del 29.10.2014 consid. 2.1.).
7.4.
Si è detto più sopra che gli ordini di perquisizione e sequestro 26.4.2011 e 29.8.2011 sono già stati oggetto di decisioni di questa Corte (inc. CRP 60.2011.301 e 60.2011.303), non censurate, e che il fatto che la reclamante ritenga che PI 2 non debba avere la qualità di accusatore privato nel procedimento penale in essere non è circostanza idonea a rendere nulli gli ordini di perquisizione e sequestro che hanno bloccato averi a lui apparentemente riconducibili su conti bancari a lei intestati.
Il procuratore pubblico e questa Corte si sono espressi sulle istanze di dissequestro della reclamante: la circostanza che non abbiano dato seguito alle medesime, secondo quanto auspicato dall’avv. RE 1, non implica denegata o ritardata giustizia.
Il magistrato inquirente – al quale erano stati ritornati gli atti dell’inc. MP 2010.10322, per completare la motivazione, in seguito al giudizio 7.4.2015 di questa Corte – si è del resto celermente ripronunciato sulle istanze di dissequestro, prolando la sua decisione il 28.4.2015. Nulla può essergli rimproverato.
8
. Il gravame 1/5.6.2015 è respinto. Tassa di giustizia, spese e ripetibili (a favore di chi le ha protestate) sono poste a carico dell’avv. RE 1, soccombente.
9
. Con scritto intitolato “
reclamo urgente per denegata e ritardata giustizia ripetuta e/o continuata con istanza di provvedimento d’urgenza
” di data 8.7.2015 l’avv. RE 1 ha sollecitato l’evasione delle sue impugnative. Ha aggiunto, quale ultima frase, “
In ultima analisi ed in ultimo subordine, quantomeno le chiedo di voler accogliere la mia istanza di ricusazione di Bordoli
”.
Il contenuto dello scritto è nondimeno sconveniente: l’avv. RE 1 utilizza infatti in larga misura termini oltraggiosi e denigratori nei confronti del magistrato inquirente. Di modo che l’istanza è immediatamente da dichiarare irricevibile (cfr. consid. 1.5. del giudizio 7.10.2013 di questa Corte, inc. CRP 60.2013.248). | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
beb2f686-b7ba-55df-817a-a0c402c9b30d | in fatto: A.
Con sentenza 30 aprile 2009 il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha dichiarato RI 1 autore colpevole di:
- ripetuta truffa, per avere, ad _ ed in altre località, nel periodo dicembre 2005-agosto 2006, ingannato con astuzia _ e i funzionari di sei partners commerciali della società, stipulando o facendo stipulare a nome di _ dei contratti di leasing e di fornitura di servizi, inducendoli in tal modo ad atti pregiudizievoli al patrimonio proprio e altrui;
- appropriazione indebita, per avere, a _, nel periodo agosto 2003-dicembre 2004, disposto illecitamente della vettura marca BMW 520i Limousine, oggetto di un contratto di leasing da lui stipulato in data 22 agosto 2003 a nome della _ (di cui era socio e gerente), con PC 1, vettura, questa, da lui ritirata presso il garage _ e, in seguito, trasferita in _, dove se ne sono perse completamente le tracce, e dove egli ne ha disposto alienandola a terzi, lasciando nel contempo impagate le rate mensili dovute contrattualmente e causando pertanto alla PC 1 un danno di complessivi fr. 56'140,20.
Per quanto attiene al reato di truffa, al condannato è stato, in particolare, rimproverato di avere usato la _ – società costituita e, poi, subito privata del capitale azionario e che quindi RI 1 sapeva sprovvista
ab initio
di ogni mezzo finanziario così da essere “
una scatola vuota senza neanche un franco in cassa”
(sentenza impugnata consid. 7 pag 43) - per concludere dei negozi giuridici con società di leasing e compagnie telefoniche nonché per ottenere una carta PC 6 e l’apertura di un conto giallo, allo scopo di procurarsi beni e servizi di cui usufruire illecitamente a scopi personali e/o di terzi. Così – secondo il primo giudice - ben sapendo che né la società, né lui, né eventualmente terzi beneficiari (quali il fantomatico _) avrebbero mai potuto (né voluto) far fronte agli impegni contrattualmente assunti a nome di _, RI 1 ha arrecato a questa (nel frattempo radiata d’ufficio dal Registro di commercio) e ai suoi partners commerciali, un danno patrimoniale quantificabile in complessivi fr. 133'187,30.
In applicazione della pena, il presidente della Corte d’assise ha condannato RI 1 alla pena detentiva di 14 mesi (da dedursi il carcere preventivo sofferto), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni e lo ha, inoltre, condannato al versamento di fr. 115'672, 90 (oltre interessi al 5% su fr. 56'142,20 dal 1.12.2003 e su fr. 59'530,70 dal 1.3.2006) alla PC PC 1 e di fr. 1'276,15 alla PC PC 5, rinviando le PC al competente foro civile per le ulteriori loro pretese.
B.
Contro la decisone della Corte d’assise è insorto il condannato con dichiarazione di ricorso 4 maggio 2009.
Nella motivazione scritta, presentata il 12 giugno 2009, RI 1 ha postulato l’annullamento della sentenza di prime cure e il rinvio degli atti al Tribunale penale per nuovi accertamenti (in particolare, per l’esperimento di una perizia calligrafica relativa alle firme apposte sui documenti di cui agli AI 28, 46, 67, 78, 83 e 87 e sui formulari d’iscrizione di _ ai servizi di _ relativi ai n. ) e nuovo giudizio.
C.
Con scritto 22 giugno 2009, il Procuratore pubblico, senza formulare particolari osservazioni e limitandosi a sottolineare come la pronuncia impugnata non presti il fianco a critiche, ha chiesto la reiezione del gravame.
D.
La parte civile PC 1, con scritto 6 luglio 2009, ha chiesto la reiezione integrale del ricorso e la conferma della sentenza di prime cure, in particolare per quanto riguarda la sua pretesa risarcitoria. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una
determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
Per quanto attiene ai fatti RI 1, innanzitutto, censura d’arbitrio l’accertamento della prima Corte secondo cui egli – e non tale _ - era il “proprietario” della _.
2.1.
La prima Corte, sulla scorta della documentazione reperita presso la _ (AI 23) nonché delle testimonianze di _ (figlia del defunto titolare della stessa), di _ (segretaria della stessa) e di PC 7, ha accertato che il ricorrente era l’
“unico referente per la _
” e, in particolare, ha accertato come sia stato RI 1 a telefonare alla _ e a fissare un appuntamento con _ per discutere della costituzione della società e come lo stesso ricorrente, in quell’occasione, abbia lasciato il proprio recapito telefonico ed un indirizzo e-mail a lui riconducibile.
Inoltre, la Corte d’assise ha rilevato come RI 1, in data 6 dicembre 2005, abbia versato fr. 1'500.- alla _ quale acconto per la costituzione della _ e che, lo stesso giorno, il ricorrente si è recato con _ per versare i fr. 100’000.- che dovevano costituire il capitale azionario.
Sulla controversa figura di _, la prima Corte ha osservato che il ricorrente, pur sostenendo che questi era un suo intermediario commerciale, non ha saputo, rispettivamente voluto, fornire alcuna indicazione sul suo conto affinché si potesse procedere alla sua identificazione ed al suo interrogatorio. Inoltre, ha accertato che né i testi PC 7, _ hanno saputo fornire indicazioni in punto all’identità del fantomatico personaggio né indicazioni in tal senso risultano dagli altri atti istruttori.
Relativamente ai rapporti tra questo _, la Corte d’assise ha rilevato che dagli atti
“non risulta essere mai stato stipulato alcun contratto di mandato fiduciario tra _, tra il primo e _ rispettivamente tra l’accusato e _”
.
Pertanto, pur rilevando che
“in data 21 dicembre 2005 un non meglio identificato _ (...) avrebbe versato EUR 2'300.- a saldo della cessione di azioni _”
, la prima Corte ha ritenuto che fosse RI 1 l’unico interlocutore di _. Del resto – ha concluso la Corte d’Assise - è stato lo stesso ricorrente a riferire in occasione del suo interrogatorio del 26 aprile 2007 di
“non aver mai messo in contatto _ con il fiduciario _”
, riconoscendo, così, di essere stato lui l’unico interlocutore (sentenza, consid. 4.2 pag. 15-18 e consid. 4.13 pag. 29-31).
2.2.
Il ricorrente sostiene che manca la prova che lui fosse il “proprietario” della _, sottolineando come la prima Corte abbia accertato questo fatto sulla scorta della testimonianza resa da una persona - _ – che, non soltanto era coinvolta nella costituzione irregolare della società, ma che ha, peraltro, riferito solo di sue supposizioni.
RI 1 rimprovera, poi, alla prima Corte di non aver ritenuto, nonostante le deposizioni della teste _, che _ lo aveva accompagnato negli uffici della _.
Il ricorrente sostiene, poi, che che la prima Corte ha sbagliato leggendo il verbale d’interrogatorio del 26 aprile 2007 da cui non risulta affatto quanto ritenuto in sentenza. Infine, il ricorrente sostiene di avere trovato,
“nel frattempo”,
il contratto di cessione di azioni della _ concluso tra _ (prodotto con istanza di revisione 12 giugno 2009) e di avere, dunque, la prova che
“l’azionista della _ non era lui”
(ricorso, pag. 3-4).
2.3.
Le argomentazioni ricorsuali – che, per la maggior parte, hanno carattere appellatorio – cadono nel vuoto.
Infatti, in realtà, la prima Corte non si è nemmeno confrontata con la questione di sapere chi fosse l’effettivo proprietario delle azioni della neo costituita _ ma si è limitata ad accertare, sulla scorta della documentazione reperita presso la _ e delle convergenti deposizioni delle testi _ e PC 7 - come il ricorrente abbia avuto un ruolo fondamentale nella sua costituzione. Ad ogni buon conto, va precisato che la prima Corte non è certamente caduta in arbitrio accertando che il fantomatico _ non era (l’unico) azionista della _, visto, in particolare, l’atteggiamento contradditorio di RI 1 (che, da un lato, ha chiamato in causa _ e, dall’altro, ha rifiutato di fornire qualsivoglia informazione che potesse contribuire alla sua identificazione) nonché le sue deposizioni di cui al verbale d’interrogatorio del 26 aprile 2007 dal quale palesemente risulta – contrariamente a quanto sostiene lo stesso ricorrente – come
“RI 1 precisa di non aver mai messo in contatto _ con il fiduciario _”
(cfr. verbale n. 10, pag. 9).
Nemmeno la teste _ – contrariamente a quanto lascia intendere RI 1 – ha riferito che lo stesso ricorrente sarebbe stato accompagnato presso gli uffici della _. Essa ha, infatti, semplicemente rilevato che in un’occasione RI 1 si era presentato presso la fiduciaria con un’altra persona (cfr. verbale n. 16, pag. 2), ciò che evidentemente non significa che questa persona fosse _, né che (se lo fosse) egli abbia avuto un ruolo esclusivo nella costituzione della società, tantomeno che RI 1 per questo possa essere liberato dalle sue responsabilità penali.
Solo di transenna, infine, è il caso di osservare che al ricorrente, in questa sede, non giova sostenere di aver trovato, dopo l’emanazione della sentenza della prima Corte, un contratto di cessione di azioni della _ concluso tra _, ritenuto che la Corte di cassazione è vincolata dagli accertamenti di fatto del giudice di merito (art. 295 cpv. 1 CPP) e non può, dunque, confrontarsi con nuove prove.
In esito, pertanto, nella misura in cui è ricevibile, la censura d’arbitrio proposta – peraltro confusamente e, in parte, in modo appellatorio - dal ricorrente deve essere respinta.
3.
Il ricorrente rimprovera, poi, alla prima Corte di essere caduta in arbitrio accertando che egli
“si è recato presso due autoconcessionarie per concludere altrettanti contratti di leasing”
(ricorso, pag. 4 e seg.)
.
3.1.
Relativamente alle autovetture BMW e Peugeot, la prima Corte ha ritenuto quale primo elemento indiziante che fu il ricorrente a trattarne in prima persona l’acquisto il fatto che l’utenza indicata dai rivenditori come recapito telefonico dell’acquirente
“dalla sua attivazione del 4.1.2006 sino al 3.3.2006 era collegata ad antenne locali mentre che dal 5.3.2006 sino perlomeno al 28.4.2006 è stata operativa in roaming dalla _, paese d’origine dell’accusato e non di _ che, a dire di RI 1, era cittadino marocchino”
(sentenza, consid. 4.11 pag. 28-29)
Inoltre, per quanto attiene al contratto di leasing relativo alla BMW 523i Limousine fornita dal _, la prima Corte ha ritenuto quale ulteriore elemento indiziante a carico di RI 1 il fatto che risulta dalla deposizione del teste _ che
“è sempre stato l’accusato a trattare in prima persona l’acquisto in leasing di questa vettura (...) anche se a lui si presentò sotto le mentite spoglie di _ e fermo restando come il 30.1.2006, giorno del ritiro del veicolo, vi era anche la PC 7”
(sentenza, consid. 4.4. pag. 19).
Anche in relazione all’acquisto in leasing della Peugeot 607 Luxe Titane 3.0, avvenuto il 18 febbraio 2006, la prima Corte ha raggiunto il convincimento che fu RI 1 ad acquistarla unendo, all’indizio dell’utenza di cui s’è detto quanto riferito dal teste _ (venditore) e cioè che fu sempre l’accusato a trattare in prima persona con il venditore al quale pure si presentò sotto le mentite spoglie di _. Rilevando come la Peugeot venne ritirata da un “ignoto personaggio” - che
“a dire di RI 1 e di PC 7 altri non è che _, ammesso e non concesso che questo sia effettivamente il suo nome”
(sentenza, consid. 4.6 pag. 22-23) - la Corte ha accertato che fu comunque RI 1 a “
turlupinare (..) tutti i partner commerciali della Socafim
” per giungere ad “
impossessarsi delle autovetture BMW 523i Limousine e Peugeot 607 Luxe Titane 3.0 facendole in seguito sparire senza che venissero pagati altri canoni leasing
” (sentenza, consid. 9 pag. 43).
3.2.
Sulla questione, il ricorrente sostiene che la Corte è caduta in arbitrio non avendo egli
“mai sottoscritto alcun documento”
ma essendosi limitato a chiedere ai rivenditori d’auto dei prospetti “
che ha poi consegnato alla signora PC 7
”
ritenuto che “
chi cercava le auto era il signor _ titolare della _
” e che “
probabilmente i venditori _ (...) hanno frainteso quanto egli ha detto loro
” siccome egli non parla perfettamente l’italiano (ricorso, pag. 4). Negando, poi, di essersi presentato ai rivenditori sotto mentite spoglie, egli osserva che se questi l’avessero chiamato con il nome di _, la signora PC 7, che lo ha accompagnato presso i garages e che ha firmato i contratti
“lo avrebbe sentito e lo avrebbe riferito”
(ricorso, pag. 5).
Relativamente all’utenza 076 576 56 78, RI 1 sostiene che essa appartiene ad _, ritenuto che era lui il proprietario di fatto della _. Al riguardo - conclude il ricorrente - nonostante la sua versione, quella dei testi e quella di PC 7 siano discordanti, la prima Corte
“ha dato per scontata la versione resa dai venditori dimenticando ancora una volta il principio in dubio pro reo”
(ricorso, pag. 4 e 5).
3.3.
Ancora una volta, più che di un ricorso per cassazione fondato sul divieto d’arbitrio, il gravame ha qui i contenuti di un appello visto che il ricorrente argomenta liberamente come se adisse un’istanza con piena cognizione.
RI 1 non spiega perché le conclusioni della prima Corte relative all’acquisto in leasing delle vetture, fondate sulle deposizioni puntuali e circostanziate dei testi _ e sulla localizzazione dell’utenza telefonica dell’acquirente sarebbero manifestamente insostenibili, in contrasto con gli atti o lesive del principio
in dubio pro reo
.
Tanto meno il ricorrente ha saputo spiegare – confrontandosi con le argomentazioni della prima Corte - perché questa sarebbe caduta in arbitrio accertando, sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali in atti e dei tabulati _ (cfr. AI 1) che egli era titolare dell’utenza .
Irrilevanti, al proposito, sono le considerazioni relative al fatto che fu PC 7 a firmare i contratti e che egli non firmò alcun documento presso i rivenditori d’auto: la sentenza impugnata non accerta al riguardo nulla di diverso.
Il richiamo al fatto che era _ che “cercava le auto” poiché è quest’ultimo il “titolare” della _ non giova al ricorrente: la questione della titolarità della SA non influisce in alcun modo sull’accertamento dei fatti, e cioè sull’accertamento di chi fu concretamente a trattare l’acquisto facendo consapevolmente uso di una società senza mezzi.
Su questo punto, pertanto, il ricorso è da dichiarare irricevibile.
4.
Il ricorrente, infine, censura d’arbitrio l’accertamento della prima Corte secondo cui sono a lui riconducibili le firme apposte sui contratti di telefonia mobile, sul formulario di richiesta di una carta PC 6 nonché sul foglio di recapito per la raccomandata contenente la PC 5.
4.1.
Nello
stabilire la paternità di queste firme, la Corte d’assise ha accertato che le stesse sono
“simili se non identiche”
a quelle apposte sulla fattura del _ e su vari documenti relativi ad un contratto di acquisto in leasing di una vettura stipulato nel 2003 dalla _ (società di cui il ricorrente era socio e gerente). Per la firma sulla fattura la prima Corte ha osservato come
“chi se non lui
(ndr.: RI 1)
può averla apposta visto come solo lui ha beneficiato della camera di questo albergo, fatto questo del resto mai contestato”
. Per le firme relative al contratto di leasing, la prima corte ha rilevato come l’assoluta conferma che sia stato lui ad apporle scaturisce dalla chiara testimonianza del venditore _ secondo cui
“l’auto è stata presa in consegna dall’RI 1, previa sottoscrizione di tutta la relativa documentazione (ivi compreso il contratto di leasing)”
.
Sulla scorta di questi elementi, dunque, la prima Corte ha accertato che le firme sui contratti di telefonia mobile, sul formulario di richiesta di una carta PC 6 nonché sul foglio di recapito per la raccomandata contenente la PC 5 sono
“state apposte da RI 1 e ciò indipendentemente dall’inconsistente suo tentativo, nell’ultimo verbale dinanzi al PP, di sostenere di aver sempre avuto un’altra sigla, del cui uso ed utilizzo però, in altri contesti e circostanze oltre a quello del 30 ottobre 2007
(ndr.: il giorno della stesura del suo ultimo verbale)
, non ha mai portato la benché minima prova”
(sentenza, consid. 7 pag. 37-40).
4.2.
Nel suo allegato il ricorrente sostiene che la sua firma è quella
“apposta in calce ai verbali da lui firmati, sulla patente agli atti del processo, sui documenti d’identità, su tutti i documenti bancari agli atti e davanti alla _ durante il verbale d’interrogatorio 30 ottobre 2007”
e non è quella riscontrata sui contratti di telefonia mobile, sul formulario di richiesta di una carta PC 6 e sul foglio di recapito per la raccomandata contenente la PC 5, ritenuto oltretutto come detti documenti fossero riferiti alla _, società per la quale egli non aveva diritto di firma.
RI 1 continua il suo esposto rilevando come egli non possa aver sottoscritto nel 2003 il contratto di leasing della _ (e i relativi formulari), poiché in quel periodo egli si trovava in Tunisia ed era stata la sua defunta moglie ad occuparsi degli aspetti formali del contratto, per cui la deposizione del teste _, avvenuta ad anni di distanza, non corrisponde al vero. Su quest’aspetto, egli rileva pure come non sia stata eseguita nessuna perizia calligrafica e come suo figlio _ (che si trovava con lui in _) non sia stato sentito come testimone.
Il ricorrente, infine, sostiene di non avere mai firmato la ricevuta dell’_ e che, d’altronde,
“una firma al centro di un foglio non avrebbe alcun senso”
(ricorso, pag. 5-6).
4.3.
Per sostanziare la critica d’arbitrio il ricorrente avrebbe dovuto utilizzare argomenti più incisivi della semplice constatazione per cui i documenti in questione erano riferiti alla _ (per cui egli non aveva diritto di firma) o per cui su alcuni suoi documenti appare una sigla diversa. La prima Corte ha, infatti, spiegato i motivi per cui ha ritenuto che le firme apposte sulla fattura del _ e su vari documenti relativi ad un contratto di leasing stipulato nel 2003 dalla _ siano a lui riconducibili così come, di riflesso, anche quelle – identiche – apposte nei contratti con i fornitori di servizi. Gli elementi portati dalla Corte di prime cure a sostegno di tale sua conclusione – conclusione che appare, inoltre, confortata dalla dichiarazione di stato civile e patrimoniale del ricorrente (AI 32) in cui appare ancora una volta la sigla contestata - non possono essere messi in discussione dalla vaga e del tutto soggettiva considerazione secondo cui la firma sulla fattura dell’_ è stata apposta al centro del foglio e, dunque
, ”non avrebbe alcun senso”.
Nemmeno basta a sostanziarne l’arbitrio l’affermazione secondo cui egli nel 2003 si trovava in _ così che sarebbe stata la sua defunta moglie ad occuparsi del contratto di leasing: la prima Corte, infatti, ha fondato l’accertamento contestato su un’interpretazione sostenibile del materiale probatorio in atti, in particolare sulla deposizione del teste _ valutata insieme alla documentazione agli atti relativa al contratto di leasing.
In queste condizioni, visto che gli accertamenti della prima Corte relativi alla sigla apposta sui citati documenti sono fondati su una serie di elementi convergenti valutati in modo sostenibile, non può essere preteso che essi siano arbitrari: la richiesta di rinvio ad una nuova Corte per l’allestimento di una perizia calligrafica e l’audizione del figlio _ va, pertanto, respinta e, anche su questo punto, quindi, il ricorso è votato all’insuccesso.
5.
In diritto
, RI 1
sostiene che i fatti accertati dalla prima Corte non configurano inganno astuto ai sensi dell’art. 146 cpv. 1 CP.
5.1.
La prima Corte, dopo avere illustrato i presupposti applicativi dell’art. 146 cpv. 1 CP, ha ritenuto che il fatto di
“costituire una società consapevole sin dall’inizio della sua operatività che sarebbe stata priva di capitale sociale”,
il fatto di
“presentarsi ai venditori _ sotto il falso nome di _ per ulteriormente confondere e per così scaricare in futuro tutte le responsabilità su questo non meglio identificato personaggio e sulla PC 7”
e il fatto di
“sfruttare la buona fede, l’inesperienza negli affari e l’affetto di PC 7 per farle sottoscrivere i due contratti di leasing di cui ai punti 1.1 e 1.2 dell’AA con relativa assunzione di un importante debito”
utilizzando la _,
“società economicamente vuota, per concludere contratti di cui al punto 1 dell’AA ben sapendo come non vi sarebbero mai stati né i soldi né tanto meno la volontà di rispettare gli impegni da lui stesso assunti”
configura un chiaro inganno astuto a danno di PC 7, PC 1, PC 2, PC 5, PC 6, PC 8 e _ e realizza, in diritto, l’ipotesi di truffa (sentenza, consid. 9, pag. 42-44).
5.2.
Per quanto attiene ai capi di accusa di cui ai punti 1.3, 1.4, 1.5 e 1.6 dell’AA il ricorrente, nel suo gravame, rileva come non si possa considerare - e ciò anche nella denegata ipotesi che egli abbia firmato i documenti citati – che PC 5, PC 6, PC 8 e _ siano state ingannate con astuzia: trattandosi di “
consolidate società commerciali con personale qualificato ed abituate a trattare con partners commerciali giuridici”
si doveva da loro esigere “
un minimo di prudenza”
ritenuto che avrebbero potuto verificare “
molto facilmente se il loro interlocutore fosse il ricorrente o altri, avesse il potere di firma per _ oppure no”.
A detta del ricorrente
“mancano pertanto gli elementi fattuali per poter qualificare il reato ascritto al ricorrente come truffa”
.
Infine, il ricorrente ha rimproverato la prima Corte di averlo ritenuto il solo responsabile “
di quanto accaduto, sebbene egli non fosse organo della società mediante la quale è stata perpetrata la truffa, non avesse i mezzi finanziari per poterla costituire, pagare gli acconti ai due rivenditori di auto, non abbia ritirato le auto, non si sia impegnato contrattualmente con nessuno di essi, ma soprattutto intorno alla vicenda abbiano orbitato altre persone”
(ricorso, pag. 6-8).
5.3.
Giusta l’art. 146 cpv. 1 CP si rende colpevole di truffa ed è punito con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria chiunque, per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto, inganna con astuzia una persona affermando cose false o dissimulando cose vere, oppure ne conferma subdolamente l’errore inducendola in tal modo ad atti pregiudizievoli al patrimonio proprio o altrui. Un inganno astuto è dato quando l'autore ordisce un tessuto di menzogne oppure fa capo a particolari manovre fraudolente o ad artifici (DTF 128 IV 18 consid. 3a pag. 20, 126 IV 165 consid. 2a pag. 171, 122 IV 197 consid. 3d pag. 205, 119 IV 28 consid 3a pag. 35), come pure quando rilascia false indicazioni la cui verifica è impossibile, difficile o non ragionevolmente esigibile dalla controparte, oppure quando impedisce alla controparte di verificare o prevede che la controparte rinuncerà a verificare in virtù di uno specifico rapporto di fiducia (DTF 133 IV 256 consid. 4.4.3 pag. 263, 128 IV 18 consid. 3a pag. 20, 126 IV 165 consid. 2a pag. 171, 125 IV 128 in alto con rinvio).
L'astuzia non è, invece, data quando la vittima avrebbe potuto evitare l’inganno con un minimo d’attenzione o di prudenza. Non è, però, necessario, perché ci sia truffa, che la vittima abbia dato prova della più grande diligenza e che abbia fatto ricorso a tutte le misure di prudenza possibili. Il punto, quindi, non è di sapere se la vittima ha fatto tutto ciò che poteva per evitare di essere ingannata poiché l’astuzia è esclusa soltanto quando la vittima è corresponsabile del danno poiché non ha fatto uso delle misure di prudenza elementari imposte dalle circostanze (
DTF 133 IV 256, consid. 4.4.3 pag. 263;
128 IV 18 consid. 3a pag. 20;
126 IV 165, consid. 2a pag. 171 con rinvio;
STF 26.10.2009 6B_558/2009; STF
9 ottobre 2007 6B_409/2007; STF 24 marzo 2006 6S.417/2005).
Il TF ha, per esempio, avuto modo di negare il presupposto dell’inganno astuto in una fattispecie nella quale la vittima – una banca – avrebbe potuto scoprire l’inganno ove appena si fosse attenuta alle più elementari misure di prudenza (DTF 119 IV 28). Diversamente il TF ha deciso in un caso in cui la vittima, un disabile psichico, non poteva riconoscere una frode normalmente ravvisabile da terze persone (DTF 119 IV 210) e nel caso di un autore che aveva approfittato finanziariamente di connazionali inesperti, in stato di dipendenza, di subordinazione e di bisogno (DTF 120 IV 186).
In sintesi, quindi, secondo la giurisprudenza del TF, l’estremo dell’inganno astuto si risolve chiedendosi, non tanto se una persona di media esperienza o capacità sarebbe stata in grado di subodorare la frode, quanto dalle circostanze concrete che vanno esaminate caso per caso (CCRP 14.11.1996 in re M. consid. 10b; 22.11.1996 in re E.P, A.P., E.F. consid. 9a).
Va, qui, ancora rilevato che il TF ha avuto modo di precisare che con il principio secondo cui alla vittima incombe un certo dovere di prudenza non si è inteso elevare particolarmente la soglia dell’astuzia e incoraggiare l’impunità di coloro che ricorrono alla frode confidando che il giudice li prosciolga in base a una sempre esistente possibilità astratta di verifica o controllo ritenuto come diversamente si correrebbe il rischio
“... da un canto, di paralizzare, senza sufficiente giustificazione, una normale attività bancaria, finanziaria, amministrativa e commerciale (...) e, dall’altro, di contraddire il principio della colpevolezza soggettiva, ossia riferita all’intenzione dell’agente, che regge il diritto penale svizzero, e di favorire, di conseguenza, la commissione di attività concepite dagli stessi autori come truffaldine”
(STF 10.6.1999 in re L.S., consid. 5). Questo principio, dunque, va applicato dando prova di rigore e di prudenza ritenuto peraltro, ancora, che, di regola, l
’attitudine sconsiderata della vittima può essere d’ostacolo al riconoscimento dell’inganno astuto soltanto nel caso in cui essa non si trovi in una condizione di inferiorità rispetto all’autore. Decisiva, al proposito, è la situazione concreta, segnatamente l’esigenza di protezione della vittima, nella misura in cui l’autore ne conosce i limiti e li sfrutta a suo favore (sentenza 6S.168/2006 del 6 novembre 2006 consid. 1.1, 1.2, 1.3;
STF 25.10.2001 non pubblicata; STF 24.2.2000 in RVJ 2000, p. 310).
5.4.
In concreto, con le sue argomentazioni il ricorrente dimostra di non avere compreso i motivi che hanno indotto la Corte di prime cure a ritenere dato l’inganno astuto.
Contrariamente a quel che sembra avere capito il ricorrente, la prima Corte ha correttamente ritenuto che l’inganno ordito da RI 1 non consiste nell’essersi presentato ai partners commerciali in qualità di rappresentante della _ e nell’avere, in questa veste, firmato i documenti che gli hanno permesso di usufruire – indebitamente – di diversi servizi quanto, piuttosto, nell’avere sottaciuto ai contraenti che la società era, in realtà, priva del capitale azionario fin dal giorno della sua costituzione e, dunque, ab initio nell’impossibilità di far fronte ai suoi impegni finanziari.
Pertanto, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, nella disamina di un’eventuale violazione del dovere di prudenza da parte delle società di servizi, è irrilevante che gli operatori delle stesse,
“usando un minimo di prudenza, si sarebbero accorte che il contratto non poteva essere concluso”
poiché egli non poteva impegnare la società. Infatti, anche qualora gli operatori di PC 6, della PC 5, di _ e di PC 8, dopo una più attenta verifica dell’identità del loro interlocutore, avessero preteso che fosse PC 7 a firmare i documenti (come del resto è avvenuto in occasione dell’acquisto in leasing delle due autovetture di cui ai punti 1.1 e 1.2 dell’AA), gli stessi non avrebbero comunque potuto evitare l’inganno, ritenuto che, anche in quel caso, avrebbero concluso un contratto con una società del tutto priva di capitale e, dunque, impossibilitata ab initio a far fronte al pagamento dei loro servizi.
In concreto, dunque, non potendosi evidentemente esigere che un fornitore di servizi controlli la reale capacità finanziaria di tutte le società con cui entra in rapporti commerciali - poiché ciò equivarrebbe a paralizzare il normale andamento degli affari - non è ravvisabile a carico delle società partners di _ nessuna violazione di un obbligo di prudenza che avrebbe permesso loro di evitare di cadere in errore (cfr, in particolare
DTF135 IV 76 consid. 5.2, spéc. pag. 81; 118 IV 359 consid. 2 p. 361 e STF 17.12.2009 6B_852/2009 in cui il TF ha avuto modo di stabilire che colui che promette una prestazione senza avere intenzione di eseguirla agisce astutamente poiché le intenzioni non sono, di principio, verificabili e, pertanto, soltanto in casi eccezionali può esservi una corresponsabilità della vittima tale da escludere l’astuzia).
Per contro, le argomentazioni con cui il ricorrente intende contestare la propria responsabilità nei fatti ritenuti dall’atto di accusa poiché egli non era “
organo della società mediante la quale è stata perpetrata la truffa”
non giovano al ricorrente per le ragioni indicate in precedenza. Si ricorda che è senza arbitrio che la prima Corte ha accertato che, a prescindere dal suo ruolo in seno alla società, è stato il ricorrente che ha escogitato un espediente per costituire la società anonima nonostante l’assenza di mezzi finanziari e che, poi, è stato lui che, sfruttandone l’affetto e l’inesperienza negli affari, ha indotto PC 7 prima ad assumere il ruolo di amministratrice della _ e, poi, a firmare, in nome di questa, i contratti di leasing. Anche su questo punto, dunque, il suo ricorso deve essere respinto.
Nemmeno, infine, giova al ricorrente l’ennesimo tentativo di scaricare la colpa di quanto accaduto su non meglio definite “altre persone”. Solo di transenna è, infatti, il caso di ricordare che l’eventuale coinvolgimento nella vicenda di altri oscuri personaggi non libererebbe il ricorrente dalle sue responsabilità.
6.
Per quanto riguarda il reato di appropriazione indebita relativo alla vettura marca BMW 520i Limousine, RI 1 sostiene che egli
“era certo che la defunta moglie aveva pagato tutte le rate”
e che
“non poteva certo sapere che invece ella non le aveva onorate”
, sottintendendo di non aver agito intenzionalmente (ricorso, pag. 6).
La tesi ricorsuale non manca di spregiudicatezza.
Risulta, infatti, chiaramente dagli atti come solo due rate di leasing siano state pagate (cfr. doc. TPC 19) e, ritenuto come il firmatario del contratto di leasing fosse lo stesso ricorrente e non la sua defunta moglie (cfr. AI 46) e come, dunque, a lui incombesse il compito di verificare lo stato del conto-leasing, non è certamente arbitrario concludere – così come ha fatto il primo giudice - che RI 1 era consapevole del fatto che l’auto non era ancora stata riscattata e che, dunque, alienandola si appropriava di una cosa altrui.
Anche su questo punto, dunque, il ricorso deve essere respinto.
7.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza e sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) che verserà fr. 800.- a PC 1 per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
becd162a-7ba1-5367-b920-39a80a53fa91 | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 30 agosto 2000 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ colpevole di infrazione alla legge federale concernente il domicilio e la dimora degli stranieri per avere, il 26 agosto 2000, varcato il confine svizzero senza visto d'entrata e avere soggiornato illegalmente a _ dal 26 al 28 agosto 2000. In applicazione della pena, egli ne ha proposta la condanna a 15 giorni di detenzione (sospesi condizionalmente per 2 anni) e all'espulsione effettiva dal territorio svizzero per 3 anni. Al decreto di accusa _ non ha introdotto opposizione.
B.
Il 12 novembre 2002 _ ha comunicato al Ministero pubblico di essersi sposata a _ il
_ 2002 con _ e di avere appreso casualmente il 1° novembre 2002 dall'Ufficio del controllo abitanti di quel Cantone che nei suoi confronti l'autorità ticinese aveva emesso un provvedimento di espulsione triennale valido dal 17 ottobre 2000, sicché la si invitava a lasciare la Svizzera entro il 20 novembre 2000. Sostenendo di avere ignorato la misura, essa ha chiesto al Ministero pubblico di metterle a disposizione gli atti e ha dichiarato cautelativamente di opporsi a tale decisione. Il 20 novembre 2002 il Procuratore pubblico ha trasmesso alla richiedente copia del verbale di notifica del decreto di accusa, da lei stessa sottoscritto il 30 agosto 2000.
C.
Con istanza del 29 novembre 2002 _ ha postulato la restituzione del termine per inoltrare opposizione al decreto di accusa, adducendo di non avere capito né il contenuto né la portata della decisione notificatale quel giorno, essendo allora priva di un legale, e di avere sottoscritto il verbale di notifica sotto la pressione degli agenti di polizia, che le avevano prospettato il carcere. Dicendosi convinta che le sarebbe stata inflitta solo una multa, essa ha fatto valere inoltre di non avere potuto esercitare i suoi diritti di difesa, il decreto essendo stato emesso senza che lei potesse esprimersi davanti al Procuratore pubblico e senza che fosse data la possibilità di interpellare un avvocato.
D.
Con sentenza del 28 gennaio 2003 il presidente della Pretura penale ha respinto l'istanza, senza intimazione previa al Procuratore pubblico. Egli ha rilevato che l'interessata non poteva ignorare la decisione emessa il 30 agosto 2000 nei suoi confronti, notificatale alla presenza di una interprete. Essa aveva tra l'altro firmato il verbale di notifica, dichiarando di avere preso atto della proposta di espulsione per 3 anni, periodo durante il quale non avrebbe potuto rientrare in Svizzera. Sul verbale essa aveva pure confermato di essere stata informata dei rimedi giuridici, segnatamente del diritto di introdurre opposizione al decreto. Essa non si era vista precludere senza colpa, dunque, la possibilità di rispettare il termine di 15 giorni per opporsi al decreto di accusa. E la mancanza di colpa è – ha concluso il primo giudice – un requisito indispensabile per ottenere una restituzione in intero giusta l'art. 21 CPP.
E.
Contro la sentenza appena citata _ ha presentato il 17 febbraio 2002 un ricorso per cassazione, chiedendo che l'istanza di restituzione in intero sia accolta, subordinatamente che gli atti siano rinviati alla Pretura penale per nuovo giudizio, previa fissazione del dibattimento. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Secondo l'art. 287 cpv. 1 CPP il Procuratore pubblico, l'accusato e il suo difensore possono interporre ricorso per cassazione contro tutte le sentenze di merito emanate dalle Corti penali. In concreto il rimedio non è diretto contro una sentenza di merito, bensì contro la mancata restituzione del termine per introdurre opposizione al decreto di accusa. Questa Corte ha già avuto modo di ritenere, nondimeno, che un ricorso per cassazione proposto da un condannato contro una sentenza con cui il Pretore ha dichiarato irricevibile per tardività la sua opposizione a un decreto di accusa è ammissibile, poiché essa pone fine al procedimento (CCRP, sentenza del 16 agosto 2000 in re W.). Non vi è motivo per scostarsi da tale indirizzo nella fattispecie (analogamente: CCRP, sentenza del 20 dicembre 2000 in re S.).
2.
La ricorrente si duole anzitutto di un vizio di procedura (art. 288 cpv. 1 lett. b CPP), rimproverando al primo giudice di avere emanato la decisione impugnata senza conferire alle parti la possibilità di comparire a un'udienza, come stabilisce l'art. 274 CPP. La censura è infondata. Secondo l'art. 22 cpv. 2 CPP su un'istanza di restituzione dei termini decide l'autorità davanti alla quale doveva essere compiuto l'atto per il quale è chiesta la restituzione. Se è stato emanato un decreto d'accusa o una sentenza, è competente il giudice che lo sarebbe per giudicare sul rimedio di diritto; in questo caso la restituzione può essere concessa soltanto per presentare ricorso. Secondo l'art. 22 cpv. 3 CPP, se l'istanza è accolta, l'atto omesso dev'essere compiuto entro il termine di cui è accordata la restituzione. L'art. 22 cpv. 2 CPP, tuttavia, non subordina imperativamente la decisione sull'istanza di restituzione del termine per presentare opposizione al decreto di accusa all'indizione di un'udienza. Si limita a dichiarare competente per la decisione il giudice che lo sarebbe per giudicare sul merito del procedimento qualora l'atto omesso fosse stato proposto tempestivamente. Nemmeno l'art. 274 cpv. 1 CPP giova alla ricorrente, poiché tale noma riguarda il dibattimento fissato dal presidente della Pretura penale, tosto che gli atti gli siano stati trasmessi in seguito a (tempestiva) opposizione. Ciò vale anche per quanto attiene al richiamo dell'art. 276 cpv. 1 CPP.
Nel caso in esame il presidente della Pretura era unicamente chiamato a decidere se riassegnare alla ricorrente il termine per presentare opposizione, la quale andava introdotta nel termine di 15 giorni dalla notifica del decreto di accusa (art. 208 cpv. 1 lett. e CPP). Ora, il diritto cantonale non prevede che egli fosse tenuto a citare le parti per un dibattimento. Nulla gli impediva dunque di statuire sulla base degli atti, tanto più che l'istante non postulava l'assunzione di prove. L'obbligo di un dibattimento non scaturiva nemmeno dal diritto federale (art. 29 cpv. 2 Cost.) né da convenzioni internazionali. Certo, l'art. 14 cpv. 3 lett. d patto II ONU e 6 CEDU riconoscono all'imputato il diritto di esprimersi sugli elementi di rilievo prima che sia presa una decisione che tocchi i suoi interessi, come pure il diritto di indicare le prove a suo scarico, quello di avere accesso agli atti e di partecipare – dandosi il caso – all'assunzione delle prove, esprimendosi sulla loro valenza (
Piquerez
, Procédure en droit pénal suisse, Zurigo 2000, n. 766 e 768 al § 47). Essi non garantiscono però il diritto di comparire personalmente davanti al giudice per discutere questioni di natura processuale, come la restituzione dei termini per compiere un atto omesso. Ciò non significa, a scanso di equivoci, che qualsiasi istanza di restituzione in intero vada decisa senza dibattimento. Ove il giudice ritenga che questa meriti approfondimento, oppure intenda assumere prove o non escluda di assumerne, l'istanza dovrà essere intimata al Procuratore pubblico e alla parte civile, insieme con la citazione a un dibattimento. Rimane da esaminare se ciò fosse il caso in concreto.
3.
Secondo l'art. 21 CPP la restituzione di un termine può essere concessa se la parte o il suo patrocinatore prova di non avere potuto rispettare la scadenza “perché impedita senza sua colpa, o per forza maggiore, segnatamente per malattia, assenza scusabile, servizio pubblico o militare o per altre ragioni importanti”. L'istanza va presentata, sotto pena di decadenza, entro dieci giorni dalla cessazione dell'impedimento (art. 22 cpv. 1 CPP). Nella fattispecie la ricorrente fa dipendere la mancata opposizione al decreto di accusa dalla “sbrigativa” procedura applicata dagli inquirenti, che non le hanno consentito di difendersi adeguatamente. Essa sostiene di essere stata interrogata dalla polizia alla presenza di un interprete a malapena comprensibile, il quale non poteva in alcun modo supplire alla mancanza di un legale, di non avere capito le reali implicazioni del decreto di accusa, segnatamente di non essere stata in grado di valutare con cognizione di causa l'opportunità di contestare la proposta di pena, e di avere sottoscritto il verbale di notifica condizionata dall'insistenza dei poliziotti, sotto minaccia di carcerazione. Anzi, il decreto di accusa sarebbe addirittura nullo, dato che essa ha firmato la dichiarazione che menziona il diritto di essere sentita dal Procuratore pubblico appena 24 ore prima di essere espulsa (art. 207 cpv. 4 CPP).
Si può convenire che il metodo adottato dagli inquirenti non vada esente da critiche, ove appena si consideri che l'interessata si è vista notificare un decreto di accusa con una proposta di pena privativa delle libertà senza aver potuto far capo a un legale e, verosimilmente, senza avere avuto il tempo per valutare adeguatamente se esigere l'ascolto da parte del Procuratore pubblico (art. 207 cpv. 4 CPP). In condizioni del genere il fatto che essa abbia firmato senza riserve la dichiarazione contenente il richiamo – appunto – all'art. 207 cpv. 4 CPP e il verbale di notifica del decreto non è decisivo (CCRP, sentenza del 31 ottobre 2002 in re C.D., consid. 1f e 1g), nel senso che tale fatto non le impediva di contestare la regolarità della procedura con opposizione da introdurre entro 15 giorni dalla notifica, avvenuta il 30 agosto 2000 (CCRP, sentenza del 18 dicembre 2002 in re D.S., consid. 2d). Se non che, essa ha lasciato decorrere il termine infruttuoso. È possibile che in un primo tempo essa sia stata – suo malgrado – superata dagli eventi, ma ciò non giustifica una passività di oltre due anni. Consapevole di essere stata oggetto di un procedimento penale a suo avviso scorretto per le pressioni esercitate dagli agenti e per l'incomprensibilità dell'interprete, essa avrebbe dovuto attivarsi con ragionevole sollecitudine e rivolgersi a una persona capace di difendere i suoi interessi. Non risulta – né essa pretende – di avere intrapreso nulla al riguardo, men che meno nei dieci giorni seguenti la cessazione dell'impedimento (nella fattispecie: la sorpresa per la procedura adottata nei suoi confronti). Come ha ritenuto il primo giudice, l'istanza di restituzione in intero risulta quindi tardiva.
4.
Gli oneri processuali seguirebbero la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). Data la particolarità del caso, tuttavia, si prescinde eccezionalmente dal riscuotere tasse o spese. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bf9d57fe-3212-59ef-a721-a24f0ba46eda | in fatto:
A.
Con sentenza del 16 marzo 2000 la Corte delle assise criminali in Lugano ha riconosciuto i coniugi _ e _, cittadini dominicani, autori colpevoli di infrazione aggravata alla legge federale sugli stupefacenti per avere, tra il 1997 e il 1999, venduto a Lugano in più occasioni complessivi 1.4 kg di cocaina ritraendo un guadagno di fr. 45 000.– e finanziato un traffico di 1 kg di cocaina dal Venezuela alla Svizzera. In applicazione della pena, _ è stata condannata a 3 anni e 10 mesi di reclusione, _ a 4 anni e 3 mesi di reclusione, computato a entrambi il carcere preventivo sofferto. Tutt'e due gli imputati si sono visti infliggere altresì l'espulsione (effettiva) dalla Svizzera per 10 anni e l'obbligo in via solidale di rifondere allo Stato del Cantone Ticino fr. 10 000.– come risarcimento compensatorio per l'illecito profitto conseguito. Tale sentenza è passata in giudicato.
B.
Cinque mesi più tardi, con sentenza del 22 agosto 2000 la Corte delle assise criminali in Lugano ha riconosciuto _, anch'egli cittadino dominicano, autore colpevole – oltre che di violazione della legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri – di infrazione aggravata alla legge federale sugli stupefacenti per avere, tra il 1997 e il 1999, venduto a _ 1.2 kg complessivi di cocaina (dispositivo n. 1.1.1), venduto a _ altri 200 g di cociana (dispositivo n. 1.1.2), organizzato un primo traffico di 1 kg di cocaina dal Venezuela alla Svizzera (dispositivo n. 1.1.3), venduto a Ginevra e Zurigo ulteriori 200 g di cocaina (dispositivo n. 1.1.4), compiuto preparativi per un secondo traffico di 1 kg di cocaina dal Venezuela alla Svizzera (dispositivo n. 1.1.5) e organizzato un terzo traffico di
1 kg di cocaina, sempre dal Venezuela alla Svizzera (in correità, tra l'altro, con _ e _: dispositivo n. 1.1.6). In applicazione della pena, _ è stato condannato a 6 anni di reclusione, computato il carcere preventivo sofferto, e a 15 anni (effettivi) di espulsione dalla Svizzera (dispositivo n. 2), come pure a rifondere allo Stato del Cantone Ticino fr. 10 000.– come risarcimento compensatorio per l'illecito profitto conseguito.
C.
In parziale accoglimento di un ricorso per cassazione presentato da _, il 24 aprile 2001 questa Corte ha annullato i dispositivi n. 1.1.3 (primo traffico di cocaina dal Venezuela alla Svizzera) e n. 2 (commisurazione della pena) della sentenza appena citata, rinviando gli atti a un'altra Corte delle assise criminali per nuovo giudizio nel senso dei considerandi (inc. _). La nuova Corte di assise ha ristatuito il
19 luglio 2001. Preso atto che il Procuratore pubblico desisteva dal perseguire l'imputato per il (primo) traffico di cocaina formante oggetto del dispositivo n. 1.1.3 annullato in cassazione, la Corte ha ricommisurato la pena a carico di _ in 4 anni di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto), confermando l'espulsione dalla Svizzera per 15 anni, ma rinunciando alla condanna al risarcimento compensatorio, “destinato a restare lettera morta”. La nuova sentenza della Corte di assise è passata in giudicato.
D.
Il 29 novembre 2001 _ e _ hanno introdotto a questa Corte una domanda di revisione in cui chiedono che, sospesa l'esecuzione della sentenza pronunciata a loro carico il 16 marzo 2000, gli atti formanti oggetto del relativo procedimento siano rimessi a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio. Essi sostengono – in estrema sintesi – che la nuova sentenza emessa il 19 luglio 2001 dalla Corte delle assise criminali a carico di _ è “del tutto inconciliabile” con quella emanata nei loro confronti il 16 marzo 2000. La domanda di revisione non è stata intimata al Procuratore pubblico. | Considerando
in diritto:
1.
L'art. 299 lett. b CPP invocato dagli istanti prevede la revisione del processo, in caso di condanna, “quando dopo la sentenza ne sia stata pronunciata un'altra, inconciliabile con essa”. Il condannato può presentare la domanda in ogni tempo, durante o dopo l'espiazione della pena (art. 300 cpv. 1 CPP). Per rapporto alla clausola generale dell'art. 397 CP (ripresa all'art. 299 lett. c CPP), che fissa le esigenze minime del diritto federale in materia di revisione, l'art. 299 lett. b CPP si estende ai casi in cui due sentenze di condanna a carico di due persone aventi commesso il medesimo reato risultino a tal punto in contrasto fra loro sull'accertamento dei fatti, che la sola contraddizione basti – già di per sé – a rendere verosimile l'innocenza di uno dei condannati (
Piquerez
, Procédure pénale suisse, Zurigo 2000, pag. 758, n. 3538 con numerosi rinvii). Rispetto alla clausola generale dell'art. 397 CP (art. 299 lett. c CPP), per ammettere la revisione non occorre in simile ipotesi un apprezzamento previo circa la rilevanza di fatti o mezzi di prova nuovi: basta l'incompatibilità evidente delle due sentenze successive, sicché uno dei due giudizi appaia erroneo (
Piquerez
, op. cit., pag. 758, n. 3539 a 3541 con richiami).
2.
Si aggiunga che l'abrogato art. 243 n. 2 vCPP contemplava testualmente la stessa disposizione. Già la giurisprudenza correlata a tale norma riteneva data l'inconciliabilità di due sentenze susseguenti riferite al medesimo reato quando i due giudizi denotavano palese contrapposizione tra i fatti accertati nell'uno e nell'altro (CCRP, sentenza dell'8 ottobre 1979 in re R., consid. 2). Né poteva essere altrimenti, il rimedio strardinario della revisione essendo destinato a correggere errori di fatto, non di diritto (
Piquerez
, op. cit., pag. 752, n. 3503). Inoltre, secondo la menzionata giurisprudenza, doveva trattarsi degli stessi fatti: due giudizi inerenti a reati identici, commessi però in tempi diversi (nella fattispecie: trascuranza dei doveri di assistenza familiare), non erano idonei, per ciò soltanto, a confortare inconciliabilità alcuna (CCRP, sentenza citata dell'8 ottobre 1979 in re R.).
3.
Nel caso in esame l'unico punto comune tra la sentenza emessa dalla Corte delle assise criminali il 16 marzo 2000 a carico degli istanti e quella emanata il 22 agosto 2000 nei confronti di _ riguardava il terzo traffico di stupefacenti organizzato dallo stesso _, in correità appunto con i due istanti (dispositivo n. 1.1.6 di quella sentenza). Se non che, a tale proposito il parziale accoglimento del ricorso per cassazione di _ non ha avuto conseguenza di sorta, il dispositivo n. 1.1.6 di quella sentenza non essendo nemmeno stato oggetto dell'impugnazione (CCRP, sentenza del 24 aprile 2001, consid. 1). Né gli istanti sostengono – per avventura – che tra i fatti accertati alla base del terzo traffico di cocaina nella sentenza del 22 agosto 2000 a carico di _ e i fatti accertati alla base del traffico di cocaina nella sentenza del
16 marzo 2000 a loro carico si ravvisi la minima inconciliabilità. Quanto essi pretendono è, in realtà, di confrontare la pena loro inflitta (3 anni e 10 mesi, rispettivamente 4 anni e 3 mesi di reclusione, più l'espulsione) con la pena irrogata a _ in esito alla seconda sentenza della Corte delle assise criminali (4 anni di reclusione, più l'espulsione). Un argomento dei genere non ha però alcuna attinenza con l'accertamento dei fatti.
4.
I motivi della domanda in esame, anche a prescindere dal titolo di revisione invocato (art. 299 lett. b CPP), non fanno del resto che confermare la palese infondatezza dell'istanza. Gli interessati si esauriscono in effetti nel censurare la commisurazione della pena loro applicata. Fanno valere che oggettivamente _ ha trattato maggiori quantità di cocaina e che dal profilo soggettivo i reati da lui perpetrati non sono meno gravi di quelli da loro commessi, sicché la seconda sentenza pronunciata dalla Corte delle assise criminali in odio di lui si rivelerebbe inconciliabile con quella del 16 marzo 2000 a loro carico. La quale risulta, a loro parere, finanche iniqua e denota come la Corte che li ha condannati fosse “eccessivamente prevenuta nei loro confronti”. Così argomentando, tuttavia, gli istanti perdono di vista che la commisurazione della pena è una questione di diritto (art. 63 CP), non di fatto. E il rimedio strardinario della revisione – proprio perché volto contro sentenze con forza di giudicato – non è destinato a correggere eventuali errori di diritto. Anzi, una revisione intesa a rettificare errori giuridici nemmeno esiste. Ne segue che, già di primo acchito, la loro domanda riesce priva di consistenza. Deve pertanto essere respinta.
5.
L'emanazione del giudizio odierno rende senza oggetto la richiesta di sospendere l'esecuzione della sentenza emessa dalla Corte delle assise criminali il 16 marzo 2000. Quanto agli oneri processuali, essi seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
bfcc6f22-1c9f-5814-a774-b9f8b3c7e975 | in fatto ed in diritto
che
con esposto datato 12.10.2011, ma inviato al Ministero pubblico soltanto il 25/28.11.2011, _, _, ha sporto denuncia penale nei confronti di _, avente diritto economico di _, _ (quest’ultima azionista di _ SA, _), e _, amministratore delle due predette società presso la _ SA, per titolo di appropriazione semplice, appropriazione indebita, furto e falsità in documenti (AI 1, inc. MP _);
che con decisione 7.12.2011 il procuratore pubblico ha decretato il non luogo a procedere in capo al procedimento penale in difetto dei presupposti dei reati ipotizzati:
“(...) appare (...) evidente che la fattispecie, che concerne le contestazioni sorte in merito ad un contratto di compera vendita, ha mera natura civilistica e dovrà se del caso essere risolta nella competente sede (...)”
(decreto di non luogo a procedere 7.12.2011, p. 2, NLP _);
che con sentenza 7.03.2012 questa Corte ha dichiarato irricevibile il reclamo 16/19.01.2011 presentato da _ avverso il surriferito decreto (inc. CRP _);
che la predetta sentenza non è stata impugnata al Tribunale federale;
che con la presente istanza – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – IS 1 chiede di ottenere la trasmissione, in copia, della denuncia di cui all’incarto penale MP _ nel frattempo archiviato;
che a suffragio della sua richiesta precisa di necessitare dell’esposto penale nell’ambito del procedimento arbitrale civile promosso da _ nei suoi confronti, ove ne ha richiesto l’edizione, alla quale la società si è nondimeno opposta (doc. 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha presentato osservazioni;
che
questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti coinvolte, essendo il qui istante stato parte nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ nel frattempo archiviato;
che l’
art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di denunciato/imputato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – è pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere copia dell’esposto penale datato 12.10.2011, poiché l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che egli necessita di questo atto nell’ambito del procedimento arbitrale civile promosso nei suoi confronti da _., denunciante nel procedimento di cui all’incarto
MP _
;
che di conseguenza l’esposto penale datato 12.10.2011 (con gli allegati) viene trasmesso, in copia, al qui istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale MP _ nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
bff874ed-9d5c-5313-9572-5b85c1ff7467 | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia/querela sporta l’8/11.05.2012 da PI 2 nei confronti del padre PI 3, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di quest’ultimo per le ipotesi di reato di appropriazione indebita (art. 138 CP) e accesso indebito a un sistema per l’elaborazione di dati (art. 143bis CP) sfociato nel decreto di non luogo a procedere 9.07.2012 (NLP _) emanato dal procuratore generale (inc. MP _);
che avverso il suddetto decreto non è stato presentato reclamo a questa Corte giusta i combinati art. 310 cpv. 2 e 322 cpv. 2 CPP;
che con scritto datato 6.09.2012, emendato su richiesta di questa Corte il 12/14.09.2012, la Pretura istante postula la trasmissione dell’incarto penale MP _ nel frattempo archiviato, essendo stato richiamato con il consenso del giudice e delle parti ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa il 10.01.2012 da PI 2, _ (patr. da: avv. PR 1, _) contro il di lui padre PI 3, _ (patr. da: avv. PR 2, _) per la definizione dell’obbligo di mantenimento ex art. 277 CC e per la restituzione della somma pari a CHF 2'500.-- che il figlio avrebbe versato al padre per l’acquisto di un’autovettura (doc. 1.a e doc. 3);
che in sede di risposta il padre ha, tra l’altro, asserito che suo figlio avrebbe utilizzato impropriamente la somma di CHF 10'000.-- messa a disposizione da una zia paterna per il suo mantenimento (doc. 3);
che a suffragio della sua richiesta il pretore precisa che l’incarto penale richiamato sarebbe utile ai fini del giudizio civile, considerato in particolare come i suoi atti dovrebbero permettere di semplificare la fase istruttoria e ritenuto inoltre che nel decreto di non luogo a procedere in questione il procuratore generale ha fatto ampi riferimenti alle contestazioni civili (doc. 3);
che, come esposto in entrata, il procuratore generale non ha presentato osservazioni;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente; inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta e ritenuto inoltre il contenuto e l’esito del procedimento penale in questione – è certamente data una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e il procedimento penale dell’incarto MP _
sfociato nel decreto di non luogo a procedere 9.07.2012 (NLP _) emanato a carico di PI 3, nel frattempo passato in giudicato, potendo in particolare il rapporto d’esecuzione 28.06.2012 (inc. MP _) essere indubbiamente utile ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile, poiché alla base di entrambi i procedimenti vi è in sostanza il medesimo complesso di fatti con le stesse parti;
che in casu è quindi adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG;
che di conseguenza l’incarto penale MP _ (una mappetta rosa) viene trasmesso, in originale, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero pubblico, al più tardi, a procedimento civile concluso;
che la tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c0365ae3-2adf-5b74-8457-e2fc43916e06 | in fatto ed in diritto
1.
Con la presente istanza – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza ex art. 62 cpv. 4 LOG, a questa Corte – IS 1, avvocato e assistente presso l’_ dell’Università di _, chiede (per quanto interessa la competenza di questa Corte) di poter visionare gli atti istruttori dei procedimenti penali archiviati del Ministero pubblico, in materia di riciclaggio di denaro, inerenti agli ultimi cinque anni.
A sostegno della sua richiesta precisa in particolare che sta redigendo una tesi in materia di riciclaggio di denaro. In particolare sta analizzando "
(...) la punibilità di valori di sostituzione e di valori che sono parzialmente di provenienza illecita
" (istanza 4/10.06.2015, doc. CRP 1.a). Sarebbe intenzionata a sviluppare delle soluzioni in base a casi reali e, con riferimento a procedimenti penali conclusi, ad esaminare il loro esito (con le eventuali motivazioni). Evidenzia altresì la non pertinenza di dati personali per la sua tesi, i quali verranno resi anonimi.
2.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
3.
Nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti da IS 1 nella presente richiesta e la finalità perseguita – si deve senz’altro ammettere l’esistenza di un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG prevalente sui diritti personali delle persone coinvolte negli incarti penali nel frattempo archiviati in materia di riciclaggio di denaro riguardanti gli ultimi cinque anni. La sua tesi in materia di riciclaggio di denaro ha indubbiamente un interesse sia scientifico, sia pubblico, trattandosi di un tema di grande attualità.
Di conseguenza questa Corte autorizza IS 1 a compulsare presso il Ministero pubblico e, se del caso, presso il Tribunale penale cantonale gli incarti penali nel frattempo archiviati in materia di riciclaggio di denaro inerenti agli ultimi cinque anni (come postulato), concordando i tempi e le modalità di accesso con i collaboratori delle rispettive cancellerie. IS 1 è inoltre autorizzata ad estrapolare i dati disponibili e utili per la sua tesi, nondimeno in forma anonimizzata, nel rispetto del diritto di essere sentito delle parti coinvolte.
IS 1, prima di iniziare il suo lavoro di ricerca, dovrà sottoscrivere una dichiarazione con la quale s’impegna a rispettare il segreto d’ufficio.
4.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Stante la natura e la finalità della richiesta, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c041740b-8da1-5957-a69a-59a82d56f94e | in fatto:
A.
Con decreto d’accusa 5 settembre 2007 il procuratore pubblico ha proposto la condanna dell’avvocato RI 1 per titolo di falsità in documenti per avere allestito tre note professionali spese e competenze fittizie intestate al cliente _, segnatamente una nota datata 3 maggio 2001 di complessivi fr. 29'052.-, una nota datata 8 agosto 2001 di fr. 35'000.- ed una nota datata 23 ottobre 2001 di fr. 43'184.45.-, che ha inserito tra i propri giustificativi contabili allo scopo di dichiarare al fisco e alla PL 1 (in seguito, PL 1) solo parte dell’onorario di complessivi fr. 250'000.- corrisposto dal suddetto cliente.
RI 1 è stato, inoltre, riconosciuto autore colpevole di sottrazione d’imposta ai sensi dell’art. 85 cpv. 1 LIVA per essersi sottratto al pagamento dell’imposta IVA, in particolare per avere ottenuto la mancata imposizione IVA delle prestazioni secondo la nota professionale a carico del cliente _ del 17 ottobre 2001 di fr. 250'000.-, inserendo nei rendiconti trimestrali dell’anno 2001 le tre note professionali fittizie di cui sopra.
Per quel che concerne il reato di falsità in documenti, in applicazione della pena il procuratore pubblico ha proposto
la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 30 aliquote giornaliere da fr. 370.-, per un importo complessivo di fr.
11'100.-
, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni. Per quel che riguarda il reato di sottrazione d’imposta, ne ha proposto la condanna alla multa di fr. 20'000.- e al pagamento di tasse e spese di giustizia.
B.
Statuendo sull’opposizione presentata da RI 1, con sentenza 11 febbraio 2008 il giudice della pretura penale ha confermato i capi d’imputazione contenuti nel decreto d’accusa, dichiarandolo autore colpevole di falsità in documenti e di sottrazione d’imposta, salvo per l’allestimento della nota professionale del 3 maggio 2001. In applicazione della pena, l’ha condannato alla pena pecuniaria di 20 aliquote giornaliere da fr. 370.-, per un importo complessivo di fr. 7'400.-, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni, alla multa di fr. 20'000.- e al pagamento di tasse e spese di giustizia.
C.
In estrema sintesi, i fatti alla base del giudizio del Pretore sono i seguenti.
a.
A partire dal febbraio 2001 RI 1 ha assistito professionalmente l’avv. _ nell’ambito dell’operazione immobiliare avente per oggetto l’acquisto, da parte di quest’ultimo, del complesso alberghiero _.
In un primo tempo RI 1 si era occupato delle trattative per conto di _, imprenditore italiano attivo nel settore del turismo. Dopo l’abbandono delle negoziazioni da parte di quest’ultimo, che non aveva più la necessaria disponibilità finanziaria, le trattative sono state dunque riprese e concluse dal suo conoscente _, pure attivo nel settore del turismo, con l’assistenza di RI 1.
Nella primavera del 2001 le quote sociali della _, titolare del complesso alberghiero, sono dunque state cedute alla neo-costituita _, che fungeva da holding e di cui _ era avente diritto economico. Poiché _ non voleva apparire in prima persona, quale amministratore unico della società anonima in questione figurava _, persona di fiducia dell’accusato. _ non desiderava nemmeno ricevere corrispondenza riguardante l’operazione al proprio domicilio in Italia.
b.
Nell’aprile 2001 _ versava, mediante bonifico bancario, fr. 1'100'000.- sul conto clienti di RI 1 per le spese correnti riguardanti la gestione della società costituita per l’amministrazione dell’albergo. Di questo importo, fr. 100'000.- venivano erogati per la costituzione della _ e fr. 50'000.- quale fondo spese. L’istruttoria non ha chiarito la suddivisione dell’importo residuo, di cui una parte era destinata a coprire la provvigione per il mediatore immobiliare _.
c.
In relazione alla pratica in questione, RI 1 ha emesso, in data 3 maggio 2001, una prima fattura di fr. 29'052.-. Tale nota spese, onorata da _, riguardava in realtà prestazioni svolte in precedenza in favore di _.
In relazione a tale fattura, l’IVA è stata prelevata. In seguito, l’avv. RI 1 ha emesso una nota spese datata 8 agosto 2001 di fr. 35'000.- (per “
consulenza societaria e contrattuale estera
”) e una nota professionale datata 23 ottobre 2001 di fr. 43'184.45 (per “
consulenza societaria
estera
”), entrambe senza IVA.
Agli atti risulta, inoltre, un’ulteriore nota professionale, datata 17 ottobre 2001, emessa senza IVA per l’importo di fr. 250'000.-. Essa è accompagnata da una dichiarazione di scarico di pari data, sottoscritta dal cliente in favore di RI 1 per il versamento di tale importo. Su tale dichiarazione l’accusato ha aggiunto, posteriormente alla sottoscrizione del cliente, il titolo “
sua nota professionale
”.
d.
Sino al 2003, RI 1 ha svolto le prestazioni professionali richieste senza obiezioni da parte di _. I rapporti fra i due si sono, però, incrinati a partire dalla seconda metà del 2003, in particolare dopo la ricezione da parte di _ di un’ulteriore nota d’onorario di RI 1, emessa nei confronti della _, per l’importo di fr. 57'673.50. _ ha, dunque, chiesto all’accusato una rendicontazione sulla gestione della pratica e, in particolare, sulle somme che gli erano state versate ed ha chiesto la restituzione degli importi che, a suo dire, erano stati indebitamente trattenuti. Tali richieste sono, in seguito, sfociate nella denuncia penale del 10 ottobre 2005 - che ha dato luogo al presente procedimento - e in un contenzioso civile presso la pretura di _ cui nel 2006 è stato posto fine mediante convenzione transattiva. Dopo la transazione e il conseguente ritiro di costituzione di parte civile, in data 4 settembre 2007, il procuratore pubblico ha emesso un decreto di abbandono per i reati di appropriazione indebita aggravata, di falsità in documenti in relazione alla nota professionale 17 ottobre 2001 e alla relativa dichiarazione di scarico, nonché di tentata truffa processuale.
D.
Con dichiarazione di ricorso 12 febbraio 2008, RI 1 è insorto contro la condanna pronunciata dal giudice di prime cure. Nelle motivazioni di data 20 marzo 2008, il ricorrente sostiene che il giudice della pretura penale lo ha ritenuto autore colpevole dei reati di falsità in documenti e sottrazione di imposta in errata applicazione del diritto sostanziale, accertando arbitrariamente i fatti e violando norme essenziali di procedura. Egli domanda, di conseguenza, l’annullamento della sentenza di primo grado e il suo proscioglimento.
E. | Con osservazioni datate 24 aprile 2008, il procuratore pubblico postula la reiezione del ricorso siccome appellatorio e, nel merito, in quanto la sentenza impugnata è corretta sia in fatto che in diritto.
Con scritto 23 aprile 2008 l’PL 1 si rimette al giudizio della Corte per quel che concerne gli aspetti penali della vicenda, limitandosi ad osservare che dal profilo fiscale deve ancora essere emanata una decisione che determini se il credito fiscale oggetto della controversia è dovuto o meno dal contribuente. L’autorità domanda, pertanto, che la procedura venga sospesa sino alla crescita in giudicato della decisione sulla contestazione fiscale e, onde poter emanare la suddetta decisione, chiede di accedere alla documentazione concernente la prestazione all’origine della procedura penale per sottrazione di imposta.
Il Ministero pubblico della Confederazione ha comunicato con lettera del 26 gennaio 2010 di rinunciare a formulare osservazioni.
Considerando
in diritto: 1.
Preliminarmente occorre chinarsi sulla richiesta di sospensione del procedimento formulata dall’PL 1 nella sua presa di posizione del 23 aprile 2008.
1.1.
Secondo l’PL 1, deve essere concessa la sospensione del procedimento poiché, nel suo gravame, il ricorrente “
contesta non soltanto gli aspetti meramente penali bensì anche il trattamento fiscale della prestazione all’origine dell’avvio della procedura penale e della condanna per sottrazione di imposta
” (osservazioni, par. 1, pag. 1-2). La contestazione fiscale è definita dall’PL 1 una
“novità”
, in quanto l’autorità riteneva che il credito fiscale fosse riconosciuto visto che prima del dibattimento non era mai stato oggetto di contestazioni da parte di RI 1 (osservazioni, p. 1 e 4, pag. 2 e 3).
Vista la contestazione del credito d’imposta,
“l’PL 1 deve, se intende confermarlo, emanare una decisione in merito”
(osservazioni, p. 3, pag. 3). Trattandosi dell’unica autorità
“autorizzata a decidere in caso di contestazione dell’esistenza di un credito IVA”
(osservazioni, par. 4, pag. 3), l’PL 1 ritiene che la procedura debba essere sospesa per permetterle
“di emanare una decisione in virtù dell’art. 63 LIVA”
(osservazioni, p. 5, pag. 3). Tale chiarimento - precisa l’autorità amministrativa - è indispensabile poiché l’esistenza di un profitto fiscale illecito ex art. 85 cpv. 1 LIVA dipende dall’esistenza del credito fiscale stesso:
“se non dovesse essere debitore dell’imposta, il contribuente non potrebbe neppure essere condannato per sottrazione di imposta ai sensi dell’art. 85 LIVA”
(osservazioni, p. 3, pag. 2).
A mente dell’PL 1, fino all’ottenimento di una decisione cresciuta in giudicato concernente la contestazione fiscale, il procedimento penale in sede di cassazione deve, dunque, rimanere sospeso (osservazioni, p. 5 e conclusioni, pag. 3).
1.2.
Alla richiesta di sospensione, il PP ha aderito con scritto 4 marzo 2009 mentre vi si è opposto il ricorrente secondo cui è irrito chiedere ad un’autorità estranea al procedimento in corso di procedere ad accertamenti che avrebbero dovuto, semmai, essere esperiti dal magistrato competente. Il ricorrente rileva, poi, che le osservazioni dell’PL 1 “
avvalorano le tesi ricorsuali e le conclusioni del perito di parte, in particolare l’insussistenza dei presupposti oggettivi
” del reato di sottrazione fiscale (cfr. scritto 24 marzo 2009).
1.3.
La domanda di sospensione presentata dall’PL 1 non può essere accolta.
In sede di cassazione è, infatti, vietato mutare il materiale processuale che ha formato oggetto del primo giudizio: nuove prove non sono infatti ricevibili (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; CCRP, sentenza del 20 marzo 1989 in re P., consid. 1.2; del 18 febbraio 2000 in re F., consid. 1; del 26 aprile 2000 in re I., consid. 1; del 12 settembre 2000 in B., consid. 1, del 6 maggio 2003 in re R., consid. 2, del 18 agosto 2004 in re G. consid. 1; del 6 maggio 2003 in re R. consid. 2; del 24 maggio 2004 in re CFCG c. S.B.). Non essendo possibile sottoporre a questa Corte l’eventuale decisione dell’autorità fiscale, in quanto verrebbe emanata dopo la condanna in primo grado, la sospensione del presente procedimento al fine di permettere l’emanazione di tale decisione sarebbe priva di senso. Una decisione non potrebbe dunque, in forza del principio appena ricordato, essere presa in considerazione e assunta agli atti.
Pertanto, la domanda di sospensione non può che essere respinta.
2.
Nel suo allegato, il ricorrente contesta che le prestazioni fatturate a _ fossero soggette all’IVA e, pertanto, contesta la sua condanna già dal profilo dell’accertamento delle condizioni oggettive del reato.
2.1.
In relazione al presupposto concernente l’esistenza di un profitto fiscale illecito, il giudice di prime cure si è preliminarmente posto la questione di sapere se le prestazioni fornite dal ricorrente fossero soggette all’IVA, esaminando gli articoli di legge applicabili. Il primo giudice ha considerato, esaminando l’insieme delle prestazioni svolte da RI 1 per il cliente, che risulta “
applicabile l’assoggettamento secondo il principio della situazione del luogo in cui si trova l’immobile
”, considerato che l’albergo _ era “
senza ombra di dubbio, l’obiettivo principale della transazione oltre che l’oggetto della consulenza, quindi l’elemento costituivo, centrale ed indispensabile ai fini della prestazione fornita dall’accusato, in Svizzera
” (sentenza impugnata, consid. 12-13, pag. 9). Di conseguenza, ha considerato le prestazioni fatturare come soggette all’IVA.
2.2.
Nell’applicare il principio del luogo di situazione dell’immobile (piuttosto che il principio del luogo di destinazione) e considerare dunque le prestazioni svolte a favore di _ come soggette all’IVA, RI 1 ritiene che il primo giudice abbia accertato in modo arbitrario i fatti e applicato erroneamente il diritto. Contrariamente a quanto considerato dal giudice della pretura penale, “
le prestazioni rese dal ricorrente sono comunque e fondamentalmente consulenze societarie e tributarie ed hanno a che vedere in modo meramente indiretto con l’acquisto di un immobile
”; in relazione alle prestazioni fornite dal ricorrente il primo giudice non avrebbe operato alcun approfondimento, fondandosi unicamente sul documento riassuntivo che il legale ha presentato al cliente (ricorso, pag. 24). Per il ricorrente le prestazioni in questione non possono essere definite come “
prestazioni relative o strettamente connesse all’acquisizione di un immobile
”, trattandosi invece di consulenze societarie e tributarie; considerarle soggette all’IVA a tale titolo significa svuotare completamente le norme applicabili del loro significato e della loro portata (ricorso, pag. 25).
2.3.
L’IVA è stata introdotta nel 1995 dall’Ordinanza del Consiglio federale del 22 giugno 1994 concernente l’imposta sul valore aggiunto (OIVA) - fondata direttamente sulla Costituzione federale - sostituita a partire dal 1° gennaio 2001 dalla omonima Legge federale del 2 settembre 1999 (in seguito, LIVA 1999), applicabile ai fatti oggetto della presente vertenza, svoltisi nel 2001. Tale normativa è stata, a sua volta, abrogata dall’entrata in vigore, il 1° gennaio 2010, della nuova Legge federale concernente l’imposta sul valore aggiunto del 12 giugno 2009 (in seguito, LIVA 2009).
L’IVA consiste in un’imposta generale sul consumo riscossa in ogni fase del processo di produzione e di distribuzione con deduzione dell’imposta precedente (art. 1 cpv. 1 LIVA 1999). La dichiarazione e il pagamento dell'imposta avvengono in base al principio dell’auto-tassazione (art. 46 seg. LIVA 1999; STF del 26 novembre 2004 inc. 6S.217/2004, consid. 3; sentenza della Corte I TAF del 19 marzo 2009, inc. A-3503/2007 e A-3504/2007, consid. 4.1; sentenza della Corte I TAF del 21 giugno 2007, inc.
A-1405/2006, consid. 6.2, confermata con STF del 23 novembre 2007, inc. 2C_382/2007; Rivier/Rochat, La taxe sur la valeur ajoutée, Fribourg 2000, p. 167).
Secondo questo principio, il contribuente è tenuto a dichiarare spontaneamente l'imposta e l'imposta precedente all'PL 1. Responsabile dell'assoggettamento delle sue operazioni imponibili e del calcolo corretto dell'imposta precedente, egli deve versare all'PL 1 l'imposta dovuta entro sessanta giorni dalla fine del periodo di rendiconto (al riguardo cfr. anche Commento del DFF dell'ordinanza concernente l'imposta sul valore aggiunto del 22 giugno 1994, pag. 41 segg.; STF del 26 novembre 2004 inc. 6S.217/2004, consid. 3; Corte I TAF, A-1591/2006, Sentenza del 10 settembre 2008; consid. 5.1; Rivier/Rochat, op. cit., p. 167). Sempre in base al principio dell'autotassazione, dal contribuente sottoposto all'imposta si pretende che faccia prova di una particolare conoscenza degli obblighi che gli incombono (sentenza della Corte I TAF del 10 settembre 2008, inc. A-1591/2006, consid.
5.1).
In altre parole, il contribuente deve stabilire da solo il credito fiscale che lo riguarda ed egli è il solo responsabile dell’imposizione completa e esatta delle sue operazioni imponibili e del calcolo corretto dell’imposta precedente (cfr. Commento del DFF dell'ordinanza concernente l'imposta sul valore aggiunto del 22 giugno 1994, p. 38). L’PL 1 non deve intervenire, ma stabilisce l’importo dell’imposta al posto del contribuente solo se questi non adempie ai suoi obblighi (sentenza della Commissione federale di ricorso in materia di contribuzioni del 26 novembre 2004, inc. CRC 2004-062, consid. 3a).
L’art. 52 LIVA 1999 prevede che l’PL 1 emana tutte le istruzioni e prende tutte le decisioni necessarie non espressamente riservate a un’altra autorità. In base all’art. 63 cpv. 1 LIVA 1999, l’PL 1 prende tutte le decisioni concernenti la riscossione dell’imposta, d’ufficio o su richiesta del contribuente. Ciò avviene, in particolare, se l’esistenza o l’entità del credito fiscale è contestata (lett. c), o se, in un caso specifico, s’impone o si richiede di determinare d’ufficio, a titolo preventivo, il debito fiscale (lett. f). Il cpv. 2 rinvia per il rimanente alle disposizioni della DPA.
La DPA prevede che la competenza per la conduzione dell’inchiesta spetta all’amministrazione in causa, ma che nelle cause penali di competenza sia di quest’ultima, sia della giurisdizione federale o di quella cantonale, il Dipartimento preposto all’amministrazione interessata può ordinare la riunione del perseguimento penale nelle mani dell’autorità che sta già occupandosene, qualora sussista uno stretto legame oggettivo e questa autorità vi abbia acconsentito (art. 20 cpv. 1 e 3 DPA).
Per quel che riguarda il procedimento giudiziario, la DPA prevede che il rinvio a giudizio è sospeso finché l’obbligo di pagamento o restituzione su cui si fonda il procedimento penale non è stato oggetto di una decisione passata in giudicato o non è stato riconosciuto mediante pagamento incondizionato (art. 73 cpv. 1 DPA). La legge è silente in merito al caso in cui non vi sia rinvio a giudizio da parte dell’amministrazione ma vi sia un decreto d’accusa emanato dalle autorità inquirenti cantonali a seguito della delega prevista all’art. 20 cpv. 3 DPA.
Giusta l’art. 85 LIVA 1999, chiunque procura intenzionalmente a sé o ad altri un profitto fiscale illecito - in particolare sottraendosi all’imposta o ottenendo un’esenzione, un abbuono, un rimborso o una deduzione ingiustificati dell’imposta - è punito con la multa sino al quintuplo dell’importo d’imposta sottratta o del profitto illecito (cpv. 1). Il cpv 3 dello stesso disposto prevede, invece, per chiunque procuri per negligenza a sé o ad altri un profitto fiscale illecito, la multa sino all’importo del profitto illecito (cpv. 3).
Nell’interpretazione della norma, va tenuto in considerazione il fatto che l’IVA è prelevata mediante una procedura di autotassazione e non nell’ambito di una procedura di tassazione mista, come nella Legge sull’imposta federale diretta, laddove il contribuente deve pagare l’imposta solo se esiste una decisione di tassazione (Hasler/Sautebin, Droit pénal dans le domaine de la taxe sur la valeur ajoutée, Stämpfli 2007, p. 10-11). Nell’IVA, la procedura di tassazione non è chiusa da una decisione entrata in forza: l’PL 1 ha comunque il diritto di controllare in ogni tempo (nei limiti della prescrizione del credito fiscale) se il contribuente ha proceduto ad una imposizione corretta. La realizzazione dell’infrazione di sottrazione d’imposta è dunque intimamente legata alla nascita del credito fiscale e alla sua esigibilità, indipendentemente da una pronuncia da parte dell’autorità (Hasler/Sautebin, op. cit., pag. 11). Dal punto di vista oggettivo, la sottrazione è già data quando il contribuente omette, intenzionalmente o per negligenza, di dichiarare all’PL 1 l’importo dovuto nei termini (GAAC 68.165, consid. 4f [
Landgericht URI
]).
2.4.
Nel caso concreto, come rilevato dall’PL 1 nelle sue osservazioni, una decisione sul debito fiscale di RI 1 fa difetto e l’autorità non si è mai pronunciata in relazione all’esenzione IVA delle prestazioni oggetto della nota d’onorario del 17 ottobre 2001.
Con scritto 23 novembre 2006 (AI 104), il procuratore pubblico informava l’PL 1 che nei rendiconti 2001 di RI 1 non era stata notificata una nota professionale di fr. 250'000, mentre erano state notificate “
altre tre note professionali parziali, dal contenuto errato
” e domandava di “
verificare se si tratta di mancata dichiarazione di prestazioni soggette ad IVA giusta l’art. 85 e segg. LIVA e, nell’evenienza positiva, se sia il caso di delegare la procedura al Ministero pubblico
”.
Con lettera del 7 dicembre 2006 (AI 105), l’PL 1 rispondeva che
“la mancata imposizione all’IVA delle prestazioni secondo la nota professionale del 17 ottobre 2001 nonché gli errori figuranti nelle tre note professionali parziali del 3 maggio, 8 agosto e 23 ottobre 2001 possono in effetti costituire infrazioni di sottrazione o di messa in pericolo dell’imposta giusta l’art. 85 e segg. LIVA”
. Intendendo perseguire tali infrazioni ma non volendo intralciare le indagini penali ancora in corso con l’apertura di una propria autonoma procedura penale e/o fiscale, l’PL 1 chiedeva al procuratore pubblico in che modo comportarsi nei confronti del contribuente, ritenuto come fosse necessario attivarsi per interrompere sia la prescrizione del credito fiscale sia la prescrizione del reato fiscale.
In risposta, con scritto 11 dicembre 2006 (AI 106), il procuratore pubblico domandava all’PL 1 di interrompere la prescrizione del credito fiscale, informando nel contempo l’autorità federale che il procedimento penale “
potrebbe venir chiuso con procedura di decreto d’accusa nel corso del primo trimestre 2007 per titolo di falsità in documenti e/o frode fiscale
” e segnalando che “
qualora intervenisse una delega a favore del Ministero pubblico, il procedimento potrebbe comprendere anche gli aspetti penali della sottrazione IVA
”.
L’PL 1 ha, dunque, preannunciato ad RI 1 una verifica IVA dello studio legale ex art. 62 LIVA 1999, interrompendo così la prescrizione del credito fiscale (cfr. scritto 19 dicembre 2006, AI 110). Infine, come detto, con decisione del 20 dicembre 2006 (AI 109), l’PL 1 ha deciso di autorizzare il ministero pubblico cantonale a “
étendre la procédure pénale ouverte contre RI 1 à l’état de fait relatif à l’infraction aux art. 85 ss. LTVA
”.
Da nessuno di questi scritti né da altri atti del procedimento è possibile dedurre l’esistenza di una decisione dell’PL 1 in merito all’IVA dovuta dall’avv. RI 1, in particolare una decisione che sancisca il carattere imponibile delle prestazioni descritte nella nota professionale 17 ottobre 2001 e l’esistenza di un debito fiscale del contribuente. Una tale decisione, che l’PL 1 ammette di non avere mai reso, avrebbe dovuto del resto essere intimata ad RI 1 e avrebbe potuto essere oggetto di ricorso e di verifica giudiziaria. Non è noto se la verifica fiscale preannunciata dall’PL 1 con lo scritto 10 dicembre 2006 (che avrebbe dovuto aver luogo nel corso del 2007, cfr. AI 110) sia effettivamente avvenuta né quale sia stato il suo esito.
Avendo il ricorrente esplicitamente contestato l’imposizione IVA della prestazione, non è evidentemente possibile fare astrazione da tale decisione.
E’ dunque corretto, come conclude l’PL 1 (e come risulta da un’applicazione analogica dell’art. 73 cpv. 1 DPA in relazione al rinvio a giudizio), che per verificare la sussistenza dei presupposti dell’infrazione - l’esistenza di un profitto fiscale illecito, ovvero il pagamento di una imposta insufficiente - è ancora necessaria, in assenza di un’ammissione da parte dell’imputato, una decisione cresciuta in giudicato sull’esistenza del presunto debito fiscale.
2.5.
Posto che l’assenza di una decisione che accerta l’esistenza del credito fiscale - lacuna cui non si può ovviare in sede di cassazione - comporta l’impossibilità per il giudice penale di verificare l’esistenza del presupposto del profitto fiscale illecito, si deve forzatamente concludere che il ricorrente deve essere prosciolto dall’accusa di sottrazione fiscale ex art. 85 LIVA 1999.
L’PL 1 non può, infatti, giustificare il fatto di non aver deciso in precedenza la questione adducendo che il credito fiscale oggetto della controversia è stato contestato “
la prima volta in sede dibattimentale, poi in occasione del ricorso per cassazione
” (osservazioni, pag. 3). In primo luogo, come già evocato, non risultano esistere ammissioni del ricorrente in merito all’esistenza e l’entità di un suo debito fiscale in relazione alla nota d’onorario in oggetto e non si vede, dunque, per quale motivo l’PL 1 abbia ritenuto di non dover decidere la questione o che essa “
non dovesse essere (più) oggetto nell’ambito della procedura giudiziaria cantonale
” (osservazioni, par. 1, pag. 2). Anche dopo la delega al Ministero pubblico del perseguimento del reato, l’PL 1 è stata infatti informata dei passi procedurali e giudiziari intrapresi: in particolare le sono stati intimati l’estensione dell’accusa, il decreto d’accusa, la trasmissione alla Pretura penale del decreto d’accusa a seguito dell’opposizione interposta, nonché la citazione al dibattimento, cui ha rinunciato a presenziare con scritto dell’8 febbraio 2008. Inoltre, la mancanza di una contestazione del credito fiscale prima del dibattimento non può essere imputata al ricorrente: egli è infatti venuto a conoscenza della sua incriminazione per un reato IVA solo in occasione dell’estensione dell’accusa, avvenuta in contemporanea con l’emanazione del relativo decreto d’accusa. Di conseguenza, egli non ha potuto esprimersi in merito al trattamento fiscale dell’onorario di fr. 250'000.- (da lui ritenuto esente in applicazione dell’art. 14 cpv. 3 lett. c LIVA 1999) né davanti all’PL 1, né durante l’inchiesta penale. In relazione al reato fiscale egli è stato, infatti, sentito la prima volta in sede dibattimentale, ove ha espresso le sue contestazioni, ribadite nel ricorso per cassazione. L’assenza di una decisione che stabilisce il credito fiscale non è, pertanto, da imputare all’accusato, in particolare non è imputabile ad una sua presunta contestazione tardiva ma, semmai, al modo in cui è stata condotta l’inchiesta. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c0bc81e3-7a86-593b-874a-29cfdb6f8663 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito della denuncia penale 8/9.10.2008 sporta da PI 3 (che in quel periodo era socio e gerente della _, con sede a _) nei confronti di PI 2 (dipendente di _) per l’ipotesi di reato di falsità in documenti giusta l’art. 251 cifra 1 CP riguardo all’allestimento di una dichiarazione di ritiro dell’opposizione interposta contro il precetto esecutivo nr. _ fatto spiccare da _ (società che avrebbe conferito mandato a _ per recuperare il credito vantato nei confronti di _), documento che a mente del denunciante sarebbe falso, poiché non l’avrebbe mai visto né sottoscritto, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico del denunciato sfociato nel decreto di non luogo a procedere 8.11.2010 emanato dal procuratore pubblico Arturo Garzoni (NLP _ – inc. MP _).
Avverso il predetto decreto non è stata presentata un’istanza di promozione dell’accusa ex art. 186 CPP TI.
2.
Con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – la IS 1 quale autorità di vigilanza (di seguito IS 1)
chiede ragguagli sullo stadio del surriferito procedimento penale, richiamando il suo scritto del 15.11.2009, in cui aveva evidenziato che gli accertamenti in sede penale sarebbero utili ai fini della procedura di ricorso inoltrata dalla società denunciante (ndr: la _) alla IS 1 contro le comminatorie di fallimento emesse nei suoi confronti sulla base di una dichiarazione di ritiro dell’opposizione all’esecuzione che la stessa ha eccepito di falso.
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico ha preavvisato favorevolmente la richiesta. PI 2, dal canto suo, non si è opposto alla domanda, mentre PI 3, interpellato da questa Corte, non ha presentato osservazioni in merito all’istanza.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nella fattispecie in esame – ritenuti i motivi addotti dalla IS 1 nella sua richiesta, il contenuto e l’esito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere informazioni sullo stadio del procedimento penale rispettivamente la trasmissione del citato incarto penale. Come evidenziato dalla stessa IS 1, essa è stata chiamata ad esaminare il ricorso presentato dalla _ contro le comminatorie di fallimento emesse nei suoi confronti sulla base di una dichiarazione di ritiro dell’opposizione all’esecuzione che la stessa ha eccepito di falso. Trattasi apparentemente proprio della stessa dichiarazione per la quale PI 3 ha sporto denuncia penale
8/9.10.2008
nei confronti di PI 2 sfociata
nel decreto di non luogo a procedere 8.11.2010 (NLP _). Gli atti dell’incarto penale MP _ sono dunque certamente utili alla IS 1 ai fini delle sue incombenze.
Di conseguenza, dopo la crescita in giudicato della presente decisione, questa Corte trasmetterà direttamente alla IS 1 l’incarto penale MP _ sfociato nel decreto di non luogo a procedere 8.11.2010 (NLP _), con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero pubblico, al più tardi, al termine del procedimento ricorsuale di cui all’incarto _.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. Non si prelevano tassa di giustizia e spese, in considerazione della natura dell’istante e della finalità della richiesta. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c1177fcf-9c17-512b-8c2f-934bec22167e | in fatto: A.
Il 15 giugno 2000 la polizia cantonale ha sequestrato due apparecchi automatici del gioco “Reflex Balls”, uno dei quali appartenente a _, al Ristorante _. Due apparecchi dello stesso tipo sono stati sequestrati il
27 novembre successivo al Bar _, entrambi appartenenti a _. In base agli accertamenti compiuti dalla Commissione federale delle case da gioco (CFCG), gli apparecchi in questione sono stati usati, senza autorizzazione, per giochi d'azzardo.
B.
Per quel che è dell'apparecchio sequestrato ad _, con decreto penale del 28 marzo 2002 la Commissione federale delle case da gioco ha riconosciuto _ autore colpevole di violazione delle legge federale sul gioco d'azzardo e sulle case da gioco (LCG; RS 935.52), condannadolo a una multa di fr. 2'500.– (inc. _). Per quel che è degli altri due apparecchi, con decreto penale del 23 novembre 2001 la Commissione ha condannato _, per il medesimo titolo, a una multa di fr. 10'000.– (inc. _). In entrambi i decreti è stata ordinata anche la confisca delle somme in denaro rinvenuta negli apparecchi sequestrati e di valori patrimoniali non più reperibili per complessivi fr. 19'375.–, come pure la confisca e la distruzione degli apparecchi stessi.
C.
Statuendo su opposizione di _, con decisioni del 27 giugno e 28 marzo 2002 (inc. _), la Commissione ha confermato entrambi i decreti penali. _ ha chiesto allora di essere giudicato da un tribunale (art. 72 DPA). E con sentenza del 16 giugno 2003 il giudice della Pretura penale, investito del caso, ha prosciolto _ dall'accusa di contravvenzione alla legge federale sulle case da gioco, ordinando unicamente la confisca e la distruzione degli apparecchi sequestrati. Quanto alla confisca delle somme rinvenute negli apparecchi, oltre a quella di valori patrimoniali non reperibili, il provvedimento è stato dichiarato decaduto. Tale decisione è stata impugnata il 4 luglio 2002 dalla Commissione federale delle case da gioco con ricorso per cassazione del 4 luglio 2003 inteso a ottenere l'annullamento della sentenza e la conferma dei due decreti penali. Con sentenza del 16 luglio 2003 la Corte di cassazione e di revisione penale ha dichiarato il ricorso inammissibile per mancata dichiarazione previa nel senso dall'art. 276 cpv. 2 CPP.
D.
Adito dalla Commissione federale delle case da gioco, con sentenza 1P.481/2003 del 17 ottobre 2003 il Tribunale federale ha accolto il ricorso per cassazione, ha annullato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa a questa Corte per nuovo giudizio. Si impone di conseguenza un nuovo sindacato. | Considerando
in diritto:
1.
La ricorrente sostiene che entrambi i casi da lei decisi denotano la violazione dell'art. 56 cpv. 1 lett. c LCG, secondo cui è punito con l'arresto o con la multa sino a fr. 500'000.– “chiunque installa, allo scopo si gestirli, sistemi di gioco o apparecchi automatici per i giochi d'azzardo senza esame, valutazione della conformità o omologazione”. Il sequestro di _ adempirebbe altresì le premesse dell'art. 56 cpv. 1 lett. a LCG, che punisce “chiunque organizza o gestisce per mestiere giochi d'azzardo al di fuori delle case da gioco concessionarie”.
2.
Ricordato che la Commissione ha riscontrato la violazione dell'art. 56 cpv. 1 lett. a e c LCG per avere l'accusato gestito tre apparecchi automatici da gioco “Reflex Balls” usati a scopo d'azzardo, il giudice della Pretura penale ha rilevato che quel tipo di apparecchio era stato pacificamente autorizzato dall'amministrazione federale il 2 dicembre 1997 come apparecchio automatico per i giochi di intrattenimento, allora non sottoposto alla legge federale sulle case da gioco. Tale autorizzazione è poi stata revocata il 28 febbraio del 2001, la Commissione avendo accertato che quel genere di apparecchio veniva regolarmente usato per giochi d'azzardo. Se non che, ha continuato il primo giudice, nel periodo dei fatti rimproverati all'accusato (tra il gennaio e il 15 giugno 2000 nel primo caso, tra l'aprile o il luglio e il 27 novembre 2000 nel secondo), l'apparecchio non era considerato uno strumento per il gioco d'azzardo. L'imputato non poteva quindi avere integrato gli estremi dell'art. 56 cpv. 1 lett. c LCG. Quanto alla fattispecie prevista dall'art. 56 cvp. 1 lett. a LCG (riferita soltanto ai fatti di _), il giudice della Pretura penale non ha trovato elemento alcuno a sostegno della tesi secondo cui l'accusato avesse organizzato o gestito giochi d'azzardo per mestiere.
3.
La ricorrente fa valere anzitutto come i gestori dei due esercizi pubblici interessati abbiano ammesso che le vincite agli apparecchi erano pagate in denaro e come l'accusato medesimo abbia riconosciuto davanti alla Commissione che in un caso al Bar _ era stata rimunerata una vincita in denaro. Essa dà atto che l'apparecchio da gioco “Reflex Balls”, autorizzato il 2 dicembre 1997 dal Dipartimento federale di giustizia e polizia come apparecchio automatico per i giochi di intrattenimento, non ricadeva sotto la vecchia legge del 5 ottobre 1929, in vigore fino al 1° aprile 2000. Tuttavia, già poco tempo dopo la messa in commercio di tali apparecchi, al Dipartimento erano giunte varie denunce, poiché in numerosi casi i gerenti o i gestori di tali apparecchi tramutavano in denaro o altri vantaggi economici le vincite a punti. Ciò avveniva soprattutto nel Cantone Ticino, come ha ricordato anche un articolo pubblicato il 31 luglio 1999 dal
Corriere del Ticino
, onde un controllo eseguito dall'autorità federale con la polizia cantonale, il 9-10 marzo 2000, in numerosi locali pubblici ove si trovavano apparecchi automatici “Reflex Balls”. Ciò ha permesso di appurare due modalità di gioco, di cui una illegale.
Con l'entrata in vigore il 1° aprile 2000 della nuova legge federale del 18 dicembre 1998, la Commissione fa notare di essere divenuta l'autorità preposta in materia di case da gioco e gioco d'azzardo. Essa ha proceduto pertanto al riesame dell'apparecchio “Reflex Balls”, che ha consentito di accertare un divario tra la situazione di fatto al momento in cui il Dipartimento federale di giustizia e polizia aveva autorizzato l'uso del medesimo e quella al momento in cui tali apparecchi erano stati messi in esercizio, il vetro esterno dell'apparecchio sottoposto a esame rivelandosi diverso da quello originale. Durante i controlli eseguiti il 9-10 marzo 2000 – soggiunge la ricorrente – si è chiarito che l'apparecchio consente una seconda modalità di gioco, paragonabile a quella di una slot-macchine e che conferisce a un “Reflex Balls” le caratteristiche di apparecchio automatico per giochi d'azzardo. Ciò ha trovato conferma anche in una perizia privata commissionata il 4 ottobre 2000 dalla ditta _. Al riesame svolto dalla Commissione il 6 febbraio 2001 tale seconda modalità di gioco non è più stata riscontrata, tuttavia alla Commissione non è stato assicurato che apparecchi del tipo “Reflex Balls” in circolazione non la prevedessero. L'autorizzazione del 2 dicembre 1997 è stata così revocata.
Nel Ticino apparecchi da gioco “Reflex Balls” sono stati rinvenuti – tra l'altro – al Ristorante _, al Bar _ e al Bar _ nei mesi seguenti l'operazione di controllo intrapresa dall'autorità federale insieme con la polizia cantonale. Ciò ha indotto alla decisione di revocare l'autorizzazione d'esercizio per simili apparecchi. L'argomentazione del primo giudice – conclude la ricorrente – non può pertanto essere condivisa, l'autorizzazione rilasciata a suo tempo dal Dipartimento essendo avvenuta sulla base di un apparecchio che non corrispondeva a quello poi messo in circolazione. Che al momento del controllo da parte delle autorità presso i vari esercizi pubblici l'autorizzazione del 2 dicembre 1997 del Dipartimento non fosse ancora stata revocata ancora non esclude il rischio che gli apparecchi potessero essere usati per i giochi d'azzardo.
4.
Già a un primo esame il ricorso appare irricevibile, ove appena si consideri che nei decreti penali del 23 novembre 2001 e del 28 marzo 2002, come pure nelle decisioni penali del 28 marzo 2002 e del 27 giugno 2002 la Commissione aveva individuato un'infrazione alla legge nell'uso illecito di noti apparecchi, segnatamente nell'illecito pagamento in denaro o in natura delle vincite (senza per altro spiegare come ciò avvenisse), mentre nel ricorso per cassazione essa scorge la medesima violazione in tutt'altra fattispecie. Dopo avere rammentato che la verifica dell'apparecchio da essa compiuta il 6 febbraio 2001 ha rivelato una discrepanza tra la situazione di fatto il 2 dicembre 1997 (rilascio dell'autorizzazione da parte del Dipartimento) e quella al momento in cui gli apparecchi sono stati posti in esercizio, il vetro esterno dell'apparecchio esaminato differendo in più punti da quello originale, e dopo avere ricordato che durante i controlli del 9 e 10 marzo 2000 si è scoperta una seconda modalità di gioco (paragonabile a quella di una slot-machine), la Commissione reputa invero che tutti gli apparecchi allora in circolazione contenessero questa seconda modalità di gioco. Così argomentando, tuttavia, essa pone alla base del ricorso uno stato di fatto non solo estraneo al fascicolo del processo, ma non prospettato nei decreti e nemmeno nelle decisioni penali. Mai prima d'ora, in effetti, la ricorrente ha preteso che nei due esercizi pubblici interessati si trovassero apparecchi con caratteristiche diverse da quelle formanti oggetto dell'autorizzazione dipartimentale. Del resto, ciò che avrebbe costituito – se mai – una violazione dell'art. 56 cpv. 1 lett. d LCG, che punisce chiunque modifichi apparecchi oggetto di un esame, di una valutazione di conformità o di un'omologazione, installandoli poi allo scopo di gestirli.
Questa nuova impostazione di fatto enunciata nel ricorso per cassazione sfugge di conseguenza a un esame di merito. Questa Corte ha avuto modo di ribadire ancora recentemente – e al riguardo la procedura è disciplinata dal diritto cantonale (art. 82 DAP) – che un ricorso per cassazione va giudicato sulla base dello stesso materiale processuale vagliato in primo grado (CCRP, sentenza del 6 maggio 2003 in re R. consid. 2). Ciò significa che il ricorso dev'essere vagliato sulla scorta dei medesimi fatti che hanno condotto alla formalizzazione dell'accusa e all'emanazione delle decisioni impugnate (nella fattispecie: art. 73 cpv. 2 DAP). Né la ricorrente pretende che nel caso specifico si ravvisi una violazione dell'art. 56 pcv. 1 lett. c LCG anche dipartendosi dagli accertamenti contenuti nella sentenza impugnata. Quanto alla pretesa violazione dell'art. 56 cpv. 1 lett. a LCG, la ricorrente nemmeno si confronta con la conclusione del giudice della Pretura penale, secondo cui invano si cercherebbe nel fascicolo processuale un riscontro atto a dimostrare che l'accusato abbia organizzato e gestito giochi di azzardo per mestiere. In proposito il ricorso va dichiarato irricevibile per carenza di motivazione.
5.
Improponibile nel suo intero, il gravame comporta l'addebito degli oneri processuali alla ricorrente (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP). Non è il caso invece di assegnare ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP), il memoriale non essendo stato oggetto di intimazione. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c12c80ef-5f8f-57cd-a2a1-bbae8a085af1 | in fatto ed in diritto
1.
La mattina del 10.11.2006 è scoppiato un incendio presso un capannone a _ a seguito del quale il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di PI 2, sfociato nel decreto di accusa 23.7.2007 (DA _) emanato dall’allora sostituto procuratore pubblico Marisa Alfier (mediante il quale è stato ritenuto colpevole di incendio colposo giusta l’art. 222 cpv. 1 CP riguardo ai fatti accaduti quel giorno) (inc.
MP _).
Il predetto decreto è cresciuto in giudicato il 27.8.2007.
2.
Presso la Pretura istante è pendente una procedura civile ordinaria tra PI 2 e _ (inc. _).
Ai fini dell’istruttoria, con il consenso delle parti e del pretore, è stato richiamato il surriferito incarto penale.
3.
Con la presente istanza la IS 1 postula la trasmissione dell’incarto penale
MP _
.
A suffragio della sua richiesta ha prodotto copia di uno scritto datato 21.4.2011 dell’avv. _ [da cui emerge, tra l’altro, che
"
(...) in forza di questa condanna
[ndr. decreto di accusa 23.7.2007 (DA _)]
, tre compagnie di assicurazioni agiscono in regresso avverso l’attore, chiedendo la rifusione di quanto da esse accordato alle parti danneggiate; (...) l’attore, a sua volta, chiede che venga accertata la copertura assicurativa, per responsabilità civile, dovuta dalla convenuta; (...) si giustifica pertanto l’acquisizione degli atti penali, onde meglio comprendere le circostanze che hanno ingenerato l’incendio, rilevanti per l’aspetto della copertura assicurativa
"
(copia scritto 21.4.2011 annesso all’istanza 22/26.4.2011, doc. 1.a)].
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico ha comunicato il suo nulla osta affinché l’incarto richiesto sia trasmesso alla Pretura istante.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.1.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente. Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
6.
Nella fattispecie in esame – ritenuti i motivi addotti nella presente richiesta e la giurisprudenza di questa Corte – è certamente data una connessione tra il procedimento civile di cui all’incarto _ pendente presso la IS 1 e il procedimento penale di cui all’incarto
MP _, sfociato nel
decreto di accusa 23.7.2007 (DA _).
Gli atti del procedimento penale potrebbero, in effetti, avere una loro rilevanza ai fini dell’istruttoria civile.
È pertanto adempiuto un interesse giuridico ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza l’incarto penale
MP _ (una mappetta grigia) viene trasmesso alla Pretura
istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero pubblico a procedimento civile concluso.
7.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c15035aa-6754-5b1b-898f-9a3653ace562 | in fatto
a.
RE 1 è stato fermato ed in seguito arrestato provvisoriamente dalla polizia (ex art. 217 CPP) il 28/29.10.2011 in quanto gravemente indiziato, con altri, di furto (per essere stato trovato in possesso di una grossa quantità di merce apparentemente di provenienza furtiva), nonché di infrazione alla LF sugli stranieri (Rapporto di arresto provvisorio 29.10.2011, AI 1, inc. MP _).
Al termine del verbale di interrogatorio 29.10.2011, dinnanzi alla polizia, RE 1 ha dichiarato di volere l’assegnazione di un difensore d’ufficio (cfr. formulario diritti e obblighi dell’imputato, in Rapporto di arresto provvisorio 29.10.2011, AI 1).
Durante il verbale della persona arrestata, il medesimo giorno, il procuratore pubblico Valentina Tuoni ha predisposto la nomina dell’avv. PR 1 quale difensore d’ufficio di RE 1, ritenuto un caso di difesa obbligatoria (verbale della persona arrestata 29.10.2011, p. 2, AI 5). In quella sede, il procedimento è stato esteso al reato di danneggiamento e contravvenzione alla LF sugli stupefacenti.
Con decreto 31.10.2011 il magistrato inquirente ha quindi nominato l’avv. PR 1 difensore d’ufficio (con effetto dal 29.10.2011), con le spese della difesa a carico dello Stato riservato l’art. 135 cpv. 4 CPP (AI 16).
b.
Il procedimento penale di cui sopra è sfociato nel decreto d’accusa 14.2.2012 a carico di RE 1 per titolo di ripetuto furto, ripetuto danneggiamento, violazione di domicilio, infrazione alle norme della circolazione, entrata illegale e contravvenzione alla LStup, mediante il quale il magistrato inquirente ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 90 aliquote giornaliere da CHF 30.-- cadauna corrispondenti a complessivi CHF 2'700.-- (pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni), nonché al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (in solido con un altro imputato) (DA _). Tale decreto d’accusa è cresciuto in giudicato.
Il difensore d’ufficio ha dunque inviato al procuratore pubblico la sua nota d’onorario 27.2.2012 per la tassazione.
c.
Con decisione 20.3.2012 il procuratore pubblico ha proceduto ad una serie di decurtazioni della nota d’onorario del difensore d’ufficio sopraindicata, approvandola limitatamente a CHF 3'534.50 [di cui CHF 2'912.10 per onorari (riconoscendo h 20.16, di cui h 6 alla tariffa oraria di CHF 250.--, h 1.53 alla tariffa oraria di CHF 180.-- e h 12.63 alla tariffa oraria di CHF 90.--), CHF 360.60 per spese/trasferte e CHF 261.80 per l’IVA], in luogo dei postulati CHF 3'895.70.
Il magistrato inquirente ha defalcato, per quanto qui di interesse, “
il tempo esposto il 29.10.2011 per il verbale (14.20 fino 18.45) e colloquio con cliente (./. h 0.5), come pure il tempo di trasferta dal domicilio al Farera (./. h 0.5). I costi legati alla stesura e all’invio della nota professionale sono a carico dell’avvocato (./. h 0.30)
” (decreto di tassazione 20.3.2012, p. 1, inc. DA _).
d.
Con il presente tempestivo reclamo l’avv. PR 1 chiede l’annullamento del suddetto decreto e l’approvazione della sua nota d’onorario, inerente alla difesa d’ufficio di RE 1, per complessivi CHF 3'831.50 (di cui CHF 3'162.10 per onorari, CHF 385.60 per spese/trasferte e CHF 283.80 per l’IVA).
Egli afferma, in particolare, che la detrazione di h 0.50 per l’intervento del 29.10.2011 è arbitraria, ritenuto come lo stesso “
quel giorno (...) è entrato nel carcere alle ore 13.20, per lasciarlo alle ore 18.48, per un tempo fatturabile di h 5.46, contro le h 5.60 fatturate (che comprendevano, tuttavia, anche la chiamata dal Ministero pubblico)
” (reclamo 21.3.2012, p. 1).
Il reclamante contesta inoltre la detrazione di h 0.50 dal tempo impiegato per il trasferimento dal domicilio al carcere e viceversa, ritenuto che il tempo di percorrenza minimo è infatti di “
h 0.45 (
=
min 27), cosicché il tempo fatturato per l’andata e il ritorno, di h 0.90, è spaccato al minuto
” (reclamo 21.3.2012, p. 1).
L’avv. PR 1 non contesta invece le tariffe orarie applicate dal magistrato inquirente, così come pure la detrazione (./. h 0.30) dei costi legati alla stesura ed all’invio della nota professionale in questione.
e. | Delle ulteriori motivazioni, così come delle osservazioni del procuratore pubblico e della replica, si dirà, se necessario, in diritto.
in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 135 cpv. 3 CPP, in materia di retribuzione, il difensore d’ufficio può interporre reclamo alla giurisdizione di reclamo [ovvero in Ticino, alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG)] contro la decisione del pubblico ministero o del tribunale di primo grado (cfr. art. 393 cpv. 1 lit. b CPP).
Con il gravame si possono censurare la violazione del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 21.3.2012 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, contro la decisione 20.3.2012 del procuratore pubblico Valentina Tuoni, è tempestivo
.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
Esso è – di conseguenza – ricevibile in ordine
.
2.
2.1.
In Ticino la retribuzione del difensore d’ufficio, anche in ambito penale, era fissata, fino al 31.12.2010, dalla Legge sul patrocinio d’ufficio e sull’assistenza giudiziaria del 3.6.2002 (vLag). L’art. 3 cpv. 1 vLag garantiva a chi dimostrava di non avere mezzi sufficienti per far fronte agli oneri di procedura e alle spese di patrocinio il beneficio dell’assistenza giudiziaria. Il patrocinatore si vedeva rimunerare in tal caso per le prestazioni risultanti da una ragionevole conduzione del mandato, ovvero per quelle necessarie in relazione alla natura e alla complessità della causa, escluse
“quelle che avrebbe dovuto evitare”
(art. 6 cpv. 1 vLag). Non erano quindi remunerati gli interventi prescindibili o che esulavano da un ambito strettamente legale.
2.2.
Il 5.10.2007 è stato adottato il codice di diritto processuale svizzero (CPP) in vigore dal 1.1.2011. Quest’ultimo disciplina sia il patrocinio di ufficio sia l’assistenza giudiziaria. La corrispondente norma cantonale (in Ticino la vLag) è pertanto divenuta superflua in ambito penale e sostituita dalla nuova Legge sull’assistenza giudiziaria e sul patrocinio d’ufficio del 15.3.2011 (LAG), applicabile, prevalentemente, in altri ambiti giuridici.
Il nuovo codice stabilisce tuttavia che il difensore d’ufficio deve essere retribuito secondo la tariffa d’avvocatura della Confederazione o del Cantone in cui si svolge il procedimento (art. 135 cpv. 1 CPP).
2.3.
Da ciò l’applicazione, nel presente caso, del Regolamento sulla tariffa per i casi di patrocinio d’ufficio e di assistenza giudiziaria e per la fissazione delle ripetibili (Rtar), in vigore dal 1.1.2008.
2.4.
Tale Regolamento (tutt’oggi in vigore), stabilisce la tariffa per le prestazioni dell’avvocato nel caso della sua nomina a patrocinatore d’ufficio (art. 1 Rtar). Esso differenzia le prestazioni svolte da avvocati o da praticanti, tenendo anche conto delle complessità del caso.
All’avvocato vanno riconosciuti gli onorari per le prestazioni necessarie per lo svolgimento del patrocinio e il rimborso delle spese. L’onorario dell’avvocato è calcolato secondo il tempo di lavoro sulla base della tariffa di CHF 180.-- / ora (art. 4 cpv. 1 Rtar; tariffa confermata anche dalla giurisprudenza federale: sentenza TF 6B_947/2008 del 16.1.2009). Se la pratica è stata particolarmente impegnativa, per esempio avendo richiesto studio e conoscenze speciali o avendo comportato trattazioni di nuove e complesse questioni giuridiche, l’onorario può essere aumentato sino a CHF 250.-- / ora (art. 4 cpv. 2 Rtar). L’onorario del praticante legale è calcolato sulla base della tariffa di CHF 90.-- / ora (art. 4 cpv. 3 Rtar).
L’onorario dell’avvocato per la partecipazione a interrogatori al di fuori dell’orario di lavoro usuale (tra le ore 20.00 e le ore 08.00 dei giorni feriali e quello nei giorni festivi ufficiali e di sabato) è fissato a CHF 250.-- / ora; quello del praticante legale a CHF 110.-- / ora (art. 5a Rtar).
Al patrocinatore può essere inoltre riconosciuto un importo forfetario in per cento dell’onorario quale rimborso per le spese di cancelleria, come quelle di spedizione, di comunicazione, delle fotocopie e di apertura e archiviazione dell’incarto (art. 6 Rtar).
2.5.
Viste le tariffe sopraindicate l’autorità cantonale deve, nella determinazione della retribuzione dell’avvocato d’ufficio, tener conto della natura, dell’importanza, e delle difficoltà particolari, in fatto ed in diritto, della vertenza, valutando il tempo dedicato dall’avvocato allo studio dell’incarto, quello destinato ai colloqui e alle udienze presso le autorità di ogni istanza e il risultato ottenuto. La prestazione dell’avvocato deve stare in rapporto ragionevole con la prestazione fornita e con la responsabilità assunta dal libero professionista (sentenza TF 6B_810/2010 del 25.5.2011).
3.
3.1.
Il reclamante si duole innanzitutto della detrazione di h 0.50 dal tempo esposto di h 5.60 nella nota professionale in discussione, relativo all’intervento del 29.10.2011 (colloquio con cliente e verbale di interrogatorio dinanzi al procuratore pubblico).
Dagli atti risulta che il patrocinatore d’ufficio di RE 1 è stato - verosimilmente - chiamato il 29.10.2011 (sabato) per presenziare all’interrogatorio di quest’ultimo dinnanzi al procuratore pubblico, in seguito al suo arresto provvisorio la notte tra il 28 ed il 29.10.2011.
L’interrogatorio è iniziato alle ore 14.20 e si è concluso alle ore 18.45 (AI 5, inc. MP _). All’inizio di tale verbale RE 1 ha dichiarato di aver “
avuto l’opportunità di parlare 45 minuti con il mio difensore prima dell’inizio del presente verbale
” (verbale della persona arrestata 29.10.2011, p, 2, AI 5).
Il reclamante ha affermato di essere entrato nel carcere alle 13.20 e di esserne uscito alle 18.48 (reclamo 21.3.2012, p. 1).
Ora, vista la dichiarazione di cui sopra del patrocinato, nonché l’ora di inizio del verbale riportata agli atti, appare credibile che l’avv. PR 1 sia entrato in carcere alle 13.20, per iniziare il colloquio con il cliente tra le 13.25 e le 13.30 e terminarlo tra le 14.10 e le 14.15, prima dell’inizio del verbale stesso.
Un colloquio di 45 min, così come attestato da RE 1, appare peraltro adeguato alle circostanze specifiche.
Il tempo fatturabile dalle 13.20 alle 18.48 è quindi di h 5.46.
Nella nota d’onorario presentata dal reclamante risulta “
colloquio con cliente, VI c/o
Farera” per h 5.60, quindi h 0.14 in più rispetto a quanto calcolato sopra. L’avv. PR 1 precisa tuttavia, unicamente in questa sede, che le h 5.60 fatturate “
comprendevano (...) anche la chiamata dal Ministero pubblico
” (reclamo 21.3.2012, p. 1).
Anche tale aspetto appare credibile e il tempo di h 5.60 fatturato va pertanto riconosciuto così come postulato.
3.2.
Il reclamante contesta inoltre le decurtazioni effettuate dal procuratore pubblico in merito ai tempi di trasferta dal suo domicilio a _ al carcere della Farera da lui esposti nella nota d’onorario 27.2.2012. Il magistrato inquirente ha infatti affermato di ritenere eccessivo il tempo esposto di h 0.90 e l’ha ridotto di h 0.5 (decreto di tassazione 20.3.2012, p. 1, inc. DA _).
Ora, dalla documentazione allegata al reclamo, tre varianti di “
Indicazioni stradali per Via alla Stampa
”, risultano stimati tre tempi di percorrenza, di rispettivamente circa 27/30/31 min.
Prendendo il tempo di percorrenza minimo indicato nella prima variante, segnatamente 23.0 km per un tempo di circa 27 min (h 0.45), per il tragitto di andata e ritorno si ottiene un tempo di percorrenza totale di circa 54 min, ossia di h 0.90, così come fatturato nella nota professionale in questione.
L’onorario esposto dall’avv. PR 1 pari a h 0.90 per “
trasferta andata e ritorno domicilio - Farera
” appare quindi adeguato e va pertanto ammesso in maniera integrale.
3.3.
Si rileva, come già riportato sopra, che il reclamante non ha contestato le tariffe orarie applicate dal magistrato inquirente, così come pure la detrazione (./. h 0.30) dei costi legati alla stesura ed all’invio della nota professionale in questione (reclamo 21.3.2012).
3.4.
L’IVA esposta dall’avv. PR 1 nel suo reclamo 21.3.2012 (pari a CHF 283.80) non può inoltre essere riconosciuta, contrariamente a quanto stabilito dal procuratore pubblico, essendo RE 1 domiciliato all’estero [art. 8 cpv. 1 legge federale del 12.6.2009 concernente l’imposta sul valore aggiunto (LIVA); cfr. sentenza CRP 3.9.2008, inc. _].
3.5.
Da quanto sopra esposto vengono dunque riconosciuti CHF 3'162.10 di onorario e CHF 385.60 di spese, per un totale di CHF 3'547.70.
4.
Il gravame è parzialmente accolto. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Lo Stato della Repubblica e del Cantone Ticino rifonderà al reclamante CHF 100.-- a titolo di ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
c154ed77-f9c4-5b05-83df-bd7c2f06b3ea | in fatto ed in diritto
che il _, verso le ore 11:20, a _, presso il cantiere di _, un tubo di ferro della lunghezza di 1 metro e del diametro di 5 centimetri è caduto da un’altezza di circa 14 metri colpendo al capo l’operaio IS 1, provocandogli in particolare un forte trauma cranico e un ematoma epidurale con frattura parietotemporale (inc. MP _);
che di conseguenza il Ministero pubblico ha aperto, d’ufficio, un procedimento penale a carico di PI 2, montatore di ponteggi, per le ipotesi di reato di lesioni colpose e violazione delle regole dell’arte edilizia [essendo emerso dall’istruttoria che il tubo di metallo è rotolato sul ponteggio a seguito del movimento della camminata di quest’ultimo] sfociato nel decreto di non luogo a procedere 23.11.2010 emanato dall’allora sostituto procuratore pubblico Zaccaria Akbas (NLP _);
che avverso il suddetto decreto non è stata presentata un’istanza di promozione dell’accusa ex art. 186 cpv. 1 CPP TI all’allora Camera dei ricorsi penali;
che con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – l’avv. PR 1, in nome e per conto del suo assistito IS 1, chiede di ottenere gli atti di cui al surriferito incarto penale allo scopo di visionarli;
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha formulato osservazioni in merito all’istanza;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, essendo stato il qui istante parte al procedimento penale di cui all’incarto penale MP _ in qualità di parte lesa ai sensi del CPP TI;
che l
’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (quale parte lesa ai sensi del CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – nonostante abbia omesso di indicare i motivi che stanno alla base della sua richiesta come esatto dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dalla costante giurisprudenza di questa Corte – è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante ad ottenere l’autorizzazione a compulsare gli atti dell’incarto penale MP _ nel frattempo archiviato, poiché l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che di conseguenza questa Corte autorizza IS 1 rispettivamente il suo patrocinatore, avv. PR 1, ad esaminare e a fotocopiare presso il Ministero pubblico tutti gli atti dell’incarto penale MP _ sfociato nel decreto di non luogo a procedere 23.11.2010 (NLP _), concordando i tempi di accesso con il procuratore pubblico Zaccaria Akbas, compatibilmente con i suoi impegni;
che non si prelevano tassa di giustizia e spese, ritenuto che l’istante è già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato; | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c1925d22-dd1c-55f8-a8ca-ea1b38954792 | Con decreto d’accusa 3 aprile 2006 il procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di amministrazione infedele, per avere, a Contone, nel corso del mese di marzo 2005, mancando al proprio dovere, venduto a _, garagista di _, in cambio di 3 autovetture d’occasione e fr. 500
.–
in contanti l’automobile _ _ (n. di matricola _) di proprietà di PC 1 che gli era stata consegnata da _ affinché la vendesse al prezzo di fr. 9
000
.–.
In tal modo, secondo l’ipotesi accusatoria, RI 1 ha assunto il rischio di non potere far fronte all’impegno preso di versare a PC 1 l’importo richiesto e pattuito, ritenuto che l’accusato non ha versato alcunché alla proprietaria dell’auto, né è stato in grado di restituirgliela, cagionandole in tal modo (almeno temporaneamente) un danno al patrimonio, ritenuto altresì che il veicolo in questione è stato sequestrato, in data 3 giugno 2005, presso il garage di _.
Il Procuratore pubblico ha, inoltre, ritenuto RI 1 autore colpevole di lesioni semplici per avere, il 27 dicembre 2005, a _, presso i magazzini della ditta _ spintonato ripetutamente e colpito al viso con una spranga di ferro _ nonché autore colpevole di ingiuria per averlo, nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, tacciato di “ladro” e di “vecchio bastardo”.
In applicazione della pena, il procuratore pubblico ha proposto la condanna dell’accusato alla pena di 45 giorni di detenzione
, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni,
nonché al pagamento della tassa e spese giudiziarie per complessivi
fr. 200.–.
Il magistrato d’accusa ha, inoltre, proposto la
confisca dell’automobile _ _ (con licenza di circolazione e chiave di avviamento) che dovrà poi essere restituita alla parte civile PC 1.
RI 1 ha sollevato opposizione
a
l decreto di accusa.
B.
Al dibattimento, l’accusato e la parte civile _ hanno comunicato di avere raggiunto un accordo per quanto concerne i reati di lesioni semplici e ingiuria, con il conseguente ritiro della querela penale. La patrocinatrice della parte civile PC 1 ha, per contro, postulato l’assegnazione di quanto confiscato e la rifusione di fr. 4
000
.–
, più interessi al 5% dal 31 marzo 2005 su fr. 9
000
.–
a valere come deprezzamento del veicolo nonché fr. 1
500
.–
per spese legali.
C.
Con sentenza 28 settembre 2007, il presidente della Pretura penale – stralciate le imputazioni di lesioni semplici e ingiuria per avvenuto ritiro della querela – ha dichiarato RI 1 autore colpevole di amministrazione infedele.
Il giudice ha, quindi, condannato RI 1 alla pena pecuniaria
di 30 aliquote giornaliere di fr. 80
.– cadauna per un totale di
fr. 2
400.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, nonché al pagamento di una multa di fr. 700.–
che, in caso di mancato versamento, dovrà essere commutata in una pena detentiva di 7 giorni.
Con la confisca di tutti gli oggetti sequestrati e la loro assegnazione alla parte civile, il presidente della Pretura penale ha, infine, condannato RI 1 a pagare alla parte civile PC 1 fr. 4
000
.–
oltre a interessi al 5% dal 28 settembre 2007 quale deprezzamento del veicolo e fr. 1
500
.–
per spese legali.
Le tasse e le spese giudiziarie di complessivi fr. 890
.–
sono state poste a carico dell’accusato.
D.
Contro la sentenza, RI 1 ha introdotto il 2 ottobre 2007 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta, presentata il 5 novembre 2007, egli postula, con l’annullamento della sentenza impugnata, il suo proscioglimento.
Con osservazioni 27 novembre 2007 e 4 dicembre 2007 il procuratore pubblico, rispettivamente la parte civile PC 1, propongono di respingere il ricorso.
E.
Con scritto 25 febbraio 2008 _ chiede che l’autovettura della figlia venga dissequestrata al più presto.
Con scritto 1° aprile 2008, RI 1 ha dichiarato di non opporsi al dissequestro dell’auto. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
Il presidente della Pretura penale ha accertato che, nei primi giorni del mese di marzo del 2005, RI 1 ha ricevuto in consegna da _, titolare del Garage _ a _, una vettura marca _ (numero di matricola ) di proprietà di PC 1, affinché la vendesse al prezzo di fr. 9
000
.–
.
In seguito – sempre secondo gli accertamenti del primo giudice - RI 1 ha venduto il veicolo a _, concessionario _ di _, in cambio di tre autovetture cui sono stati aggiunti, in un secondo tempo, fr. 500
.–
.
RI 1, nonostante l’impegno assunto, non ha versato a _ l’importo pattuito di fr. 9
000
.–
, né è stato in grado di restituire la vettura che, nel frattempo, era stata intestata a _.
Secondo il primo giudice, l’accusato avrebbe dovuto agire facendo gli “
interessi finanziari
” della proprietaria dell’auto, in conformità alle istruzioni ricevute dallo stesso _. RI 1, invece, ha disatteso tali istruzioni permutando l’auto di PC 1 con altre tre automobili (oltre a fr. 500
.– versati in seguito) senza corrispondere l’importo pattuito di fr. 9
000.–.
Quindi, nella misura in cui l’accusato non ha versato alcunché a PC 1 quale controprestazione per la vettura né è stato in grado di restituirgliela, la violazione degli accordi presi ha causato un danno, seppure
“temporaneo”
, al patrimonio di quest’ultima.
Sempre secondo il primo giudice, optando per la permuta invece che per un pagamento in contanti, RI 1 ha violato gli accordi presi con _ non potendo – ha precisato il presidente della Pretura penale – “
escludere di non poter consegnare la somma richiesta
” e, quindi, non potendo scongiurare il verificarsi di un pregiudizio.
L’imputato ha sottovalutato i problemi connessi alla vendita delle tre autovetture (di cui non si è riusciti a capire, nemmeno in termini approssimativi, il valore) che, per di più, gli erano state consegnate da una persona con cui non aveva mai, prima d’allora, intrattenuto relazioni d’affari.
Pur non volendo causare il danno – ha concluso il primo giudice – RI 1, assumendo il rischio di non potere far fronte all’impegno preso, ha accettato, per dolo eventuale, l’eventualità che il danno si realizzasse (sentenza, pag. 3-7 consid. 1-7).
3.
Il ricorrente sostiene che il primo giudice non ha considerato nell’accertamento dei fatti le sue
“difficoltà d’espressione”
, la sua tendenza ad assumersi delle responsabilità che non gli incombevano e non avrebbe valutato nel loro complesso le dichiarazioni delle parti interessate, in particolare quelle di _ che aveva interesse a liberarsi da ogni responsabilità nei confronti di PC 1.
Il ricorrente rimprovera, inoltre, al primo giudice di non avere accertato correttamente il tenore dell’accordo intervenuto fra lui e _ (ricorso, pag. 2-12)
4.
Al di là della nebulosa ricostruzione della vicenda e della non sempre facile comprensione del confuso e, per certi versi, lacunoso esposto ricorsuale, va comunque evidenziato che alcuni aspetti della vicenda avrebbero dovuto e potuto essere meglio ricostruiti, dagli inquirenti, prima, e dal primo giudice, poi, soprattutto, come vedremo, in funzione del reato di appropriazione indebita inizialmente prospettato (insieme ad altri) a RI 1.
Ad ogni modo, i fatti accertati dal primo giudice sui quali è stata costruita l’imputazione di amministrazione infedele sono i seguenti.
a)
RI 1 ha ricevuto in consegna da _ l’auto _ di proprietà di PC 1 affinché la vendesse a
fr. 9
000
.–. L’imputato l’ha invece venduta a _ ricevendo quale corrispettivo fr. 500.– e tre auto usate.
Nonostante le reiterate promesse di pagamento, RI 1 non ha versato a PC 1 i fr 9
000.– concordati, né è stato possibile recuperare l’auto in quanto, nel frattempo, era stata immatricolata a nome di _.
Il presidente della Pretura penale ha, quindi, confermato
la tesi del procuratore pubblico che ha ritenuto realizzato il reato di amministrazione infedele per avere RI 1 disatteso gli accordi presi con _, ossia per avere optato per la permuta (con tre veicoli e fr. 500.–) invece della concordata vendita con pagamento in contanti, assumendosi per finire
il rischio di non potere realizzare, com’è effettivamente avvenuto, le auto consegnategli.
b)
In relazione all’inchiesta che si è conclusa con l’accusa di amministrazione infedele, va evidenziato quanto segue.
Dagli atti emergono due discordanti versioni. Quella di RI 1 secondo cui egli avrebbe ricevuto da _ tre auto e fr. 500
.– (“
il tutto doveva così coprire la somma che dovevo versare a _
verbale RI 1 28 giugno 2005 pag. 2) e quella di _ secondo cui, invece, lui avrebbe, in pagamento della _, versato all’imputato fr. 7
000.– (senza nessuna pezza giustificativa) in aggiunta alla consegna dei tre veicoli (verbale del 30 giugno 2005 di _).
Queste versioni sono state ribadite anche nei rispettivi interrogatori effettuati nell’ambito del procedimento avviato a seguito della denuncia per truffa presentata da RI 1 nei confronti di _.
Oltre all’approssimativa indicazione della destinazione delle auto date in permuta, dai vari interrogatori è pure emerso che _ avrebbe, in aggiunta a quanto sopra, versato a RI 1 ulteriori fr. 500.– (v. allegati act. 21 MP). Interrogato dalla segretaria giudiziaria il 17 novembre 2005, _, oltre a confermare la sua versione dei fatti, si è detto disposto a fornire la prova contabile del versamento a RI 1 dei fr. 7
500.– (act. 13 MP, pag. 2 in fondo, pag. 3).
Tuttavia, delle pezze contabili alla cui produzione _ si era dichiarato pronto a depositare agli atti non c’è traccia.
Nemmeno c’è traccia di richieste in tal senso degli inquirenti.
Nemmeno il primo giudice ha chiesto nulla al proposito.
Pertanto, forza è constatare che le dichiarazioni di _ sono rimaste semplici allegazioni di parte non bastando al loro pieno sostegno, una ricevuta di prelevamento di fr. 7
500.– dal conto corrente bancario di _ per dimostrare che quei soldi sono andati davvero a RI 1, atteso, in particolare, che il pagamento dei fr. 7
500 sarebbe avvenuto in due fasi.
c)
Quindi, la prova che avrebbe, se del caso, permesso la condanna di RI 1 per appropriazione indebita, reato per cui era stata promossa l’accusa (AI 5), non è stata raccolta.
Per quanto riguarda la destinazione dell’importo di fr. 500.– che l’imputato ha ammesso di avere ricevuto da _, _ ha dichiarato di non averlo accettato, sebbene offertogli da RI 1, in quanto egli esigeva il versamento dell’intero importo di fr. 9
000.– (verbale _, 1 dicembre 2005, act. 15 MP pag. 3; sentenza pag. 3 consid. 1).
Nemmeno è stato, per finire, appurato se tale importo è stato offerto direttamente anche al padre della parte civile (verbale _ 1 dicembre 2005, act. 16 MP pag. 2).
Pertanto risulta altamente improbabile che un eventuale rinvio dell’incarto al primo giudice - perché proceda alla prospettazione della nuova imputazione al prevenuto (di appropriazione indebita) ed all’assunzione di nuove prove - dia risultati diversi da quelli fin qui ottenuti.
Le parti confermerebbero verosimilmente quanto già dichiarato.
Del resto, le tre auto date in permuta non sono più reperibili, essendo state da subito piazzate qua e là, ritornate a _ o regalate a terze persone (sconcertante è constatare come nemmeno si sia riusciti ad accertare la marca delle vetture, il loro valore approssimativo e la loro destinazione ultima; cfr. verbali di interrogatorio sub act. 21 MP; sentenza, pag. 7 consid. 7).
L’esame di questi veicoli avrebbe potuto dare maggiori indicazioni sul loro valore, ciò che avrebbe permesso di verificare se la tesi dell’imputato poteva reggere, ossia se il valore delle auto (unitamente ai fr. 500.–) raggiungeva approssimativamente l’importo di fr. 9
000.–.
Se ciò non fosse stato, ovvero se le auto avessero avuto un valore complessivo nettamente inferiore, la tesi di _ (quella del versamento di fr. 7
500.– a RI 1 e la conseguente sua indebita appropriazione dell’importo) avrebbe preso corpo, risultando per finire sufficienti gli elementi per condannare l’imputato per appropriazione indebita.
Va da sé, infatti, che, se ciò fosse stato, la tesi dell’imputato secondo cui aveva permutato la vettura di PC 1 (dal valore venale compreso tra fr. 9
000.– e 11
000.–; cfr. verbale 1. dicembre 2005 di _, act. 15 MP pag. 3) con tre auto di valore nettamente inferiore e fr. 500.–, non sarebbe stata credibile poiché si sarebbe trattato di un atto di autolesionismo commerciale.
Se si fosse accertato lo scenario disegnato da _ si sarebbe potuto ipotizzare – stante la conclusione di un contratto estimatorio (“
Trödelvertrag
”) secondo cui una persona consegna ad un’altra merce che venderà a suo nome e per suo conto (o acquisterà personalmente) con l’obbligo di versare il prezzo pattuito oppure di restituire la mercanzia (
Pierre Tercier,
Les contrats spéciaux, 3a ed., Zurigo 2003, § 92 N. 6937 segg) – un’appropriazione indebita da parte di RI 1 (che doveva o restituire l’auto oppure corrispondere a PC 1 il prezzo concordato) del prezzo pagato da _.
Infatti, il Tribunale federale – in merito ad un contratto estimatorio – ha ritenuto che la merce data in consegna e, fino a concorrenza del prezzo di stima, il ricavo della vendita di tale merce sono “affidati” al consegnatario ai sensi dell’art. 138 cifra 1 CP (art. 140 cifra 1 vCP; DTF 75 IV 11;
Marcel A. Niggli/C. Riedo,
in: Basler Kommentar, StGB II, edizione 2007, n. 20 ad art. 138 CP;
Günter Stratenwerth/Guido Jenny
, Schweizerisches Strafrecht, Besonderer Teil I, Straftaten gegen Individualinteressen, 6a edizione, Berna 2003,
§ 13 n. 51).
Tuttavia, come visto, l’istruttoria non è riuscita ad accertare nulla di tutto ciò.
L’ipotesi di appropriazione indebita, quindi, cade.
d)
Nemmeno, però, sono dati i presupposti del reato di amministrazione infedele su cui, non avendo accertato l’avvenuto pagamento di fr. 7500
.-
da parte di _ a RI 1, l’accusa sembra avere ripiegato.
Commette amministrazione infedele chi, obbligato per legge, mandato ufficiale o negozio giuridico ad amministrare il patrimonio altrui o a sorvegliarne la gestione, mancando al proprio dovere, lo danneggia o permette che ciò avvenga.
La pena è la detenzione sino a tre anni o una pena pecuniaria (art. 158 n. 1 cpv. 1 CP).
Il reato presuppone, tra l’altro, che l’autore agisca intenzionalmente o con dolo eventuale (DTF 129 IV 124;
Marcel A. Niggli,
op. cit., n. 115-116 ad art. 158 CP;
Günter Stratenwerth/Guido Jenny
, op. cit., § 19 n. 18;
Bernard Corboz
, Les infractions en droit suisse, Basilea 2002, vol.
I, n. 13 ad art. 158 CP;
Stefan
Trechsel
, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskom-mentar, San Gallo 2008, n. 14 ad art. 158 CP).
L’art. 158 CP punisce l’uso infedele di un potere di amministrazione o di sorveglianza: si parla di “
Treubruch
” da parte di chi ricopre una “
Garantenstellung
”, ovvero una funzione di gerente.
Punita è la violazione intenzionale dei doveri di amministrare e di sorvegliare che derivano dalla legge, da un mandato ufficiale o da un negozio giuridico (
Mauro Mini
, La legge sull’esercizio delle professioni di fiduciario, 2002, p. 225 e 226 e riferimenti).
Gerente ai sensi della norma è chi dispone di sufficiente indipendenza e di un potere di amministrazione autonomo sul patrimonio affidatogli (DTF 129 IV 124 consid.
3.1 pag. 126,
123 IV 17
consid. 3b pag. 21,
120 IV 190
consid. 2b pag. 192).
Questo potere può manifestarsi sia concludendo un atto giuridico (o difendendo interessi patrimoniali) sia compiendo atti materiali (DTF 123 IV 17 consid. 3b pag. 21).
Gli obblighi di amministrare e sorvegliare richiedono l’adempimento di atti tendenti alla tutela degli interessi patrimoniali altrui (
Mauro Mini,
op. cit., pag. 227 e riferimenti).
e)
Prima di procedere a valutare se il ricorrente può essere ritenuto un gerente ai sensi dell’art. 158 CP, ossia prima di verificarne l’ indipendenza e autonomia nell’amministrazione del patrimonio affidatogli (
in casu
l’automobile), è utile definire lo scopo che l’operazione doveva avere per le parti implicate.
Dagli atti emerge in modo incontrovertibile che le istruzioni date all’imputato erano quelle di vendere l’auto per conto di PC 1 che voleva ricevere, in cambio, fr. 9
000
.–. Tutto quanto avrebbe ricevuto in più, sarebbe pertoccato all’imputato che aveva accettato proprio
“per fare un affare”
(verbale del 28 giugno 2005 di RI 1, allegato act. 5 MP pag. 2 in alto) e non, semplicemente, per fare un favore a _ o a PC 1.
Quindi, l’imputato ha accettato di tenere la vettura sul suo piazzale e trattarne la vendita per trarne un profitto, e ciò era chiaro a tutti sin dall’inizio. Ora, questo suo proponimento mal si concilia con il reato di amministrazione infedele, dove, secondo la norma, sin dal principio il gerente deve amministrare o sorvegliare facendo
esclusivamente
gli interessi
altrui
. E normalmente è pagato per questo, non dipendendo il suo corrispettivo – come nella fattispecie – dall’esito di una compravendita o da un atto per il quale egli stesso guadagnerebbe. Di conseguenza, visto che il buon esito dell’operazione era auspicato anche da RI 1, e non esclusivamente da PC 1, già solo per questo motivo non si può imputare a RI 1 il reato di amministrazione infedele.
Inoltre, il gerente assume dei compiti che per la loro ampiezza, natura e durata si estendono al di là di particolari affari
(Christian Favre/Marc Pellet/Patrick Stoudmann,
Code pénal annoté, nota 1.2 pag. 421)
. Nel caso di specie RI 1 è stato chiamato a svolgere una sola operazione di vendita, senza che questa implicasse né specifici atti di amministrazione né una durata particolare. Con la vendita dell’auto e il versamento alla proprietaria di fr. 9
000.–, il suo compito sarebbe stato adempiuto.
Anche quest’aspetto, quindi, depone contro il realizzarsi del reato di amministrazione infedele.
f)
Dal profilo soggettivo, il giudice ha ritenuto che RI 1 si è reso autore colpevole di amministrazione infedele per dolo eventuale.
Nemmeno questa valutazione può essere condivisa.
Come visto in precedenza il ricorrente ha accettato di vendere l’auto per trarne un beneficio personale.
Ora, è difficile sostenere con autorevolezza che con la permuta egli avrebbe accettato il rischio di danneggiare per dolo eventuale il patrimonio di PC 1 (“
p
ur non volendo causare il danno egli, assumendo il rischio di non poter far fronte all’impegno preso, ha accettato l’eventualità di una sua realizzazione
”; sentenza, pag. 7 consid. 7)
poiché questo equivale a
sostenere che RI 1 ha accettato per sé il rischio di (eventualmente) non trarre profitto alcuno dalla operazione.
In realtà, ben più verosimile è la tesi secondo cui, se RI 1 non fosse stato ragionevolmente certo che il valore delle autovetture ricevute in permuta gli avrebbe permesso, non soltanto di versare i fr. 9
000.– a PC 1, ma anche di trarre
dall’operazione un congruo profitto per sé, non avrebbe concluso l’affare.
Va, qui, rilevato che la giurisprudenza ammette con riserbo, nell’amministrazione infedele, il dolo eventuale. Questo deve infatti essere nettamente e rigorosamente circostanziato in ragione della genericità degli elementi oggettivi costitutivi del reato di amministrazione infedele (DTF 123 IV 17 consid.
3e pag. 23, 120 IV 190 consid. 2b pag. 193;
Marcel A. Niggli,
op. cit., n. 115-116 ad art. 158 CP;
Bernard Corboz
, op. cit., n. 13 ad art. 158 CP).
Perciò, anche dal punto di vista soggettivo, seri dubbi sul dolo dell’imputato non permetterebbero comunque, anche facendo astrazione dalle considerazioni di cui ai punti precedenti, di confermare la condanna per amministrazione infedele.
La responsabilità del ricorrente, stando così i fatti accertati, deve essere definita unicamente in sede civile.
5.
Da quanto precede discende che, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va annullata e il ricorrente prosciolto dalla imputazione di amministrazione infedele.
Le spese di prima sede vanno a carico dello Stato.
Gli oneri processuali di questa sede seguono la soccombenza. Essi sono posti a carico dello Stato (art. 15 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) che rifonderà al ricorrente fr. 1
500.– per ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c19e73d9-2b21-55c4-aeb3-92c911b458f8 | in fatto ed in diritto
1.
Il 18.06.2010 la Corte delle assise criminali ha, tra gli altri imputati, dichiarato IS 1 autore colpevole di riciclaggio di denaro aggravato, siccome commesso per mestiere, e di ripetuta falsità in documenti e lo ha condannato alla pena detentiva di tre anni, da dedursi il carcere preventivo sofferto, parzialmente sospesa in ragione di ventitré mesi, con un periodo di prova di due anni. Lo ha inoltre condannato a versare, in solido con un coimputato, un’indennità alla parte civile _, quale risarcimento del danno materiale e rifusione delle spese legali (inc. TPC _).
Con sentenza 18.04.2011 la Corte di appello e di revisione penale, sedente giusta l’art. 453 CPP quale Corte di cassazione e di revisione penale (di seguito CARP), ha (tra l’altro) parzialmente accolto il ricorso di IS 1 contro il giudizio di prime cure. Ha derubricato il reato di riciclaggio di denaro aggravato in semplice, non essendo dati i presupposti del mestiere. Ha quindi ridotto la pena a due anni e sei mesi, da dedursi il carcere preventivo sofferto, sospesa condizionalmente in ragione di diciassette mesi, con un periodo di prova di due anni. Ha inoltre condannato IS 1, in solido con un altro coimputato, a versare alla parte civile _ un’indennità quale rifusione delle spese legali.
Con sentenza 16.03.2012 il Tribunale federale ha dichiarato inammissibile il ricorso in materia penale presentato da un altro coimputato (decisione TF _ del 16.03.2012).
La sentenza 18.04.2011 della CARP è passata in giudicato il 16.03.2012.
2.
In data 23.06.2014 questa Corte ha accolto la richiesta 6.06.2014 di IS 1 volta ad ottenere la trasmissione, in originale, della sentenza 18.06.2010, poiché egli ne avrebbe avuto bisogno nell’ambito della domanda di revisione relativa a un processo tenutosi in _ riguardante la medesima fattispecie di cui alla postulata decisione (inc. TPC _) [inc. CRP _].
3.
Con la presente istanza IS 1 postula (nuovamente) il rilascio di una copia autentica della sentenza _ (inc. _), senza però precisare i motivi alla base della sua richiesta.
Questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti al procedimento penale di cui all’incarto TPC _ nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di imputato) al medesimo.
4.
4.1.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.2.
Nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di imputato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo.
C
ome ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10).
Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
5.
Nella fattispecie in esame – nonostante abbia omesso di precisare i motivi che stanno alla base della sua richiesta come esatto dalla costante giurisprudenza di questa Corte – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia conforme all’originale, della sentenza di condanna 18.06.2010 (inc. TPC _), poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte.
A ciò aggiungasi che egli nella sua precedente istanza aveva indicato di necessitare della surriferita decisione nell’ambito della domanda di revisione relativa a un processo tenutosi a _ riguardante la medesima fattispecie di cui alla sentenza 18.06.2010 (inc. TPC _).
Di conseguenza la sentenza richiesta viene consegnata brevi manu, in copia conforme all’originale, al padre del qui istante (come postulato), unitamente alla presente decisione.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo il qui istante già stato parte al procedimento penale di cui all’incarto TPC _ nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c2a0e48a-01d7-5c31-884a-f14a14ff5a53 | in fatto ed in diritto
1.
Presso la IS 1 è pendente una procedura civile ordinaria promossa il 26.8.2008 da PI 2 (patr. da: Studio legale PR 1, _) contro PI 3 (patr. da: avv. PR 2, _) (inc. _).
In data 10.2.2011 il Pretore aggiunto della IS 1, richiamando il verbale di udienza 6.5.2009 e in applicazione dell’art. 215 CPC TI, ha invitato la Polizia cantonale di _ a trasmettergli
"
tutti i verbali e la documentazione inerente ai vari interventi eseguiti presso le proprietà dei signori PI 3 e/o PI 2 a _, che hanno coinvolto entrambi i proprietari
"
(cfr. richiamo documenti 10.2.2011, inc. _, doc. 1.a).
2.
La predetta istanza è stata inviata dal Pretore aggiunto direttamente alla Polizia cantonale, che l’ha trasmessa al Ministero pubblico, che – per il tramite del procuratore pubblico Andrea Pagani – in data 28.2.2011 (unitamente a diversa documentazione) l’ha a sua volta trasmessa, per competenza, a questa Corte.
In data 15/18.4.2011, su richiesta 24.3.2011 di questa Corte, il Pretore Luca Losa – a completazione dell’istanza 10/28.2.2011 – ha inviato uno scritto datato 12.4.2011 dell’avv. _ (patrocinatore di PI 2, parte attrice nell’ambito del procedimento civile di cui all’incarto _), il quale ha precisato il richiamo dei seguenti documenti:
- NLP _: rapporto di segnalazione della Polizia cantonale 24.10.2008;
- inc. _ (NLP _): scritto 20.10.2008 di _ al Ministero pubblico;
- inc. _ (NLP _): scritti 28.2.2008 e 29.2.2008 di PI 2 alla Polizia di _;
- NLP _ e _: rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 26.10.2009;
- NLP _: rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 11.11.2008 e fotografie allegate (veicolo, escavatore e sasso ostacolanti la strada);
- NLP _: rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 19.1.2009.
L’avv. _ ha inoltre richiamato
"
(...) dalla Polizia intercomunale di _ e dalla Polizia Cantonale tutti i verbali e la documentazione inerente ai vari interventi eseguiti presso le proprietà dei signori PI 3 e/o PI 2 a _, che hanno coinvolto entrambi i proprietari durante l’anno 2008 e che non sono sfociati in reciproche denunce o querele
"
(scritto 12.4.2011, p. 2, doc. 3.a).
3.
Con scritto 29.4.2011 il procuratore pubblico ha in particolare segnalato di non avere alcuna osservazione da formulare in merito alla suddetta richiesta, precisando tuttavia che non vi è alcuna traccia degli scritti 28.2.2008 e 29.2.2008 di cui all’incarto sfociato nel NLP _, che peraltro è stato aperto l’8.10.2009 (doc. 5).
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.1.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente. Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
6.
6.1.
Giova anzitutto rilevare che presso il Ministero pubblico risultano numerosi procedimenti penali inerenti a PI 2, al di lei marito _ e a PI 3, che sono vicini di casa e che da diversi anni hanno problemi di vicinato.
Ciò posto, nella fattispecie in esame può sussistere una connessione tra la causa civile ordinaria di cui all’incarto _ e la documentazione richiamata, considerato che le parti del procedimento civile di cui all’incarto _ corrispondono in sostanza a quelle dei procedimenti penali richiamati.
È quindi, di principio, adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza i seguenti documenti vengono trasmessi, in copia, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, segnatamente:
- rapporto di segnalazione 24.10.2008 (3 pagine);
- scritto 20.10.2008 di PI 3 e _ al Ministero pubblico (5 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 26.10.2009 (32 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 11.11.2008 (con allegate tre fotografie) (12 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 19.1.2009 (10 pagine).
6.2.
Per quanto concerne gli scritti 28.2.2008 e 29.2.2008 di PI 2 alla Polizia di _ il procuratore pubblico ha precisato che degli stessi non vi è alcuna traccia nell’incarto sfociato nel NLP _, segnalando parimenti che il procedimento penale è stato aperto soltanto l’8.10.2009. Questa Corte non può di conseguenza dare seguito alla richiesta.
6.3.
Circa il postulato richiamo
"
(...) dalla Polizia intercomunale di _ e dalla Polizia Cantonale
"
dei verbali e della
"
(...) documentazione inerente ai vari interventi eseguiti presso le proprietà dei signori PI 3 e/o PI 2 a _, che hanno coinvolto entrambi i proprietari durante l’anno 2008 e che non sono sfociati in reciproche denunce o querele
"
(scritto 12.4.2011, p. 2, doc. 3.a) vengono trasmessi, sempre in copia, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione i rapporti d’inchiesta di polizia giudiziaria riguardanti l’anno 2008 consegnatici dal procuratore pubblico, ossia:
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 22.5.2008 (8 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 12.7.2008 (11 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 30.8.2008 (15 pagine);
- rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 11.11.2008 (8 pagine).
7.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c33d6f53-bddf-54fc-8ecc-b236b8136d92 | in fatto: A.
Con sentenza del 3 dicembre 2003 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha riconosciuto _, _ e _ autori colpevoli di ripetuta truffa, consumata, mancata e tentata, e di ripetuta falsità in documenti. Ha inoltre riconosciuto _ colpevole di ripetuta infrazione alla legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri. Per quanto riguarda _, egli ha tra l'altro accertato che tra febbraio del 2001 e gennaio del 2003 il soggetto ha ripetutamente ingannato o tentato di ingannare con astuzia funzionari di banca, aprendo sotto false generalità, conti bancari, sapendo o comunque prendendo in considerazione e accettando che su queste relazioni i suoi correi avrebbero fatto confluire importi di denaro di provenienza illecita, segnatamente mediante ordini di bonifico rubati e falsificati, inducendolo in tal modo tali funzionari ad atti pregiudizievoli al patrimonio proprio e altrui. In applicazione della pena, la prima Corte ha condannato _ e _ a 11 mesi di detenzione e all'espulsione dalla Svizzera per un periodo di tre anni, e _ a 14 mesi di detenzione, a valere parzialmente quale pena addizionale a quella di 15 mesi di detenzione inflittagli il 14 dicembre 2001 dal Kreisgericht _, e all'espulsione dalla Svizzera per un periodo d tre anni. Computato a tutti i condannati il carcere preventivo sofferto, essa ha sospeso condizionalmente per tre anni sia la pena privativa della libertà sia la pena accessoria dell'espulsione inflitte a _ e _ e la pena accessoria dell'espulsione inflitta ad _.
B.
Contro la sentenza di assise _ ha inoltrato il 4 dicembre 2003 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 12 gennaio successivo, egli chiede di essere riconosciuto come complice (e non come correo) in ripetuta truffa consumata e tentata e in ripetuta falsità in documenti limitatamente a una sola parte delle fattispecie prospettate nell'atto di accusa e di essere condannato alla pena di 4 mesi di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, a valere quale pena parzialmente addizionale a quella di 15 mesi di detenzione inflittagli il 14 dicembre 2001 dal Kreisgericht _, senza revocare la sospensione condizionale relativa a quest'ultima, e all'espulsione dalla Svizzera per tre anni, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni. Avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 290 cpv. 2 CPP, egli chiede al presidente della Corte di cassazione e di revisione penale la libertà provvisoria.
C.
Con osservazioni del 3 febbraio 2004 il Procuratore pubblico ha chiesto sia la reiezione del ricorso, sia la reiezione della domanda di libertà provvisoria. | Considerando
in diritto: 1.
L'art. 290 cpv. 1 CPP stabilisce che il ricorso da parte dell'accusato sospende l'esecuzione della sentenza, salvo contraria dichiarazione dell'accusato stesso. _, che ha presentato ricorso per cassazione contro la sentenza di assise e istanza di libertà provvisoria al presidente della Corte di cassazione e di revisione penale (art. 290 cpv. 2 CPP), si trova dunque in detenzione preventiva. Ora, secondo l'art. 95 cpv. 2 CPP l'accusato, durante il procedimento, "può essere arrestato se esistono a suo carico gravi e contrari indizi di colpabilità per un crimine o un delitto ed in presenza di preminenti motivi di interesse pubblico, quali il pericolo di fuga, i bisogni di istruzione, il pericolo di recidiva".
Oltre a ciò, l'imputato deve essere messo in libertà quando lo scopo dell'arresto può essere raggiunto con altre misure coercitive, atte in particolare a garantire che si presenterà in qualsiasi tempo all'autorità competente per il compimento degli atti processuali o per scontare la pena o per l'esecuzione di una misura di sicurezza (art. 107 cpv. 2 CPP).
2.
In concreto i gravi indizi di colpevolezza cui si riferisce l'art. 95 CPP sussistono, ove appena si consideri che l'istante ha già subito un regolare processo ed è stato riconosciuto coautore con terzi di ripetuta truffa consumata, mancata e tentata e ripetuta falsità in documenti, con conseguente condanna a una pena privativa della libertà di complessivi 29 mesi da espiare. Certo, tale sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal condannato, che ha preteso di avere svolto nella vicenda penale un ruolo ben più contenuto rispetto a quanto accertato dal primo giudice. Il giudizio impugnato non denota però vizi tanto evidenti da far apparire il gravame manifestamente fondato. L'esito del ricorso deve perciò formare oggetto, in altri termini, di attenta disamina. Da vagliare rimangono a questo punto i preminenti motivi di interesse pubblico a sostegno della carcerazione preventiva, in specie il pericolo di fuga e il pericolo di fuga, ipotesi queste ritenute inverosimili da parte dell'istante, che non si oppone comunque al deposito dei suoi documenti di legittimazione come misura sostitutiva.
a)
Per ammettere un pericolo di fuga si deve ritenere con una certa probabilità che l'imputato, una volta liberato provvisoriamente, si sottrarrà al procedimento penale o all'esecuzione della pena. L'apprezzamento circa il grado di probabilità dipende dalle circostanze del caso (DTF 117 Ia 69 consid. 4a con richiami). A tale riguardo entrano in linea di conto il carattere del soggetto, la sua reputazione, l'esistenza di un domicilio fisso in Svizzera, la professione, i legami familiari, le relazioni economiche e la durata della pena comminata dalla legge per il reato in causa (
Piquerez
, Procédure pénale suisse, Zurigo 2000, n. 2340, 2341 e 2342 con riferimenti; CCRP, decreto del 23 dicembre 1997 in re B.).
b)
Già si è visto _ è stato condannato dal presidente della Corte delle assise correzionali a complessivi 29 mesi di detenzione da espiare. Fosse confermato tale giudizio, egli non potrebbe essere liberato condizionalmente prima di avere scontato 2/3, ovvero - stando agli atti - non prima del 15 dicembre 2004. La sua libertà non può perciò essere considerata prossima, ma neppure cosi lontana da rendere verosimile un concreto rischio di fuga per sottrarsi all'espiazione della pena residua, ove si consideri che non risulta che nelle precedenti occasioni il soggetto abbia cercato di sottrarsi ai procedimenti penali aperti nei suoi confronti, dandosi alla latitanza. Non va poi trascurato che l'istante si trova in Svizzera da diversi anni e, in particolare, che egli è sposato con una cittadina svizzera (ticinese) dal 1997, ciò che attenua ulteriormente la prospettiva del concreto rischio di fuga dalla Svizzera, ove per l'appunto egli si e durevolmente stabilito. Rimane da vagliare il pericolo di recidiva, ritenuto dal Procuratore pubblico reale (v. osservazioni al ricorso, pag. 2). Se non che, considerati i criteri motto rigorosi e restrittivi che permettono di giustificare la detenzione preventiva con il pericolo di recidiva (v. CRP, sentenza del 23 luglio 2003 in re X. consid. 4.3), il solo fatto che il ricorrente abbia delinquito sia mentre era in attesa del dibattimento nel Canton _, sia dopo l'emanazione della relativa sentenza di condanna a 15 mesi di detenzione, non consente ancora di ritenere probabile l'ipotesi della commissione di analoghi crimini da parte dell'istante durante la libertà provvisoria, specie se si considera che nel frattempo egli ha pur sempre trascorso altri 8-9 mesi di carcere, ciò che verosimilmente lo ha spinto a riflettere sulla sua condotta.
3.
Da quanto precede discende che l'istanza deve essere accolta e che l'istante deve pertanto essere posto in libertà provvisoria, non prima però di avere depositato il proprio passaporto, rispettivamente ogni documento di legittimazione che gli consenta di varcare il confine (art. 96 CPP), provvedimento questo al quale peraltro lo stesso interessato non si oppone.
4.
Non si riscuotono spese e non si assegnano ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c38a2cf5-f354-5196-a008-f2aeefd07188 | in fatto: A.
Nelle prime ore del 31 agosto 1993 la direttrice e la vicedirettrice dell'Ostello della gioventù di F_ sono state svegliate dalle grida di una donna che implorava loro di chiamare la polizia, affermando di essere stata abusata da due o tre uomini. Raccolte le dichiarazioni di lei, gli agenti l'hanno sottoposta a prova etanografica, che ha dato un tasso alcolemico del 2.05 per mille. Constatato altresì ch'essa aveva precedenti per guida in stato di ebrietà, gli agenti l'hanno così riaccompagnata a casa, invitandola a tornare in polizia dopo essersi riposata. Presentatasi l'indomani in gendarmeria, la donna è stata condotta all'Ospedale civico di Lugano. La visita medica ha confortato la presunta violenza carnale. Le informazioni della donna hanno poi condotto all'arresto dei cittadini portoghesi _ T_ e _ S_, mentre un terzo soggetto, il cittadino portoghese RI 1, è sfuggito al fermo, essendo riparato precipitosamente all'estero. Nei suoi confronti il Procuratore pubblico ha emanato il 2 settembre 1993 un ordine di arresto internazionale.
B.
Con sentenza del 7 aprile 1994 la Corte delle assise criminali in Lugano ha riconosciuto _ T_ e _ S_ autori colpevoli di violenza carnale e coazione sessuale aggravate (siccome commesse collettivamente) per avere, in correità con terzi, costretto la denunciante, resa inetta a resistere, a subire la congiunzione carnale o altri atti sessuali nella notte fra il 30 e il 31 agosto 1993 a C_, A_ e B_. In applicazione della pena, la Corte ha condannato _ T_ a 2 anni e 10 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto) e all'espulsione dalla Svizzera per 10 anni (sospesi condizionalmente con un periodo di prova di cinque) e _ S_ a 18 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto), sospesi condizionalmente con un periodo di prova di tre anni, e all'espulsione dalla Svizzera per 10 anni.
C.
Il 12 novembre 2002 RI 1, nei confronti del quale il Procuratore pubblico aveva emanato il 3 luglio 2002 un nuovo ordine di arresto internazionale (annullando e sostituendo quello del 2 settembre 1993), è sbarcato all'aeroporto di Zurigo-Kloten proveniente da L_, con l'intenzione di visitare alcuni amici nel Ticino. Fermato dalla polizia aeroportuale, egli è stato consegnato agli inquirenti ticinesi, ma nel corso dell'istruzione formale ha respinto ogni addebito, negando perfino di essersi trovato in Ticino al momento dei fatti. In seguito egli ha riconosciuto quanto meno di avere trascorso la sera del 30 agosto 1993 nella zona di M_ -C_ in compagnia di due connazionali, di avere conosciuto la denunciante e di averla condotta in automobile fino al luogo in cui questa sosteneva di avere subìto violenza, ma ha negato di avere commesso alcunché. Il 28 febbraio 2004 il Procuratore pubblico lo ha posto nondimeno in stato di accusa per violenza carnale e coazione sessuale aggravate, siccome commesse in correità con i suoi due connazionali.
D.
Con sentenza del 7 luglio 2005 la Corte delle assise criminali in Lugano ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di violenza carnale e coazione sessuale aggravate, siccome commesse collettivamente, per avere tra il 30 e il 31 agosto 2003, in correità con _ T_ e _ S_, reso inetta a resistere e costretto la denunciante a subire tre congiunzioni carnali e un rapporto orale. In applicazione della pena, essa lo ha condannato a 2 anni e 6 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto) a valere quale pena aggiuntiva a quella di 4 anni di reclusione inflittagli dal Tribunale giudiziario della circoscrizione di V_ (P_) il 18 giugno 1997, e all'espulsione effettiva dalla Svizzera per 15 anni.
E.
Contro la sentenza di assise RI 1 ha introdotto l'11 luglio 2005 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 29 agosto successivo, egli chiede di ridurre la condanna a un anno di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto). Nelle sue osservazioni del 19 settembre 2005 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. Il 27 settembre 2005 la denunciante, costituitasi parte civile, ha comunicato alla Corte di cassazione e di revisione penale di astenersi dal formulare osservazioni al ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto con strato con gli atti (DTF 129 I consid. 31 pag. 178 con richiami) o ancorato unilateralmente su talune prove, escluse tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare un censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 275).
2.
Secondo il ricorrente la Corte di assise avrebbe seguito pedissequamente e arbitrariamente l'atto di accusa, che gli imputa di avere ideato il piano criminale, assurgendo a “capo di branco”. Dipartendosi da tale insostenibile premessa, la Corte gli avrebbe inflitto una pena che non tiene conto del ruolo da lui realmente svolto (e quindi del suo effettivo grado di colpa) e che viola la parità di trattamento se raffrontata a quella irrogata ai correi, in particolare a _ T_.
a)
Rilevato che grazie alla sua confessione dibattimentale l'imputato è da considerare sostanzialmente reo confesso, la Corte di assise ha accertato ch'egli ha trascorso la sera del 30 agosto 1993 in compagnia dei connazionali _ T_ e _ S_ trattenendosi in vari locali. Conosciuta la denunciante al pub “Z_” di M_, le ha offerto da bere e le ha fatto profferte. I tre uomini hanno poi raggiunto il bar _”, posto dirimpetto, dove hanno bevuto altra birra, per tornare al pub verso la mezzanotte. Alla donna, che stava ancora lì, essi hanno offerto un passaggio fino a Campione d'Italia, dicendole che prima dovevano recarsi a C_ perché il ricorrente doveva cambiarsi d'abito. _ S_ ha raggiunto Caslano con il ciclomotore, mentre i due uomini e la donna sono sopraggiunti con l'automobile di _ T_. Rimasto solo in automobile con la donna, il ricorrente ha invitato costei a salire nell'appartamento con gli altri in vista di rapporti sessuali. La denunciante ha rifiutato con sdegno e si è incamminata verso M_, rifiutando ogni ulteriore passaggio in auto (sentenza, pag. 18).
Raggiunta poco dopo in auto da _ T_ e _ S_ (mentre il ricorrente stava nascosto nel bagaglio), la donna ha accettato di salire in vettura. Se non che, presso l'aeroporto di _ il ricorrente è uscito d'un tratto dal nascondiglio, è entrato nell'auto e ha abbassato un sedile. Sorpresa, la donna si è messa a urlare e a dimenarsi, aprendo una portiera per gettarsi dall'auto in corsa. Non riuscendovi, per finire essa si è calmata, ma di soppiatto ha sfilato dalla borsetta un tagliacarte, che ha nascosto in un manica. In una piccola spiaggia sul lago, a F_, il ricorrente le ha tuttavia sollevato il vestito, le ha tolto le calze, gli slip e, fuori dall'auto, l'ha penetrata. Intanto _ T_ ha tentato a sua volta di penetrarla per via anale, ma non vi è riuscito (o vi è riuscito solo in parte) poiché la donna, colta da un attacco di diarrea, gli ha defecato addosso. Dopo di che essa ha estratto dalla manica il tagliacarte e ha vibrato alcuni colpi, colpendo il ricorrente alla spalla destra. Gettata a terra e disarmata, essa è stata costretta a lavarsi nel lago e subito dopo è stata violentata nuovamente dal ricorrente e poi da _ T_, sotto minaccia di morte. _ S_, da parte sua, ha sollecitato un coito orale, senza ottenerlo. Al che i tre hanno abbandonato la donna e sono ripartiti in automobile (sentenza, pag. 18 seg.).
b)
Ciò posto, la Corte ha accertato che, stando anche alla dichiarazioni di _ T_, i tre erano intenzionati ad avere rapporti sessuali con la donna già al momento in cui l'accusato si era nascosto nel bagaglio dell'automobile. La Corte ha quindi ritenuto corretta l'indicazione nell'atto di accusa, che individuava l'inizio del reato al momento in cui la vettura, con il ricorrente nascosto nel baule, aveva affiancato la vittima (sentenza, pag. 19 seg.). Quanto al ruolo del ricorrente, la prima Corte l'ha ritenuto il capo del “branco”: non solo l'ideatore, ma addirittura la figura trainante (sentenza, pag. 20). A tale convincimento essa è giunta non tanto per le dichiarazioni dei correi, ma soprattutto per il fatto che all'epoca i coautori erano incensurati, mentre il ricorrente aveva già alle spalle sei condanne penali, compresa quella a un anno di detenzione e a 5 anni di espulsione dalla Svizzera inflittagli (in contumacia) il 30 novembre dal Tribunale correzionale del distretto di Losanna e mai espiata (sentenza, consid. 3.6), al punto da essere definito già allora una sorta di irriducibile (sentenza, pag. 20). I correi avevano per di più un legame stabile con la Svizzera, dove vivevano e lavoravano, allorché l'imputato ne era già stato espulso e vi soggiornava in violazione del bando (sentenza, loc. cit.).
Ricordato che l'imputato era già stato condannato in patria a 4 anni di reclusione per ripetuto abuso sessuale su minore (sentenza, consid. 3.7), la Corte ha ritenuto lui medesimo e non _ T_ (che pure si era distinto per la violenza esercitata sulla donna) presentava disturbi nella sfera sessuale e nel rapporto con le donne, tant'è che in seguito era stato condannato ancora da parte un tribunale _ a 4 anni di reclusione per ripetuto abuso sessuale di minore (sentenza, pag. 21). Inoltre la sera del 30 agosto 1993 è stato il ricorrente ad abbordare la donna al bar, allungando anche le mani, ed è stato lui a importunarla nel parcheggio per convincerla a salire nel suo appartamento e avere sesso di gruppo. È stato lui che ha dato le indicazioni al conducente della vettura per raggiungere la spiaggia ed era lui che in sostanza comandava (sentenza, loc. cit.). Non per caso è stato lui che ha usato violenza per primo, lui che ha ricominciato quando la donna è uscita dal lago, mentre _ T_ ha dovuto attendere il proprio turno. L'idea del crimine è stata sua, lui ha pianificato i preliminari (si è nascosto in macchina e ha indicato l'itinerario), lui ha condotto l'operazione nella fase esecutiva, facendosi forte della presenza dei correi. In assenza dell'accusato, i correi non avrebbero nemmeno avuto il coraggio di rivolgere la parola alla vittima (sentenza, loc. cit.).
c)
Riassunti gli indizi considerati decisivi dalla Corte per ritenerlo il principale responsabile, il ricorrente rimprovera anzitutto ai primi giudici di essere caduti in arbitrio intravedendo nella sua successiva condanna per atti sessuali con fanciulli un motivo per ritenere che allora egli fosse disturbato nella sfera sessuale e nel suo rapporto con le donne, e quindi per concludere che già per questo motivo egli fosse stato l'ideatore della violenza e l'elemento trainante del gruppo. In realtà, a suo avviso, nessun atto del processo consente di trarre una conclusione del genere. L'argomentazione non manca di pertinenza. Che nel 1995, ossia mentre si trovava in P_, il ricorrente abbia ripetutamente abusato sessualmente di una tredicenne, avendo con essa vari rapporti sessuali completi (tanto da essere condannato a 5 anni di reclusione, ridotti su ricorso a 4 anni), non bastava per concludere automaticamente che la sera del 30 agosto 1993 egli presentasse disturbi nella sfera sessuale né, tanto meno, per desumere che egli aveva motivo per ideare l'atto criminoso. A tal fine sarebbero occorsi altri solidi riscontri. La successiva condanna, ancorché per gravi reati sessuali, nulla comprova circa gli istinti sessuali del soggetto all'epoca dei fatti e, in particolare, sul ruolo da egli avuto. Ciò premesso, occorre esaminare se il convincimento della Corte, secondo cui l'accusato era la figura trainante del gruppo, sia esente da arbitrio nel risultato, alla luce degli altri indizi accertati nella sentenza.
3.
Stando al ricorrente, la circostanza secondo cui egli avrebbe indicato a _ T_ la strada per F_ e la spiaggetta di Ca_ non è certa né accertata. Le risultanze istruttorie smentirebbero l'assunto e lascerebbero pesanti dubbi, inducendo piuttosto a ritenere che _ S_ abbia indicato il percorso. _ T_ – prosegue il ricorrente – ha sempre sostenuto che _ S_ gli ha indicato la strada per F_, come risulta dai suoi verbali istruttori. La contraria versione della donna riportata nel verbale del 3 dicembre 2004 contraddice quella da lei medesima resa in un momento più prossimo ai fatti, nel verbale del 28 ottobre 1993, allorché costei ha riferito di non aver notato che uno dei tre desse disposizioni particolari all'autista. Salvo disattendere il principio
in dubio pro reo
e incorrere in un'arbitraria valutazione delle prove, non sarebbe perciò possibile accertare che egli abbia effettivamente indicato il tragitto a _ T_.
L'argomentazione non può essere condivisa. È vero che durante il confronto del 28 ottobre 1993 la donna ha riferito al Procuratore pubblico di non avere notato uno dei tre uomini dare disposizioni all'autista (classificatore acc. 13/1994, act. 1.8) e che solo durante il confronto del 3 dicembre 2004 essa ha dichiarato che il ricorrente aveva proposto di raggiungere la spiaggetta (e non Campione d'Italia), rispettivamente aveva dato istruzioni a _ T_, deducendo da ciò che il soggetto già conosceva il posto. È però altrettanto vero che di fronte all'obiezione del difensore del ricorrente, il quale sottolineava che nel primo verbale essa aveva detto di non ricordarsi di avere notato qualcuno dei tre dare disposizioni particolari all'autista, essa ha persistito nel sostenere che l'accusato aveva indicato il tragitto e che _ S_ si era limitato a intimarle di stare zitta (classificatore acc. 20/05, act. 4 pag. 9). Propendendo per quest'ultima versione dei fatti, resa e chiarita dall'interessata in contraddittorio con il difensore dell'accusato, la Corte non è caduta in arbitrio. L'accertamento può forse apparire opinabile, specie se si considera che qualche mese dopo i fatti la donna ha reso una deposizione più sfumata circa il ruolo del ricorrente durante il viaggio in automobile. Ma ciò non basta per definire l'accertamento in questione manifestamente insostenibile.
4.
Afferma il ricorrente che, quanto al ruolo da lui avuto, giustamente la Corte non ha prestato fede alle dichiarazioni dei correi, ma – d'altro lato – essa nemmeno poteva ignorarle del tutto, trascurando le dichiarazioni suscettibili di mitigare la sua responsabilità. E la Corte ha trascurato che _ T_ ha riferito come non vi sia stato alcun accordo previo tra i correi, i comportamenti costituivi di reato essendosi verificati sul momento. Essa ha trascurato altresì che al dibattimento _ T_ ha ammesso come, senza l'influsso dell'alcol, egli mai avrebbe fatto ciò che ha fatto ed egli stesso ha rilasciato le medesime dichiarazioni. La Corte ha ignorato poi che secondo _ T_ è stato _ S_ a indicare la strada per F_, a invitare la donna a salire in automobile, a inveire contro di lei dicendole di stare zitta. È stato _ S_ a incitare _ T_ al coito anale, come ha confermato la donna nel verbale del 3 dicembre 2004, e sono stati tutti e tre i correi a disarmare costei. _ S_ a prelevare, su indicazione degli altri due (e non solo di lui), la donna dal lago ed è stato _ T_ a strapparle i vestiti dopo averla costretta a un rapporto sessuale. Su tutto ciò la Corte ha sorvolato, incorrendo così in una valutazione unilaterale delle prove e, quindi, nell'arbitrio.
Con argomenti del genere il ricorrente si limita a contrapporre una propria ricostruzione dei fatti mediante la citazione e l'interpretazione di singole dichiarazioni rese da _ T_ al suo processo, ma non dimostra che la Corte è trascesa in arbitrio ritenendolo la “figura trainante” sulla base di altri riscontri. Basti ricordare i suoi precedenti penali, il miglior livello di moralità e del miglior grado di integrazione mostrato dai correi, le insistite e disinibite profferte da lui fatte alla vittima appena conosciuta, il suo continuo importunarla, le sue indicazioni al conducente dell'auto per raggiungere la spiaggetta, il suo sbucare improvviso dal bagagliaio dell'automobile, il suo comportamento sul luogo del crimine con particolare riferimento al fatto che lui ha abusato per primo della donna e l'impressione destata nella denunciante che fosse lui a comandare. In un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio non è sufficiente contrapporre una versione alternativa dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre illustrare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove sia viziato da errore qualificato. Il ricorso in esame non dimostra estremi siffatti.
5.
Il ricorrente fa valere che non vi è stata alcuna pianificazione del reato e che, in ogni modo, egli non è stato l'ideatore dell'azione criminosa. L'unico fatto certo è che i tre si sono accordati nel senso che lui avrebbe tentato di convincere la vittima a salire nel suo appartamento, dove già si trovavano gli altri, per avere con lei un rapporto consensuale. Il che non basta per attribuirgli un ruolo nella fase successiva. Salvo il Procuratore pubblico – prosegue l'accusato – nessuno ha asserito essere intervenuta una concertazione previa o un piano comune. Il primo momento in cui può essergli rimproverato di aver voluto ottenere un rapporto sessuale con la forza è quello in cui si è nascosto nel bagagliaio. Che egli abbia avvicinato la vittima al bar e abbia tentato di convincerla a portarla a casa non consente di trarre alcuna conclusione sui suoi reali intenti. Affermare il contrario è insostenibile, poiché gli atti finalizzati a un rapporto sessuale lecito non possono dimostrare alcuna idea criminosa. Il suo ruolo di ideatore e pianificatore della violenza non è pertanto stato comprovato, né può essere dedotto da indizi. Neppure è pertinente, secondo l'accusato, il riferimento ai suoi precedenti penali e ai suoi tenui legami con la Svizzera, non sussistendo alcun nesso logico-induttivo immediato tra queste due circostanze e il presunto ruolo di ideatore e di capo. La stessa Corte ha per altro attribuito importanza ai suoi precedenti penali per quanto riguarda la sua irriducibilità e non il ruolo di capo. Nemmeno il riferimento al disturbo della personalità – soggiunge il ricorrente – conforta il suo ruolo di ideatore e di pianificatore. E il solo fatto di essersi nascosto nel baule non consente di concludere che egli abbia ideato e pianificato il reato o i suoi preliminari. I correi si sono semplicemente e tacitamente distribuiti i ruoli, l'accusato nascondendosi nel baule, _ T_ ponendosi alla guida dell'automobile e _ S_ chiedendo alla donna di salire sul veicolo. Nulla è stato pianificato, come ha confermato T_ al dibattimento. Il crimine è frutto di mera improvvisazione.
Non a torto il ricorrente sottolinea che i suoi trascorsi penali, la sua presenza in Svizzera in violazione del bando, le sue reiterate “avances” alla donna nel pub e nel parcheggio presso la sua abitazione non bastano per fargli carico di essere stato l'ideatore, la figura trainante e il capo del “branco”. Ma nemmeno la Corte è giunta a tanto. Essa si è limitata a individuare il momento in cui i tre hanno maturato il proposito di violenza allorché l'accusato si è nascosto nel bagagliaio dell'automobile guidata da T_ e la vettura ha affiancato la vittima per invitarla a salire in macchina (sentenza, pag. 20). La Corte non ha accertato alcun'altra pianificazione previa. Ciò posto, essa ha esaminato chi dei tre potesse essere stato il promotore dell'operazione o, per lo meno, chi avesse assunto il ruolo più importante, giungendo alla conclusione che poteva essere solo l'imputato, sia perché aveva alle spalle numerosi precedenti penali, sia perché era in Svizzera illegalmente e non aveva quindi particolari scrupoli, sia perché si era dimostrato fin dall'inizio il più attivo nel molestare la donna (mentre gli altri due erano rimasti passivi), sia perché aveva persistito anche in seguito in tale atteggiamento, sia perché si era celato nel bagagliaio dell'automobile, sia perché aveva dato al conducente dell'automobile indicazioni sul luogo ove appartarsi, sia perché aveva usato violenza per primo, sia perché la donna aveva avuto l'impressione che fosse lui il capo (sentenza, pag. 21). Certo, a tale conclusione la Corte è giunta anche considerando i di lui disturbi nella sfera sessuale e nel rapporto con le donne, ma tale elemento può essere dimenticato. Valutati nel loro complesso, gli elementi testé riassunti potevano indurre senza arbitrio la Corte a concludere che l'imputato aveva assunto un ruolo ben più intenso e trainante rispetto a quello dei correi. Al proposito il ricorso è destinato perciò all'insuccesso.
6.
Secondo il ricorrente la Corte lo ha ritenuto arbitrariamente il capo dell'operazione solo perché, senza di lui, i correi se ne sarebbero rimasti tranquilli. Nel motivare la critica egli perde completamente di vista però il limitato potere cognitivo della Corte di cassazione e di revisione penale chiamata a giudicare un ricorso fondato sul divieto dell'arbitrio. Egli si esaurisce infatti in riflessioni di chiara indole appellatoria sulla nozione di indizio, sul significato attribuibile al termine “capo” e sull'assenza di comportamenti compatibili con il ruolo attribuitogli. In sostanza, poco importa l'enfatico termine “capo orda” usato dai primi giudici. Al riguardo il gravame non sostanzia arbitrio veruno.
7.
A parere del ricorrente, ritenendolo l'ideatore e il pianificatore del reato nonché l'elemento trainante e il capo del branco, la prima Corte ha trasgredito il principio
in dubio pro reo
, non potendosi prescindere dai dubbi che l'istruttoria non ha consentito di sciogliere. Ora, il principio citato è un corollario della presunzione d'innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 par. 2 Patti ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia il riparto dell'onere probatorio. Per quanto attiene alla valutazione delle prove (oggetto del ricorso), esso significa che il giudice non può dichiararsi convinto di una versione più sfavorevole all'imputato quando, a una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistono dubbi sul modo con cui si è verificata la fattispecie. Il principio non impone che l'apprezzamento delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi teorici sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice avrebbe dovuto, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, nutrire dubbi rilevanti sulla colpevolezza (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2b pag. 41). Dopo quanto si è ricordato, nondimeno, non si può dire che la Corte di assise abbia attribuito un ruolo di primo piano al ricorrente quantunque una valutazione non arbitraria delle risultanze del processo lasciasse sussistere dubbi rilevanti sul suo effettivo grado di partecipazione. Anche sotto questo profilo il ricorso non ha consistenza.
8.
In diritto il ricorrente insorge contro la pena irrogatagli, che giudica lesiva dell'art. 63 CP perché, applicando il concorso retrospettivo dell'art. 68 cpv. 2 CP, a suo avviso la Corte non ha dato peso al principio secondo cui la pena non deve impedire la risocializzazione e ha sottovalutato le circostanze attenuanti, come la sua infanzia difficile, i suoi buoni risultati sul posto di lavoro, il carcere preventivo sofferto, le scuse presentate alla vittima e il parziale risarcimento del danno arrecato. La pena inflittagli violerebbe poi la parità di trattamento se paragonata a quella inflitta ai correi, in particolare a _
a)
Nella commisurazione della pena (art. 63 CP) il giudice del merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove la sanzione inflitta si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all'art. 63 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest'ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare un eccesso o un abuso del potere di apprezzamento (DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 128 IV 173 consid. 3b pag. 77, 127 IV 10 consid. 2 pag. 19 con richiamo).
b)
Quanto ai criteri determinati per commisurare la pena, la gravità della colpa è fondamentale. L'art. 63 CP stabilisce esplicitamente, del resto, che il giudice commisura la pena alla colpa del reo tendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui. Per valutare la gravità della colpa entrano in considerazione svariati fattori: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l'intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto, l'eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato, l'entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell'illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento). Inoltre occorre considerare la situazione familiare professionale dell'autore, l'educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l'integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289). Esigenze di prevenzione generale, per converso, hanno solo un ruolo di second'ordine (DTF 118 IV 341 consid. 2g pag. 350). Il principio della parità di trattamento, da parte sua, assume un rilievo solo in casi eccezionali, nelle rare ipotesi in cui pene determinate di per sé in modo conforme all'art. 63 CP diano luogo a un'obiettiva disuguaglianza; il confronto tra casi concreti suole invece essere infruttuoso, ogni fattispecie dovendo essere giudicata in base alle sue individualità soggettive o e oggettive (DTF 123 IV 150, 116 IV 292; v. anche DTF 124 IV 44 consid. 2c pag. 47).
c)
Quando per uno o più atti un delinquente incorre in più pene privative della libertà, il giudice lo condanna alla pena prevista per il reato più grave, aumentandola in misura adeguata, ma senza oltrepassare nell'aumento la metà della pena massima comminata (art. 68 n. 1 CP). Nel caso in cui si debba giudicare di un reato (punito con una pena privativa della libertà personale) che il colpevole ha commesso prima di essere stato condannato a una pena privativa della libertà per un altro fatto, il giudice determina la sanzione in modo che il colpevole non sia punito più gravemente di quanto sarebbe stato se i diversi reati fossero compresi in un unico giudizio (“concorso retrospettivo”: art. 68 n. 2 CP; DTF 121 IV 97 consid. 2d/cc pag. 102). Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la prima pena sia stata pronunciata da un tribunale straniero, purché la relativa sentenza sia passata in giudicato (DTF 127 IV 106 consid. 2c pag. 108, 109 IV 87 consid. 2a pag. 89).
d)
Nel commisurare la pena la Corte di assise ha rilevato anzitutto che il crimine commesso dall'imputato il 30-31 agosto 1993 insieme con i due connazionali è di elevata e inusuale gravità. La vittima è stata abusata più volte e costretta ad atti sessuali. Anche quando il di lei corpo non ha retto all'affronto ed essa ha dovuto lavarsi nelle acque del lago, i tre l'hanno violentata ancora, usando percosse e minacce di morte. Al momento dei fatti l'imputato era un ventinovenne con sei procedimenti penali alle spalle, l'ultimo dei quali gli era costato (in contumacia) 12 mesi di detenzione da espiare. Privo di ogni volontà di emendamento, incurante della legge, irriducibile nonostante le sanzioni collezionate, egli è tornato in Svizzera in violazione del bando e appena 30 giorni dopo, incontrata una donna che ha rifiutato il suo grossolano corteggiamento, ha trascinato due incensurati in una bravata trasformatasi ben presto in una sequela di violenze, brutalità, rozzezza e mancanza di scrupoli. Consumata per di più con notevole determinazione criminale e senza pietà, la vittima essendosi dibattuta e avendo implorato invano. Per la vita anteriore, l'egoistico movente, il ruolo avuto in seno al gruppo, le brutalità nell'esecuzione del crimine e l'assenza di qualunque remora l'imputato usciva pesantemente compromesso. A favore di lui la Corte ha tenuto conto nondimeno del comportamento processuale corretto, della confessione in aula, benché tardiva, e del tempo trascorso (sentenza, pag. 26 seg.).
La Corte ha rilevato altresì che nel 1995 l'imputato è caduto in un nuovo e grave reato, vedendosi infliggere altri 4 anni di reclusione per ripetuti abusi sessuali su una minorenne, e ha successivamente subìto – sempre in patria – due ulteriori condanne, di cui una per evasione dal carcere nel 1999 e un'altra per guida i stato di ebrietà nel 2003 (sentenza, pag. 28). Anzi, al dibattimento egli ha ammesso un altro episodio di guida in stato di ebrietà, sfociato in un incidente della circolazione che gli avrebbe procurato anche ferite di una certa gravità. Egli era quindi recidivo. Quanto alla parità di trattamento per rapporto alle condanne irrogate nel 1994 ai correi, segnatamente a Marques Teixiera, la Corte ha constatato che nei confronti di _, condannato a 2 anni e 10 mesi di reclusione, ciò si riconduceva alle differenti situazioni soggettive. Mentre al momento dei fatti l'accusato era pluripregiudicato, _ era incensurato, ciò che gli era valsa una riduzione di pena (sentenza pag. 29 con riferimento alla sentenza del 7 aprile 1994, pag. 36). Inoltre l'imputato ha assunto un ruolo ben più importante rispetto a quello dei correi, essendo stato l'ideatore del crimine e il capo del gruppo. La Corte ha ricordato dipoi che i giudici del 1994 avevano definito “particolarmente mite e clemente, al limite dell'indulgenza” la pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione chiesta a carico di _ dal Procuratore pubblico (sentenza, pag. 29), anche se per finire vi avevano aderito. Tale benevolenza non può applicarsi tuttavia a un pluripregiudicato recidivo, nei cui riguardi occorreva dipartirsi da una pena sensibilmente più elevata (sentenza, pag. 31).
Ai fini della pena aggiuntiva da infliggere all'imputato in applicazione dell'art. 68 n. 2 CP (“concorso retrospettivo”) la Corte ha considerato che il reato più grave di cui l'accusato doveva rispondere è quello di violenza carnale aggravata (art. 190 e 200 CP), la cui comminatoria di pena arriva a 15 anni di reclusione. Essa si è dipartita così dalla pena per i fatti del 1993, che ha aumentato per il ripetuto abuso sessuale su minore compiuto in Portogallo, in modo da stabilire quella che sarebbe stata la pena complessiva, fissata in un unico giudizio. Dedotto il carcere espiato in Portogallo dopo la sentenza del 18 giugno 1997, essa ha ritenuto di quantificare la pena aggiuntiva, senza riguardo alle successive condanne per evasione (inesistente in Svizzera) e per guida in stato di ebrietà (pena sospesa condizionalmente). Ritenuto come per i fatti del 1993 la pena avrebbe potuto raggiungere e finanche eccedere i cinque anni di reclusione, che i giudici del 1994 avrebbero in ogni modo punito l'imputato più pesantemente di _ (per tenere conto dell'elevato grado di colpa e dei precedenti penali), che con i ripetuti abusi sessuali su minore commessi nel 1995 in Portogallo l'imputato era ricaduto pesantemente nel reato, la Corte ha ritenuto equo aumentare la pena precedente di almeno 2 anni di reclusione. In sintesi, per i reati del 1993 e del 1995 essa ha stabilito la pena complessiva attorno o poco sopra ai 7 anni di reclusione, pena che ha ridotto a 6 anni e 6 mesi di reclusione per tenere conto della confessione (seppur tardiva), del comportamento processuale, del tempo trascorso e del fatto che l'imputato si era ritrovato in prigione a distanza d'anni, mentre si stava apparentemente risocializzando. Computata la pena di 4 anni di reclusione pronunciata in Portogallo, essa ha quantificato perciò la pena aggiuntiva in 2 anni e 6 mesi di reclusione, computato il carcere preventivo sofferto (sentenza, pag. 34).
e)
Il ricorrente reputa la pena iniqua perché non considera sufficientemente il principio della risocializzazione, sottovalutando le conseguenze negative del carcere per la famiglia, i rapporti con la fidanzata e le prospettive di lavoro. Ora, al riguardo la prima Corte non ha mancato di rilevare che con la condanna a una pena detentiva da espiare l’accusato si ritrova nuovamente in carcere a vari anni di distanza, quando invece sembrava avviato verso il recupero sociale (sentenza, pag. 34). Essa ha quindi ridotto la pena di 6 mesi, tenuto anche conto della confessione e del comportamento processuale dello stesso accusato (sentenza, pag. 34). Essa ha dunque considerato le conseguenze negative della carcerazione sotto l’aspetto ricordato nel gravame, come peraltro riconosciuto dallo stesso ricorrente (ricorso, pag. 19), che rimprovera ai primi giudici soltanto di non averne tenuto sufficientemente conto. Se non che, la riduzione accordata dalla Corte per considerare, tra l’altro, gli inevitabili disagi conseguenti alla carcerazione per quanto riguardo le sue possibilità di recupero nella società civile, ancorché non generosa, non appare ancora come la risultante di un eccesso o di un abuso del potere di apprezzamento, tale da far apparire al riguardo la pena esageratamente severa. Quanto alla risocializzazione durante il carcere, entro i limiti previsti dalla legge egli potrà affrontare con le autorità di esecuzione della pena le questioni pratiche legate al regime di privazione della libertà, facendo capo agli strumenti che l’ordinamento giuridico offre per favorire la risocializzazione (art. 37, 47 e 379 CP; art. 21, 23, 24, 25 del regolamento cantonale sull’esecu-zione delle pene e delle misure di sicurezza per gli adulti, RL 4.2.1.1.1; art. 3 e 9 cpv. 2 del regolamento sul Patronato penale, RL 4.2.1.1.6). Ancora una volta il ricorso è perciò volto all’insuccesso.
A parere del ricorrente la Corte ha trascurato nella commisurazione della pena circostanze attenuanti come la sua infanzia difficile, dovuta alle strettezze economiche della famiglia, la bassa scolarizzazione, i trascorsi nel mondo del lavoro, il carcere preventivo sofferto, le scuse presentate alla vittima e il parziale risarcimento del danno. Se non che, il generico richiamo alla difficile infanzia, alla scarsa formazione scolastica e ai trascorsi nel mondo del lavoro poco giovano, l'interessato non spiegando concretamente perché tali circostanze influirebbero sul suo grado di colpa nella commissione dei reati in giudizio. Quanto al positivo comportamento processuale, e in particolare alla confessione, la Corte l'ha
espressamente considerato. Certo, essa non ha menzionato l'intervenuto versamento di fr. 4000.– alla vittima in parziale copertura del danno (doc. A annesso al ricorso), ma ciò non comporta un’ulteriore mitigazione di pena, come non giustifica altre riduzioni di pena il carcere preventivo sofferto, proporzionato alle esigenze del procedimento penale a suo carico (per tacere del fatto che tale carcere gli è stato computato nella pena).
f)
Assevera il ricorrente che, comunque sia, la pena a suo carico è eccessivamente severa se raffrontata a quella inflitta a _ (2 anni e 10 mesi di reclusione) il 7 aprile 1993. Anche se più grave rispetto a quella del correo, la sua responsabilità non può giustificare un divario simile, per quanto mite sia la sentenza del 1994. Essa viola perciò il principio della parità di trattamento. Su questo punto il ricorso non è destituito di buon diritto. Il confronto tra condanne a carico di coautori non è senza rilievo (
Wiprächtiger
in:
Basler Kommentar
, StGB I, edizione 2003, n. 133 ad art. 63 con riferimenti). Ora, i giudici del 1994 non avevano mancato di definire gravissima la colpa di _, dal profilo oggettivo e soggettivo, non lesinando critiche al Procuratore pubblico per la mite proposta di pena. Ciò nonostante, essi avevano rinunciato ad appesantire la condanna, fondandosi su circostanze attenuanti (nel quadro dell'art. 63 CP) come l'incensuratezza, la situazione familiare e professionale, i buoni trascorsi di lavoratore, la confessione, le scuse alla vittima e l'impegno a risarcirla, in parte onorato, e il carcere preventivo sofferto (act. 80, pag. 35 seg.). Non che i giudici di allora potessero vincolare le Corti di oggi. Sta di fatto che infliggere, pur con le circostanze attenuanti, 2 anni e 10 mesi di reclusione a _ e dipartirsi da una pena di 5 anni di reclusione (o anche più), pur senza attenuanti, a carico del ricorrente configura una disparità manifesta. Senza nulla togliere al maggior grado di responsabilità imputabile al ricorrente, al suo ruolo di ideatore e di “capobranco” (tanto da indurre gli altri a perpetrare un crimine che ben difficilmente avrebbero commesso da soli) e ai precedenti penali, la Corte doveva tenere conto anche della pena inflitta a _ il 7 aprile 1994. La quale era sicuramente mite, se non blanda al punto da sfiorare l'eccesso di apprezzamento (pur alla luce delle attenuanti), ma che non poteva essere ignorata del tutto senza incorrere in un'obiettiva disuguaglianza.
Dandosi la necessità di rimediare alla discriminazione (art. 296 cpv. 1 CPP), compete a questa Corte procedere ove disponga di “sufficienti elementi per il nuovo giudizio”, ciò che è sicuramente il caso. Riponderato il tutto, una pena di base attorno ai 4 anni e 3 mesi di reclusione avrebbe senz'altro consentito alla Corte di porre l'accento sulla maggior colpevolezza del ricorrente e sui precedenti penali (per altro non gravissimi), senza pronunciare una sanzione squilibrata rispetto a quella applicata nel 1994 a _ per i medesimi fatti, costui avendo pur sempre partecipato all'odiosa violenza di gruppo con intensità e innegabile determinazione (sentenza del 7 aprile 1994, pag. 35). Una pena base come quella accennata avrebbe permesso anche alla Corte di conciliare il sentimento di giustizia ricordato nella sentenza impugnata e di rispettare una ragionevole parità di trattamento. Dovendo tale pena essere aumentata di 2 anni per i successivi abusi sessuali su minore compiuti in Portogallo (circostanza non contestata), la pena di base complessiva sarebbe risultata perciò di 6 anni e 3 mesi di reclusione. Tenuto conto delle attenuanti considerate dalla prima Corte e da esse quantificate attorno ai 6 mesi (sentenza, pag. 34), la pena si riduce a 5 anni e 9 mesi di reclusione, da cui bisogna togliere i 4 anni oggetto della condanna del 18 giugno 1997 (sentenza, loc. cit.), onde una pena aggiuntiva di 21 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto). Ne segue che il ricorso merita accoglimento entro tali limiti.
9.
Se ne conclude che, in parziale accoglimento del ricorso, il dispositivo n. 2.1 della sentenza impugnata va riformato nel senso di condannare il ricorrente a 21 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto) a valere come pena aggiuntiva a quella di 4 anni di reclusione inflittagli dal Tribunale giudiziario della circoscrizione di V_ (Portogoallo) il 18 giugno 1997. Visto l'esito del giudizio, gli oneri processuali vanno addebitati per due terzi al ricorrente e per il resto allo Stato (art. 15 cpv. 1 e 2 combinati con l'art. 9 cpv. 1 CPP). Il grado di soccombenza non giustifica l'attribuzione di ripetibili (art. 6 cpv. 9 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,005 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c38f0730-3daa-5143-bcf0-59eeb3579417 | in fatto:
che con istanza del 28 marzo 2002, scritta in tedesco, _ ha chiesto la revisione di sentenze emanate il 23 dicembre 1999 e il 3 agosto 2000 dal Pretore del Distretto di Bellinzona riguardanti sue condanne a pene detentive per trascuranza degli obblighi di mantenimento;
che, constatata l'irricevibilità di atti non stesi in italiano, il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale ha assegnato il 2 aprile 2002 all'interessato un termine di 20 giorni per tradurre l'istanza, richiamandogli il principio della territorialità della lingua (CCRP, sentenza del 19 settembre 1999 in e J. e DTF inedita del 16 gennaio 2002 in re J.);
che il 24 aprile 2002 _ ha postulato una proroga del termine per la traduzione;
che con decreto del 26 aprile 2002 il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale ha dichiarato la domanda improponibile per assenza di motivi;
che la mancata traduzione dell'istanza in italiano entro il termine impartito comporta l'inammissibilità della domanda di revisione;
che all'istante rimane comunque aperta la facoltà di ripresentare la domanda di revisione in italiano (art. 300 cpv. 1 CPP);
che, vista la particolarità del caso, si rinuncia eccezionalmente al prelievo di oneri processuali; | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
|
c3ad77a1-9bee-5865-99dd-d3d699f5ab19 | in fatto: A. _
e suo cugino _ hanno trascorso insieme il pomeriggio e la sera del 15 novembre 1999 nel _, spostandosi da un esercizio pubblico all'altro con la Jeep “Cherokee” intestata alla moglie di _, guidata da _. Lasciato per finire il “grotto _ ” di _, i due si sono diretti verso _. Alle ore 22.45, mentre stavano percorrendo a _ la strada cantonale nel punto in cui il rettilineo è attraversato dalla ferrovia _, essi sono incorsi però in incidente. Quella sera la corsia su cui viaggiava la Jeep era ostruita infatti da un cantiere lungo 200 m e il traffico, che poteva svolgersi su una sola corsia, era regolato da un semaforo. Sulla strada erano stati posti i segnali verticali avanzati di “lavori in corso”, “semaforo”, “ostacolo da scansare a sinistra” e, al suolo, coni e lampade a luce intermittente, come pure transenne metalliche con pannelli bianchi e rossi (act 7 pag. 1 e 7.11).
Oltrepassato il semaforo, invece di curvare a sinistra, _ ha proseguito diritto, lungo l'area di sicurezza, urtando coni e lampade posti a terra, fino a travolgere _, responsabile della ditta incaricata di eseguire i lavori sulla adiacente linea ferroviaria, che indossava una giacca arancione con strisce fluorescenti e aveva in mano una pila con il fascio di luce diretto verso il basso. Pur frenando, _ ha poi investito anche talune transenne che delimitavano il campo stradale. Fermatosi per qualche attimo, è ripartito e si è allontanato, non senza urtare prima una smerigliatrice per binari e perdere la targa anteriore _. Egli ha poi proseguito fino in territorio di _. Lì avrebbe discusso con _ il da farsi. Raggiunto da un telefonata della polizia sul cellulare di _, egli si è deciso a presentarsi con il cugino in polizia. Dall'analisi del sangue il suo tasso alcolemico è risultato di 2.28 g per mille. L'indomani _ è stato visitato dal dott. _, che gli ha diagnosticato una contusione e una distorsione alla schiena nella zona lombare sinistra, una distorsione al collo e una contusione al ginocchio destro. Giudicato abile a svolgere lavori d'ufficio, egli si è visto prescrivere un analgesico per attenuare i dolori.
B.
Con decreto di accusa del 31 gennaio 2000 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di guida in stato di ebrietà, grave infrazione alle norme della circolazione e inosservanza in caso di infortunio per avere, quella sera del 15 novembre 1999, guidato in stato di ebrietà (tasso alcolemico compreso tra un minimo di 2.28 g e un massimo di 3.03 g per mille), disatteso la segnaletica stradale, investito _, urtato transenne metalliche e macchinario di cantiere, dandosi poi alla fuga pur avendo provocato il ferimento dell'uomo. In applicazione della pena, egli ha proposto la condanna di _ a 90 giorni di detenzione (sospesi condizionalmente con un periodo di prova di tre anni) e una multa di fr. 1'800.–. Statuendo su opposizione, con sentenza del 25 luglio 2001 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha confermato le imputazioni e la proposta di pena contenute nel decreto di accusa.
C.
Contro la sentenza di assise _ ha introdotto il 25 luglio 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 4 settembre 2001, egli chiede di essere prosciolto dall'imputazione di inosservanza dei doveri in caso di infortunio, con conseguente riduzione della pena detentiva e della multa. Nelle sue osservazioni del 18 settembre 2001 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il conducente che, dopo avere ucciso o ferito una persona in un infortunio della circolazione, si dà alla fuga, è punito con la detenzione o con la multa (art. 92 cpv. 2 LCStr). Premesso che una persona è ferita anche quando ha subito solo contusioni o escoriazioni leggere e che per darsi alla fuga basta lasciare i luoghi, sottraendosi all'immediata constatazione dell'incidente, il presidente della Corte di assise ha ritenuto che in concreto, dal profilo oggettivo, il delitto dell'art. 92 cpv. 2 LCStr era senz'altro dato. Da un lato le contusioni riportate da _ e i dolori che avevano indotto quest'ultimo a sottoporsi a visita medica rientravano nella nozione di “ferimento”; dall'altro, abbandonando senza necessità impellente il luogo dell'infortunio, l'imputato si era “dato alla fuga”. Quanto all'aspetto soggettivo dell'infrazione, il primo giudice ha rammentato che è sufficiente la negligenza. Esclusa nella fattispecie l'intenzionalità, non risultando provato che l'imputato si fosse reso conto di avere investito una persona o avesse scientamente accettato tale eventualità, il presidente della Corte ha reputato nondimeno che l'imputato aveva agito con negligenza, poiché non si era fermato per sincerarsi di che cosa fosse esattamente accaduto dopo avere travolto – di notte – una segnaletica di cantiere e avvertito un urto contro qualche cosa di non identificato, quantunque avesse notato la presenza di persone sul luogo dell'incidente non appena avvertito l'impatto (sentenza, pag. 12).
2.
Il ricorrente invoca l'opinione dissenziente di Martin
Schubarth
(Kommentar zum Strafrecht, Besonderer Teil. vol . 1, n. 52 ad art. 128) e rimprovera al primo giudice di avere violato l'art. 92 cpv. 2 LCStr, l'inosservanza dei doveri in caso d'infortunio potendo essere commessa soltanto intenzionalmente. Il Tribunale federale è però di altro avviso. Secondo giurisprudenza, in effetti, trasgredisce l'art. 92 cpv. 2 LCStr non solo il conducente che lascia il luogo del sinistro pur sapendo – o accettando l'eventualità – di avere ferito o ucciso una persona, ma anche quello che abbandona il luogo pur potendo – o dovendo – prendere in considerazione una tale eventualità usando la diligenza imposta dalle circostanze (DTF 93 IV 45 consid. 2;
Corboz
, Les principales infractions, vol. 2, Berna 1999, n. 40 ad art. 92 LCStr con riferimento a una DTF inedita del 20 agosto 1986, Str. 300/1986, consid. 3). Né giova al ricorrente fondarsi sul regesto in capo a DTF 122 IV 356 (“Infortunio atipico. Colui il quale, al volante della propria vettura, fugge da un pedone, lo investe e, pur essendosene reso conto, continua la fuga, si dà alla fuga dopo un incidente giusta l'art. 92 cpv. 2 LCStr”). A prescindere dalla particolarità del caso, che non ha alcuna similitudine con quello in esame, nella sentenza citata il Tribunale federale ha precisato soltanto la nozione di ferimento, rinviando poi gli atti all'autorità cantonale perché accertasse l'aspetto soggettivo (non vagliato dai giudici di merito) e l'esistenza di eventuali motivi a discolpa (DTF 122 IV 356 consid. 3b in fine), statuendo di nuovo. Su questo punto il ricorso è quindi privo di consistenza.
3.
Indipendentemente da quanto precede, il ricorrente contesta anche di avere agito con negligenza. A mente sua non si tratta di stabilire in concreto se l'incidente si debba addebitare a imprevidenza colpevole, ma se sia censurabile di negligenza la successiva omissione di soccorso, ciò che non è il caso. L'urto del veicolo non era avvenuto infatti contro un oggetto non identificato, bensì – come ha dichiarato anche _ – contro segnaletica di cantiere, che egli aveva visto. Non vi era motivo dunque di prendere in considerazione l'ipotesi di avere ferito qualcuno. Che successivamente egli abbia visto persone sul luogo dell'infortunio poco importa, dato che era convinto di non avere urtato nessuno. La decisione di andarsene – egli conclude – era dovuta alla consapevolezza di avere bevuto alcolici e non alla paura di essere identificato come responsabile del sinistro. Ora, nella misura in cui il ricorrente fa valere di non avere urtato oggetti non identificati, bensì degli oggetti della segnaletica che sia lui che il suo compagno hanno chiaramente visto, il ricorso ê inammissibile, poiché l'obiezione si fonda su fatti diversi da quelli accertati nella sentenza impugnata, vincolanti - in assenza di una censura di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP) - per la Corte di cassazione penale. Dalla sentenza impugnata risulta infatti il contrario, ovvero che egli se n'è andato pur avendo capito di avere urtato qualche cosa di non ben definito (sentenza, pag. 9 e 12). Giustamente il primo giudice ha pertanto scorto un'imprevidenza colpevole nell'atteggiamento dell'accusato; questi doveva infatti fermarsi, segnatamente scendere dal veicolo per i necessari accertamenti una volta invaso e percorso di notte, peraltro sotto l'influsso di bevande alcoliche, un cantiere stradale, una volta accortosi di avere urtato qualche cosa che non ha saputo identificare e, in particolare, una volta notata la presenza di persone sul luogo dell'incidente (pag. 9 e 12). Proseguendo per contro la sua corsa dopo un breve arresto che gli ha consentito soltanto un superficiale e comunque insufficiente esame della situazione, il ricorrente non ha usato quella diligenza che le concrete circostanze imponevano, rendendosi in questo modo colpevole del reato ascrittogli. Condannando il ricorrente per inosservanza in caso dei doveri di infortunio, ancorché commessa per sola negligenza, la Corte di merito non ha pertanto violato il diritto federale.
4.
Secondo il ricorrente, la negligenza non sarebbe stata valutata tenendo conto dello stato di scemata responsabilità in cui egli si trovava. Di ciò si sarebbe tenuto conto nella commisurazione della pena, ma non nell'ambito della valutazione della sua situazione personale. La critica è infondata. Certo, il primo giudice ha rilevato che l'attenuante dell'art. 11 CP può entrare in linea di conto, in caso di guida in stato di ebrietà, solo quando la decisione di mettersi al volante è successiva al consumo di alcolici e non quando l'autore provoca il suo stato di ubriachezza pur prevedendo di condurre poi il veicolo. Nella fattispecie però egli non ha applicato lo stesso principio al reato di inosservanza dei doveri in caso di infortunio. Anzi, all'imputato ha riconosciuto una scemata responsabilità, dando atto appunto che nella fattispecie il comportamento di lui era stato sicuramente influenzato dall'alcolemia (sentenza, pag. 13). Il presidente della Corte non si è quindi limitato ad applicare l'art. 11 CP nell'ambito della commisurazione della pena. Spettava se mai al ricorrente pretendere che, in realtà, l'alcolemia aveva influito in modo più marcato sulla sua responsabilità penale. Nel ricorso tuttavia egli non prospetta una tesi del genere.
5.
Infine il ricorrente chiede che in caso di assoluzione dal reato di inosservanza dei doveri in caso di infortunio la Corte di cassazione e di revisione penale lo condanni soltanto al pagamento di una multa, riducendo la pena fissata dal primo giudice. Il ricorrente non potendo essere assolto, l'argomentazione si rivela d'acchito senza oggetto.
6.
Da quanto precede discende che nella misura in cui è ammissibile, il ricorso deve essere disatteso, siccome infondato. Gli oneri processuali del giudizio odierno seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c3cf6884-3bcd-59d1-8013-0c1365679bc4 | in fatto ed in diritto
che a seguito dello scritto 12.11.2008 dell’Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (in seguito MROS), mediante il quale ha segnalato al Ministero pubblico di _ un presunto caso di riciclaggio di denaro ai sensi dell’art. 305bis CP, è stato aperto un procedimento penale – tra gli altri – a carico di IS 1 sfociato nel decreto di non luogo a procedere 13.07.2009, non essendo dati gli estremi del reato ipotizzato (NLP _);
che il suddetto decreto è regolarmente passato in giudicato, non essendo stato impugnato presso la (allora) Camera dei ricorsi penali;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto del suo assistito IS 1, di poter esaminare e fotocopiare alcuni atti del summenzionato incarto penale;
che a sostegno della sua richiesta precisa che necessiterebbe di fotocopiare alcuni atti allo scopo di avviare la procedura di regolarizzazione fiscale in _ (doc. CRP 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti al procedimento penale sfociato nel NLP _, nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di denunciato ai sensi del previgente CPP TI) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di denunciato ai sensi del previgente CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare, di principio, pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 (e di riflesso del suo patrocinatore) giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere l’autorizzazione ad esaminare gli atti istruttori dell’incarto penale NLP _ (già inc. MP _), poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che alcuni documenti (bancari) potrebbero essere, in effetti, potenzialmente utili al qui istante nell’ambito della procedura di regolarizzazione fiscale in _;
che – nel rispetto del diritto di essere sentito e della sfera privata e personale delle altre parti coinvolte – l’avv. PR 1 è autorizzato a fotocopiare gli atti istruttori dell’incarto NLP _ che concernono esclusivamente il suo assistito (IS 1) e utili alle sue incombenze (in particolare la documentazione bancaria agli atti), concordando i tempi e le modalità di accesso con il procuratore pubblico Andrea Maria Balerna, compatibilmente con i suoi impegni;
che l’istanza è accolta alle surriferite condizioni;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo il qui istante già stato parte al procedimento penale in questione nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c3e02cc2-842b-5016-a7c4-d1ddcae9d716 | in fatto
a.
Con decreto 26.3.2015 il procuratore pubblico Nicola Corti ha posto in stato d’accusa dinanzi alla Pretura penale RE 1, siccome ritenuto colpevole di diffamazione “
per avere, a _, nel mese di _, comunicando con un terzo, incolpato o reso sospetta _ di condotta disonorevole o di altri fatti che possano nuocere alla di lei reputazione, e meglio per avere, rivolgendosi a _, diffamato _, affermando ‘hai visto _ quella puttana lì mi ha fatto le corna’
”, proponendo la sua condanna alla pena pecuniaria (sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni) di 10 aliquote giornaliere da CHF 100.-- cadauna, ed alla multa di CHF 300.--, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 3 giorni (decreto di accusa 26.3.2015, p. 1, DA _, inc. MP _).
b.
Con scritto 16/17.4.2015 RE 1 ha interposto formale opposizione al decreto di accusa di cui sopra (cfr. inc. MP _).
A seguito di tale opposizione, in data 20.4.2015 il procuratore pubblico ha confermato il decreto d’accusa 26.3.2015 (DA _), osservando che l’opposizione parrebbe essere tardiva e trasmettendo gli atti del procedimento alla Pretura penale (AI 1, inc. _).
c.
Nel frattempo IS 1, in data 12/13.5.2015, ha denunciato _ per il titolo di falsa testimonianza. Il procuratore pubblico Nicola Corti ha aperto il procedimento inc. MP _, sospendendolo - ex art. 314 cpv. 1 lit. b CPP - e dandone comunicazione alla Pretura penale (cfr. AI 2, inc. _).
d.
Nell’ambito dell’inc. _, relativo al DA _, con decreto 18.6.2015 il presidente della Pretura penale ha dichiarato irricevibile l’opposizione 16.4.2015 ritenendola tardiva e respinto l’istanza di restituzione per inosservanza del termine per fare opposizione (cfr. AI 6, inc. _), dopo aver dato la possibilità a IS 1 di esprimersi sulla tardività del proprio atto (cfr. AI 3-5, inc. _).
e.
Con scritto 22.6.2015 RE 1 ha presentato ricusa nei confronti del procuratore pubblico Nicola Corti nell’ambito del procedimento inc. MP _ per falsa testimonianza nei confronti di _, in quanto sarebbe “
stato condannato da lui ingiustamente, avvalendosi solo di aspetti formali senza entrare nel merito dell’accusa, fuggendo dal dibattimento in aula, che mi è stato negato dalla Pretura Penale violando il principio della buona fede
” (cfr. AI 7, inc. _).
f.
Con gravame 26/30.6.2015 RE 1 ha impugnato il decreto 18.6.2015 del presidente della Pretura penale (inc. _) dinnanzi a questa Corte, che con sentenza 7.9.2015, l’ha respinto (inc. CRP _).
g.
Con scritto 26/30.6.2015 il procuratore pubblico Nicola Corti ha trasmesso, per competenza, l’istanza di ricusazione 22.6.2015 a questa Corte, precisando sostanzialmente che nella fattispecie non vi sarebbero fondati morivi di ricusa nei suoi confronti, né in capo alla lit. b né alla lit. f dell’art. 56 CPP.
h.
Delle osservazioni del
procuratore pubblico
e di IS 1 si dirà, se necessario, in corso di motivazione. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 59 cpv. 1 lit. b
CPP, la giurisdizione di reclamo è competente a decidere sulla domanda di ricusazione, senza ulteriore procedura probatoria e definitivamente, nei casi in cui sono interessati il pubblico ministero, le autorità penali delle contravvenzioni o i tribunali di primo grado, se è invocato un motivo di ricusazione di cui all’art. 56 lit. a o lit. f CPP oppure se una persona che opera in seno a un’autorità penale si oppone alla domanda di ricusazione presentata da una parte in virtù dell’art. 56 lit. b-e CPP
(ZK StPO – A.J. KELLER, 2. ed., art. 59 CPP n. 5).
1.2.
La Corte dei reclami penali,
giurisdizione di reclamo ai sensi dell’art. 20 CPP, è – in applicazione della suddetta disposizione – l’autorità pacificamente abilitata a pronunciarsi sull’istanza di ricusazione presentata nei confronti del procuratore pubblico.
2.
2.1.
Ai sensi dell’art. 58 cpv. 1 CPP la parte che intende chiedere la ricusazione di una persona che opera in seno a un’autorità penale deve presentare senza indugio la relativa domanda a chi dirige il procedimento non appena è a conoscenza del motivo di ricusazione (decisione TF 1B_357/2013 del 24.1.2014 consid. 5.3.3.); essa deve rendere verosimili i fatti su cui si fonda la domanda. Il ricusando si pronuncia sulla domanda (art. 58 cpv. 2 CPP).
La decisione è resa per scritto e motivata (art. 59 cpv. 2 CPP). Fino alla decisione, il ricusando continua ad esercitare la sua funzione (art. 59 cpv. 3 CPP).
2.2.
L’istanza deve essere
inoltrata “
senza indugio
”
(“
ohne Verzug
”, “
sans délai
”)
secondo l’art. 58 cpv. 1 CPP, ossia nei giorni immediatamente seguenti la conoscenza del motivo di ricusazione, pena la perenzione del diritto stesso di ricusazione (decisioni TF 1B_308/2014 del 5.11.2014 consid. 2.2.1. e 1B_499/2012 del 7.11.2012 consid. 2.3.;
BSK StPO – M. BOOG, 2. ed., art. 58 CPP n. 5;
CR – CPP, J.-M. VERNIORY, art. 58 CPP n. 8)
.
Non fissando il testo di legge un numero di giorni preciso, per determinare la tempestività occorre valutare di volta in volta le circostanze del caso concreto e lo stadio del procedimento, ritenuto che in virtù del principio della buona fede il motivo di ricusazione deve essere fatto valere prima del prossimo atto procedurale onde escludere tatticismi (Commentario CPP – M. MINI, art. 58 CPP n. 4; ZK StPO – A.J. KELLER, op. cit., art. 58 CPP n. 3 s.; PC CPP, art. 58 CPP n. 3).
Decisivo, al fine della tempestività della ricusazione, è il momento in cui la parte – che deve comprovare la tempestività dell’istanza e il momento in cui ha scoperto il motivo di parzialità – ha effettivamente conosciuto il motivo di ricusazione o con la dovuta attenzione avrebbe potuto conoscerlo; la parte non è però tenuta, né all’inizio né nel corso del procedimento, ad effettuare indagini per rilevare possibili censure concernenti l’imparzialità e l’indipendenza (BSK StPO – M. BOOG, op. cit., art. 58 CPP n. 5).
2.3.
Nella fattispecie in esame, il procuratore pubblico ha comunicato – con scritto 19.5.2015 – alla Pretura penale (nell’ambito dell’inc. MP _ relativo al DA _), che IS 1 aveva denunciato la teste _ per titolo di falsa testimonianza, informando nel contempo sia l’autorità giudicante che l’imputato (inviandogli copia dello scritto in questione), che l’incarto aperto a seguito della citata denuncia (inc. MP _), veniva sospeso giusta l’art. 314 cpv. 1 lit. b CPP, in attesa di giudizio circa la questione relativa alla tempestività dell’opposizione al DA di cui sopra (AI 2, inc. Pretura penale _).
IS 1 è dunque venuto a conoscenza della circostanza secondo cui il titolare dell’incarto MP _ è il procuratore pubblico Nicola Corti, dunque il medesimo magistrato che è titolare anche dell’inc. MP _, sfociato nel noto DA _, al massimo entro la fine del mese di maggio 2015, non essendo noto a questa Corte quanto è stato intimato lo scritto 19.5.2015 di cui sopra.
2.4.
IS 1, che non prende posizione circa la tempestività del suo atto, ha inoltrato l’istanza di ricusa in oggetto - al Ministero pubblico - in data 22/24.6.2015, quindi (almeno) oltre venti giorni dopo essere venuto a conoscenza dell’asserito motivo di ricusa.
La questione a sapere se tale termine è ancora da ritenere rispettoso delle esigenze di tempestività poste dall’art. 58 cpv. 1 CPP, può - tuttavia - rimanere aperta, visto l’esito del gravame, da respingere comunque nel merito, per i motivi qui di seguito esposti.
3.
3.1.
Secondo gli art. 6 cifra 1 CEDU e 30 cpv. 1 Cost. nelle cause giudiziarie ogni persona ha il diritto di essere giudicato da un tribunale fondato sulla legge, competente nel merito, indipendente e imparziale (
sentenza TF 1B_264/2009 del 18.11.2009;
PC CPP, p. 150 e ss.). Il principio dell’indipendenza è ripreso dall’art. 4 CPP e concerne tutte le autorità penali secondo gli art. 12 e 13 CPP.
La garanzia del diritto ad un giudice imparziale vieta l’influsso sulla decisione di circostanze estranee al processo, che potrebbero privarla della necessaria oggettività a favore o a pregiudizio di una parte (decisione TF
1B_352/2014 del 26.11.2014 consid. 2.1.;
ZK StPO – A.J. KELLER, op. cit., art. 56 CPP n. 1): chiunque sia sottoposto a tali influenze non può in effetti essere un
“giusto mediatore”
(DTF 135 Ia 14; BSK StPO – M. BOOG, op. cit.,
vor
art. 56 CPP n. 2).
Sebbene la semplice affermazione di parzialità basata su sentimenti soggettivi di una parte non basta a fondare un dubbio legittimo, non occorre che il giudice sia effettivamente prevenuto: per giustificare la sua ricusazione basta infatti
la constatazione oggettiva di
circostanze concrete idonee a suscitare l’apparenza di una prevenzione e a far sorgere un rischio di parzialità (decisioni TF 1B_352/2014 del 26.11.2014 consid. 2.1. e 1B_452/2013 del 16.4.2014 consid. 5.1.;
BSK StPO – M. BOOG, op. cit.,
vor
art. 56 CPP n. 7/10).
Sotto il profilo oggettivo, occorre ricercare se la persona ricusata offra le necessarie garanzie per escludere ogni legittimo dubbio di parzialità; sono considerati in tale ambito anche aspetti di carattere funzionale e organizzativo e viene posto l’accento sull’importanza che possono rivestire le apparenze stesse (decisione TF 6B_192/2013 del 10.12.2013 consid.
2.2.; BSK StPO – M. BOOG, op. cit.,
vor
art. 56 CPP n. 8).
Una parte (al procedimento) può personalmente risentire certi atteggiamenti del magistrato come determinati da parzialità ma è decisivo sapere se le sue apprensioni soggettive possano considerarsi oggettivamente giustificate (decisioni TF 6B_192/2013 del 10.12.2013 consid. 2.2. e 1B
_307/2013 del 29.10.2013 consid. 2.1.).
Un’impressione puramente individuale di una delle parti al procedimento non è infatti decisiva (decisione TF 1B.189/2013 del 18.6.2013 consid. 2.2.; DTF 131 I 24 consid. 1.1.; PC CPP, p. 151-152).
La ricusazione riveste un carattere eccezionale (decisione TF
1B_285/2012 del 20.12.2012 consid. 3.2.)
, per non intralciare l’ordinato e ordinario funzionamento della giustizia: deve dunque essere ammessa unicamente in presenza di motivi gravi, seri ed oggettivi che permettano di dubitare dell’imparzialità del giudice ricusando (decisione TF
1B_357/2013 del 24.1.2014 consid. 4.3.; DTF 138 IV 142;
Commentario CPP - M. MINI, art. 56 CPP n. 10).
3.2.
L’
art. 56 CPP dal profilo del contenuto, si applica allo stesso modo sia alle autorità penali giudicanti sia a quelle non giudicanti preposte al procedimento penale.
Nell’ipotesi di ricusazione di un procuratore pubblico occorre però tenere conto del suo specifico ruolo nella procedura (decisione TF 1B_352/2014 del 26.11.2014 consid. 2.1.; DTF 138 IV 142 consid. 2.2.).
Fino all’abbandono del procedimento penale o fino alla promozione dell’accusa, il procedimento è diretto dal procuratore pubblico (art. 61 CPP), che deve garantire che lo stesso si svolga in modo appropriato e conforme alla legge (art. 62 cpv. 1 CPP).
Durante l’istruzione il ministero pubblico – responsabile dell’esercizio uniforme della pretesa punitiva dello Stato (art. 16 cpv. 1 CPP) – accerta d’ufficio tutti i fatti rilevanti per il giudizio, e questo a carico ed a scarico dell’imputato (art. 6 cpv. 2 CPP), e ne determina le conseguenze giuridiche in modo tale da poter chiudere la procedura preliminare (art. 308 cpv. 1 CPP). In questo contesto il magistrato inquirente è tenuto ad una certa imparzialità (decisione TF 1B_370/2013 del 2.4.2014 consid. 4.1.).
3.3.
Ai sensi dell’art. 56 CPP chi opera in seno a un’autorità penale si ricusa se: ha un interesse personale nella causa (lit. a.); ha partecipato alla medesima causa in altra veste, segnatamente come membro di un’autorità, patrocinatore di una parte, perito o testimone (lit. b.); è unito in matrimonio, vive in unione domestica registrata o convive di fatto con una parte, con il suo patrocinatore o con una persona che ha partecipato alla medesima causa come membro della giurisdizione inferiore (lit. c.); è parente o affine di una parte in linea retta o in linea collaterale fino al terzo grado incluso (lit. d.); è parente o affine in linea retta, o in linea collaterale fino al secondo grado incluso, di un patrocinatore di una parte oppure di una persona che ha partecipato alla medesima causa come membro della giurisdizione inferiore (lit. e.); per altri motivi, segnatamente a causa di rapporti di amicizia o di inimicizia con una parte o con il suo patrocinatore, potrebbe avere una prevenzione nella causa (lit. f.).
L’istante deve motivare la propria domanda e rendere verosimili i fatti su cui si fonda la stessa. Semplici asserzioni o supposizioni non sono sufficienti; occorre sostanziare la verosimiglianza degli asseriti motivi attraverso indizi o mezzi di prova (BSK StPO - M. BOOG, op. cit., art. 58 CPP n. 4;
ZK StPO – A.J. KELLER, op. cit., art. 58 CPP n. 9
).
3.3.1.
Giusta l’art. 56 lit. b CPP si ricusa chi ha partecipato alla medesima causa in altra veste, segnatamente come membro di un’autorità, patrocinatore di una parte, perito oppure testimone. Tale disposizione presuppone, come emerge dallo stesso testo, un intervento nella medesima causa in un’altra veste, cioè con una funzione differente.
La nozione di “
medesima causa
” deve essere intesa in senso formale, ossia come la procedura che ha condotto a una determinata decisione o che sfocerà nella decisione attesa. Non comprende invece una procedura distinta o preliminare concernente la stessa controversia in senso lato, riferita cioè al medesimo complesso di fatti e di diritti riguardanti le stesse parti. La citata nozione implica pertanto un’identità di parti, di procedura e di questioni litigiose (decisioni TF 1B_44/2014 del 15.4.2014 consid. 3.1.; 1B_137/2013 del 17.5.2013 consid. 3.2.; 6B_621/2011 del 19.12.2011 consid. 2.3.1.).
3.3.2.
La lit. f dell’art. 56 CPP
riporta una clausola generale che disciplina la ricusazione per motivi differenti da quelli menzionati alle lit. a-e (decisioni TF 1B_452/2013 del 16.4.2014 consid. 5.1.; 1B_370/2013 del 2.4.2014 consid. 4.1.; 1B_368/2013 del 15.1.2014 consid. 2.).
4.
4.1.
Come visto, l
’art. 56 lit. b CPP concerne il ricusando che ha partecipato alla
medesima causa
(e)
in altra veste
.
4.1.1.
Il procuratore pubblico Nicola Corti è titolare dei procedimenti inc. MP _, nell’ambito del quale IS 1 riveste la qualità di imputato, e inc. MP _, nel quale il qui istante è accusatore privato.
Tali procedimenti riguardano (sostanzialmente) il medesimo complesso di fatti. Questa circostanza non è tuttavia sufficiente affinché si possa parlare di
medesima causa
ai sensi dell’art. 56 lit. b CPP.
Come suesposto, il concetto di
medesima causa
va infatti inteso in maniera formale. Si deve trattare propriamente della medesima procedura penale.
I casi di previa conoscenza dei fatti o dell’incarto, segnatamente in caso di interventi in procedimenti connessi al livello dei fatti, devono giudicarsi non in base all’art. 56 lit. b CPP, bensì per rapporto alla clausola generale di cui all’art. 56 lit. f CPP. (CR – CPP, J.-M. VERNIORY, art. 56 CPP n. 16).
4.1.2.
Nel caso concreto, anche a voler prescindere dal fatto che si tratti o meno di
medesima causa
, è in ogni caso incontestato che il procuratore pubblico Nicola Corti, nell’ambito dei due procedimenti penale, non è intervenuto
in altra veste
, bensì ricopre la medesima funzione di magistrato inquirente.
Il motivo di astensione non è dato dunque per un membro di un’autorità che interviene più volte nella causa, ma nella medesima veste (Commentario CPP – M. MINI, art. 56 CPP n. 6).
4.2.
4.2.1.
In sede di osservazioni, IS 1 ritiene poi che il procuratore pubblico avrebbe “
interessi personali nella causa
”, di modo che “
nella procedura no. _ nella quale accuso per falsa testimonianza la Sig. _, credo che il p. p.
decreterà un non luogo a procedere, in modo tale da non smentire il suo DA _ da lui stesso impugnato
”
(osservazioni 17/20.7.2015).
Anche tale argomento non può trovare riscontro in questa sede. Nell’ambito dell’inc. MP _, il ricusando agisce in veste di magistrato inquirente e non a titolo personale, di modo che non si può concretamente sostenere che il procuratore pubblico Nicola Corti abbia un interesse diretto e personale nell’inchiesta di cui sopra.
Il fatto che il medesimo magistrato abbia emanato a carico del qui istante un decreto d’accusa (DA _) per titolo di diffamazione, peraltro quasi due mesi prima della denuncia inoltrata da IS 1 nei confronti di _, basandosi sulla testimonianza di quest’ultima, non è motivo sufficiente per dubitare dell’indipendenza del magistrato.
Si rileva infine che, qualora l’inchiesta per falsa testimonianza sfociasse in un decreto di non luogo a procedere, come supposto dall’istante, quest’ultimo avrà la possibilità di impugnare la suddetta decisione presso l’autorità di reclamo.
4.2.2.
In concreto non emergono infine (ed il qui istante nemmeno lo sostiene)
altri motivi
a sostegno di un’eventuale prevenzione nella causa da parte del magistrato inquirente (art. 56 lit. f CPP).
Non va poi dimenticato che il procuratore pubblico, nello scritto 26/30.6.2015, ha precisato a IS 1 che “
qualora la testimonianza della persona da lei denunciata si rivelasse penalmente perseguibile, ciò saprebbe giustificare una revisione del giudizio già emesso nei suoi confronti
”.
4.3.
Alla luce di tutto quanto sopra, in concreto, non si ravvedono fondati motivi che possano giustificare la ricusazione del procuratore pubblico Nicola Corti.
5.
L’istanza viene respinta, con carico della tassa di giustizia e delle spese alla parte istante, soccombente (art. 59 cpv. 4 CPP). | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
c4453523-81bc-510f-9923-167947c5aa6d | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 17 novembre 2008 il procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di lesioni semplici per avere, a _, il 2 aprile 2008, colpito con dei pugni al volto e in altre parti del corpo RI 1, procurandogli delle lesioni (contusioni al mento, al braccio sinistro e nella zona lombare e lesione a un dente).
In applicazione della pena, il procuratore pubblico ha inflitto all’accusato una pena pecuniaria di 9 aliquote di fr. 40.–, per un totale di fr. 360.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni. Egli ha inoltre inflitto all’imputato una multa di fr. 200.– da sostituirsi, in caso di mancato pagamento, con una pena detentiva di 2 giorni. _ è stato, infine, condannato al pagamento delle tasse e spese giudiziarie per complessivi fr. 200.–. Per le pretese di natura civile, il procuratore pubblico ha rinviato la parte civile al competente foro.
Al decreto di accusa _ ha presentato opposizione.
B.
Al dibattimento, il giudice della pretura penale ha prospettato all’imputato anche la derubricazione del reato di lesioni semplici in quello di vie di fatto.
Statuendo sull’opposizione, con sentenza del 7 maggio 2009 il giudice della Pretura penale ha prosciolto l’imputato da ogni addebito.
C.
Contro la sentenza appena citata RI 1 ha introdotto il 9 maggio 2009 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 5 giugno 2009 egli chiede di
“riesaminare il caso”
.
Il ricorso non ha fatto oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178).
2.
Il ricorrente sostiene che _ lo riteneva colpevole di diffamazione e che per questo voleva dargli una lezione. Il 2 aprile 2008, cogliendolo di sorpresa, lo ha quindi aggredito colpendolo al volto e in altre parti del corpo provocandogli le ferite descritte nel certificato medico del dr. _ (ferite all’interno della bocca, grossi ematomi nella regine lombare e nel braccio sinistro, lesione a un dente).
Pur riconoscendo che nessuno ha assistito all’aggressione, il ricorrente sostiene che _ è stato comunque visto nei pressi della sua abitazione
“proprio in quel tempo”
. Del resto – spiega il ricorrente – la violenza dell’imputato sarebbe nota, per cui sui fatti imputatigli non dovrebbero sussistere dubbi. Le deposizioni dei coniugi _ non dovrebbero essere rilevanti, poiché egli si sarebbe recato presso il loro esercizio pubblico solo due giorni dopo, quando
“le ferite erano state medicate e gli ematomi, pure evidenti, nascosti dagli indumenti”.
Per contro, sottolinea come debba essere considerata la testimonianza
“dell’autista _”
, che ha riferito di averlo trasportato,
“impaurito e insanguinato”
, fino a _e riportato in seguito a casa in auto. Inoltre, va tenuto in considerazione che a due municipali di _ l’imputato avrebbe chiesto se
“quello là gira ancora con gli occhi neri”
(ricorso, pag.1-2).
3.
Il ricorrente si limita a contrapporre la propria versione dei fatti e i propri apprezzamenti a quelli del primo giudice con una serie di considerazioni e di deduzioni alternative, come se la Corte di cassazione e di revisione penale fosse un’autorità di appello abilitata a rivedere liberamente anche gli accertamenti di fatti e la valutazione delle prove. Così formulato, il ricorso non adempie i requisiti di un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell’arbitrio. Esso deve perciò essere dichiarato inammissibile.
Del resto, non si scorgono nella motivazione del primo giudice elementi che possano inficiare l’apprezzamento complessivo del materiale raccolto.
L’assenza di testimoni diretti dell’accaduto ha portato il primo giudice a concludere per l’assoluzione dell’imputato poiché non v’erano
“sufficienti elementi probatori per potere concludere che le lesioni subite dalla parte civile siano da ricondurre ai colpi inferti proprio dall’imputato”
. Posto di fronte a due versioni completamente opposte, il giudice non ha scorto ulteriori elementi probatori che portassero sostegno probatorio alla tesi accusatoria, ossia alla tesi di un’aggressione da parte di _ ai danni di RI 1.
Il giudice ha, difatti, indicato che i gerenti del ristorante _ hanno riferito che l’accusato era
“assolutamente normale quella sera”
, che il referto medico agli atti non certificava di ferite lacero contuse, come invece dichiarato dal teste _, che sia _ (gerenti del ristorante _) non hanno scorto
“alcuna particolare lesione”
sul volto di RI 1,
“se non dei taglietti al labbro, la cui origine e natura à sconosciuta”
e che la deposizione di _ è
“più debole delle altre, ritenuto che ha un grave motivo di inimicizia con l’accusato, avendo quest’ultimo, come lui stesso candidamente riconosciuto al dibattimento, avuto una relazione sessuale con sua moglie”
. Al giudice è inoltre sembrato
“strano”
che l’autista dell’autopostale (_) abbia potuto notare, ad ogni suo passaggio
“nella zona,
il veicolo dell’imputato e accorgersi che a un certo punto l’auto non era più parcheggiata davanti al ristorante _.
La parte civile, del resto, avrebbe anche potuto presenziare al dibattimento (non sono stati indicati i motivi della sua assenza; v. act. 9). Un suo confronto con l’accusato avrebbe potuto meglio inquadrare i fatti da egli denunciati. Incomprensibilmente, invece, egli ha deciso di non presenziare al processo.
Per quanto attiene all’attendibilità delle deposizioni di _ va precisato che essi hanno dichiarato di avere incontrato la vittima il giorno dopo i fatti, e non, come sostenuto dalla parte civile, due giorni dopo (v. verbali d’interrogatorio del 6 maggio 2008). _, inoltre, ha espresso dubbi sull’accaduto, _ non avendogli dato l’impressione di essere un
“manesco”
(v. verbale d’interrogatorio del 6 maggio 2008, pag. 2).
Di fronte a questi accertamenti non si può affermare che il giudice della Pretura penale abbia condannato il ricorrente quantunque una valutazione non arbitraria delle prove lasciasse sussistere dubbi rilevanti sulla sua colpevolezza (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2 pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2a pag. 38). Pertanto, anche volendo far astrazione dall’irricevibilità del ricorso, si dovrebbe concludere che, in assenza di altri solidi elementi, la sentenza di primo grado non può essere ritenuta arbitraria.
Ad ogni modo, per i motivi indicati all’inizio del considerando 3, il ricorso va dichiarato irricevibile. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c5f289a6-289d-5843-960b-f58179c469fc | in fatto: A.
La mattina del 4 aprile 1999, giorno di Pasqua, _ (1916) è stato trovato morto dal genero _ e dal di lui figlio _ nel corridoio al primo piano della sua casa in via _. Evidenti lesioni di natura ecchimotica e escoriatica riscontrate al capo, alle labbra, agli arti superiori, al tronco e agli arti inferiori del defunto lasciavano presumere l'intervento di terzi. Il rapporto autoptico del 28 ottobre 1999 (act. B/14) ha confermato che l’uomo è deceduto a causa di asfissia meccanica per soffocamento, blocco meccanico della respirazione e, verosimilmente, costrizione del collo. Il 6 aprile 1999 la polizia ha arrestato _ e sua moglie _, i quali abitavano al pianterreno dello stabile. L'appartamento era stato locato il 1° marzo 1998 da _, figlio della vittima, alla stessa _, che era poi stata ben presto oggetto di una procedura di sfratto per mancato pagamento della pigione. Con la morte di _, avvenuta il 17 novembre 1997, tale procedura è rimasta sospesa, ma è poi stata riattivata da _, diventato proprietario dell'immobile dopo la morte del figlio. Per finire _ ha confessato di avere ucciso egli medesimo _ commettendo una rapina la sera del 3 aprile 1999 nel di lui appartamento. _ ha riconosciuto un suo ruolo soltanto nella rapina.
B.
Con sentenza del 31 agosto 2000 la Corte delle assise criminali in Bellinzona ha riconosciuto _ autore colpevole di assassinio e di rapina per avere, a scopo egoistico, con mancanza di scrupoli e modalità perverse, ucciso intenzionalmente _ la sera del 3 aprile 1999 e per avere, in correità con _, sottratto fr. 140.– e altri oggetti, dopo avere fatto uso di violenza per rendere la vittima incapace a resistere. La Corte ha riconosciuto _, da parte sua, autrice colpevole di rapina per avere concorso con _ a perpetrare il furto in danno di _ sapendo che il marito avrebbe usato violenza, e in particolare per avere dato assistenza a quest'ultimo, fornendogli abiti e oggetti idonei a travestirsi, come pure due corde (per legare la vittima), guanti e la chiave dell'ingresso principale dello stabile. La Corte di assise ha riconosciuto inoltre entrambi gli imputati autori colpevoli di ripetuta infrazione e contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti per spaccio e consumo di eroina.
In applicazione della pena, la prima Corte ha condannato _ a 12 anni di reclusione e all'espulsione (effettiva) dalla Svizzera per 12 anni. _ si è vista infliggere 3 anni e 6 mesi di reclusione. Ambedue gli imputati sono stati condannati altresì a rifondere alla parte civile _ un'indennità di fr. 12'318.10 per spese di patrocinio, di fr. 628.05 per risarcimento danni e di fr. 10'000.– per torto morale. La Corte ha ordinato dipoi la revoca della sospensione condizionale relativa a una pena di 30 giorni di detenzione e di 3 anni di espulsione inflitta ad _ con un decreto di accusa del 14 aprile 1997, come pure la revoca della sospensione condizionale riguardante una pena di 15 giorni di detenzione pronunciata a carico di _ con decreto di accusa del 29 marzo 1999. Infine la Corte ha ordinato per i due condannati la misura del trattamento ambulatoriale giusta l'art. 43 CP.
C.
Contro la sentenza di assise _ ha inoltrato il 1° settembre 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il
16 ottobre successivo, egli chiede di essere dichiarato autore colpevole di omicidio colposo, eventualmente di omicidio intenzionale (invece che di assassinio), con conseguente ricommisurazione della pena. Nelle sue osservazioni del 24 ottobre 2000 il Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. _ formula la stessa conclusione con osservazioni del giorno successivo. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente insorge anzitutto contro l'accertamento secondo cui egli ha ucciso _ intenzionalmente, con coscienza e volontà. Ora, quel che l'autore di un reato sa o non sa, quello che vuole o l'eventualità delittuosa cui egli consente è una questione di fatto (DTF 121 IV 92 consid. 2b con rinvii). La Corte di cassazione e di revisione penale è però abilitata a rivedere le constatazioni di prima sede solo sotto il profilo dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). E arbitrario non significa discutibile, contestabile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile o in aperto contrasto con gli atti (DTF126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a). Per motivare una censura di arbitrio non basta quindi criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dei fatti, per quanto preferibile essa appaia. Occorre invece spiegare per quale ragione l'accertamento in questione sarebbe manifestamente insostenibile, si trovi in chiaro contrasto con gli atti o contraddica in modo urtante il sentimento di giustizia e dell'equità (DTF125 II 10 consid. 3a, 124 I 86 consid. 2a, 123 I 1 consid. 4a, 122 I 61 consid. 3a). Per giurisprudenza, inoltre, una sentenza incorre nell'annullamento quando essa è arbitraria non solo nella motivazione, ma anche nel risultato (DTF 125 II 129 consid. 5b, 124 II 166 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a, 122 I 253 consid. 6c con rinvii).
2.
Fondandosi sulle dichiarazioni rilasciate dagli imputati nel corso dell'istruttoria, segnatamente su una ricostruzione del 1° luglio 1999 (documentazione fotografica, parte VI) e sulle risultanze del pubblico dibattimento, la Corte di assise ha accertato che verso la fine di marzo del 1999 i due accusati, in condizioni economiche disastrose, hanno pensato di rapinare _. Rientrati a casa la sera del 3 aprile 1999 (vigilia di Pasqua) dopo avere partecipato a un festa in piazza _ e avere fatto qualche piccolo acquisto alla Migros e alla Coop, i due – che nel pomeriggio avevano già bevuto alcolici – sono tornati a pensare alla rapina. Hanno deciso così di agire la sera stessa, consapevoli che sarebbe stato necessario neutralizzare _, il quale lasciava di rado l'abitazione e portava sempre con sé il portamonete e la chiave della cassaforte. La rapina sarebbe stata eseguita da _, che per non farsi riconoscere si sarebbe mascherato. Egli avrebbe atteso che l'uomo lasciasse l'appartamento e scendesse al pianterreno per far rientrare il cane e chiudere l'ingresso principale. In quel momento sarebbe entrato nell'appartamento, avrebbe immobilizzato la vittima, l'avrebbe messa a terra, legata, sottraendole il portamonete e la chiave della cassaforte (sentenza, pag. 31 a 33).
Sempre stando alla sentenza impugnata, _ si è procurata il necessario per mascherare il marito e le corde per legare la vittima. _ ha quindi indossato i jeans della moglie, una giacca nera con cappuccio, ha calzato un paio di scarpe che il padre del figlio dell'amica aveva dimenticato in casa e si è infilato in testa due calze di nylon. Siccome gli stringevano, in una delle due _ ha ritagliato aperture corrispondenti alla bocca e agli occhi. Essa gli ha pure fornito una corda gialla, un laccio-stringa blu-nero e un paio di guanti. Infine ha consegnato al marito la chiave del portone d'ingresso, sottratta a _ dieci giorni prima, a suo dire per dispetto (sentenza, pag. 33). Uscito dall'appartamento così paludato, con la calza di nylon in tasca e le corde in mano, _ ha fatto il giro dello stabile, rientrandovi dal portone principale che conduce all'abitazione di _. Sul pianerottolo davanti all'appartamento egli ha pensato di mettersi in testa la calza di nylon e di tirar su il cappuccio; avendo notato però, attraverso il vetro della porta, la sagoma di _ che si avvicinava, è riuscito solo ad alzare il cappuccio e a coprirsi parte del visto.
Quando ha visto abbassarsi la maniglia, egli si è buttato contro la porta, spalancandola e facendo finire l'anziano contro lo stipite della porta di fronte. Ha poi agganciato l'uomo da tergo, afferrandolo per il collo della camicia e facendolo cadere con uno sgambetto. Dato che il malcapitato si lamentava, gli si è seduto sulla schiena (68 kg), tentando di chiudergli la bocca con una camicia capitatagli sotto mano e con una salvietta. Siccome l'uomo continuava a lamentarsi, egli gli ha legato la salvietta, a mo' di bavaglio, molto stretta dietro la nuca. _ sarebbe riuscito nondimeno a dirgli di averlo riconosciuto, dopo di che ha emesso un rantolo e non ha più parlato. _ gli ha ancora legato le mani dietro la schiena, gli ha tolto il portamonete di tasca e gli ha sottratto un mazzo di chiavi; aperte le varie porte e la cassaforte, egli ha rovistato nell'appartamento, dopo di che si è infilato sulla testa la nota calza di nylon, è tornato dalla vittima e l'ha girata sulla schiena. A quel momento si sarebbe accorto che l'uomo era morto (sentenza, pag. 34 a 39).
_ ha raggiunto poi il proprio appartamento, aprendo una porta intermedia con una delle chiavi sottratte a _ e passando dalle scale interne. Ha raccontato alla moglie dell'accaduto, consegnandole la somma di fr. 140.– tolta dal portamonete della vittima. _ si è poi recata con suo figlio, in bicicletta, al negozio Piccadilly, dove ha comprato una bottiglia di whisky, che ha bevuto con il marito non appena rientrata a casa. _ ha preso in seguito taluni sacchi per i rifiuti, è risalito attraverso la scala interna nell'appartamento di _ e ha rovistato di nuovo nell'abitazione, prendendo gli oggetti che gli sembravano interessanti. Ha quindi slegato (in parte) la vittima, ha cancellato le impronte, ed è ridisceso nel suo appartamento con la refurtiva e le cose da buttare. Tornato di lì a poco sul luogo del delitto, egli ha rimesso le chiavi nella tasca del morto e se n'è andato, lasciando la porta semiaperta. È uscito dal portone principale, che ha chiuso con la chiave datagli dalla moglie (tosto gettata via), ed è rientrato nel suo appartamento, dove ha nascosto la refurtiva (due cannocchiali, due orologi, un passaporto e monete con carte della vittima, assegni della cooperativa della vittima, una pistola scacciacani, una macchina fotografica e una medaglia), sbarazzandosi degli indumenti e degli oggetti usati per la rapina (sentenza, pag. 34 a 43).
3.
Come si è visto, il ricorrente critica l'accertamento secondo cui egli ha ucciso _ intenzionalmente. Sostiene che non vi sono elementi sufficienti per giustificare una conclusione del genere e che in tali circostanze bisogna credergli quando assevera di essersi reso conto del dramma solo al momento in cui ha rigirato la vittima, dopo dopo avere rovistato la prima volta nell'appartamento alla ricerca di valori.
a)
i primi giudici non hanno creduto alla citata versione dei fatti. Essi hanno richiamato il verbale di interrogatorio del 26 maggio 1999 (rapporto preliminare di polizia giudiziaria, annesso 51), nel quale il ricorrente ha dichiarato al Procuratore pubblico che una volta a terra _ non si era più mosso, che “forse non era ancora morto, ma stava morendo” e che, comunque sia, egli si era accorto che l'anziano “se ne stava andando” (sentenza, pag. 37). Il che non gli ha impedito di cambiargli il bavaglio, usando l'asciugamano al posto della camicia, per legarlo più stretto (sentenza, pag. 37 seg.). La Corte di assise ha inoltre ricordato che in aula l'imputato ha ammesso di avere avuto il sospetto già durante l'aggressione che _ stesse morendo, in particolare quando gli ha preso le braccia da sotto il corpo per legargliele dietro la schiena. A quel momento egli ha constatato infatti, anche a causa delle braccia molli, che la vittima non opponeva più resistenza e probabilmente stava soccombendo (sentenza, pag. 38 con riferimento al verbale del processo, pag. 5). Nondimeno egli ha infierito su di lui, legandogli le braccia per poter poi svaligiare la cassaforte (sentenza, pag. 38).
b)
Ciò posto, la Corte di assise ha accertato che, salito al primo piano con l'idea di immobilizzare, atterrare e legare a scopo di rapina _ (che sapeva anziano e acciaccato), pur senza volerlo uccidere, l'imputato è passato subito alle maniere forti, usando una violenza tale da non potere non rendersi conto che così facendo egli uccideva la vittima. A mano a mano che dava sfogo all'impeto, secondo la Corte di assise, egli aveva inoltre percepito – per sua stessa ammissione – le tragiche conseguenze del gesto, accorgendosi che _ era in fin di vita già dopo essere stato scagliato per terra, giacché non si muoveva più. Dopo essersi seduto sulla sua schiena dell'anziano per imbavagliarlo con la salvietta, l'imputato aveva constatato che effettivamente l'uomo stava spirando. Ne ha avuto ulteriore conferma quando gli ha stretto il morso alla nuca, sentendo un rantolo, e quando gli ha tolto le braccia da sotto il corpo per legargliele, inerti come quelle dei morti. Non aveva però desistito e aveva proseguito fino alla estreme conseguenze. Sedutosi sulla sua testa, otturandogli le vie respiratorie, gli ha stretto le braccia molli dietro la schiena; solo a quel momento gli ha sfilato il portamonete e il mazzo di chiavi. Benché avesse avuto modo e tempo per evitare una morte per asfissia, che secondo la perita giudiziaria dott. _ non si consuma da un secondo all'altro, il ricorrente ha persistito con determinazione. Agendo così – ha concluso la Corte di merito – egli ha ucciso _ intenzionalmente, poiché si rendeva conto di quanto stava facendo. Che egli ne abbia avuto certezza solo dopo avere rovistato nell'appartamento poco importa (pag. 38 seg.).
c)
A parere del ricorrente la compromettente affermazione al dibattimento – quella di essersi accorto che _ stava morendo mentre lo stava legando e di avergli nondimeno immobilizzato le braccia perché temeva che fosse ancora vivo – va relativizzata. Egli ricorda che la sua lingua madre non è l'italiano e fa valere di non avere avuto l'intenzione di contraddire il passaggio del verbale del 26 maggio 1999 (letto in aula), in cui egli aveva detto di avere avuto certezza della morte soltanto dopo avere svaligiato la cassaforte. L'argomento non gli giova. Senza arbitrio la prima Corte poteva accertare, in effetti, sulla base delle chiarificazioni rilasciate dall'imputato al dibattimento, che costui era cosciente di uccidere _ già prima di vuotare la cassaforte. Confermando nella sostanza quanto riferito al Procuratore pubblico, l'imputato ha di nuovo ammesso di avere avuto la percezione che la vittima stesse morendo quando le ha preso le braccia da sotto il corpo per legargliele dietro la schiena. Pur rendendosi conto che il malcapitato stava soccombendo, però, egli ha continuato poiché temeva che egli fosse ancora vivo (verbale del processo, 5). Una dichiarazione del genere, resa in presenza del difensore, non può essere attribuita a carenti cognizioni linguistiche.
D'altro canto il ricorrente trascura che prima di perquisire l'appartamento e la cassaforte egli ha fatto sì che _ fosse scagliato violentemente contro lo stipite della porta, agganciato da tergo, afferrato per il collo della camicia, sgambettato e fatto cadere a terra con il viso contro il pavimento. Dopo di che egli gli si è seduto sulla schiena per tappargli la bocca, lo ha imbavagliato e ha udito un rantolo. Ma non si è fermato: gli si è seduto sulla sua testa e gli ha legato le mani dietro la schiena. Sostenere in condizioni siffatte di non essersi reso conto che la vittima stava morendo non è serio. Si ricordi altresì quanto l'imputato ha dichiarato il 17 maggio 1999 al Procuratore pubblico, ossia di avere provocato la caduta dell'anziano sulle piastrelle, di avere sentito il volto di lui battere sul pavimento e di sapere che il vecchio era ormai stordito, oltre che malato di cuore, sì da poter essere ucciso anche da un bambino di cinque anni (rapporto preliminare di polizia giudiziaria, annesso 48, pag. 3; sentenza, pag. 38). Certo, il piano criminoso non prevedeva l'uccisione della vittima, ma soltanto la sua immobilizzazione a scopo di rapina. Senza cadere in arbitrio i primi giudici potevano però ritenere che il ricorrente avesse preso in considerazione la morte del malcapitato nel corso della rapina. E più egli ha infierito sulla vittima (che sapeva fragile e indifesa), più egli ha percepito le tragiche conseguenze del suo gesto. Sotto questo aspetto la sentenza impugnata non denota arbitrio alcuno.
d)
Soggiunge il ricorrente di essersi comunque posto il problema della respirazione della vittima, come risulta dal verbale del 17 maggio 1999, in cui ha riferito di avere rinunciato a imbavagliare l'anziano con la camicia per non coprirgli interamente la bocca e di avere usato l'asciugamano solo per evitare che la vittima gridasse. La tesi del buon samaritano cade tuttavia nel vuoto, ove appena si consideri che, pur essendo la vittima già debilitata, il ricorrente ha persistito ugualmente nella sua furiosa aggressione, sedendosi persino sulla testa del vecchio e otturandogli le vie respiratorie. Manifestamente infondato, su questo punto il ricorso non merita altra disamina.
e)
Secondo il ricorrente la prova della sua buona fede risulterebbe anche dal fatto che, compiuta la rapina, egli si è preoccupato delle condizioni della vittima, liberandola dal bavaglio e slegandola, nella convinzione che fosse ancora viva. Un comportamento del genere non si concilia con l'accertamento secondo cui egli si era reso conto già in precedenza che la vittima stava morendo. Accertando che, ciò nondimeno, egli ha persistito nell'impresa, la Corte di assise sarebbe incorsa in arbitrio. L'argomento non può essere condiviso. Già si è visto come, senza trascendere in arbitrio, i primi giudici potevano escludere che il ricorrente si fosse reso conto delle conseguenze dei suoi atti solo dopo avere rovistato nell'appartamento. In quel momento egli ha avuto conferma se mai che la rapina aveva portato alla morte della vittima. Certo, prima di ridiscendere nel suo appartamento egli si è coperto il volto – a suo dire – con la calza di nylon datagli dalla moglie. Ma ciò non basta a dedurre che egli credesse la vittima ancora viva, l'artificio potendo essere destinato anche a non farsi riconoscere da estranei che avrebbero potuto vederlo allontanarsi. Anche al proposito il ricorso è destinato perciò all'insuccesso.
4.
Invocato
il principio
in dubio pro reo
, Il ricorrente assume che nella valutazione dell'aspetto soggettivo due erano le possibilità che potevano entrare in considerazione, quella da lui prospettata e quella prospettata dalla Corte di assise. Optando per quella meno favorevole, i primi giudici avrebbero disatteso il citato precetto. Ora, il principio
in dubio pro reo
, sgorgante dalla presunzione di innocenza garantita dagli art. 6 CEDU e 32 cpv. 1 Cost., ha duplice portata: come norma sulla valutazione delle prove esso fa sì che il giudice non possa dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando un apprezzamento oggettivo delle risultanze istruttorie nel loro complesso lasci sussistere dubbi insormontabili sulla colpevolezza; come norma sull'onere della prova fa carico alla Stato di provare la colpevolezza dell'accusato, nel senso che non spetta a quest'ultimo dimostrare la propria innocenza (DTF inedita del 25 settembre 2000 in re S., consid. 2b; cfr. anche DTF 120 Ia 36 consid. 2c con riferimenti di dottrina). Nel caso in esame il ricorrente invoca la massima
in dubio pro reo
come norma sulla valutazione delle prove. Questa non impone però che le risultanze istruttorie inducano a un assoluto convincimento di colpevolezza, giacché dubbi teorici sono sempre possibili. Esige semplicemente che il giudice rinunci a condannare l'imputato se una valutazione oggettiva delle prove lasci dubbi rilevanti sulla sua colpevolezza. Ciò non esclude, ad ogni buon conto, che il giudice possa avere legittime ragioni oggettive per ritenere perfettamente sostenibile una soluzione piuttosto che un'altra, apparentemente sostenibile anch'essa, ma meno verosimile (DTF inedita del 25 settembre 200 in re S., consid. 2b).
Nel caso specifico la Corte di assise non ha accertato l'intenzionalità dell'imputato quantunque un apprezzamento non arbitrario delle risultanze istruttorie nel loro complesso lasciasse oggettivamente sussistere dubbi sulle sue reali intenzioni. Anzi, essa poteva far capo a solidi riscontri, compreso il racconto dello stesso imputato, che non lascia dubbi sul fatto che egli ha progressivamente infierito sull'anziano fino a non poterne ignorare le conseguenze letali. Ciò posto, non si può far carico alla Corte di assise di avere violato il principio
in dubio pro reo
per non avere fatto propria la versione, secondo cui il ricorrente non si sarebbe reso conto della gravità dei suoi atti, se non dopo essere ritornato dalla vittima con il volto coperto dalla calza di nylon. Fosse anche sostenibile una versione del genere, la sostanza delle cose non muterebbe; servirebbe infatti unicamente a far apparire il dolo diretto come dolo eventuale. Anche nella versione prospettata nel ricorso, è innegabile che chiunque agisce nel modo accertato nella sentenza impugnata non può non prendere in seria considerazione il decesso della vittima. Ancora una volta la sentenza impugnata sfugge pertanto alla critica.
5.
Alla Corte di assise il ricorrente rimprovera di avere violato il diritto federale nella misura in cui lo ha ritenuto autore colpevole di assassinio (art. 112 CP) per dolo eventuale. Egli afferma che per addebitargli un reato tanto grave, il quale dal profilo soggettivo esige consapevolezza e mancanza di scrupoli, ovvero un movente, uno scopo o modi particolarmente perversi, occorre rigore. Egli trascura però che i primi giudici non lo hanno ritenuto colpevole di assassinio per dolo eventuale, ma per dolo diretto (sentenza, pag. 39 e 67). Essi hanno accertato infatti che durante il compimento dell'azione l'imputato ha avuto coscienza che la vittima stava soccombendo, ma che nondimeno è andato avanti fino alle estreme conseguenze, dimostrando consapevolezza omicida. La Corte di assise ha soggiunto che il ricorrente ha scorto le conseguenze del suo agire e le ha volute (sentenza, pag. 47), onde il dolo diretto. Certo, i primi giudici hanno soggiunto che in ogni caso il ricorrente ha accettato tali conseguenze, assumendo il rischio che queste si avverassero e agendo perciò con dolo eventuale. Essi hanno però addotto simile motivazione a titolo abbondanziale (sentenza, pag. 47). Che, poi, un assassinio possa essere compiuto anche per dolo eventuale non fa dubbio, come ha rilevato la prima Corte (sentenza, pag. 46).
6.
A mente del condannato non si riscontrerebbero in ogni modo, nella fattispecie, gli estremi dell'assassinio. Nell'ipotesi a lui più sfavorevole – egli spiega – entra in considerazione soltanto una condanna per omicidio intenzionale ex art. 111 CP, non potendosi sostenere che egli abbia agito con perversità e crudeltà tipiche di un assassino.
a)
L'uccisione volontaria di una persona costituisce assassinio, secondo l'art. 112 CP, “se il colpevole ha agito con particolare mancanza di scrupoli, segnatamente con movente, scopo o modalità particolarmente perverse”. Rispetto al previgente art. 112 CP, la norma entrata in vigore il 1° gennaio 1990, anche se con un'altra terminologia, si riferisce solo alla particolare perversità dell'autore, il quale agisce “con particolare mancanza di scrupoli” quando il movente, lo scopo o il modo di agire si riveli particolarmente efferato. Pur non esauriente, tale numerazione evita che il giudice debba fondarsi esclusivamente su una clausola generale (la particolare mancanza di scrupoli) di difficile interpretazione. L'enunciazione introdotta precisa, a differenza del diritto anteriore, che determinanti sono solo le circostanze dell'atto, quelle cioè direttamente connesse con la sua consumazione; non entrano in considerazione i trascorsi dell'autore né il suo modo di comportarsi dopo l'omicidio (DTF 117 IV 369 consid. 13; v. anche DTF 118 IV 122 consid. b;
Corboz
,
Les principales infractions,
Berna 1997, n. 4 ad art. 112 CP). Secondo il Tribunale federale, la tipologia dell'assassino cui fa richiamo l'art. 112 CP è quella descritto dallo psichiatra Hans
Binder
(
Der juristische und der psychiatrische Massstab bei der Beurteilung der Tötungsdelikte,
in: RPS 67/1952 pag. 324): una persona senza scrupoli, che agisce a sangue freddo, con egoismo crasso e primitivo, senza sentimenti sociali, che non tiene in alcun conto la vita altrui pur di realizzare il proprio interesse (DTF117 IV 369 consid. 13 con riferimenti; DTF 120 IV 274 consid. 3a, 118 IV 122 consid. 2b). In sintesi la particolare assenza di scrupoli, che delimita il campo d'applicazione dell'art. 112 CP, presuppone una colpa specialmente grave, legata solo alla commissione dell'atto (
Corboz
, loc. cit. con rinvii; CCRP, sentenza del 25 febbraio 2000 in re C. e coimputati, consid. 4a).
b)
Nel ritenere il ricorrente autore di assassinio (art. 112 CP) – e di rapina in correità con la moglie (art. 140 n. 1 CP) – la Corte di assise ha anzitutto rilevato che l'imputato ha aggredito, atterrato, imbavagliato e legato _ utilizzando una forza bruta fino a ucciderlo. Gli si è seduto sulla schiena, gli ha fratturato le costole, gli ha compresso il torace fino a bloccargli il mantice respiratorio; gli si è poi seduto sulla testa, bloccandogli le vie aeree già ostruite dal bavaglio. Nel compiere atti di tale violenza, secondo la Corte, il ricorrente si è dovuto accorgere che l'anziano stava morendo, ma non si è fermato, andando avanti fino alle estreme conseguenze. Secondo la Corte, l'imputato ha sacrificato la vita di un altro uomo, che sapeva debole e inerme per l'età, spinto da un movente particolarmente odioso, egoistico e perverso, cioè solo per derubarlo. Egli non ha esitato a uccidere – ha soggiunto la Corte – una persona che riteneva essere amica e da cui ha ricevuto del bene per togliergli il borsello e le chiavi della cassaforte. A tal fine egli non ha esitato ad aggredire e a mettere in atto contro un essere fragile una violenza talmente inaudita, sproporzionata e selvaggia da ucciderlo, lasciando visibili i segni del suo furore (fotografie agli atti). Azioni del genere, a mente dei primi giudici, denotano crasso egoismo primitivo, bruta violenza, freddezza d'animo e mancanza di sentimenti umani, come dimostrano l'immediato avido arraffare nelle tasche della vittima alla ricerca del borsello e delle chiavi per aprire la cassaforte, come pure il fatto di rovistare subito nell'appartamento alla ricerca di valori (sentenza, pag. 47 seg.).
c)
Alla luce di quanto precede, la condanna per assassinio non presta il fianco a critiche. Agendo nel modo descritto dalla sentenza impugnata, infierendo reiteratamente in modo brutale e violento su un soggetto anziano e cagionevole di salute nell'intento di derubarlo, non desistendo nemmeno quando l'agonizzante vittima non poteva più nuocere, il ricorrente ha dimostrato quella freddezza d'animo e quell'assenza di scrupoli che contraddistinguono l'assassinio. Non può pertanto essere seguito il ricorrente quando sostiene che nelle concrete circostanze in cui si è svolta l'azione non vi è stata disponibilità a sacrificare una vita umana per meri scopi egoistici, considerato che in fin dei conti egli è salito nell'appartamento di _ perché spinto dalla moglie e perché la famiglia si trovava priva di mezzi finanziari. Per soddisfare tale desiderio, foss'anche in modo illecito, non era necessario tuttavia usare una violenza del genere né cagionare una morte orrenda alla vittima. Tanto meno il ricorrente può essere seguito nella misura in cui si propone di relativizzare la gravità degli atti commessi, mettendo persino in dubbio di essersi accanito sulla vittima e di averne provocato la morte con la forza. Certo, _ è deceduto per soffocamento e non per i colpi ricevuti, dopo però che il ricorrente, non pago di averlo scaraventato contro lo stipite della porta, di averlo atterrato, di avergli fatto battere il volto sul pavimento, gli si è seduto sul dorso e poi sulla testa per imbavagliarlo e per legargli le mani dietro la schiena, nonostante che si fosse reso conto di avere tra le mani una persona che stava spirando. Manifestamente infondato, il ricorso va perciò respinto pure su questo punto.
7.
Il ricorrente si duole, a parte tutto quanto precede, dell'entità della pena irrogatagli, definendola arbitrariamente severa alla luce delle circostanze attenuanti (collaborazione prestata e scemata responsabilità) riconosciutegli.
a)
Il giudice commisura la pena alla colpa del reo tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui (art. 63 CP). La gravità della colpa è il criterio fondamentale per la fissazione della pena. A tale riguardo entrano in considerazione numerosi fattori: movente e circostanze esterne, intensità del proposito (determinazione) o della negligenza, risultato ottenuto, assenza di scrupoli, modi di esecuzione del reato, entità del pregiudizio arrecato volontariamente, durata o reiterazione all'illecito, ruolo in seno a una banda, recidiva, difficoltà personali o psicologiche e così via. Per quanto riguarda l'autore, in particolare, occorre considerare la sua situazione familiare e professionale, l'educazione ricevuta e la formazione seguita, l'integrazione sociale, gli eventuali precedenti e la reputazione in genere. Anche il comportamento dopo la perpetrazione del reato entra in linea di conto, compresa la collaborazione con gli inquirenti e la volontà di emendamento (DTF 124 IV 47 consid. 2d con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 e 116 IV 289 consid. 2a). Criteri ispirati alla parità di trattamento con casi analoghi hanno invece una portata relativa (DTF 124 IV 47 consid. 2c), mentre esigenze di prevenzione generale svolgono solo un ruolo di second'ordine (DTF 118 IV 350 consid. 2g).
b)
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia quando valuta l'importanza di ogni singolo fattore. Egli deve indicare perciò quale peso attribuisce ai vari elementi considerati, non necessariamente in cifre o percentuali, ma in modo che l'autorità di ricorso possa – pur rispettando la sua latitudine di apprezzamento – seguire il suo ragionamento e controllare l'applicazione della legge (
Queloz
,
Commentaire de la jurisprudence du Tribunal fédéral en matière de fixation et de motivation de la peine
, in: RPS 116/ 1996 pag. 136 segg.). Sapere se la pena risponda a tali esigenze e rientri nei limiti edittali è una questione di diritto, che va quindi esaminata liberamente dalla Corte di cassazione e di revisione penale; nella commisurazione della pena, per contro, questa Corte interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice di merito sia stato esageratamente severo o esageratamente mite, al punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (DTF123 IV 152 consid. 2a con richiami).
c)
Nella fattispecie la Corte di assise ha inflitto al ricorrente per i reati di assassinio (art. 112 CP), rapina (art. 140 n. 1 CP), infrazione e contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti (art. 19 e 19
a
LStup) la pena complessiva di 12 anni di reclusione, sottolineando l'estrema gravità oggettiva e soggettiva dei reati. Per egoistico e basso motivo – essa ha spiegato – l'imputato ha soppresso con brutalità un anziano malato, che egli considerava persino come un secondo padre. Senza remore né ripensamenti ha infierito sulla vittima, cosciente che, massacrata alle costole, imbavagliata e impedita di respirare, essa sarebbe morta nel giro di alcuni minuti. Rivelando cinismo e freddezza d'animo, il prevenuto ha poi rovistato nelle tasche dell'uomo e nell'appartamento, incurante del dramma provocato. Nemmeno quando ha avuto conferma del decesso, ha soggiunto la Corte di assise, egli si è disperato; anzi, sceso al piano inferiore per informare la moglie, è di nuovo risalito per rubare, pensando soltanto al profitto. Pur imputando spietatezza all'imputato, la prima Corte ha ritenuto di poter contenere la pena in 12 anni di reclusione per considerare la collaborazione prestata, segnatamente la confessione, il carcere preventivo sofferto, le difficili condizioni personali, familiari e sociali e, in specie, la scemata responsabilità (art. 11 CP), non tanto per quel che riguarda la capacità di valutare l'illiceità dell'agire, quanto piuttosto per quel che riguarda la capacità di determinarsi secondo tale valutazione (sentenza, pag. 49 a 53).
d)
Di fronte a premesse del genere non si può rimproverare ai primi giudici di avere irrogato una pena eccessivamente severa. Autore di un efferato crimine come l'assassinio di un anziano indifeso a scopo di rapina, il ricorrente non poteva contare su particolare clemenza della Corte. Ai fini della commisurazione della pena, questa ha infatti considerato in misura adeguata le circostanze attenuanti che potevano entrare in considerazione. Anche al riguardo il gravame è destinato pertanto all'insuccesso.
8.
Gli oneri processuali del giudizio odierno sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 CPP), che rifonderà alla parte civile _, la quale ha presentato le osservazioni per il tramite di un legale, un'indennità di fr. 600.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c604570e-6eaf-5b0a-9f93-68124657126d | Con decreto di accusa del 5 giugno 2000 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ autrice colpevole di omicidio colposo per avere cagionato con imprevidenza colpevole la morte di _ e ne ha proposto la condanna a 3 mesi di detenzione sospesi condizionalmente per due anni. L'accusata ha presentato opposizione, chiedendo il 14 luglio 2000 al presidente della Corte delle assise correzionali la dispensa dal presenziare al pubblico dibattimento (art. 229 CPP) e il 31 agosto 2000 ha prodotto un certificato medico in cui il dott. _ attestava la “complessa patologia psichiatrica” della paziente. Il 17 luglio 2001 _ ha fatto pervenire al presidente della Corte un nuovo rapporto del 16 luglio 2001 in cui lo stesso medico confermava che la paziente si trovava da lui in cura psichiatrica sin dal 15 gennaio 1993, che essa soffriva di una forma nevrotica complicata, con tratti ansiosi, ossessivi e fobici su di uno sfondo isterico, che poco dopo l'inizio della terapia essa si era trovata in gravi difficoltà coniugali sfociate nella separazione, che essa ha poi dovuto sostenere da sola, con gli aiuti comunali, sé stessa e i due figli, e che in tale contesto essa aveva iniziato a prendere lezioni di guida, fiduciosa che ciò le avrebbe conferito maggiore autonomia. Il dottor _ ha ribadito tale diagnosi ancora il 9 novembre 2001.
D.
Citata al processo del 14 novembre 2001, _ non si è presentata. Il presidente della Corte delle assise correzionali ha quindi rinviato il dibattimento e ha ordinato, viste le richieste delle parti e il rapporto del dott. _, il richiamo dalla Sezione della circolazione dell'incarto riguardante l'accusata, una perizia psichiatrica e una tecnica, come pure l'audizione in aula del dottor _. Fondandosi sulla perizia psichiatrica del 25 giugno 2002 del dott. _, il presidente della Corte ha poi autorizzato _ a non comparire al dibattimento previsto per il 30 dicembre 2002. Statuendo quel 30 dicembre 2002, il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha confermato tanto l'imputazione quanto la proposta di pena contenute nel decreto di accusa, condannando inoltre l'imputata a rifondere a _, costituitasi parte civile, un'indennità di fr. 5478.10.
E.
Contro la sentenza appena citata _ ha introdotto il 31 dicembre 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 10 febbraio 2003, essa chiede di essere prosciolta dall'imputazione di omicidio colposo o almeno, in via subordinata, di vedersi ridurre la pena a una multa in virtù degli art. 64 e 66
bis
CP. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
2.
La ricorrente rimprovera anzitutto alla prima Corte di avere negato a torto l'interruzione del nesso causale adeguato tra il suo comportamento, giudicato contrario agli elementari doveri di prudenza imposti dalle circostanze, e l'evento, ossia le gravi lesioni che hanno portato alla morte del dott. _. Essa sostiene che la corresponsabilità del maestro conducente (inadeguata reazione alla situazione di pericolo) risulta tanto grave da relegare in secondo piano la disattenzione di lei, consistente nell'avere accelerato anziché frenato l'automobile.
3.
L'art. 117 CP punisce chi, per negligenza, cagiona la morte di una persona con la detenzione o con la multa. Giusta l'art. 18 cpv. 3 CP, inoltre, commette un crimine o un delitto per negligenza chi, per imprevidenza colpevole, non ha scorto le conseguenze della sua azione e non ne ha tenuto conto. L'imprevidenza è colpevole ove l'agente non abbia usato le precauzioni cui era tenuto secondo le circostanze e le sue condizioni personali. Un comportamento viola i doveri di prudenza, in particolare, quando al momento dei fatti l'autore avrebbe potuto, tenendo conto delle sue conoscenze e delle sue capacità, rendersi conto della messa in pericolo altrui e ha oltrepassato i limiti del rischio ammissibile (DTF 129 IV 119 consid. 2.1 pag. 121, 127 IV 62 consid. 2d pag. 64, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17;
Trechsel
, StGB, Kurzkomnentar, 2a edizione, n. 28a e 33 ad art. 18 CP). Per determinare precisamente quali siano i doveri imposti dalla prudenza occorre riferirsi alle disposizioni emanate a salvaguardia della sicurezza e per evitare incidenti (DTF 129 IV 119 consid. 2.1 pag. 121), a cominciare dalle norme sulla circolazione stradale (DTF 122 IV 133 consid. 2a pag. 135, 225 consid. 2a pag. 227; sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 3.1;
Trechsel
, op. cit., n. 29 ad art. 18 CP), segnatamente gli art. 27, 31 LCStr e 3 ONC e – data la presenza di un allievo conducente – gli art. 15, 100 n. 3 LCStr e 27 ONC, che regolano i doveri della persona che l'accompagna.
4.
Tra il comportamento colpevole contrario a un dovere di prudenza e l'esito deve sussistere inoltre un rapporto di causalità naturale e adeguato. Un rapporto di causalità naturale è dato se il comportamento colpevole raffigura la condizione necessaria dell'evento, ossia se non può essere tralasciato senza che l'evento venga a meno, ancorché non ne sia la causa unica (sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 4 pag. 7; DTF 115 IV 199 consid. 5b e rinvii pag. 206). Al proposito un alto grado di verosomiglianza è sufficiente (DTF 122 IV 17 consid. 2c/aa pag. 23, 121 IV 207 consid. 2a pag. 212, 118 IV 30 consid. 6a). L'accertamento della causalità naturale è una questione di fatto, come tale sindacabile soltanto sotto il ristretto profilo dell'arbitrio (art. 288 lett. c CPP), a meno che il giudice di merito abbia disconosciuto il concetto stesso di causalità naturale (sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 4 pag. 8; DTF 122 IV 17 consid. 2c/aa pag. 23, 121 IV 207 consid. 2a e rinvii pag. 212).
La causalità naturale deve poi essere adeguata. È necessario quindi stabilire se il comportamento dell'agente fosse idoneo, secondo l'andamento ordinario delle cose e l'esperienza generale della vita, a cagionare o a favorire l'evento (sentenze del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003 consid. 4 pag. 8 e 6S.54/2002 del 27 giugno 2002, consid. 4.2 pag. 4; DTF 130 IV 7 consid. 3.2 pag. 10, 127 IV 62 consid. 2d pag. 65, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17). La causalità adeguata è un problema di diritto, che questa Corte – come il Tribunale federale – esamina con pieno potere cognitivo (DTF 121 IV 207 consid. 2a e rinvii pag. 213). Essa viene a meno, e il concatenamento dei fatti perde la sua rilevanza giuridica, allorché un'altra causa concomitante, come ad esempio la colpa di un terzo o della vittima, sopravvengano senza poter essere previste. Il carattere imprevedibile non è in sé sufficiente per interrompere il nesso di causalità: la concausa o la concolpa deve avere un peso tale da risultare l'origine più probabile e immediata dell'evento considerato e relegare in second'ordine tutti gli altri fattori, in particolare, il comportamento dell'agente (sentenze del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003 consid. 4 pag. 8 e 6S.54/2002 del 27 giugno 2002, consid. 4.2 pag. 4 e 5; DTF 130 IV 7 consid. 3.2 pag. 10, 127 IV 62 consid. 2d pag. 65, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17, 122 IV 17 consid. 2c/bb pag. 23, 121 IV 27 consid. 2a pag. 213).
5.
Stando alla sentenza impugnata, raggiunta via _ a una velocità dichiarata di 20-30 km sulla corsia di sinistra in direzione del lungolago e passati i primi due semafori, l'imputata si è avvicinata al terzo, intenzionata a svoltare a sinistra. Alla distanza di circa 20 metri e 2.5 secondi prima di raggiungere l'intersezione, essa ha perso il controllo del mezzo, premendo a fondo il pedale dell'acceleratore invece di frenare. Interrogata sulla dinamica dell'infortunio, l'interessata ha dichiarato inizialmente di avere rallentato dopo avere visto che il semaforo passava al rosso e di essersi spaventata perché a qualche metro dalla linea di arresto il maestro di guida le aveva urlato di fermarsi. Era andata così a travolgere la motocicletta, che nemmeno aveva notato (sentenza, pag. 18). In un successivo verbale essa ha dichiarato invece di avere creduto di poter passare con il verde, di avere frenato per svoltare a sinistra, di avere a quel momento ricevuto l'ordine di frenare e di non avere in ogni modo notato la motocicletta che le stava davanti (sentenza, loc. cit.). Dal canto suo _ ha riferito di avere impartito all'allieva il primo ordine di fermarsi già a 20 m dalla linea di arresto, quando il semaforo era passato all'arancione (sentenza, pag. 19). In seguito ha precisato di non avere visto subito la moto ferma al semaforo, la quale sarebbe sopraggiunta da destra, ma di averla in ogni modo notata ferma al semaforo quando questo segnava il rosso. Data la velocità ridotta dell'automobile lasciava tutto il tempo per fermarsi, egli ha sollecitato l'allieva a frenare. Anziché ottemperare all'ordine, però, quest'ultima ha cominciato ad accelerare, anche dopo le sue reiterate ingiunzioni a fermarsi. Resosi conto che l'allieva non ubbidiva, egli aveva tirato il freno a mano, senza però riuscire a evitare la collisione, l'accusata essendo in preda al panico e tenendo il piede rigido sull'acceleratore (sentenza, loc. cit.).
Stando sempre alla sentenza impugnata, le tracce di frenata lasciate dalle ruote posteriori dell'Opel bloccate dal freno a mano iniziano 15 metri prima della linea di arresto posta presso il semaforo; ciò confermerebbe – a mente della prima Corte – la deposizione del maestro conducente, secondo cui il primo ordine di frenare sarebbe stato impartito a circa 20 m dal semaforo (sentenza, pag. 20). Il primo giudice ha quindi puntualizzato che, stando al perito giudiziario ing. _, ciò significa che, alla velocità data, vi erano 2.5 secondi di tempo per reagire e adottare un comportamento adeguato alle circostanze; mentre che per l'accusata bastava spostare il piede destro dall'acceleratore al freno per arrestare il veicolo, per il maestro conducente, riconosciuta l'emergenza, in assenza di doppi comandi bastava agire sul volante e sterzare verso destra (sentenza, pag. 20 seg. con riferimento ad act. TPC 27, risposta n. 4 e al verbale del dibattimento, pag. 7).
6.
Nel vagliare le responsabilità il presidente della Corte ha ricordato anzitutto che secondo l'art. 100 n. 3 LCStr chi accompagna un allievo conducente è responsabile dei reati commessi durante gli esercizi di guida, mentre l'allievo è responsabile delle infrazioni che avrebbe dovuto evitare in base al suo grado di istruzione. Simile principio applicandosi anche in materia penale, la responsabilità dell'allievo conducente è direttamente proporzionale alla sua formazione ed esperienza. La giurisprudenza ha avuto modo di stabilire così che responsabile è l'allievo conducente e non la persona che lo accompagna se, in procinto di passare l'esame e circolando a una velocità ridotta in direzione di un parcheggio a cui si accede unicamente passando sopra un marciapiede, l'allievo investe un pedone nonostante l'immediato arresto della vettura (sentenza, pag. 23 con riferimento a JdT 1966 I pag. 473). Scusabile è invece l'allievo deviato dalla sua traiettoria da un colpo di vento, dopo avere effettuato 22 lezioni di guida, poiché privo della necessaria formazione per reagire adeguatamente (sentenza, pag. 23 con riferimento a DTF 97 IV 39). Il presidente della Corte ha quindi illustrato gli obblighi che incombono all'accompagnatore (art. 15 LCStr e 27 ONC), rilevando in particolare che questi è tenuto a sorvegliare costantemente la guida e deve essere in grado di reagire se confrontato a una incapacità dell'allievo, sia tirando il freno a mano sia afferrando egli medesimo il volante (sentenza, pag. 23 con riferimento alla sentenza del Tribunale federale del 20 settembre 2002 pubblicata in SJZ 98 pag. 582 e in DTF 129 IV 272).
Ciò posto, il primo giudice ha accertato che in concreto l'allieva conducente, prossima all'esame e con circa 40 lezioni alle spalle, aveva indubbiamente perso il controllo del veicolo in malo modo per effetto di un primordiale errore di guida, avendo essa confuso il pedale dell'acceleratore con quello del freno, fallendo una manovra che ogni allievo conducente dev'essere in grado di compiere sin dalla prima volta che affronta la strada (sentenza, pag. 23). E ciò nell'ipotesi a lei più favorevole, scartando l'eventualità di un incidente dovuto ad attacco isterico (sentenza, pag. 23). Per di più, l'imputata aveva perseverato nell'errore, rimanendo bloccata con il piede sul gas per almeno 2.5 secondi nonostante le ingiunzioni del maestro conducente, mentre le sarebbe bastato portare il piede destro sul freno ed evitare l'incidente. Tali errori costituiscono una mancanza fondamentale ai doveri di padronanza del mezzo (art. 31 cpv. 1 LCStr). Oltre a ciò l'interessata aveva violato l'art. 27 LCStr omettendo di fermarsi al semaforo rosso e non aveva prestato la dovuta attenzione agli altri utenti della strada (art. 3 ONC), avendo ammesso di non avere visto la motocicletta che la precedeva sulla corsia di sinistra (sentenza, pag. 24). Infine quel giorno, come tutte le altre volte, la ricorrente si era messa al volante con una licenza di allieva conducente, ottenuta mentendo sulle proprie condizioni di salute e circolando nonostante una malattia nervosa che la rendeva assolutamente inabile alla guida, onde un'ulteriore violazione dell'art. 31 cpv. 2 LCStr (sentenza, pag. 24).
Il presidente della Corte delle assise correzionali si è domandato dipoi in che misura il comportamento del maestro di guida potesse avere influito sul sinistro. Pur riferendosi alle risultanze dell'esame tossicologico, positivo per i derivati della cannabis, egli ha ritenuto nondimeno che, in mancanza di migliori riscontri, tale circostanza – seppure incompatibile con l'art. 31 cpv. 2 LCStr – non consentiva di ravvisare un'incapacità alla guida, potendosi solo accertare che qualche giorno prima dell'infortunio egli aveva consumato una modica quantità di hashish, senza influsso sul comportamento quell'11 luglio 1998 (sentenza, pag. 25). Quanto al modo in cui il maestro di guida aveva reagito all'errore dall'allieva, egli ha ritenuto che invece di tirare il freno a mano e tentare di togliere la gamba della conducente dall'acceleratore, egli avrebbe dovuto intervenire sullo sterzo. Come il perito giudiziario ing. _ ha affermato, che regola dell'arte è che un maestro conducente in una simile situazione eviti la collisione con il primo ostacolo visibile – nel caso specifico la motocicletta – afferrando il volante, data la mancanza di doppi comandi e la scarsa efficacia del freno di stazionamento (pag. 25 con riferimento ad act. 27). _ aveva reagito perciò in maniera inadeguata, con grave negligenza (sentenza, pag. 25 con riferimento a pag. 7 del verbale del dibattimento). D'altro lato, se 2.5 secondi possono sembrare un lungo periodo di reazione, si deve considerare altresì che _ non aveva dovuto reagire in una situazione di traffico immediatamente riconoscibile come pericoloso, ma a un inspiegabile comportamento dell'allieva, improvvisamente manifestatasi in una situazione di circolazione apparentemente tranquilla. E ben si può ritenere che l'accusata avesse sottaciuto anche al maestro le sue reali condizioni di salute nervosa, che se note avrebbero verosimilmente indotto il maestro a maggiore prontezza. Ciò temperava in qualche misura la negligenza, seppure con grande verosimiglianza un corretto comportamento del maestro avrebbe evitato la collisione (sentenza, pag. 26).
Appurata la negligenza dell'una e dell'altro, il presidente della Corte si è poi interrogato se la prima potesse nondimeno essere considerata come la causa adeguata della morte del motociclista, giungendo a una risposta affermativa. A suo avviso il decesso di _ si riconduce in primo luogo alle mancanze dell'imputata, la quale ha commesso madornali errori di guida, confondendo gli unici due pedali della vettura, rifiutando di correggere l'errore e di adottare il facile correttivo nonostante il tempo disponibile e le reiterate ingiunzioni del maestro conducente. Per di più, il precario stato di salute nervosa non era compatibile con la guida, circostanza a lei nota e sottaciuta alla Sezione della circolazione. Negligenze tanto imperdonabili appaiono assolutamente preponderanti per il verificasi del sinistro anche di fronte all'insufficiente reazione del maestro che, sbagliando, non è intervenuto sul volante. Tale mancanza non è tuttavia un elemento concomitante così inusitato da risultare come la causa immediata e più probabile dell'accaduto. Nelle circostanze descritte il primo giudice ha ritenuto pacifico che l'adeguatezza del nesso causale non sia venuta a meno. L'omissione dell'accompagnatore, seppure (gravemente) lesiva delle norme della circolazione, non ha assunto nell'infortunio quel carattere di eccezionalità e imprevedibilità tale da farla apparire come la vera causa della morte della vittima (v. anche sentenza, pag. 28). Il solo fatto di ammettere ipoteticamente che se _ avesse sterzato invece di tentare di agire sulla gamba dell'accusata _ non sarebbe deceduto, non esclude che il tragico evento sia da ricondurre alla negligenza assolutamente preponderante dell'imputata (sentenza, pag. 26 seg.; v. anche pag. 28).
7.
La ricorrente insiste sulla corresponsabilità del maestro conducente, sottolineando come il perito abbia accertato senza mezzi termini che l'accompagnatore ha agito in modo errato e che qualora fosse intervenuto anche sullo sterzo (e non solo sul freno a mano), con grande probabilità l'urto sarebbe stato evitato. Lo stesso perito ha ravvisato, del resto, una grave violazione dei doveri da parte del maestro. Né va trascurato che, secondo il perito, il maestro sapeva probabilmente della scarsa decelerazione del freno a mano, per sua natura poco efficace, e tuttavia ha sbagliato priorità, omettendo di evitare il primo ostacolo visibile, ossia la motocicletta. La ricorrente fa notare inoltre che gli accertamenti dell'ing. _ coincidono con quelli del perito di parte ing. _ (act. TPC 15a), secondo cui l'azione sul volante rappresenta sicuramente l'intervento più immediato ed efficace, tanto più che il maestro aveva tutto il tempo per modificare la traiettoria, mentre il tentativo di sollevare il piede dell'allieva dall'acceleratore non doveva nemmeno entrare in considerazione, essendo notorio che una muscolatura della gamba contratta da picco adrenalinico non può essere vinta a forza di braccia. Ai corsi per maestri di guida si insegna esplicitamente che, di fronte a un rischio d'incidente, occorre scegliere il minore dei mali e intervenire con decisione sul volante (act. 15, pag. 4). Per la ricorrente il primo giudice ha dunque interpretato i due referti con arbitrio, soprattutto nella misura in cui ha cercato di relativizzare la grave negligenza di _, la cui corretta reazione avrebbe evitato il sinistro (verbale del processo, pag. 7). Essa definisce poi una semplice supposizione il fatto di avere sottaciuto all'accompagnatore le proprie condizioni di salute, in specie di fronte alla manifesta imprevidenza del maestro conducente, l'automobile essendo sprovvista di doppi comandi e imponendo una maggiore attenzione. La ricorrente nega poi di essere stata prossima all'esame pratico di guida. Anzi, essa circolava con un'automobile che non conosceva, poco giovando la circostanza di avere guidato in autostrada. Se nonostante le quasi 40 ore di lezione essa non era ancora pronta per l'esame pratico, ciò denota tutte le sue difficoltà.
Le argomentazioni testé riassunte, seppure esposte con diligenza, non bastano a rimettere in causa la sentenza impugnata. Che negli attimi che hanno preceduto la collisione _ avrebbe dovuto comportarsi diversamente, intervenendo sul volante anziché limitarsi a tirare il freno a mano e tentare di togliere la gamba dell'accusata dall'acceleratore, con il probabile risultato di evitare l'impatto si desume senza ambagi dalla sentenza impugnata. Il presidente della Corte ha seguito infatti l'opinione del perito giudiziario, secondo cui l'incidente si sarebbe potuto evitare solo agendo sullo sterzo (sentenza, pag. 25). Certo, egli ha usato il condizionale, ritenendo per finire che – stando proprio alla perizia – vi sarebbe stata una grave violazione dei doveri del maestro conducente, il cui comportamento potrebbe essere qualificato come gravemente negligente (sentenza, loc. cit.). Di fatto però egli ha accertato che l'accompagnatore si è comportato in maniera inadeguata, mentre una corretta reazione di lui avrebbe permesso con grande probabilità di evitare lo scontro. Il primo giudice ha espressamente soggiunto, anzi, di non avere motivo per scostarsi dalla perizia (sentenza, pag. 25 seg.). Pur considerando che il maestro non ha dovuto reagire a una situazione di traffico immediatamente percettibile come pericolosa, ma piuttosto a un inspiegabile comportamento dell'allieva conducente, improvvisamente manifestatosi in un contesto di circolazione non problematico, e pur dando per verosimile che _ non conoscesse le reali condizioni di salute nervosa dell'imputata, il presidente della Corte non ha mancato di rilevare la negligenza di lui, aderendo all'opinione del perito, stando al quale una corretta reazione dell'accompagnatore avrebbe impedito – con grande probabilità – la collisione (sentenza, pag. 26). La ricorrente pone quindi l'accento su una concausa ammessa anche dal primo giudice. La sua argomentazione non basta però a dimostrare che il comportamento del maestro conducente fosse inadeguato al punto da relegare in sott'ordine i suoi macroscopici errori di guida, evitabili finanche da un allievo esordiente.
È vero che la giurisprudenza si è finora dimostrata restrittiva nel liberare un maestro conducente dalle responsabilità derivanti dalla sua funzione, non essendo egli un accompagnatore ordinario, bensì un professionista che dev'essere in grado di soccorrere l'allievo in caso di bisogno (DTF 129 IV 272 consid. 3 pag. 275 con rinvii, riferito al caso di un maestro conducente ebbro, e DTF 97 IV 41; v. anche DTF 93 IV 29). Nella fattispecie non è questione tuttavia di sollevare _ da dovere alcuno, né fa dubbio che questi sia corresponsabile del sinistro, sicché mal si comprende il decreto di abbandono emanato il 5 giugno 2000 dal Procuratore pubblico in relazione all'ipotesi di omicidio colposo (act. 8). Ma ciò non è sufficiente per scagionare l'accusata, ove appena si considerino le severe condizioni cui soggiace per il Tribunale federale l'interruzione del nesso di causalità adeguata in caso di concolpa (sopra, consid. 3).
A ragione la ricorrente fa notare che, contrariamente a quanto ha rilevato il primo giudice (sentenza, pag. 23) e a quanto lei medesima aveva preteso (sentenza, pag. 17), quell'11 luglio 1998 essa non era prossima all'esame pratico di guida, ciò che ha confermato anche il maestro conducente (verbale dell'11 luglio 1998). Lo stesso maestro di guida ha dichiarato, comunque sia, che essa era in grado di circolare nel traffico, avendola egli accompagnata più volte a _ e a _ nel centro cittadino e avendo constatato che essa se la cavava bene, nonostante una certa tendenza a innervosirsi. Anche se era la prima volta che circolava a _, essa aveva già guidato in autostrada (sentenza, pag. 17 con riferimento al verbale dell'11 luglio 1998). Ora, che l'imputata fosse pronta o no a sostenere l'esame pratico e fosse in grado o no di circolare in autostrada (art. 27 cpv. 4 ONC), resta il fatto che la sua presenza a _ quella mattina in condizioni di traffico normali, quantunque alla guida di un veicolo senza doppi comandi, non costituiva certo un fattore di rischio che doveva indurre il maestro conducente a una sorveglianza qualificata. L'allieva aveva pur sempre 40 ore di lezioni di guida alle spalle, ciò che doveva consentirle di evitare almeno gli sbagli più crassi, tanto più alla guida di un mezzo con cambio automatico (sentenza, pag. 17 con riferimento alla perizia giudiziaria act. TPC 27, punto 6). Né la ricorrente può essere seguita allorché definisce la negligenza del maestro di guida non solo grave, ma eclatante, tale da rendere senza alcun rilievo le infrazioni da lei commesse, dato il suo stato di inferiorità nei confronti dell'insegnante, la sua scarsa preparazione ed esperienza. L'imputata non era affatto una sprovveduta allieva alle prime armi (cfr. DTF 97 IV 41) e da lei ci si poteva almeno ragionevolmente attendere che non confondesse il pedale dell'acceleratore con quello del freno, tanto meno tenendolo pigiato a sproposito, per compiere una normale fermata a un semaforo rosso in situazioni di traffico normale. Nella misura in cui sostiene l'interruzione del nesso di causalità adeguata sulla sola base della negligenza imputabile al maestro conducente, trascurando la propria, la ricorrente allega dunque una tesi priva di consistenza.
8.
La ricorrente si duole che il presidente della Corte le abbia ascritto una colpa definita gravissima, dovuta a sbagli imperdonabili e a primordiali errori di guida, avendo essa ottenuto in modo fraudolento la licenza di allievo conducente, avendo essa sottaciuto al maestro la sua malattia nervosa, avendo essa preso il volante ben sapendo di trovarsi in uno stato di salute mentale gravemente compromesso e avendo essa confuso il gas con il freno, perseverando nell'errore. A mente sua tali motivi sono suffragati solo in parte dagli atti del processo, e a tratti finanche smentiti, onde una sua negligenza da lieve a media.
9.
Nel proprio referto peritale (act. TPC 28) il dott. _ ha riportato, tra l'altro, gli scritti del dott. _ sulle condizioni di salute nervosa dell'imputata, e in particolare un rapporto da cui risulta che dal profilo clinico la paziente denotava nel 1993 un quadro psicopatologico compatibile con la diagnosi di isteria di conversione (sentenza, pag. 10). Egli ha pure riprodotto il parere espresso il 12 aprile 1995 dal ginecologo dott. _ all'appoggio di una richiesta con cui l'interessata postulava l'interruzione della gravidanza, nel quale il medico ricordava gli aspetti depressivi mascherati da sintomi fisici, gli aspetti isterici di conversione e di dissociazione e gli aspetti psicotici riscontrati nella paziente (sentenza, pag. 11). Dopo due incontri con l'accusata e due colloqui telefonici, il dott. _, aderendo alla diagnosi del collega _, ha ravvisato nell'accusata un'effettiva isteria di conversione, caratterizzata da deficit riguardanti le funzioni motorie volontarie o sensitive, i cui sintomi sono individuabili in alterazioni della coordinazione e dell'equilibrio, in paralisi, afonia, difficoltà di deglutire o sensazione di nodo alla gola, in perdita della sensibilità tattile o dolorifica, diplopia, cecità, sordità, allucinazioni, convulsioni (sentenza, pag. 12). Al pubblico dibattimento i due psichiatri hanno confermato la loro diagnosi, il dott. _ precisando i periodi in cui l'imputata si era sottoposta a sedute presso di lui e quelli invece in cui non l'aveva vista, la paziente avvertendo una soggettiva percezione di benessere (sentenza, pag. 12). In realtà dal 1993 in poi essa non è mai guarita. Non a caso, dal 1994 le sono stati prescritti 3 mg di “Haldol” al giorno (un farmaco che, secondo il dottor _, produce un leggero effetto sedativo) perché si ricordasse della relazione terapeutica. Ed essa ha continuato a soffrire della malattia fino al settembre del 1996, quando ha chiesto il rilascio della licenza per allievo conducente (sentenza, pag. 13 con riferimento al verbale del processo, pag. 5).
Il 16 settembre 1996 l'imputata ha inviato alla Sezione della circolazione il formulario per ottenere la licenza di allievo conducente, rispondendo negativamente alle domande su eventuali malattie nevose o malattie (act. TPC 21). Il presidente della Corte ha accertato che, almeno per quanto riguardava le malattie nervose, la risposta era inveritiera, sebbene l'imputata pretendesse di avere interrotto la terapia proprio nel settembre del 1996 perché si sentiva bene. I due psichiatri hanno chiaramente indicato – egli ha soggiunto – che a quel momento essa soffriva almeno di una malattia nervosa, era consapevole di essere in cura da un dottore in psichiatria e psicoterapia e non poteva ignorare i suoi disturbi e il suo disagio nervoso (sentenza, pag. 13). Giustificare la risposta mendace con la circostanza di avere fatto redigere il formulario dalla figlioletta, nata nel 1987, ne era solo la conferma (sentenza, pag. 13). Secondo il presidente della Corte, quindi, l'imputata aveva intenzionalmente mentito per ottenere il rilascio di una licenza che altrimenti non avrebbe ottenuto, specie se l'autorità fosse stata a conoscenza di un certificato come quello rilasciato il 16 luglio 2001 dal dott. _ (sentenza, pag. 13).
In realtà, ha concluso il presidente della Corte, l'imputata non era atta alla guida, la cosiddetta isteria di conversione – con sintomi parzialmente analoghi a quelli di altre malattie neurologiche come l'epilessia – non essendo assolutamente compatibile con la guida di un veicolo a motore. Un'affezione che comporta la perdita di controllo fisico (alterazioni della coordinazione e dell'equilibrio, paralisi, spasmi muscolari) o sensoriale (allucinazioni, cecità, diplopia) non è conciliabile con la sicurezza stradale (sentenza, pag. 14). Tant'è che alla visita del 13 settembre del 1996 l'imputata nulla ha detto al medico curante circa la richiesta di licenza per allievo conducente, che il medico avrebbe senz'altro disapprovato (sentenza, loc. cit.). Se ne è rallegrato invero il dott. _ nella primavera del 1997, quando l'ha saputo, scorgendo in ciò un ampliamento dell'autonomia da parte della paziente, senza preoccuparsi per il pericolo che essa avrebbe potuto costituire per il traffico (sentenza, pag. 14). Ne è rimasto perplesso invece dott. _, il quale non ha mancato di esternare le sue riserve nella perizia giudiziaria (sentenza, loc. cit.), rilevando che – contrariamente all'opinione del dottor _ – il possibile manifestarsi di isterie nella paziente non era limitato ai momenti affettivamente significativi, ma si estendeva anche ai conflitti e allo stress. E la circolazione stradale, secondo il presidente della Corte, comporta anche situazioni spiacevoli, a cominciare da quando si perde il controllo del mezzo. Indipendentemente dalla causa concreta del sinistro, il primo giudice ha ritenuto perciò che i disturbi dell'imputata potessero manifestarsi anche al volante di un'automobile (sentenza, pag. 15).
Per concludere, il presidente della Corte ha reputato fortemente probabile che l'incidente, alla luce della sua singolare dinamica, fosse dovuto alla malattia dell'accusata, la quale era stata presa dal panico per essere stata colta da uno spasmo muscolare che le aveva irrigidito la gamba destra sul pedale dell'acceleratore, mentre lei era incapace di gestire la situazione (sentenza, pag. 15 seg.). Il perito giudiziario ing. _ non aveva approfondito tale ipotesi, limitandosi a rilevare che la negligenza dell'imputata risultava palese già per avere essa mentito all'autorità sulle proprie condizioni di salute al momento di ottenere il rilascio della licenza di allievo conducente e per avere circolato in condizioni del genere (art. 31 cpv. 2 LCStr), giudicate subito inidonee dalla Sezione della circolazione dopo esserne venuta a conoscenza (sentenza, pag. 16). In definitiva, la responsabilità dell'accusata è stata individuata piuttosto nei suoi primordiali errori di guida (sentenza, pag. 24).
10.
Nella misura in cui critica la sentenza impugnata in relazione al rimprovero di avere sottaciuto all'autorità la sua malattia nervosa e di essersi messa alla guida di un veicolo pur consapevole del suo precario stato di salute, il ricorso si esaurisce in un atto d'appello. A prescindere dal fatto che l'interessata si confronta solo di scorcio con le diffuse considerazioni del primo giudice circa il fatto di avere deliberatamente sottaciuto alla Sezione della circolazione i suoi problemi psichici quando ha chiesto il 16 settembre 1996 la licenza di allievo conducente, problemi di cui era ben conscia, nel memoriale essa non solleva censure di arbitrio (termine cui nemmeno accenna), ma si limita a contrapporre il proprio punto di vista a quello del primo giudice, senza lontanamente far apparire insostenibile la valutazione delle prove (in particolare la documentazione medica e la perizia giudiziaria) da parte del presidente della Corte. In sostanza essa tenta di rendere altrettanto verosimile di non avere mentito, di non essersi resa conto dei rischi legati al suo stato di salute psichico, tutto ciò attraverso una diversa lettura delle risultanze processuali, del vero senso attribuibile a determinate dichiarazioni del perito per quanto riguarda il suo grado di consapevolezza. Ciò non basta per dimostrare che la diversa conclusione cui è giunto il presidente della Corte interpretando in altro modo il referto del perito e ragionando in base alla comune esperienza sia il risultato di un eccesso o di un abuso di apprezzamento nella valutazione delle prove, tanto meno di fronte alla chiara presa di posizione del perito psichiatrico al dibattimento (verbale del processo, pag. 5). D'altro canto, interrogata dal dottor _ l'accusata non ha preteso di avere risposto negativamente ai quesiti su eventuali patologie psichiche perché convinta di essere guarita; ha detto solo che il formulario era stato compilato dalla giovane figlia.
Né giova alla ricorrente in un ricorso fondato sul divieto dell'arbitrio ribadire che a suo carico non è stato aperto alcun procedimento per abuso della licenza e delle targhe (art. 97 LCStr), la veridicità delle risposte da lei date all'autorità amministrativa non dipendendo dall'esistenza di un perseguimento penale. Tanto meno le soccorre diffondersi sul senso attribuibile alle parole del dottor _ per criticare la conclusione del presidente della Corte, secondo cui essa era inidonea alla guida anche al momento dell'infortunio. Se il suo stato psichico le impediva di ottenere la licenza nel 1996, non è arbitrario ritenere infatti che le sue condizioni di salute non le permettessero di circolare nemmeno nel 1998, dato che la malattia perdurava (sentenza, pag. 12). Quanto alla tesi, secondo cui il sinistro non può essere ricollegato allo stato patologico di cui soffriva la ricorrente, basti ricordare che il presidente della Corte, pur avendo vagliato l'argomento, ha per finire ritenuto l'ipotesi non determinante ai fini delle singole responsabilità (sentenza, pag. 16). Stando alla ricorrente, infine, andrebbe ritenuta del tutto inadeguata la reazione del maestro conducente, il quale le aveva urlato più volte di frenare, provocandole un verosimile irrigidimento della gamba, proprio quando stava per frenare. Fondato su congetture, l'assunto sfugge chiaramente a un esame di merito.
11.
Ricordata la distinzione tra negligenza lieve e grave, specie nel caso in cui occorra pronunciarsi sul grado di responsabilità di un allievo conducente rispetto a quello di un maestro di guida, la ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere usato un criterio estremamente severo per valutare la responsabilità di lei, sino a formulare supposizioni non suffragate dagli atti del processo, e di avere mostrato totale indulgenza nei confronti dell'accompagnatore, trascurando che questi poteva evitare la collisione se appena avesse agito correttamente. A suo modo di vedere la negligenza di lei impallidisce se raffrontata al rimprovero sociale e giuridico che si può muovere al maestro conducente, per altro non incensurato e non al di sopra di ogni sospetto per quanto riguarda l'uso di marijuana e, forse, di anfetamine. Il primo giudice avrebbe disconosciuto così la corretta distinzione tra negligenza lieve e grave.
Il ricorso si dimostra una volta ancora destinato all'insuccesso. Il presidente della Corte in effetti non ma mancato di redarguire il maestro conducente per l'inadeguata reazione al momento critico, tanto da condividere l'opinione del perito giudiziario, il quale aveva scorto nel comportamento di lui una grave negligenza, al punto che se avesse reagito correttamente avrebbe (verosimilmente) evitato la collisione (sentenza, pag. 25 seg.). A mente del primo giudice, tuttavia, ciò non bastava per relegare in sott'ordine le infrazioni dell'accusata (v. anche pag. 28), ancor più gravi e riprovevoli. La colpa del maestro conducente, in altri termini, non vanificava uno sbaglio tanto marchiano come quello di confondere il pedale dell'acceleratore con quello del freno e di tenere premuto il primo invece del secondo senza riuscire a correggersi, mentre il solo fatto di levare il piede avrebbe (verosimilmente) evitato l'infortunio. A ciò si aggiungeva l'inavvertenza di non avere notato neppure la motocicletta che la precedeva. In una situazione del genere l'inadeguata reazione del maestro conducente non riesce di intensità tale da porre in secondo piano un comportamento a dir poco assurdo. Certo, un maestro conducente ha anche il ruolo di garante, ma ciò non libera l'allievo da qualsiasi responsabilità, tanto meno dopo 40 ore di lezione. Da essa si poteva pretendere almeno che evitasse sbagli colossali (DTF 97 IV 41). Che poi essa fosse affetta da una malattia nervosa ignota all'accompagnatore non può evidentemente essere imputato a quest'ultimo, ma tutt'al più all'allieva medesima, che aveva sottaciuto il fatto anche all'autorità. Senza violare il diritto il presidente della Corte poteva quindi scartare un'interruzione del nesso di causalità adeguata per concolpa del maestro conducente.
12.
La ricorrente si duole che non le sia stata concessa l'attenuante del lungo tempo trascorso (art. 64 CP), rammentando che essa va riconosciuta allorché sia prossima la prescrizione ordinaria dell'azione penale e la procedura preveda un appello con effetto devolutivo e sospensivo, com'è il ricorso per cassazione nel Cantone Ticino. In concreto – essa prosegue – i fatti risalgono all'11 luglio del 1998 e la sentenza impugnata è del 30 dicembre 2002. La prescrizione ordinaria, tenuto conto che il reato imputatole è un delitto (art. 117 CP), è di 5 anni (art. 70 cpv. 4 vCP). Essa è quindi ormai prossima. Quanto al rimprovero di avere contribuito a dilazionare il procedimento collaborando poco con il perito, esso non sorretto da alcunché. Il ritardo è da attribuire, se mai, all'autorità giudiziaria.
a)
Il giudice può attenuare la pena se è trascorso un tempo relativamente lungo dal reato e se la durante questo tempo il colpevole ha tenuto buona condotta (art. 64 cpv. 8 CP). Secondo giurisprudenza, il tempo “relativamente lungo” va apprezzato per rapporto alla prescrizione ordinaria dell'azione penale giusta l'art. 70 vCP, non solo per rapporto alla prescrizione assoluta dell'art. 72 vCP (DTF 92 IV 201 consid. Ic pag. 203). Sapere se l'azione penale sia prossima alla prescrizione ordinaria si determina inoltre con riferimento al momento in cui è emanata la sentenza di merito, salvo in caso di ricorso provvisto di effetto devolutivo e sospensivo (DTF 115 IV 95 consid. 3 pag. 96;
Wiprächtiger
in: Basler Kommentar, Strafgesetzbuch I, n. 28 ad art. 64 CP con riferimento anche a DTF 126 IV 84 consid. 3 non pubblicato). Il Tribunale federale ha giudicato “relativamente lungo” per rapporto al termine di prescrizione ordinaria – ad esempio – il tempo trascorso dalla commissione del reato equivalente ai nove decimi del termine stesso, non invece un lasso di 7 anni rispetto al termine ordinario di prescrizione di 10 anni, né un periodo di 44 mesi rispetto a un termine ordinario di prescrizione di 5 anni (
Wiprächtiger
, op., cit. n. 29 ad art. 64 CP con riferimenti a
Trechsel
, op. cit., n. 24 ad art. 64 CP con riferimenti).
b)
Nel commisurare la pena, Il presidente della Corte ha riconosciuto in favore dell'accusata, oltre alla corresponsabilità del maestro conducente (ancorché meno grave della sua crassa negligenza), gli oltre quattro anni trascorsi dall'incidente, non senza disconoscere che circa un anno era decorso solo per accertare se la prevenuta, la quale poco collaborava con il perito giudiziario, fosse in grado di affrontare il processo. Tale lasso di tempo non gli è apparso sufficiente per applicare l'attenuante specifica dell'art. 64 cpv. 8 CP. Ha tenuto conto del tempo trascorso, in ogni modo, nel quadro dell'art. 63 CP (sentenza, pag. 28).
c)
Non a torto la ricorrente si duole che il primo giudice le ha rimproverato di avere ritardato il procedimento penale collaborando poco con il perito psichiatrico. Certo, al momento di applicare l'art. 64 cpv. 8 CP il giudice può tenere conto anche del comportamento processuale dell'autore, mostrandosi meno generoso se con il proprio comportamento questi ha contribuito a procrastinare la procedura (DTF 92 IV 203). Nella fattispecie non consta però che l'interessata abbia provocato un inutile dilungo di procedura. Dal giorno in cui è avvenuto l'incidente (11 luglio 1998) a quello in cui è stata pronunciata la sentenza di assise (30 dicembre 2002), poi, sono trascorsi 4 anni, 5 mesi e 19 giorni, equivalenti a circa nove decimi del termine ordinario di prescrizione. Ci si potrebbe domandare pertanto se nella fattispecie il primo giudice non dovesse concedere l'attenuante dell'art. 64 cpv. 8 CP. Sia come sia, la questione può rimanere indecisa per le considerazioni che seguono.
Nel condannare la ricorrente alla pena di tre mesi di detenzione il presidente della Corte ha precisato che, senza le circostanze attenuanti riconosciute all'accusata (concolpa del maestro conducente, tempo trascorso e – in misura minore – trauma psichico patito), la pena sarebbe stata lunga più del doppio, e ciò senza voler dar prova di severità (sentenza, pag. 28). Si volesse anche considerare il tempo trascorso ai fini profilo dell'art. 64 cpv. 8 CP anziché nell'ambito del solo art. 63 CP, per tacere del fatto che in buona parte le due norme si sovrappongono quanto alla commisurazione della pena, la ricorrente non potrebbe pretendere una condanna più mite di quella inflittale, i tre mesi di detenzione a lei irrogati dal primo giudice risultando senz'altro proporzionati al grado di colpa e alle reali attenuanti che entravano in considerazione, inclusa quella del tempo trascorso. D'altro canto, la ricorrente nemmeno pretende che nel condannarla a tre mesi di detenzione il primo giudice abbia dato prova di esagerato rigore. Essa lamenta una disparità di trattamento, ricordando altri casi giudicati da Corti ticinesi, senza spiegare tuttavia in che consisterebbe l'asserita disuguaglianza. Insufficientemente motivato, al proposito il ricorso è finanche inammissibile.
d)
La ricorrente torna sull'art. 64 cpv. 8 CP per far valere che l'attenuante del lungo tempo trascorso le deve essere riconosciuta se non altro in cassazione, determinante al riguardo essendo il giudizio di appello (DTF 115 IV 95). Ora, a parte il fatto che v'è da domandarsi se un ricorso per cassazione, ancorché devolutivo e provvisto di effetto sospensivo come nel Ticino (art. 290 cpv. 1 CPP), sia equiparabile a un appello nel senso della sentenza testé citata, già si è visto che nel suo risultato la pena irrogata alla ricorrente è senz'altro proporzionata al grado di colpa e alle circostanze attenuanti di cui essa poteva beneficiare, indipendentemente dalla norma in base alla quale si consideri il tempo trascorso. Nel suo risultato, una condanna inferiore ai tre mesi di detenzione per fatti come quelli accertati dal presidente della Corte di assise nel caso specifico è fuori discorso.
13.
La ricorrente insorge contro la mancata applicazione dell'art. 66
bis
cpv. 1 CP, secondo cui ove l'agente sia stato colpito dalle conseguenze dirette del suo atto così duramente da far apparire una pena inappropriata, l'autorità prescinde dal procedimento penale, dal rinvio a giudizio o dalla punizione. Ora, l'art. 66
bis
CP riguarda casi in cui l'autore abbia sofferto di lesioni fisiche o psichiche, ad esempio per essersi addormentato al volante (DTF 117 IV 245) o in seguito a colpi di pistola durante una presa d'ostaggio (DTF 121 IV 162) o per avere perduto un figlio in un incidente imputabile al genitore medesimo (DTF 119 IV 280). In simili frangenti l'autore si ritrova direttamente colpito dalla conseguenze della lesione che egli ha commesso. Nella prospettiva dell'art. 66
bis
CP deve quindi sussistere uno stretto nesso tra il bene offeso e la lesione subìta. Non bastano conseguenze indirette del reato, come quelle dovute all'apertura dell'istruttoria e del procedimento penale, al pagamento di tasse di giustizia, alla perdita dell'impiego in seguito all'atto illecito ecc. (sentenza del Tribunale federale 6S.46/2002 del 24 maggio 2002, consid. 5b pag. 10).
a)
La prima Corte ha negato in concreto gli estremi dell'art. 66
bis
CP, rilevando che la sofferenza lamentata dall'imputata non è la conseguenza diretta del suo agire, ma tutt'al più l'effetto della pregressa malattia nervosa, la quale impedisce di elaborare correttamente il trauma di cui è – o dovrebbe essere –vittima qualunque autore di omicidio colposo. Quanto alla sofferenza psichica dell'autore del reato, essa non è sufficiente sotto il profilo dell'art. 66
bis
CP, ostandovi in ogni modo la gravità della colpa (sentenza, pag. 28).
b)
La ricorrente richiama il referto del dottor _, secondo cui l'evento è stato particolarmente doloroso per lei, ancora afflitta da pesanti sofferenze e sensi di colpa, con molti ricordi traumatici e particolare reattività a eventi che simbolizzano l'accaduto. Essa richiama anche il parere del dottor _, secondo cui essa è preda di una sofferenza intollerabile, stanti le difficoltà a rielaborare l'accaduto e i sentimenti di colpevolezza. Se non che, a prescindere dalla circostanza che – stando ai vincolanti accertamenti del primo giudice – le sofferenze in questione non traggono diretta origine dall'accaduto, ma si ricollegano (anche) a una pregressa malattia nervosa che impedisce di gestire le vicissitudini con cui ogni autore di omicidio colposo deve convivere, il mero fatto di soffrire psichicamente – ancorché profondamente – per avere cagionato la morte altrui (non uno stretto congiunto, come nel caso pubblicato in DTF 119 IV 280), non basta per applicare l'art. 66
bis
CP (
Favre/Pellet/Stoudmann
, Code pénal annoté, Losanna 1997, n. 1 ad art. 66
bis
CP), tanto meno nel caso in cui l'autore abbia agito con grave colpa o con grave negligenza (cfr. Rep. 1994 pag. 461 consid. a). Considerando le sofferenze psichiche nel quadro dell'art. 63 CP, il presidente della Corte non ha perciò violato il diritto.
14.
Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile, il ricorso dev'essere respinto. Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c62c49cc-f9cf-514a-8dba-3d7b442e7caf | in fatto ed in diritto
1.
A carico, tra gli altri, di PI 2 è stato aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 15.12.2008 emanato dall’allora procuratore pubblico Luca Maghetti (DA _). Il predetto decreto è passato in giudicato il 19.01.2009.
2.
Con la presente istanza la IS 1 (di seguito IS 1) chiede, in applicazione dell’art. 30 della LF del 22 marzo 1974 sul diritto penale amministrativo (DPA), di poter accedere – tra gli altri – agli atti dell’incarto penale DA _ (già inc. MP _) riguardante PI 2.
A sostegno della sua richiesta precisa che presso la IS 1 è stato aperto un procedimento penale amministrativo nei confronti di diverse persone del Canton _ e _ per sospetto di infrazione alla Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer, RS 812.21) in relazione al commercio all’ingrosso di medicamenti / alla violazione di norme GDP. Secondo le informazioni fornite dal _ cantonale diversi incarti penali, tra cui quello riguardante PI 2, potrebbero contenere informazioni utili per il procedimento penale amministrativo in questione. Il _ cantonale ticinese si occuperà dell’ispezione degli atti e di fotocopiare gli atti necessari per la IS 1.
3.
Come esposto in entrata, il procuratore generale si è rimesso al giudizio di questa Corte. PI 2, dal canto suo, ha acconsentito alla visione dei suoi atti.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
IS 1
è l'autorità centrale svizzera di sorveglianza per gli agenti terapeutici. In qualità di ente di diritto pubblico della Confederazione, con sede a _, esso è autonomo nella sua organizzazione e gestione e dispone di fondi propri. IS 1 fa parte del Dipartimento federale dell'interno ed ha iniziato la sua attività il 1°.01.2002 con l’entrata in vigore della
LATer
. A tutela della salute delle persone e degli animali, IS 1 si assicura che i medicamenti e i dispositivi medici siano efficaci e sicuri. La valutazione approfondita degli agenti terapeutici comprende il riconoscimento tempestivo di nuovi rischi e la realizzazione rapida di misure riguardanti la sicurezza. IS 1 informa puntualmente in modo mirato gli specialisti e il pubblico sui problemi e le nuove conoscenze nel settore degli agenti terapeutici.
Le competenze di IS 1 sono in particolare l'omologazione di medicamenti, le autorizzazioni di esercizio per la fabbricazione e il commercio all'ingrosso nonché le ispezioni, la sorveglianza del mercato di medicamenti e dispositivi medici, il controllo del traffico degli stupefacenti, gli esami analitici di laboratorio sulla qualità del medicamento e l'attività legislativa e la normalizzazione (cfr. _; cfr. anche LATer).
5.2.
La LATer prevede delle disposizioni penali [cfr., al proposito, art. 86 LATer ss.; Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3060 ss.].
Giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer il perseguimento penale nell’ambito della competenza della Confederazione è condotto dalla IS 1 in virtù delle disposizioni della DPA.
La IS 1 può dunque condurre inchieste (che esigono conoscenze tecniche approfondite) ed emanare decreti e decisioni penali. Nella misura in cui sono dati gli estremi per infliggere una pena o per ordinare una misura privativa della libertà, il giudizio spetta al tribunale (art. 21 cpv. 1 DPA) [Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3063].
I servizi della Confederazione e dei Cantoni competenti per l’esecuzione della LATer provvedono allo scambio di dati sempre che l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 1 LATer).
Il Consiglio federale può prevedere la comunicazione di dati a altre autorità o organizzazioni qualora l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 2 LATer).
Le autorità amministrative della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni devono prestare assistenza, nell’espletamento dei loro compiti, alle autorità incaricate del procedimento e del giudizio in materia di cause penali amministrative; esse devono segnatamente comunicare loro tutte le informazioni occorrenti e concedere loro di prendere visione degli atti ufficiali che possono avere importanza per il procedimento penale (art. 30 cpv. 1 DPA).
Giusta l’art. 30 cpv. 2 DPA l’assistenza può essere negata soltanto quando vi si oppongano importanti interessi pubblici, segnatamente la sicurezza interna o esterna della Confederazione o dei Cantoni, ovvero quando essa pregiudichi notevolmente l’autorità richiesta nell’esecuzione dei suoi compiti. I segreti confidati giusta gli articoli 171–173 CPP devono essere serbati. Del rimanente, in materia d’assistenza sono applicabili gli articoli 43–48 CPP (art. 30 cpv. 3 DPA). Gli organismi con compiti di diritto pubblico sono tenuti, nell’ambito di questi compiti, a prestare la stessa assistenza delle autorità (art. 30 cpv. 4 DPA).
Non va del resto dimenticato che le autorità cantonali comunicano tutte le sentenze, decisioni amministrative di carattere penale e dichiarazioni di non doversi procedere emanate in applicazione, tra l’altro, della LATer all’IS 1 (art. 3 cifra 15 dell’Ordinanza concernente la comunicazione di decisioni penali cantonali del 10.11.2004, RS 312.3).
Infine, l’allora Camera dei ricorsi penali – dall’1.01.2011 Corte dei reclami penali – nella decisione 16.02.2010 (inc. CRP _) aveva stabilito che IS 1, essendo un’autorità penale di perseguimento giusta l’art. 90 LATer, non doveva ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP TI (ora art. 62 cpv. 4 LOG) in relazione alla richiesta di poter accedere agli atti di un procedimento penale pendente a carico di diverse persone per contravvenzione aggravata alla LATer [
"
(...). Nel presente caso, in base all’art. 90 della Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici, l’istante è l’autorità competente per il perseguimento penale delle violazioni della surriferita legge. Trattandosi di un’autorità penale di perseguimento, non deve ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP, ma ha diritto di accedere agli atti e ricevere copia dei medesimi, in quanto necessario per l’adempimento delle sue attribuzioni penali. (...)
"
(decisione 16.02.2010, p. 2, consid. 4., inc. CRP _)].
5.3.
Alla luce di quanto sopra esposto, richiamate in particolare le competenze conferite alla IS 1 e le suddette disposizioni, questa Corte con decisione 24.05.2013 (inc. CRP _) ha ritenuto di dover emanare una decisione di principio, statuendo quanto segue:
"
La Corte
dei reclami penali riconosce, di principio, alla IS 1 – quale autorità di perseguimento penale giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer – un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG per poter esaminare (e se, del caso, fotocopiare) gli atti di procedimenti penali conclusi utili ai fini delle sue incombenze direttamente presso le autorità penali ticinesi (ovverossia presso il Ministero pubblico, il Tribunale penale cantonale, la Pretura penale, la Corte di appello e di revisione penale e questa Corte), senza dover ricorrere di volta in volta alla procedura ex art. 62 cpv. 4 LOG, dimostrando nondimeno l’esistenza di una connessione tra i suoi obblighi di competenza (in applicazione della LATer) e i fatti oggetto del procedimento penale concluso (di cui chiede la compulsazione degli atti).
Va da sé che la compulsazione degli atti deve avvenire nel rispetto del segreto professionale (art. 61 LATer).
In caso di dubbio, la IS 1 può presentare a questa Corte un’istanza ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG rispettivamente le autorità penali ticinesi coinvolte possono trasmettere la richiesta, per competenza, a questa Corte in applicazione della predetta disposizione
"
(decisione 24.05.2013, p. 5, inc. CRP _).
6.
Per quanto interessa la fattispecie in esame, la IS 1 può dunque rivolgersi direttamente al Ministero pubblico, autorità alla quale viene ritornata, per evasione, la presente istanza.
7.
Stante la funzione dell’istante e la finalità della richiesta, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c637fcb8-d788-58eb-9ab8-f424449d8ae7 | in fatto: A.
_ (19 dicembre 1980) è stata rinvenuta morta il
23 febbraio 2000 nell'abitazione del padre, a Mergoscia, verosimilmente per un'overdose di metadone. In esito all'inchiesta che ne è seguita, il 21 dicembre 2000 i genitori di lei, _ e _, sono stati posti in stato di accusa siccome prevenuti colpevoli di coazione sessuale e atti sessuali con fanciulli (art. 189 cpv. 1 e 187 n. 1 CP) per avere, in un'occasione tra il 1995 e il 1996, addormentato con un sonnifero la figlia, averla denudata, adagiata supina sul letto matrimoniale e resa oggetto di toccamenti ai genitali da parte della madre, mentre il padre, nudo a cavalcioni sulla ragazza, raggiungeva l'erezione (capi d'accusa n. 1 e 2). _ è stato accusato altresì di ripetuti atti sessuali con fanciulli (art. 187 n. 1 CP) e ripetuti atti sessuali con persone dipendenti (art. 188 n. 1 CP) per avere, “in date imprecisate nel periodo 1993/1996”, ripetutamente stretto il seno e toccato i genitali della figlia, giungendo due volte finanche alla congiunzione carnale (capi d'accusa n. 3 e 4). Infine entrambi i coniugi sono stati accusati di violazione del dovere d'assistenza o educazione (art. 219 cpv. 1 CP) per gli atti loro imputati, _ inoltre per avere esposto a pericolo lo sviluppo fisico della ragazza continuando a frequentare l'abitazione del marito anche dopo essere venuta a sapere dalla figlia, nell'estate del 1997, degli abusi commessi dal marito (capi d'accusa n. 5 e 6).
B.
Con sentenza del 15 marzo 2001 la Corte delle assise criminali in Bellinzona ha riconosciuto _ e _ autori colpevoli di coazione sessuale e atti sessuali con fanciulli in relazione al predetto episodio definito “del sonnifero” (capi di accusa n. 1 e 2). Ha prosciolto gli imputati invece dagli altri addebiti, liberando _ dai capi d'accusa n. 3 e 4 in virtù del principio
in dubio pro reo
e assolvendo entrambi i coniugi dai capi d'accusa n. 5 e 6, il solo episodio “del sonnifero” non bastando per la Corte a configurare una violazione del dovere d'assistenza o educazione. In applicazione della pena _, cui è stata riconosciuta una scemata responsabilità di grado medio, è stato condannato a due anni di reclusione, compreso il carcere preventivo sofferto. A _ sono stati inflitti 18 mesi di detenzione, computato il carcere preventivo sofferto, con la sospensione condizionale per due anni.
C.
Contro la sentenza di assise il Procuratore pubblico ha inoltrato il 16 marzo 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 25 aprile successivo, egli lamenta arbitrio nell'accertamento dei fatti e violazioni del diritto sostanziale, postulando l'annullamento della sentenza impugnata e la sua riforma nel senso di condannare gli imputati anche per i capi di accusa n. 3, 4, 5 e 6: _ a 7 anni di reclusione e all'espulsione dalla Svizzera per 10 anni, _ a 3 anni di reclusione. In subordine egli chiede il semplice annullamento della sentenza impugnata con rinvio degli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio. Nelle sue osservazioni del 21 maggio 2001 _ propone di respingere il ricorso. Identica conclusione formula _ con osservazioni del 22 maggio 2001. | Considerando
in diritto: 1.
Il Procuratore pubblico, l'accusato o il suo difensore possono interporre ricorso per cassazione contro tutte le sentenze di merito delle Corti penali (art. 287 cpv. 1 CPP). Nel vecchio diritto di procedura, fino al 1° gennaio 1996, il Procuratore pubblico non era legittimato a impugnare accertamenti di fatto alla base di giudizi assolutori (art. 230 n. 1 vCPP; CCRP, sentenza del 30 luglio 1993 in re A., consid. 3 con richiamo a Rep. 1971 pag. 159, 1973 pag. 22, 1983 pag. 184). Tale restrizione è venuta a cadere con l'entrata in vigore del nuovo art. 288 CPP, che ha esteso “il ricorso a motivo di accertamento dei fatti arbitrario (...) a tutte le sentenze, quindi pure a quelle assolutorie. Il magistrato penale potrà dunque prevalersi di tale titolo ricorsuale in sede cantonale” (rapporto della Commissione speciale per l'esame del CPP sul messaggio 11 marzo 1987 e sul messaggio aggiuntivo
bis
9 luglio 1992 concernenti la revisione totale del CPP, dell'8 novembre 1994, pag. _, quarto paragrafo). Sul piano federale la situazione è diversa, giacché il Procuratore pubblico può introdurre ricorso per cassazione, ma non ricorso di diritto pubblico (DTF 118 Ia 46 consid. 3a, 113 Ia 232 consid. 2a, 112 Ia 174 consid. 3), unico rimedio che gli permetterebbe di censurare davanti al Tribunale federale l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (DTF 124 IV 81 consid. 2a con riferimenti), tanto in sentenze di condanna quanto in sentenze di assoluzione.
2.
Il ricorso per cassazione è ammissibile, nel Ticino, sia per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti alla base della sentenza (art. 288 lett. a CPP) sia per arbitrio nell'accertamento dei fatti medesimi (art. 288 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in aperto contrasto con gli atti (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 II 10 consid. 3a con rinvii, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a; sulla nozione di arbitrio nella valutazione delle prove: DTF 118 Ia 30 consid. 2b con rinvii). Per motivare una censura di arbitrio non basta quindi criticare un determinato accertamento e invocare una diversa valutazione delle prove, per quanto preferibile appaia, ma occorre indicare con precisione l'accertamento contestato. Inoltre bisogna spiegare per quale ragione l'accertamento sia manifestamente insostenibile, si trovi in chiaro contrasto con gli atti o contraddica in modo urtante il sentimento di giustizia e di equità (DTF 125 II 10 consid. 3a, 124 I 86 consid. 2a, 123 I 1 consid. 4a, 122 I 61 consid. 3a). Infine l'accertamento deve rivelarsi arbitrario nel suo risultato, non solo nella sua motivazione (DTF 125 II 129 consid. 5b, 124 II consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a, 122 I 253 consid. 6c con richiami).
3.
Alla Corte di assise il Procuratore pubblico rimprovera anzitutto, per quanto riguarda _, di avere trascurato una valutazione complessiva delle prove, limitandosi ad apprezzare singolarmente i vari indizi, e di avere attribuito “valenza assoluta” alle dichiarazioni rilasciate in aula dai familiari dell'imputato, “disattendendo l'imperativo della valutazione globale di tutte le emergenze pre e dibattimentali”. Ciò configurerebbe arbitrio e violerebbe il principio
in dubio pro reo
(memoriale, pag. _ e _). Priva di ogni riferimento concreto, la doglianza si esaurisce tuttavia in una critica d'ordine generale e non è ricevibile in un ricorso per cassazione, ove occorre indicare concretamente quali prove la Corte di merito avrebbe negletto e quali altre avrebbe valutato con arbitrio. Su questo punto il gravame sfugge a ulteriore disamina.
4.
A parere del Procuratore pubblico la prima Corte sarebbe caduta in arbitrio “omettendo di considerare che la colpevolezza di _ per l'‘episodio del sonnifero’ era la dimostrazione della veridicità delle accuse della figlia al padre e omettendo poi di considerare questo giudizio di colpevolezza dell'accusato nell'ambito delle ulteriori accuse” (memoriale, pag. _, prima metà). La censura non è seria. Che l'imputato sia risultato colpevole in relazione ai capi d'accusa n. 1 e 2 non significa per ciò soltanto ch'egli dovesse risultare necessariamente colpevole anche in relazione ai capi d'accusa n. 3, 4 e 5. Né l'aspetto “fortemente indiziante” del reato compiuto può costituire – come reputa il Procuratore pubblico – una sorta di presunzione di colpevolezza per le altre imputazioni. Anche su questo punto il ricorso non ha consistenza.
5.
Stando al Procuratore pubblico, i giudici di merito avrebbero disconosciuto le ammissioni del prevenuto in sede istruttoria, non potendosi negare rilievo penale ai toccamenti da egli riconosciuti (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo). La stessa Corte di assise ha compiutamente ricordato però che l'imputatato non negava di avere stretto i seni della figlia in più occasioni (sentenza, pag. _), salvo spiegare perché (sentenza, pag. _ in basso), nel dubbio, non poteva escludersi che tali gesti fossero – come ripeteva l'imputato – “inseriti in un contesto che non ha nulla di sessuale (di lotta, di solletico o le pur criticabili modalità con cui il padre tentava di rassicurare la figlia sulla bellezza del suo corpo)”. Che l'imputato stringesse i seni della figlia “sotto il maglione” o si eccitasse al contatto con l'altra figlia (circostanza per altro relativizzata da costei al dibattimento: sentenza, pag. _ in fondo) desta sospetti. Ma sospetti, ancorché pesanti, non bastano a giustificare una condanna penale, né fanno apparire manifestamente insostenibili i dubbi della prima Corte. Tanto più che nemmeno si sa – neppure per ordine di grandezza – quante volte i toccamenti al seno siano stati compiuti sull'arco dei quattro anni (1993-1996) indicato nell'atto di accusa.
6.
Sostiene il Procuratore pubblico che la Corte di assise ha trascurato l'attrazione sessuale esercitata dalla figlia sull'imputato nelle fantasie da lui evocate durante i rapporti intimi con la moglie, come pure l'atteggiamento di lui, che ha tentato di mettere in dubbio la correttezza dei verbali istruttori e la contraddittorietà del suo atteggiamento, quando ha preteso di avere redarguito la figlia maggiore perché soleva uscire nuda dalla stanza da bagno, mentre questa ha affermato che in casa la nudità non era un problema (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo). Argomenti del genere non sono idonei a sostanziare censure di arbitrio. Contrariamente all'opinione del Procuratore pubblico, la Corte di assise non ha “disatteso” le questioni predette: anzi, essa medesima le ha accennate (pag. _ consid. 15, pag. _ consid. 21, pag. _ segg.), interpretandole però in altro modo. Al riguardo il ricorso costituisce in realtà un atto di appello in cui il Procuratore pubblico taccia di arbitrio quanto non condivide. Ma ciò non basta a integrare gli estremi dell'art. 288 lett. c CPP. Donde l'inammissibilità del gravame.
7.
Il Procuratore pubblico definisce arbitrari i dubbi della prima Corte fondati sulle mancate verifiche di quanto la figlia aveva genericamente confidato nel corso di un paio d'anni a familiari (la madre, la sorella, la nonna), a operatori di una comunità di ricupero e a uno psicologo. Sottolinea che i riscontri oggettivi si trovano negli atti istruttori: toccamenti riconosciuti, tracce di sperma rinvenute su un body della figlia, baci alle parti intime della ragazza, dichiarazioni della figlia maggiore, dichiarazioni della moglie e della madre dell'imputato (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo). Ancora una volta però il Procuratore pubblico presenta alla stregua di un ricorso per cassazione quello che in realtà è un atto di appello. Come si è già spiegato, nell'ambito di una censura di arbitrio (art. 288 lett. c CPP) occorre designare con precisione, in primo luogo, qual è l'accertamento contestato. Il processo per cassazione non è la continuazione del processo di assise. Non basta quindi invocare verbali istruttori, per quanto numerosi, e dolersi di arbitrio pretendendo che la Corte di merito li abbia ignorati o non li abbia debitamente considerati. Ciò posto, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo il ricorso accenna chiaramente a due soli punti della sentenza impugnata: pag. _ e pag. _. Per quanto esula da tali passaggi (trattati in appresso), il memoriale non adempie i requisiti minimi di un ricorso per cassazione – che non appaiono sicuramente soverchi nel caso di una sentenza di 80 pagine, come in concreto – e va dichiarato inammissibile.
a)
Per quanto riguarda i due passi testé menzionati, il Procuratore pubblico assume che la Corte di assise sarebbe incorsa in arbitrio accertando che _ dubitava circa la veridicità degli abusi a lei confidati dalla figlia _ nell'estate del 1997. L'unico suo dubbio – egli afferma – verteva sull'esistenza di rapporti sessuali completi, non sugli abusi come tali, cui ha creduto fin dai primi interrogatori. La Corte di assise ha rilevato nondimeno che “la mamma si è limitata ad ascoltare le confidenze della figlia, passando da un'iniziale accettazione del contenuto di tali confidenze ad un altalenarsi di dubbi, dubbi la cui esistenza è ben documentata anche dalle diverse verbalizzazioni in atti: per la Corte più che un tentativo di difesa del marito, le precisazioni e riprecisazioni succedutesi durante la fase istruttoria predibattimentale sembrano essere indicatrici dell'atteggiamento continuamente oscillante fra negazione e dubbio proprio di chi non ha verificato le confidenze raccolte” (sentenza, pag. _ in alto). Il Procuratore pubblico evoca due verbali, ma non spiega perché sarebbe arbitrario accertare che in un primo tempo la madre aveva creduto alla figlia, la quale alludeva a rapporti completi, salvo poi dubitare e rimuginare senza
riuscire a convincersi (sentenza, consid. 7, da pag. _ a pag. _ in alto). Contrariamente all'opinione del Procuratore pubblico, poi, la Corte non ha accertato che all'“atteggiamento oscillante” della moglie – e non al “tergiversare”, come scrive il Procuratore pubblico – fosse estraneo il desiderio di aiutare il marito, ma che esso era dovuto prima di tutto al fatto di non aver voluto approfondire. Invano si cercherebbe di sapere perché tale valutazione sarebbe arbitraria.
b)
Il secondo passo della sentenza censurato nel ricorso si riferisce ancora ai dubbi di _, la Corte di assise avendo accertato che costei aveva “sempre manifestato dubbi sulla veridicità del dire di _. Non solo, come l'accusa ha sostenuto, durante l'istruttoria nell'intento di proteggere il marito. Ma anche in precedenza. Ne è chiara testimone la nonna di _ che, al dibattimento, ha precisato che Manuela aveva sempre dubitato delle parole di _, proprio a causa dell'abitudine a mentire della ragazza” (sentenza, pag. _ in alto). Il Procuratore pubblico contesta che ciò sia il caso, facendo valere che nel dicembre del 1999 la stessa imputata aveva confermato l'esistenza degli abusi subìti dalla figlia parlando con _, direttrice della Comunità di ricupero per tossicodipendenti “Il _” di _. Già prima che prendesse avvio l'inchiesta in seguito alla morte della ragazza (il 23 febbraio 2000), quindi, l'imputata non avrebbe più dubitato degli abusi. Il Procuratore pubblico dimentica tuttavia che alla direttrice _ non “ha confermato l'esistenza degli abusi”. Ha semplicemente ammesso “che _ le aveva, una volta, confidato di avere subìto abusi” (sentenza, pag. _ in alto). Perché quest'ultimo accertamento sarebbe arbitrario non è dato a divedere. Quanto alla testimonianza della nonna, essa non appare inveritiera solo perché la stessa _ si diceva convinta che fra il genero e la nipote erano intervenuti rapporti sessuali completi. Anche al riguardo il gravame denota tutta la sua natura appellatoria.
8.
Il seguito del ricorso non si distanzia da tale impostazione (da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo). Il Procuratore pubblico torna sui rapporti completi fra padre e figlia, sostenendo che la nonna ne aveva ottenuto conferma dalla stessa _, ma non si confronta con la motivazione della prima Corte (sentenza, pag. _ e _, consid. 8). Denuncia poi “il clima collusivo” che ha portato i familiari a relativizzare in aula tutte le dichiarazioni istruttorie, nega che la direttrice del centro per tossicodipendenti non abbia approfondito le dichiarazioni della ragazza, rileva l'esistenza di confidenze ripetute a più persone, contesta l'indole bugiarda e la natura affabulatoria della ragazza, rilevando che nei processi indiziari non bisogna applicare eccessivo rigore. Tutto ciò senza il minimo richiamo agli accertamenti della Corte di assise e contrapponendo all'opinione dei primi giudici solo un diverso apprezzamento delle risultanze processuali, come se la cassazione fosse un'autorità munita di pieno potere cognitivo. Il che trascende a tutto campo i limiti di un ricorso fondato sull'art. 288 lett. c CPP, rendendolo già di primo acchito irricevibile.
9.
Il Procuratore pubblico torna a deplorare il “clima di connivenza” in cui hanno deposto i familiari al processo, criticando le dichiarazioni rilasciate al dibattimento e ricordando il differente tenore dei verbali istruttori. Soprattutto per quanto riguarda la figlia Nadia egli asserisce che la Corte di assise doveva negare valenza alle deposizioni in aula, confermando il rapporto di polizia giudiziaria, la testimone non essendo credibile e dimostrandosi anzi reticente. Tanto più che le conclusioni della Corte di assise contrastano anche con l'opinione del perito, chiamato a verificare la capacità d'intendere e di volere dell'imputato (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo). Su tutti questi temi il carattere appellatorio del ricorso è flagrante e a nulla sussidiano i termini “arbitrio” e “arbitrariamente” inseriti nel discorso. Bastasse ciò per motivare un ricorso a questa Corte, nessuna differenza sussisterebbe tra un accertamento arbitrario e un accertamento manchevole, discutibile o finanche erroneo, talché il ricorso per cassazione si identificherebbe né più né meno con un ricorso in appello. Arbitrio non si ravvisa per il solo fatto che una Corte di assise dia maggior peso alle deposizioni in aula, dando ragione del suo convincimento (come in concreto a pag. _ e _ della sentenza, unici punti menzionati nel ricorso). L'arbitrio consiste in uno sbaglio qualificato, insostenibile e indifendibile. Così com'è motivato, in proposito il ricorso è inammissibile.
10.
Ripetendosi, il Procuratore pubblico evoca una volta ancora l'episodio “fortemente indiziante” del sonnifero, rammenta che l'imputato ha riconosciuto a suo tempo davanti alla figlia di averle sporcato un body di sperma e di “essere stato con lei” due volte, definisce arbitrario il fatto che la Corte di assise non le abbia considerato ciò come un'ammissione, nemmeno dopo avere accertato che l'episodio “del sonnifero” era realmente accaduto (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _ verso il basso). Così argomentando, il Procuratore pubblico dimostra ulteriormente di non avere una corretta nozione del ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. L'unico passaggio della sentenza impugnata cui si riferisce il ricorso (pag. _), per vero, è proprio quello in cui la Corte spiega perché determinati indizi (le “rassi-curazioni” alla figlia accertate a pag. _ e il colloquio “chiarifica-tore” avvenuto al bar _ narrato a pag. _) sono stati valutati in un senso piuttosto che in un altro. Il Procuratore pubblico ribadisce la propria interpretazione dei fatti, lamentando e conclamando arbitrio. Ma per sostanziare una simile censura non basta contrapporre una diversa spiegazione degli eventi, ancorché più attendibile. Nell'apprezzamento delle prove una Corte di merito gode di propria autonomia e latitudine. Cade nell'arbitrio solo ove dimentichi o fraintenda determinati atti processuali, oppure ne dia una valutazione talmente errata da risultare manifestamente insostenibile. Estremi del genere non si ravvisano nel passaggio della sentenza menzionato nel ricorso.
11.
A mente del Procuratore pubblico la separazione personale degli imputati, avvenuta nell'autunno del 1997, è un altro indizio dei rapporti sessuali tra padre e figlia, problemi coniugali essendo emersi solo al dibattimento. Inoltre afferma che l'epoca dei presunti abusi – ritenuta contraddittoria dalla prima Corte – è invece desumibile dai verbali istruttori, che le confidenze della figlia alla nonna coincidono con la perpetrazione dell'episodio “del sonnifero”, che _ era una ragazza “normalmente tranquilla, senza velleità di protagonismo”, come ha dichiarato in aula lo psicologo dott. _, che la personalità disturbata di lei spiega l'anomalo attaccamento al padre nelle circostanze descritte e che la Corte di assise ha dato credito con leggerezza all'opinione espressa in aula dal dott. _ (memoriale, da pag. _ verso il basso a pag. _ nel mezzo). La natura appellatoria delle doglianze è tanto evidente da nemmeno doversi rilevare. Il ricorso per cassazione non è un rimedio destinato a ricelebrare il processo di primo grado. La redazione di tutto il memoriale, privo di qualsiasi sistematica e di ogni individuazione delle censure, echeggia del resto il tono di una requisitoria e non la metodica esposizione cui deve attenersi un rimedio giuridico straordinario. Al riguardo l'inammissibilità del ricorso è palese.
12.
Si aggiunga, a titolo meramente abbondanziale, che la motivazione della prima Corte non prescinde da un apprezzamento globale degli indizi nel loro complesso, come reputa il Procuratore pubblico. Il ragionamento che sorregge la sentenza è chiaro. Scartata l'ipotesi che _ avesse firmato i verbali istruttori senza rileggerli (consid. 21, pag. _ e _), la Corte di assise ha ritenuto sufficientemente provato ed enucleato l'episodio definito “del sonnifero” (capi d'accusa n. 1 e 2), avvenuto nell'abitazione coniugale di _ fra il 1995 e il 1996 (consid. 22, pag. _ e _). Per quanto attiene agli altri atti sessuali, oggetto dei capi d'accusa n. 3 e 4, la Corte non ha raggiunto un grado di convincimento atto a escludere il dubbio (consid. 23, pag. _ segg.). Essa ha spiegato – in sintesi – che le accuse poggiano sulle confidenze fatte da _ tra l'estate del 1997 e il 1999 alla sorella maggiore, alla madre, alla nonna, all'amica del cuore, a due docenti, a operatori della comunità di ricupero e a uno psicologo. Se non che, per ragioni diverse, nessuno di loro aveva inquisito sui tempi, i modi o le circostanze dei presunti rapporti incestuosi, la figlia avendoli ridotti alla loro più semplice espressione (
al mè
pà al ma salta
). Mancava così un'articolata versione dei fatti, né era chiaro quando gli abusi fossero cominciati, né si capiva perché nell'autunno del 1997 la figlia, che avrebbe potuto andare ad abitare con la madre a Locarno, nonostante gli abusi fosse rimasta presso il padre a _, né ci si spiegava l'attaccamento profondo di lei verso un padre che avesse compiuto atti tanto gravi. A causa di un disturbo
borderline
della personalità (verso la psicosi) e alla grave tossicodipendenza, inoltre, _ era portata a trovate clamorose, foss'anche per farsi commiserare, diceva bugie anche grosse, inventava storie. Solo i docenti non avevano avuto tale impressione, ma essi non si erano accorti nemmeno dei problemi di droga (sentenza, da pag. _ nel mezzo a pag. _ nel mezzo).
Quanto alla separazione dei coniugi avvenuta nell'autunno del 1997 – ha continuato in sintesi la Corte – ciò era dovuto non solo alle rivelazioni della ragazza, ma anche a numerose difficoltà di coppia, mentre le pretese ammissioni di _ durante la riunione di famiglia che aveva preceduto tale separazione (sentenza, pag. _) risultavano a dir poco vaghe. Quelle raccolte da _, amica di _ per altro afflitta da problemi di alcolismo, non combaciavano con il resto. Le “rassicu-razioni” del padre alla figlia (sentenza, pag. _) mancavano di qualsiasi riscontro oggettivo, mentre il colloquio “chiarificatore” al bar _ (sentenza, pag. _), avvenuto o no, nulla mutava alla sostanza delle cose. Infine i presunti abusi sulla figlia maggiore sono risultati inconsistenti al dibattimento, ove la figlia stessa ha relativizzato le sue precedenti dichiarazioni, che leggendo i verbali istruttori destavano altre impressioni. Per quanto le dichiarazioni e i comportamenti dell'imputato non mancassero di ambiguità, invece di avvalorare l'esistenza dei rapporti incestuosi confidati – genericamente – dalla figlia, tutto ciò lasciava spazio al dubbio (sentenza, da pag. _ nel mezzo a pag. _).
Non si può certo affermare che nella valutazione delle prove testé riassunta la Corte abbia apprezzato singolarmente i vari indizi, prescindendo da un giudizio d'insieme. Semplicemente essa non è riuscita ad accertare gli abusi con un minimo di precisione e, cercandone conferma, ha trovato solo elementi che potevano anche essere interpretati a favore dell'imputato. Ora, il principio
in dubio pro reo
, discendente dalla presunzione d'innocenza garantita dagli art. 6 par. 2 CEDU e 32 cpv. 1 Cost., prescrive appunto che un giudice non può dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando un apprezzamento oggettivo delle risultanze istruttorie nel loro complesso lasci sussistere dubbi rilevanti sulla colpevolezza (DTF 120 Ia 36 consid. 2c con riferimenti di dottrina). D'altro lato nemmeno nel suo diffuso – se non prolisso – memoriale di ricorso il Procuratore pubblico giunge a dare un ordine di grandezza alla frequenza dei “ripe-tuti” toccamenti al seno, né riesce a focalizzarne il periodo (“in date imprecisate, nel periodo 1993/1996”), né riesce a circostanziare in alcun modo le due congiunzioni carnali (di cui tutto si ignora, salvo che una di esse sarebbe avvenuta a Mergoscia). Mal si comprende pertanto come, nel suo risultato, la sentenza di assise potrebbe essere arbitraria.
13.
In subordine – e in diritto (art. 288 lett. a CPP) – il Procuratore pubblico sostiene che, venissero anche a cadere i capi d'accusa n. 3 e 4 (atti sessuali con fanciulli, rispettivamente con persone dipendenti), i due imputati andrebbero in ogni modo condannati per violazione dell'art. 219 cpv. 1 CP (violazione del dovere di assistenza o educazione), come figura ai capi d'accusa n. 5 e 6 relativamente all'episodio “del sonnifero”. A suo avviso, essendo la vittima minorenne “figlia di entrambi i correi alle cui cure era affidata e trattandosi di un episodio gravissimo, il concorso ideale tra l'art. 219 e l'art. 187 CP deve essere ammesso così come già giudicato in casi analoghi” (memoriale, da pag. _ nel mezzo a pag. _). La Corte di assise è stata di altro parere: ha ritenuto che “in concreto, per l'atto di cui i coniugi _ sono stati riconosciuti colpevoli, non è stato realizzato il reato di violazione dei doveri d'assistenza o educazione: con quanto commesso (...) è stata messa in pericolo soltanto l'integrità sessuale di _” (sentenza, consid. 26, pag. _ in fondo).
Il Tribunale federale ha avuto modo di precisare recentemente che, qualora il reato di violazione del dovere di assistenza o educazione (art. 219 CP) costituisca nel contempo un reato di coazione sessuale (art. 189 CP) o di violenza carnale (art. 190 CP), il concorso è improprio e il primo reato è “assorbito” dagli altri (DTF 126 IV 136). Non v'è ragione di scostarsi da tale principio, come ha rilevato ancora più recentemente questa Corte (CCRP, sentenza del 3 aprile 2001 in re A., consid. 22), ove il reato di violazione del dovere di assistenza o educazione (art. 219 CP) costituisca nel contempo un reato di atti sessuali con fanciulli (art. 187 CP). Che nella fattispecie gli imputati abbiano violato il loro dovere di assistenza o educazione è – contrariamente all'opinione dei primi giudici – indubbio. Sapere se il concorso fra l'art. 187 CP e l'art. 219 CP sia “proprio” o “improprio” non dipende tuttavia dalla questione di sapere – come reputa il Procuratore pubblico – se la vittima sia un discendente delle parti o se il reato sia gravissimo. Criterio decisivo è sapere se l'art. 187 CP sia – analogamente agli art. 188 (atti sessuali con persone dipendenti), 189 (coazione sessuale) e 190 CP (violenza carnale) – una
lex specialis
per rapporto all'art. 219 CP (DTF 126 IV 140). Ciò è il caso, sicché l'art. 187 CP prevale su quest'ultimo.
Il concorso improprio non rimane in ogni modo senza effetto, giacché – come ha ricordato il Tribunale federale con riferimento agli art. 188, 189 e 190 CP – la posizione degli imputati, genitori della vittima, va presa in considerazione nell'ambito della commisurazione della pena, alla stregua di un fattore aggravante d'ordine personale (DTF 126 IV 140 in fondo). Nella fattispecie il Procuratore pubblico non pretende tuttavia che, a parte l'erronea motivazione della prima Corte (che ha negato la violazione dell'art. 219 cpv. 1 CP come tale), nel risultato le pene inflitte agli imputati per violazione degli art. 189 cpv. 1 e 187 n. 1 CP risultino eccessivamente miti se si tiene conto del concorso
improprio
con l'art. 219 cpv. 1 CP. Si ricordi che nella commisurazione della pena questa Corte interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice di merito sia stato esageramente severo o esageratamente mite, al punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (cfr. DTF 123 IV 152 consid. 2a con richiami). Rinviare gli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio in mancanza di una censura motivata non avrebbe senso. Anche in proposito il ricorso è destinato pertanto all'insuccesso.
14.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP). Ai condannati, che hanno presentato osservazioni con l'assistenza di un legale di fiducia, lo Stato rifonderà un'adeguata indennità per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c644a86c-ca88-5220-b45a-cfe0f8b9e185 | in fatto: A.
All’origine del presente procedimento vi è una lite scoppiata fra alcuni giovani alla fine di una festa ad _ (8 giugno 2003) verso le 04.30 del mattino.
Secondo gli accertamenti del giudice di prime cure, verso quell’ora, L., ormai ubriaco, si diresse, barcollando in modo evidente, verso l’uscita del capannone in cui si era tenuta la festa. All’esterno, cominciò a parlare di automobili con alcuni giovani. Nel corso della discussione, senza un particolare motivo, uno di questi lo spintonò facendolo cadere a terra. Mentre era a terra, L. venne colpito da diversi pugni, principalmente al volto.
Il giovane si ritrovò con la mascella fratturata.
L’aggressore riuscì a dileguarsi.
Per le conseguenze della bagarre, venne aperta un’inchiesta in esito alla quale, sulla scorta delle deposizioni rese da alcuni partecipanti alla festa (in particolare, da C.), è stato emesso il DA 9 novembre 2005 che proponeva la condanna di S. per titolo di lesioni semplici alla pena di 10 giorni di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni.
S. ha interposto opposizione a tale decreto d’accusa.
Al dibattimento, fra gli altri (L., C., A., i genitori del S.) venne sentito come teste RI 1.
Della sua audizione non è stato tenuto alcun verbale. Secondo quanto riportato in sentenza, RI 1 ha “
negato sia di avere visto sia di avere partecipato al pestaggio
” ed ha “
ribadito di non ricordarsi di avere notato l’imputato alla festa
” (sentenza pretore 6 giugno 2006 pag. 6 consid. 8).
In esito al dibattimento, il giudice della pretura penale ha emesso una sentenza di assoluzione “
non sussistendo elementi probatori sufficienti (...) che le lesioni subite dalla PC siano da ricondurre ai colpi inferti proprio dall’imputato
” (sentenza 6 giugno 2006 consid. 11).
Su ricorso della pubblica accusa, tale sentenza è stata annullata con giudizio 29 aprile 2008 da questa Corte che ha rinviato gli atti ad un nuovo giudice della pretura penale per un nuovo giudizio.
B.
Il 27 luglio 2006 – quindi, poco dopo l’intimazione della sentenza di assoluzione – è stato aperto un procedimento per falsa testimonianza nel cui ambito sono stati sentiti, come indagati, RI 1 ed i genitori di S..
Non emerge, dagli atti, né una promozione dell’accusa né un non luogo nei confronti dei coniugi S..
Per contro, il 12 luglio 2007 è stata promossa l’accusa per falsa testimonianza nei confronti di RI 1 e, il 27 settembre 2007, è stato emanato il relativo atto di accusa.
Con sentenza 8 agosto 2008, il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di falsa testimonianza per avere, il 26 giugno 2006, fatto, in qualità di testimone e dopo avere prestato giuramento, una falsa testimonianza sui fatti relativi al procedimento penale a carico di S.. In particolare, egli ha – secondo il giudice di prime cure – reso falsa testimonianza affermando, contrariamente al vero, di non avere assistito ad una colluttazione avvenuta durante una festa tenutasi ad _ , rispettivamente di non avere notato la presenza alla festa di S..
Di conseguenza, il giudice ha condannato RI 1 alla pena unica (poiché trattavasi di pena totalmente aggiuntiva ad una pena di 40 aliquote giornaliere inflittagli precedentemente per fatti posteriori a quelli qui in esame) di fr. 16’800.- corrispondenti a 210 aliquote giornaliere di fr. 80.- cadauna – pena non sospesa condizionalmente – nonché al pagamento della tassa di giustizia di fr. 500.- e delle spese.
C.
Con ricorso 17 settembre 2008, RI 1 ha chiesto, con l’annullamento della sentenza, in via principale, di essere prosciolto da ogni addebito. In via subordinata, ha chiesto l’annullamento della sentenza e il rinvio degli atti per un nuovo giudizio. Infine, in via ancor più subordinata, ha chiesto la riduzione della pena inflittagli e la sua sospensione condizionale.
D.
Accogliendo le richieste ricorsuali avanzate in via principale, questa Corte ha annullato la sentenza 8 agosto 2008 e ha prosciolto RI 1 dall’imputazione di falsa testimonianza.
E.
Contro la sentenza di questa Corte, la pubblica accusa ha presentato ricorso che è stato accolto dal TF che ha annullato la sentenza emanata da questa Corte e rinviato gli atti per nuovo giudizio, limitato alle conclusioni formulate a titolo subordinato da RI 1 (STF 6B_252/2009 del 29 maggio 2009, consid. 3.1. in fine). | Considerando
in diritto: 1.
Secondo l’art. 107 cpv. 2 LTF se il Tribunale federale accoglie il ricorso, giudica esso stesso nel merito o rinvia la causa all’autorità inferiore affinché pronunci una nuova decisione. Può anche rinviare la causa all’autorità che ha deciso in prima istanza.
Nel caso in cui il Tribunale federale annulli una sentenza e rinvii la causa per nuovo giudizio all’autorità cantonale, quest’ultima deve porre a fondamento della propria decisione i considerandi di diritto della sentenza di cassazione (cfr.
mutatis mutandis
, art. 277
ter
vPP; DTF 123 IV 1 consid. 1 pag. 3; STF 6B_161/2009 del 7 maggio 2009; BJP 3/2009 pag. 82). Benché gli art. 66 vOG e 277
ter
capoverso 2 vPP non siano stati ripresi nella nuova normativa federale, è evidente che l’autorità cui la causa è stata rinviata deve, per principio, fondare la nuova decisione sui considerandi della decisione del Tribunale federale (Messaggio concernente la revisione totale dell’organizzazione giudiziaria federale del 28 febbraio 2001, FF 2001 3901). I punti che non sono stati toccati rimangono acquisiti (DTF 121 IV 109 consid. 7 pag. 128 con richiami; CCRP, sentenza del 10 giugno 2009,
inc. n. 17.2009.24 consid. 1).
La giurisprudenza ha precisato nondimeno che, nei limiti del divieto della
reformatio in peius
, la nuova decisione deve riguardare anche punti non contestati dinanzi al Tribunale federale, in quanto la loro connessione lo esiga (DTF 123 IV 1 consid. 1 pag. 3, 121 IV 190 consid. 7 pag. 128 con rinvii, 17.2003.30).
2.
In via subordinata alla sua assoluzione, RI 1 ha chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado e il rinvio degli atti ad un nuovo giudice per un nuovo giudizio. In via ancor più subordinata, ha chiesto una riduzione della pena e la sua sospensione condizionale.
E’ evidente che, visto quanto indicato sopra e le conclusioni di colpevolezza cui è giunto il TF, a questa Corte rimane soltanto da pronunciarsi sulla richiesta di riduzione della pena e di una sua sospensione condizionale.
3.
Procedendo alla commisurazione della pena, il giudice di prime cure ha, dapprima, sottolineato la gravità oggettiva del reato di cui RI 1 deve rispondere – gravità che “
risulta già solo per il fatto che l’art. 307 cpv. 2 CP in concreto applicabile avendo l’autore prestato giuramento prevede una sanzione minima di 180 aliquote giornaliere”
(sentenza impugnata pag. 17) – per poi indicare che anche la colpa dell’imputato è grave poiché egli si è presentato al processo “
gravato da 2 precedenti penali recenti e vicini tra loro, in specie avendo prestato la falsa testimonianza in discussione soltanto 16 giorni dopo avere commesso i reati di guida nonostante la revoca e inosservanza dei doveri in caso di infortunio
” (sentenza impugnata pag. 17).
Rilevando, poi, che la pena da infliggere era una pena unica, comprensiva di quelle di cui alle condanne 5 maggio 2006 per guida in stato di inattitudine e 1 marzo 2007 per guida nonostante la revoca della licenza di condurre ed inosservanza dei doveri in caso di infortunio, il primo giudice, dopo avere sottolineato “
l’assenza di particolari attenuanti fatto salvo il rilievo dell’età di giovane adulto”
, ha condannato RI 1 alla pena complessiva di 210 aliquote giornaliere specificando che si tratta di una pena “
pari a poco più del minimo edittale per il solo reato di falsa testimonianza”
e, dunque, si tratta di una pena “
per nulla severa anzi indulgente
” (sentenza impugnata pag. 17).
3.1.
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. Come il Tribunale federale, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo laddove la sanzione si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all’art. 47 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest’ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare eccesso o abuso del potere di apprezzamento (DTF 135 IV 191 consid. 3.1; 134 IV 17 consid. 2.1; 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti, 128 IV 73 consid. 3b pag. 77, 127 IV 10 consid. 2 pag. 19; STF 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.3; STF 6B_78/2008, 6B_81/2008, 6B_90/2008 del 14 ottobre 2008 consid. 3.3).
Ai sensi dell’art. 47 CP, il giudice commisura la pena alla colpa dell'autore, tenendo conto della vita anteriore e delle condizioni personali dell'autore, nonché dell'effetto che la pena avrà sulla sua vita (cpv. 1). La colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell'offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché, tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l'autore aveva di evitare l'esposizione a pericolo o la lesione (cpv. 2).
Come nel vecchio diritto (art. 63 vCP), dunque, il giudice commisura la pena essenzialmente in funzione della colpevolezza del reo. Il legislatore ha ripreso, al cpv. 1, i criteri della vita anteriore e della condizione personale e aggiunto la necessità di tener conto dell'effetto che la pena avrà sulla vita dell'autore. Con riguardo a quest'ultimo criterio, il messaggio precisa che la misura della pena delimitata dalla colpevolezza non deve essere sfruttata necessariamente per intero se una pena più tenue potrà presumibilmente trattenere l'autore dal compiere altri reati (messaggio del 21 settembre 1998 concernente la modifica del codice penale svizzero e del codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile, FF 1999 1744; STF 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008, consid. 3.2; STF 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.2; DTF 128 IV 73 consid. 4 pag. 79, 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). La legge codifica, così, la giurisprudenza secondo cui occorre evitare di pronunciare sanzioni che ostacolino il reinserimento del condannato (DTF 128 IV 73 consid. 4c pag. 79; 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). Questo criterio di prevenzione speciale permette tuttavia soltanto di effettuare correzioni marginali, la pena dovendo in ogni caso essere proporzionata alla colpa (STF 6B_78,81,90/2008 del 14 ottobre 2008, consid. 3.2; STF 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.2; STF 6B_14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 5.2 e riferimenti).
Riprendendo
mutatis mutandis
la giurisprudenza relativa all’art. 63 vCP (Stratenwerth/Wohlers, Strafgesetzbuch, n. 4 ad art. 47 CP), l'art. 47 cpv. 2 CP fornisce un elenco esemplificativo di criteri che permettono di determinare la gravità della colpa dell'autore: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l’intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto (ovvero il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso), l’eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato (ovvero la reprensibilità dell'offesa), l’entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell’illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento; DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2 pag. 289).
Vanno inoltre considerati – sempre secondo la citata giurisprudenza – la situazione familiare e professionale dell’autore, l’educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l’integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289). Esigenze di prevenzione generale, per converso, svolgono solo un ruolo di secondo ordine (DTF 118 IV 342 consid. 2g pag. 350).
3.2.
In concreto, nella misura in cui la pena è di poco superiore al minimo edittale previsto dall’art. 307 cpv. 2 CP, non può essere sostenuto che il primo giudice abbia abusato del proprio potere d’apprezzamento anche se, nella motivazione, ha ecceduto in severità non considerando, quale fattore attenuante, il fatto che – nell’ipotesi accusatoria da lui sposata – RI 1 ha delinquito per non contribuire ad accusare un amico e, quindi, ha agito, non per interesse personale, cattiveria, vendetta o altro, ma per un malinteso senso di amicizia.
Ciò detto, riguardo la commisurazione della pena, il ricorso deve essere respinto.
4.
Valutando la questione della sospensione condizionale della pena, il primo giudice è ritornato su quella che lui ha chiamato “
ripetizione di comportamenti illeciti durante un breve lasso di tempo
” sulla cui base ha ritenuto di poter concludere non solo che RI 1 “
nulla ha appreso dalle precedenti vicende giudiziarie
” ma, addirittura, che egli delinque
“con assoluta indifferenza al riguardo di tali procedure
” tanto che – ha aggiunto il primo giudice – ancora al dibattimento egli ha fornito “
la migliore prova del suo mancato ravvedimento con l’ostinazione, a tratti beffarda, con cui ha negato di avere commesso falsa testimonianza, permettendosi, quale unica spiegazione, di definire bugiardi i due testi che hanno deposto in senso contrario alla sua tesi
” (sentenza impugnata, pag. 17).
Dopo avere concluso che RI 1 “
è necessariamente da considerare non educabile con una sanzione sospesa
”, il primo giudice ha sottolineato come il condannato abbia dimostrato “
una propensione a commettere reati diretti (in senso ampio) contro la pubblica autorità quali la guida nonostante la revoca della licenza di condurre e la falsa testimonianza
” e che questa propensione “
depone per la sua incapacità ad attenersi alle norme dell’ordine costituito e per una manifesta debolezza di carattere
” visto che “
al rispetto delle leggi egli antepone, senza alcun freno, proprie egoistiche motivazioni quali il circolare con la propria vettura oppure aiutare un amico a rimanere impunito benché autore di un grave pestaggio
”. Siccome le precedenti condanne sono state sospese condizionalmente – continua il primo giudice nel suo accalorato esposto – non soltanto esse non gli sono palesemente “
servite da monito
” ma, addirittura hanno “
fatto insorgere un sentimento di impunità
” poiché RI 1 ha visto “
dei segni di debolezza delle istituzioni nella mancata espiazione delle precedenti sanzioni
” (sentenza impugnata, pag. 17 e 18). Pertanto, sottolineato che, ancora in aula, RI 1 ha negato le sue responsabilità, il primo giudice ha considerata obbligata la posa di una prognosi negativa “
e questo quand’anche il RI 1 avesse così agito per un malinteso senso dell’amicizia e dell’onore nei confronti del S.
”.
Del resto – ha continuato il primo giudice – “
i sani principi hanno un prezzo, quelli malsani ne hanno uno più alto
” e pertanto, avendo “
consapevolmente scelto la via dell’irriducibilità
”, RI 1 non “
deve dolersi se di questa gli viene presentato il conto
”. Quindi, dopo avere ribadito che la sospensione condizionale della pena verrebbe intesa da RI 1 come “
un nuovo segno di debolezza dell’autorità giudiziaria e di sua impunità
”, il primo giudice ha concluso che “
sotto ogni punto di vista la prognosi per l’accusato deve essere considerata negativa e si deve ritenere che solo l’effettività della sanzione potrà, forse, trattenere l’accusato dal delinquere nuovamente
” (sentenza impugnata, pag. 18).
4.1.
Ai sensi dell’art. 42 CP il giudice sospende di regola l’esecuzione di una pena pecuniaria, di un lavoro di pubblica utilità o di una pena detentiva di sei mesi a due anni se una pena senza condizionale non sembra necessaria per trattenere l’autore dal commettere nuovi crimini o delitti (cpv. 1). Se, nei cinque anni prima del reato, l’autore è stato condannato a una pena detentiva di almeno sei mesi, con o senza condizionale, o a una pena pecuniaria di almeno 180 aliquote giornaliere, la sospensione è possibile soltanto in presenza di circostanze particolarmente favorevoli (cpv. 2). La concessione della sospensione condizionale può essere rifiutata anche perché l’autore ha omesso di riparare il danno contrariamente a quanto si poteva ragionevolmente pretendere da lui (cpv. 3). Oltre alla pena condizionalmente sospesa il giudice può infliggere una pena pecuniaria senza condizionale oppure una multa ai sensi dell’articolo 106 (cpv. 4).
La concessione della sospensione condizionale della pena rappresenta ormai la regola da cui ci si può dipartire unicamente in presenza di una prognosi negativa. In caso di dubbio prevale il differimento dell’esecuzione della pena (DTF 134 IV 1 consid. 4.2.2 pag. 5-6; STF 6B_435/2007 del 12 febbraio 2008, consid. 3.2; STF 6B_103/2007 del 12 novembre 2007, consid. 4.2.2.)
In sintesi, mentre il vecchio diritto (art. 41 n. 1 cpv. 1 vCP) richiedeva una prognosi favorevole sulla presumibile futura condotta dell’imputato, secondo il nuovo diritto è determinante la mancanza di prognosi sfavorevole (STF 6B_435/2007 del 12 febbraio 2008, consid.
3.2; Kuhn
,
La nouvelle partie générale du Code pénal suisse, Le sursis et le sursis partiel, in CGS, Berna 2006, pag. 220).
In questo modo, riservati i casi previsti dall’art. 42 cpv. 2 e 3 CP, si è voluto tenere conto dell’orientamento giurisprudenziale che, constatata l’impossibilità di fare previsioni (positive) più o meno sicure sul presumibile comportamento futuro del condannato (come voleva l’art. 41 n. 1 cpv. 1 vCP), ha ammesso la prognosi favorevole in assenza di indizi concreti che, valutati nel loro complesso, vi si opponessero, come ad esempio il pericolo di recidiva (
Tag/Manhart
, Strafgesetzbuch: Ein Uberblick über die Neuerungen, in Plädoyer 1/07, n. 2.1. pag. 38-39). Riassumendo, il nuovo diritto pone delle condizioni meno severe quanto al pronostico per la concessione della sospensione: il vecchio diritto esigeva un pronostico favorevole, mentre per il nuovo diritto è sufficiente che non ci sia un pronostico sfavorevole e la sospensione della pena è la regola, alla quale non si può derogare salvo, per l’appunto, in presenza di un pronostico sfavorevole (DTF 134 IV 1 consid. 4.2.2 pag. 5-6; STF 6B_435/2007 del 12 febbraio 2008, consid. 3.2).
Per decidere se la sospensione condizionale della pena sia idonea a dissuadere il condannato dal commettere nuovi reati, il giudice deve procedere a una valutazione globale. Per la decisione in merito alla sospensione non devono, quindi, essere determinanti esigenze punitive o riflessioni legate alla prevenzione generale, bensì criteri quali le circostanze specifiche del reato, la personalità dell’autore e gli effetti della pena sulla sua vita futura (FF 1999 1730).
Devono essere in questo senso considerati gli stessi elementi di giudizio sviluppati dalla giurisprudenza del Tribunale federale sotto l’egida dell’art. 41 vCP (DTF 134 IV 53; 134 IV 1; STF 6B_664/2007 del 18 gennaio 2008).
Occorre, quindi, considerare, le circostanze in cui è stato commesso l’atto punibile, gli antecedenti, la situazione personale del condannato e la sua reputazione al momento del giudizio (DTF 128 IV 193; 118 IV 97), segnatamente il suo atteggiamento e la sua mentalità (STF 6S.477/2002 del 12 marzo 2003).
L’assunzione da parte dell’autore delle proprie responsabilità è pure da considerare (STF 6B_171/2007 del 23 luglio 2007), per quanto non sia di per sé né l’unico elemento da considerare per giungere ad una valutazione della prognosi né sia il criterio determinante nella determinazione della prognosi che deve essere il risultato di un esame spassionato ed equilibrato di tutti gli elementi che entrano in linea di conto (STF 6S.762/1999 del 19 gennaio 2000; DTF 115 IV 85; 101 IV 257
;
94 IV 51; 82 IV 5). Parimenti, l’esistenza di reati precedenti della stessa natura costituiscono indizi sfavorevoli che, tuttavia, da soli non bastano ad escludere la sospensione condizionale della pena (DTF 118 IV 97; 116 IV 279; 115 IV 81, 85). Nemmeno precedenti per reati dello stesso tipo bastano, da soli, ad escludere la possibilità di concedere al condannato il beneficio della sospensione condizionale della pena (
DTF 115 IV 85;
100 IV 133
, consid.
1d, pag. 137;
98 IV 76
consid. 2, p. 82; cfr, pure, Roland Schneider/Roy Garré, Basler Kommentar, Strafrecht I, 2e éd., art. 42 n. 59).
Oltre i precedenti e il carattere dell’interessato, il suo comportamento sul posto di lavoro costituisce un elemento essenziale per la prognosi. La sospensione condizionale può essere negata solo se, malgrado un comportamento soddisfacente sul posto di lavoro, indizi contrari concreti e importanti prevalgono nel quadro di una valutazione globale, in modo tale da escludere una prognosi favorevole (DTF 102 IV 62; 117 IV 3).
La prognosi deve fondarsi su tutti gli elementi atti a chiarire il carattere dell’accusato e le sue chances di ravvedimento (DTF 123 IV 107; 118 IV 97; 115 IV 81). Per valutare il rischio di recidiva è indispensabile un esame globale della personalità dell’autore. Il giudice di merito fruisce di un esteso potere di apprezzamento; nell’esercitarlo è peraltro tenuto a fondarsi su motivi obiettivamente sostenibili.
Non è consentito, in particolare, attribuire a determinate circostanze un rilievo capitale e sottovalutarne o trascurarne al contempo altre, anch’esse entranti in linea di conto (STF 6B_664/2007 del 18 gennaio 2008, consid. 3.1.1.; STF 6B_103/2007 del 12 novembre 2007, consid. 4.2.1.; DTF 128 IV 193 consid. 3a; DTF 123 IV 107; 118 IV 97; 116 IV 279; 115 IV 81; 105 IV 291).
Il giudice deve inoltre motivare la sua decisione in modo sufficiente (cfr. art. 50 CP); la sua motivazione deve permettere di verificare se egli ha tenuto in debito conto tutti gli elementi pertinenti ed il modo in cui li ha apprezzati (
DTF 134 IV 5
consid. 4.2.1; 128 IV 193 consid. 3a; 118 IV 97 consid. 2b; STF 6B_664/2007 del 18 gennaio 2008, consid. 3.1.1; STF 6B_103/2007 del 12 novembre 2007, consid. 4.2.1).
4.2.
In concreto, emerge dal considerando dedicato alla valutazione della prognosi che, nel suo esame, il primo giudice ha considerato unicamente quella che ha ritenuto essere una “
ripetizione di comportamenti illeciti durante un breve lasso di tempo
” e quella che ha ritenuto essere “
un’assoluta indifferenza
” di RI 1 in relazione alle sue “
vicende giudiziarie”
unita ad un sentimento di “
impunità”
di fronte ad un’autorità giudiziaria di cui avrebbe percepito la debolezza a causa della mancata espiazione delle pene comminate in precedenza così che RI 1 avrebbe – sempre secondo il primo giudice – “
consapevolmente scelto la via dell’irriducibilità
” (sentenza impugnata pag. 17 e 18).
Null’altro è stato preso in considerazione.
In particolare, il primo giudice non ha considerato – come, invece, avrebbe dovuto in un esame globale e spassionato – il fatto che RI 1 (nato nel 1984) vive con la madre (il padre è deceduto nel 1999) ad _ dove ha sempre vissuto e che, dopo avere seguito le scuole dell’obbligo e l’apprendistato di macellaio, ha sempre regolarmente lavorato e, da giugno del 2008, lavora al 50% per un’azienda di _ e al 50% nella ditta di famiglia con la madre (cfr. consid. 1 della sentenza impugnata).
Inoltre, venendo a quella che è stata ritenuta una “
ripetizione di comportamenti illeciti durante un breve lasso di tempo
”, occorre considerare che, concretamente, prima di commettere il 6 giugno 2006 il reato di falsa testimonianza, il 1 marzo 2006 RI 1 si era reso colpevole di un episodio di guida in stato di inattitudine cui ha fatto seguito, il 20 maggio 2006, cioè, due mesi dopo, un episodio che venne giuridicamente qualificato di guida nonostante la revoca ed inosservanza dei doveri in caso di infortunio. Se è vero che comportamenti di questo tipo non devono essere banalizzati, è anche vero che la loro natura o valenza delinquenziale non deve essere enfatizzata e che essi vanno visti per quel che sono, e cioè per comportamenti certamente penalmente rilevanti e, perciò, sanzionabili, ma ancora qualificabili di penale minore e che, in quanto tali, non possono – se non con un abuso del potere di apprezzamento concesso al giudice – essere ritenuti indicativi, pur se valutati con il reato di falsa testimonianza, di una consapevole scelta della via dell’irriducibilità nella delinquenza.
Questa Corte non comprende, poi, su quali elementi il primo giudice abbia potuto fondare il suo giudizio di “
assoluta indifferenza
” di RI 1 riguardo le “
precedenti vicende giudiziarie
”: in effetti, prima di compiere quella che è stata ritenuta una falsa testimonianza, RI 1 aveva subito una sola condanna, e meglio quella di 10 giorni di detenzione (sospesi condizionalmente) che gli era stata inflitta con sentenza 5 maggio 2006 della Pretura penale.
Ma, soprattutto, il giudizio secondo cui RI 1 ha consapevolmente scelto la via dell’irriducibilità nella delinquenza – su cui, in sostanza, il primo giudice ha fondato il suo giudizio di una prognosi negativa – è irrimediabilmente sconfessato da un elemento che il primo giudice ha, a torto, completamente omesso di considerare e, cioè, dal fatto che dal 6 giugno 2006 – data della dichiarazione in giudizio che è stata considerata falsa testimonianza – sino all’8 agosto 2008 – data del pubblico dibattimento – RI 1, per quel che risulta dagli atti, non è più ricaduto in comportamenti illeciti ed ha sempre condotto una regolare vita di lavoro continuando, peraltro, a vivere in famiglia (cfr. consid. 1 della sentenza impugnata).
L’accertamento del corretto comportamento tenuto da RI 1 dopo il 6 giugno 2006 evidenzia, pure, la totale infondatezza delle considerazioni del primo giudice secondo cui RI 1 anteporrebbe “
senza alcun freno
” le “
proprie egoistiche motivazioni
” al rispetto delle leggi e sarebbe totalmente “
incapace di attenersi alle norme dell’ordine costituito
” anche a causa di “
una manifesta debolezza di carattere
” (sentenza impugnata pag. 17) e secondo cui egli avrebbe maturato a seguito della sospensione condizionale delle “
sanzioni ricevute
” (in realtà, era soltanto una) un sentimento di impunità di fronte ad un’autorità giudiziaria debole (sentenza impugnata pag. 18).
Privo di fondamento alcuno appare, dunque, il giudizio secondo cui RI 1 sarebbe
“non educabile con una sanzione non sospesa”
(sentenza impugnata pag. 17).
In realtà, esaminata in modo globale e oggettivo, la situazione di RI 1 risulta essere quella di un giovane che, nel contesto di una vita regolare e corretta, ha, in un breve e ben delimitato periodo (dal 1 marzo al 6 giugno 2006), assunto per tre volte (1 marzo, 20 maggio e 6 giugno 2006) comportamenti penalmente significativi ma certamente non gravi al punto da giustificare la formulazione di una prognosi negativa (del resto, ed è significativo, al dibattimento, il procuratore pubblico non si era opposto alla sospensione condizionale della pena richiesta).
In questo contesto non basta, certamente, né ad imporre né a giustificare la formulazione di una prognosi sfavorevole il fatto che RI 1 abbia, ancora al dibattimento, negato di avere deposto il falso poiché, se è vero che l’
assunzione da parte dell’autore delle proprie responsabilità è un elemento da considerare (STF 6B_171/2007 del 23 luglio 2007), è anche vero che, così come più volte stabilito dal TF, non necessariamente il negare è indizio di un’incapacità di vedere il carattere riprovevole di quanto commesso (DTF
101 IV 257 consid. 2a, pag. 258 e seg.). Inoltre, è soprattutto vero
che anche quando equivale ad una mancata assunzione di responsabilità, la negazione del condannato non é né l’unico né l’elemento determinante per la valutazione della prognosi che deve essere il risultato di un esame spassionato ed equilibrato di tutti gli elementi che entrano in linea di conto (STF 6S.762/1999 del 19 gennaio 2000; DTF 115 IV 85; 101 IV 257; 94 IV 51; 82 IV 5). Del resto, senza voler entrare in considerazioni sulla natura della realtà processualmente definita, va pure e comunque ricordato che tacere e negare è un diritto garantito ad ogni imputato
(DTF 130 I 126; 121 II 257).
Pertanto, su questo punto, il ricorso deve essere accolto.
5.
In esito all'attuale sentenza si giustifica di caricare gli oneri processuali in ragione di 1⁄2 al ricorrente e per l’altra parte allo Stato che verserà al ricorrente fr. 200.- per ripetibili (ridotte). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c6cdf925-057e-58c3-9698-3847c7663d35 | in fatto
a
.
Il reclamante, nato il _, cittadino _ domiciliato a _, ha dei precedenti penali nel suo paese di origine.
Con un primo giudizio del 21.9.1993 è stato condannato a quattro mesi di reclusione, sospesi condizionalmente.
Con un secondo giudizio del 25.10.1994 è stato condannato a sei anni di reclusione per rapina continuata, rapina tentata, furto, ed altri reati relativi alle armi.
Con un terzo giudizio del 10.7.2001 è stato condannato a sedici anni e quattro mesi di reclusione, in particolare per omicidio e tentata rapina. In relazione a quest’ultima condanna, egli è stato affidato ai servizi sociali in data 25.10.2010: è stato definitivamente liberato a fine luglio 2012.
b
. RE 1 è stato condannato in Ticino il 27.11.2013 dalla Corte delle assise criminali (inc. TPC _) a una pena detentiva di due anni e nove mesi, in quanto colpevole di ripetuta tentata rapina (in particolare in data 16.7.2013 e 17.7.2013), furto d’uso e contravvenzione alla LStup.
Con sentenza del 9.5.2014, la Corte di appello e di revisione penale ha sostanzialmente confermato la pena inflitta in primo grado (inc. CARP _).
c
. Con decisione di collocamento iniziale del 25.7.2014 (inc. GPC _), il reclamante ha iniziato a scontare la pena in sezione chiusa.
Egli ha scontato 2/3 della pena il 20.6.2014: il termine pena è previsto per il 20.5.2015.
Dopo aver raccolto il preavviso della Direzione delle Strutture carcerarie e dell’UAR, sentito il reclamante il 12.8.2014, in data 26.8.2014 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha emanato la decisione qui impugnata, non ponendo RE 1 al beneficio della liberazione condizionale (inc. _).
Nella propria decisione il giudice ha preso atto dei preavvisi favorevoli, ha richiamato l’unico ammonimento comminato durante la carcerazione (in data 24.5.2013), ha ripreso quanto dichiarato dal reclamante durante l’audizione del 12.8.2014, ha ripercorso i precedenti in _ di RE 1 (in particolare di rapina), per giungere a constatare come, dopo l’affidamento in prova del 26.7.2011, egli sia stato nuovamente arrestato in Ticino il 21.8.2012.
Il magistrato ha ritenuto che il reclamante avesse commesso i reati oggetto della sentenza ticinese quando si trovava nelle stesse identiche condizioni di vita di quelle che vengono attualmente prospettate in vista dell’ottenimento della sua liberazione condizionale (lavoro presso il fratello, convivenza con la propria compagna).
Il giudice pertanto ha formulato una prognosi negativa nell’ottica del pericolo di recidiva, senza ricorrere al preavviso della Commissione per l’esame dei condannati pericolosi.
d
. Con il proprio reclamo, RE 1 ripercorre l’iter processuale che ha condotto alla sua condanna in Ticino, sottolineando di essere stato prosciolto dall’imputazione relativa ai fatti di _: evidenzia pure come la CARP avrebbe constatato che egli, presso l’ufficio postale di _, si sarebbe reso conto di non riuscire a reggere la tensione.
Il reclamante riprende pure i due preavvisi della Direzione (che adduce il buon comportamento in detenzione, la sporadicità dell’ammonimento subito) e dell’UAR (che sottolinea l’impor-tanza del rapporto con la compagna e l’evoluzione personale del detenuto).
Nel gravame si ricorda che la Sezione della popolazione ha emanato, a carico del reclamante, una decisione di allontanamento.
In diritto, il reclamante adduce che la concessione della liberazione condizionale, pur non essendo un diritto, nella prassi è una regola costante.
Sulle condizioni della concessione della liberazione condizionale, il reclamante sottolinea il comportamento in carcere, giudicato favorevole, e non adeguatamente considerato dal giudice.
Per il pericolo di recidiva, il reclamante evidenzia la diametrale differenza esistente tra la decisione impugnata e i preavvisi raccolti. La decisione impugnata sarebbe censurabile poiché formula una prognosi negativa, guardando al passato, e non valutando le prospettive future, come richiesto dalla formulazione di una prognosi.
Il reclamante torna poi sul tentativo di rapina per cui è stato condannato, mettendo in risalto la situazione di panico in cui è venuto a trovarsi, ciò che per il futuro permette di formulare una prognosi positiva.
La decisione del magistrato sarebbe abusiva, perché si distanzierebbe da due preavvisi favorevoli, dettagliatamente motivati, raccolti in vista della decisione.
e
. Nelle proprie osservazioni, il giudice dei provvedimenti coercitivi ricorda che i tentativi di rapina oggetto di condanna in Ticino sono due, che l’ammonimento ricevuto dal reclamante non è causale, e che il preavviso dell’UAR non è paragonabile ad un parere peritale.
f
. Il reclamante, interpellato, non ha presentato una replica.
g
. In data 5.8.2014, la Sezione della popolazione ha emanato una decisione di allontanamento (inc. _). | in diritto
1
. 1.1.
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), all'art. 439 cpv. 1 CPP, lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
L'art. 10 cpv. 1 della Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti del 20.4.2010 (LEPM), entrata in vigore il 1°.1.2011, conferisce al giudice dell'applicazione della pena - funzione questa attribuita in Ticino dal 1°.1.2011 al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi giusta l'art. 73 LOG - la competenza, fra l'altro, di adottare le decisioni relative alla liberazione condizionale da una pena detentiva (lit. j).
Contro tali decisioni è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli art. 393 ss. CPP presso la Corte dei reclami penali (art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM).
Con il reclamo si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche, decisione TF 1B_768/2012 del 15.1.2013 consid. 2.1.). La giurisdizione di ricorso non può modificare una decisione a pregiudizio dell’imputato (art. 391 cpv. 2 CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione. In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Inoltrato il 4/5.9.2014 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, contro la decisione 26.8.2014 del giudice dei provvedimenti coercitivi (inc. GPC _), il gravame è tempestivo, oltre che proponibile giusta l’art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate.
RE 1
,
quale destinatario della decisione impugnata, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio.
Il reclamo è, di conseguenza, ricevibile in ordine.
2
.
2.1.
In generale, l'art. 86 cpv. 1 CP stabilisce che quando il detenuto ha scontato i due terzi della pena, ma in ogni caso almeno tre mesi, l'autorità competente lo libera condizionalmente se il suo comportamento durante l'esecuzione della pena lo giustifica e non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti.
L'autorità competente esamina d'ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente. Chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario. Il detenuto deve essere sentito (art. 86 cpv. 2 CP). Se non concede la liberazione condizionale, l'autorità competente riesamina la questione almeno una volta all'anno (art. 86 cpv. 3 CP).
2.2.
La concessione della liberazione condizionale è dunque subordinata a tre condizioni: il detenuto deve innanzitutto aver espiato buona parte della propria pena privativa della libertà (per l'art. 86 cpv. 1 CP i due terzi della pena ed almeno tre mesi), secondariamente il suo comportamento durante l'esecuzione della pena non deve opporvisi, infine non vi dev’essere il timore che egli commetta nuovi crimini o delitti (A. BAECHTOLD,
Exécution des peines
, p. 257, n. 4).
La liberazione condizionale è una modalità d'esecuzione della pena detentiva.
Non costituisce né un diritto, né un favore, né un atto di clemenza o di grazia che il detenuto è libero di accettare o di rifiutare (DTF 101 Ib 452 consid.
1; Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar – S. TRECHSEL, art. 86 CP n. 12; Commentaire romand, Code pénal I – A. KUHN, art. 86 CP n. 16).
Si tratta della quarta ed ultima fase del regime progressivo d'espiazione della condanna, prima della liberazione definitiva (DTF 133 IV 201 consid. 2.3; 124 IV 193 consid. 4d; 119 IV 5 consid. 2; PRA 6/2000, p. 534). Abbrevia la durata effettivamente subita della pena privativa di libertà pronunciata dal giudice ed è sottoposta a condizione risolutoria, visto che il suo perdurare dipende in principio dalla buona condotta dell’interessato durante il periodo di prova (art. 86 CP; Commentaire romand, Code pénal I – A. KUHN, art. 86 CP n. 2).
L’adempimento delle condizioni per la sua concessione deve essere esaminato d’ufficio dalla competente autorità, che chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario (art. 86 cpv. 2 CP).
2.3.
Dal punto di vista sostanziale, l'art. 86 cpv. 1-3 CP non si differenzia molto dal precedente art. 38 vCP (rimasto in vigore sino al 31.12.2006): in tal senso si esprime il Messaggio del CF del 21.9.1998 (pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss, p. 1800-1802).
Con l'art. 86 cpv. 1 CP, in vigore dall'1.01.2007, c'è stata tuttavia una modifica: se prima la liberazione era concessa al detenuto “
se si può presumere ch'egli terrà buona condotta in libertà
” (art. 38 cifra 1 vCP) con la nuova disposizione la liberazione va concessa se “
non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti
” (art. 86 cpv. 1 CP). Si passa in altre parole dall'esigenza di una prognosi favorevole circa il comportamento futuro del detenuto a quella di una prognosi non sfavorevole (decisione TF 6B_900/2010 del 20.12.2010; DTF 133 IV 201 consid. 2.2), ciò che è rilevante nei casi intermedi in cui non si arriva a formulare una prognosi certa. Per il resto la nuova normativa non si discosta nella sostanza dal diritto previgente, così che la giurisprudenza resa sotto l'imperio dell'art. 38 vCP conserva la sua validità (decisione TF 6B_428/2009 del 9.07.2009; DTF 133 IV 201).
La prognosi sul comportamento futuro deve fondarsi su una valutazione complessiva, che deve tenere conto dei precedenti del condannato, della sua personalità, del suo comportamento da un lato in generale e dall'altro lato nel contesto della commissione dei reati che sono alla base della condanna, nonché il grado del suo eventuale ravvedimento, oltre al suo eventuale miglioramento, così come le condizioni nelle quali ci si può attendere che egli vivrà dopo la sua liberazione (decisioni del TF 6B_206/2011 del 5.07.2011, consid. 1.4., 6B_714/2010 del 4.01.2011 consid. 2.4. e 6B_428/2009 del 9.07.2009 consid. 1.1.; DTF 133 IV 201 consid. 2.3.; 124 IV 193 consid. 3). Al riguardo, di fronte a pene privative della libertà di durata limitata, va esaminata la pericolosità dell'agente, se questa diminuirà, rimarrà invariata o aumenterà nel caso in cui la pena fosse interamente scontata e quindi se la liberazione condizionale, eventualmente accompagnata da regole di condotta e da un patronato, non sia più favorevole alla sua risocializzazione che non l'esecuzione completa della pena (DTF 124 IV 193 consid. 4).
La natura del reato che ha portato alla condanna, anche se l'importanza del bene giuridico protetto dalla norma penale va considerata, di per sé non è determinante per la formulazione della prognosi. Possono essere di rilievo le circostanze nelle quali è stato compiuto il reato, nella misura in cui permettano di trarre conclusioni sulla personalità dell'autore e di conseguenza sul suo futuro comportamento (DTF 124 IV 193 consid. 3).
Per quanto riguarda la condotta tenuta durante l'esecuzione della pena, solo comportamenti che hanno gravemente ostacolato la disciplina carceraria o che denotano di per sé l'assenza di emendamento possono avere valenza autonoma per escludere la liberazione condizionale. Comportamenti meno gravi possono invece essere esaminati nel contesto della prognosi sulla futura condotta in libertà (DTF 119 IV 5 consid. 1a con rif.), stante che, nei lavori preparatori relativi alla revisione della parte generale del CP entrata in vigore il 1°.01.2007, si ribadisce chiaramente che il criterio determinante per una liberazione condizionale è rappresentato dalla prognosi, formulata al momento della liberazione, circa la possibilità che il detenuto commetta altri crimini o delitti (cfr. Messaggio del CF del 21.09.1998, pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss., p. 1801).
3
. 3.1.
Nel presente caso, è pacificamente ammesso e accertato che il reclamante abbia scontato 2/3 della pena che gli è stata inflitta, e questo ancora prima della crescita in giudicato della sentenza di appello.
3.2.
Sulla
condotta tenuta durante l'esecuzione della pena, dagli atti risulta globalmente un comportamento positivo, eccettuata unicamente una sanzione disciplinare in data 24.5.2013: gli stessi fatti sono poi divenuti oggetto del punto 4 dell’ACC _, con l’imputazione di contravvenzione alla LStup.
L’ammonimento, oggetto di valutazione diversa tra le parti, non risulta in ogni modo determinante per la decisione di mancata concessione della liberazione condizionale.
3.3.
Per quanto riguarda la prognosi, le posizioni delle parti divergono diametralmente.
Per il giudice è dato un pericolo di recidiva, ciò che ha condotto alla formulazione di una prognosi negativa.
Per il reclamante, la prognosi non può essere negativa e la libertà condizionale va concessa.
3.4.
Dagli atti, e come detto, risulta che il reclamante ha dei precedenti, nel suo paese, per i quali ha dovuto scontare lunghi anni di carcerazione.
Dopo una prima condanna a quattro mesi di reclusione, sospesi condizionalmente (in data 21.9.1993), egli ha subito una condanna di sei anni di reclusione in data 25.10.1994 (per rapina continuata, rapina tentata, furto, e altri reati riferiti alle armi) e una condanna di sedici anni e quattro mesi di reclusione in data 10.7.2001 (in particolare per omicidio e tentata rapina). Da quest’ultima condanna è stato affidato ai servizi in data 25.10.2010, ed è stato definitivamente liberato a fine luglio 2012.
I reati per cui è stato condannato in Ticino sono stati commessi a metà luglio del 2012.
Non deve pertanto sorprendere che la Corte di primo grado, esaminando la sospensione della pena, abbia ritenuto che la pena fosse “...
evidentemente da espiare, non essendoci spazio alcuno per una possibile prognosi non negativa vista la sua scarcerazione, neanche un anno prima, dopo una condanna di 17 anni e 4 mesi di reclusione
.” (sentenza 27.11.2013, punto 25 p. 31).
A questa situazione di partenza si è aggiunto l’ammonimento del maggio 2013, oggetto anche dell’atto d’accusa (punto 4, contravvenzione alla LStup). Se quest’ultimo episodio è ampiamente compensato e controbilanciato da un comportamento corretto tenuto in espiazione della pena, resta una situazione di partenza di manifesto rischio di recidiva.
Detto rischio non è eliminato o ridotto in modo sostanziale dalla situazione prospettata per il reclamante nel prossimo futuro, in caso di liberazione condizionale.
Sia l’attività lavorativa prospettata (presso il fratello), sia la situazione abitativa (convivenza con la propria compagna) non divergono, ma anzi sono simili, a quelle esistenti dopo la definitiva liberazione.
Per questo non si può ragionevolmente argomentare che la futura attività presso il fratello e la convivenza con la compagna siano tali da escludere o ridurre il rischio di commissione di nuovi reati.
Anche lo “
stato di panico
”, addotto nel reclamo a dimostrazione dell’inesistenza del pericolo di recidiva, non è determinante, anche perché menzionato solo di transenna, e non adeguatamente accertato.
Neppure il fatto che RE 1 debba lasciare la Svizzera, a seguito della decisione di allontanamento del 5.8.2014, esclude un pericolo di recidiva: in questa valutazione, non si possono scartare eventuali futuri reati, anche all’estero.
Questa decisione di allontanamento esclude
ovviamente un reinserimento sociale in Svizzera e l’adozione di misure finalizzate a questo scopo sul territorio elvetico.
Il tentativo messo in atto dall’UAR per ovviare a questo, imponendo delle condizioni particolari al preavviso positivo (
rientro a _, obbligo di risiedere dalla compagna, obbligo di esercitare una regolare professione presso l’esercizio pubblico del fratello), appare problematico.
Anzitutto queste condizioni particolari, siccome proiettate all’estero, sono di problematica attuazione o verifica, e ciò anche se il reclamante ha consentito i contatti necessari: problematica è anche la loro efficacia, probabilmente ridotta a mero invito (DTF 140 IV 86 ss.).
Inoltre, la loro legalità appare dubbia, con riferimento all’art. 299 CP e alle sentenze 29.1.2013 del Tribunale penale federale (inc. SK.2012.20) e 22.7.2013 del Tribunale federale (6B_235/2013).
3.5.
In queste condizioni la prognosi sfavorevole formulata dal giudice dei provvedimenti coercitivi, in ragione del pericolo di recidiva, è sostenibile, ciò che pertanto esclude la concessione della liberazione condizionale.
4
. Il reclamo è respinto. La tassa di giustizia e le spese seguono la soccombenza. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |