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] | Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas
La vida invisible ed El séptimo velo
di Juan Manuel de Prada:
quando echi e geometrie divengono formule
S IMONE C ATTANEO
Università degli Studi di Milano
[email protected]
El plagio, como la delación, es una forma distante y subli-
mada de crimen que debería quedar impune o incluso ser re-
compensada, ahora que la literatura ha explorado y profanado
las infinitas combinaciones del idioma, ahora que todas las
metáforas esenciales (incluso las decorativas) han sido descu-
biertas, ahora que ya no se puede aspirar a la originalidad1.
Il presente articolo è un’appendice a un più vasto lavoro sulla giovane narrati-
va spagnola degli anni ’90 che verrà pubblicato a breve. In tale monografia si sono
prese in considerazione tre traiettorie letterarie emblematiche nel tentativo di spie-
gare il complesso fenomeno sociologico, culturale e commerciale di quella che a
suo tempo venne definita la “Generación X” e si sono inoltre confrontati i differenti
approcci letterari degli autori selezionati – Juan Bonilla (Jerez de la Frontera, 1966),
Ray Loriga (Madrid, 1967) e Juan Manuel de Prada (Baracaldo, 1970) – valutando
il percorso di maturazione di ognuno di loro, partendo dai libri di esordio e arri-
1
Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, Barcelona, Seix Barral, 2008, p. 411.
Simone Cattaneo
La vida invisible ed El séptimo velo di Juan Manuel de Prada: quando echi e geometrie divengono formule
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vando fino alle ultime pubblicazioni, in un arco di tempo che copre all’incirca due
decenni: dal 1992 – anno in cui esce il romanzo Lo peor de todo2 di Loriga – al 2010.
Uno degli aspetti più interessanti emersi dallo studio è stato il progressivo mutare
della poetica di questi giovani scrittori fino a raggiungere, in alcuni casi, posizioni
quasi antitetiche rispetto a quelle adottate nelle loro opere prime. Un esempio piut-
tosto chiaro di quanto affermato è costituito, a nostro avviso, dal corpus pradiano e
già in un articolo3, all’interno di un discorso più ampio, si era posta in evidenza la
volontà dell’autore di accostarsi a una letteratura spiccatamene popolare, affine per
certi versi al feuilleton ottocentesco. In queste pagine si vuole affinare ulteriormente
lo sguardo per evidenziare come una scelta di quel tipo abbia avuto ricadute an-
che nella costruzione seriale di determinate situazioni e personaggi e abbia portato
alla ripetizione pressoché costante di costrutti metaforici, immagini a effetto, ecc;
un sintomo accennato da Anne Lenquette in un’occasione circoscritta, senza però
concedervi troppa importanza, complice anche il fatto che l’articolo della studiosa
era stato redatto quando Prada non aveva ancora pubblicato La vida invisible né El
séptimo velo:
Con respecto al retrato de García Lorca, resulta interesante cotejar los
dos fragmentos. En LMDH [Las máscaras del héroe], Lorca viene pre-
sentado a través de unas imágenes o metáforas que ponen de realce su
«andalucismo» y su don de gentes. […] Lo sorprendente estriba en que se
utilicen exactamente los mismos términos para describir Lorca en LEDA
[Las esquinas del aire]. Este autoplagio revela los límites de la ineventiva
novelesca y cierta propensión a la facilitad4.
2
Ray Loriga, Lo peor de todo, Madrid, Debate, 1992.
3
Cfr. Simone Cattaneo, «¿Qué ha sido de la joven narrativa de los años 90? Un panorama entre
pasado, presente y futuro», Ínsula, 760 (2010), pp. 13-17.
4
Anne Lenquette, «El pequeño mundo de Juan Manuel de Prada: personas, personajes y másca-
ras», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan Manuel de Prada: De
héroes y tempestades, Madrid, Editorial Verbum, 2003, pp. 237-238. Prada in Las máscaras del héroe,
mette in bocca a uno dei protagonisti del romanzo, Fernando Navales un brutale elogio del plagio:
«Alguien dijo que la literatura se nutre de literatura y tiene razón o, por lo menos, tenía la malicia y la
socarronería y el desparpajo de enunciar una verdad vergonzante que otros prefieren callar. La litera-
tura es una especie de botica muy ordenada, con hileras de jarroncitos que guardan ungüentos, cada
uno en su alacena correspondiente. Uno puede entrar con llave en la botica, destapar los jarroncitos,
aspirar su aroma antiguo y ponerse a fabricar su propio ungüento, a partir del recuerdo olfativo que
otros le dejaron: esto lo hacen los escritores más bellacos, quienes, por cobardía moral o estética no
se atreven a declarar las fuentes de su inspiración. Quienes, como yo, hemos hecho del plagio una
virtud estilística entramos en la borica destrozando la cerradura, robamos los ungüentos y defeca-
mos en los jarroncitos para que no se note el hurto» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe,
p. 411). Riguardo al legame tra questa teoria del plagio e la metaletteratura, scrive Orejas: «La teoría
del plagio es, en el fondo, una teoría de la literatura considerada como metaliteratura, expresada por
medio de metáforas olfativas, al tiempo que una llamada de atención sobre el carácter ficcional de la
obra» (Francisco G. Orejas, «Juan Manuel de Prada», in La metaficción en la novela española contem-
poránea. Entre 1975 y el fin de siglo, Madrid, Arco Libros, p. 475).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Juan Manuel de Prada è uno scrittore sui generis e, per certi versi, contradditto-
rio: il suo esordio di enfant prodige delle lettere spagnole (Coños, 1995) lo svincola
fin da subito dal filone giovanile del “realismo sucio” degli anni ’90 del XX secolo e
lo colloca in una posizione di isolamento all’interno del “momento X”5. Prada, in
effetti, appariva come il rappresentante di uno stile rabbiosamente letterario, carat-
terizzato dalla ferma volontà di plasmare mondi fantastici, di un’opulenza decaden-
te, in netta controtendenza rispetto alle crude rappresentazioni realiste o alle ansie
adolescenziali riportate nei romanzi dei suoi coetanei6. Si mostrava dunque, grazie
a un eterogeneo bagaglio culturale7 e a una prosa barocca straripante di metafore
e similitudini8, come una voce innovativa della contemporaneità proprio in virtù
5
Per un approfondimento del termine “momento X” rimandiamo all’articolo di Martín Estudillo,
Luis, «The Moment X in Spanish Narrative (and Beyond)», in Christine Henseler – Randolph D.
Pope (ed.), Generation X Rocks. Contemporary Peninsular Fiction, Film and Culture, Nashville, Van-
derbilt University Press, pp. 235-246.
6
«Prada ejemplifica la manera humanista tradicional de acercarse a la creación, a la literatura,
al mundo de las letras, mientras que Mañas crea desde la renovación, apoyado en una entrada per-
manente de novedades, de información, a veces sin jerarquía alguna, en que la realidad y la ficción
se han entrecruzado» (Germán Gullón, «Dos proyectos narrativos para el siglo XXI: Juan Manuel de
Prada y José Ángel Mañas», in Ángeles Encinar - Kathleen M. Glenn (ed.), La pluralidad narrativa.
Escritores españoles contemporáneos (1984-2004), Madrid, Biblioteca Nueva, 2005, p. 26). «Juan Ma-
nuel de Prada o Juan Bonilla. Estos autores se han relacionado con una corriente más culturalista,
cuyo eje es un estilo cuidado y una técnica más depurada. A pesar de su juventud, dichos escritores
han logrado el aplauso tanto del público como de la crítica, sin que en ningún momento se haya
cuestionado su calidad literaria» (Eva Navarro Martínez, La novela de la Generación X, Granada, Edi-
torial Universidad de Granada, 2008, p. 24). Cfr. anche gli articoli di Jorge Barriuso, «El baby boom
del 98», Babelia, 342 (1998), pp. 6-8; Toni Dorca, «Joven narrativa en la España de los noventa: la Ge-
neración X», Revista de Estudios Hispánicos, 2 (1997), pp. 309-324; Luis García Jambrina, «La narrativa
española de los noventa: el caso de Juan Manuel de Prada», Versants. Revue Suisse des Littératures
Romanes, 36 (1999), pp. 165-176; José María Izquierdo, «Narradores españoles novísimos de los años
noventa», Revista de Estudios Hispánicos, 2 (2001), pp. 293-308; Sabas Martín, «Narrativa española ter-
cer milenio (guía para usuarios)», in AA. VV., Páginas amarillas, Madrid, Ediciones Lengua de Trapo,
1997, pp. ix-xxx. Víctor Fuentes, pur riconoscendo le enormi differenze tra Prada e i suoi coetanei,
sottolinea acutamente il fascino provato dallo scrittore per la depravazione e lo indica come possibile
punto di contatto generazionale: «Prada es quizás quien más se regodea en la abyección, la cual com-
parte con los otros escritores, aunque el “realismo sucio” le venga a él a través del Cela tremendista
o del esperpento» (Víctor Fuentes, «Los novísimos narradores de la Generación X», Claves de Razón
Práctica, 76 (1997), p. 67).
7
«P: ¿Cómo mezcla el casticismo, o sea esa vena suya por lo tradicional, con la literatura pulp, el
cine de Tarantino, las referencias a Reservoir Dogs? R: Pues de manera natural. Todo eso forma parte
también de mi tradición; no establezco distingos, los trato como compañeros de viajes, me da igual
que uno sea de anteayer y el otro de hace mil años. Yo me he formado leyendo a gente muy diversa
que no tiene nada que ver entre sí, y el fruto de esas lecturas y esas películas es un gusto por unas
determinadas formas de expresión, entre las cuales se incluyen el cine cutre, la literatura pulp, y junto
a ellas están Proust y Orson Welles, pero no pasa nada, cohabitan» (Patricia Núñez, «Juan Manuel
de Prada: Sin el señor Lara cientos de escritores españoles se habrían muerto de hambre», Lateral, 37
(1998), p. 35).
8
«En esta novela [La tempestad], como en la precedente, el autor da prueba de ser el mejor esti-
lista de su promoción, de ser un auténtico orfebre del lenguaje, de ser dueño de una excepcional
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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dell’ottica tradizionalista, e a tratti anacronistica, con cui affrontava il bianco della
pagina9.
I primi libri da lui pubblicati nascono dall’attrazione nei confronti di ambienti
gotici, oscuri di desiderio e peccato, immersi in un’ombra atemporale ma dall’odore
stagnante di epoche passate (El silencio del patinador, 1995) oppure dall’irrazionale
timore di essere destinato al fallimento10 che lo spinge a riscattare dalla soffitta scura
e umida dell’oblio varie figure minori della letteratura spagnola (Las máscaras del
héroe, 1996; Desgarrados y excéntricos, 2001) o, ancora, dalla voglia di combinare tra
loro vari clichés e generi letterari11 (La tempestad, 1997). In queste opere sorge a poco
a poco un universo pradiano – sia per quanto riguarda le atmosfere ritratte e i temi
trattati, sia nella costruzione del testo e nel lavorio di scrittura – che, dopo lo snodo
di Las esquinas del aire (2000), raggiunge una piena e definitiva concrezione in La
vida invisible (2003)12 ed El séptimo velo (2007).
Prada, con il passare degli anni, ha optato per un progressivo avvicinamento a
una letteratura di più ampio consumo – il cambio di rotta era già palese in La tem-
riqueza verbal. En suma: Prada es un maestro de la adjetivación, un insólito conocedor de la técnica
de la repetición […] y un excepcional creador de símiles y metáforas» (José Manuel López de Abiada
– Augusta López Bernasocchi, «Símiles y metáforas en La tempestad de Juan Manuel de Prada. Una
interpretación», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan Manuel de
Prada: De héroes y tempestades, pp. 250-251.
9
«Pero nada de eso importa nada ante la emergencia de un prosista joven que quiere escribir en
castellano y no redactar traduciéndose a sí mismo del inglés. De momento, y pese a los anglos, el
castellano se salva y se prolonga en Juan Manuel de Prada» (Francisco Umbral, Diccionario de litera-
tura. España 1941-1995: de la posguerra a la posmodernidad, Barcelona, Planeta, 1995, p. 210).
10
«Siempre recuerdo ese dístico de Borges, que se titula A un poeta menor y dice: “La meta es el
olvido. Yo he llegado antes”. Al final todos vamos a engrosar las filas del mismo ejército: el olvido»
(Miguel Leandro Pérez, «Juan Manuel de Prada: Es un libro bruto, me gusta fastidiar y enconar los
ánimos», El Mundo, http://www.elmundo.es/elmundo/2001/10/18/cultura/1003389603.html (data
consultazione: 25/06/11).
11
«En La tempestad (1997) una parte del prólogo se dedica a aclarar las intenciones que guiaron
al autor […]. Prada dice que es beligerante contra el realismo de manera que el relato policíaco, el
folletín y la intriga, la literatura y el cine popular forman la argamasa de que está compuesto. En estos
subgéneros busca el medio de expresar lo más personal» (Epicteto Díaz Navarro, «Las máscaras del
escritor: las primeras novelas de Juan Manuel de Prada», in Ángeles Encinar - Kathleen M. Glenn
(ed.), La pluralidad narrativa. Escritores españoles contemporáneos (1984-2004), Madrid, Biblioteca
Nueva, 2005, p. 209.
12
«En todas ellas —hasta la fecha: La tempestad, que obtuvo el Planeta; Las esquinas del aire, […]
así como en algún título narrativo no novelesco —muy destacadamente, Desgarrados y excéntricos—
persiste la presencia de los temas que hacen que inconfundiblemente un escritor sea él mismo: en el
caso de Prada, la atracción del abismo —a la vez angustiosa y fascinada— que participa del feísmo y
del horror «gótico», y la tensión entre lo castizo ibérico ahondado —al modo de Francisco Nieva— y
lo subyugada y frenéticamente —en el sentido propio— cosmopolita. Estos dos temas confluyen, y
en algún aspecto alcanzan su cima hasta hoy, en La vida invisible» (Pere Gimferrer, «El espejo de las
palabras», ABC, http://www.abc.es/hemeroteca/historico-15-10-2004/abc/Cultura/el-espejo-de-las-
palabras_9624174262314.html (data consultazione: 14/05/11)).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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pestad13 – e ogni volta che la sua cinica inventiva si discosterà dalla rivisitazione cri-
tico-letteraria di un autore o un’epoca per abbracciare mondi assolutamente fittizi
poggerà sempre sulle solide e duttili basi del feuilleton, un’ossatura che gli permette
di combinare con disinvoltura i soliti triangoli sentimentali14 e su cui è facile inne-
stare variazioni derivanti da altri generi, con personaggi, tic stilistici e sintagmi fissi,
rispolverati di continuo per erigere i muri portanti dei suoi scritti oppure, semplice-
mente, per aggiungere qualche modanatura in grado di ornare il testo. Si potrebbe
parlare dunque di una traiettoria letteraria frutto di una sedimentazione e, in parte,
di una fossilizzazione che, come si è accennato, mostra tutte le sue stratificazioni
negli ultimi libri dati alle stampe.
Quando in La vida invisible descrive Fanny Riffel, la protagonista di una delle
due storie che con il loro intrecciarsi compongono il libro, e ripercorre la prime
tappe della sua carriera di pin up immortalata dagli scatti di un fotografo o dal pigro
ronzare di una rudimentale telecamera, lo scrittore tira di nuovo a lucido il proprio
sguardo da voyeur, impigliato tra le rotondità e i pizzi di una fantasia legata a un
modello di donna d’antan, che aveva contraddistinto Coños15:
Tenía unos senos nada copiosos ni estridentes que se deshojaban sobre
su cuerpo como cachorros perplejos, cuando no había un sostén que
los cautivase, o bien se juntaban, como un racimo pugnaz cuando la
enjaezaban con uno de aquellos corsés blindados de corchetes. […] Tenía
un dorso de plastilina, adiestrado en mil y una danzas […], y un vientre
que copiaba la luna, perturbado por un ombligo que a veces quedaba
oculto por las bragas que se embutía en sus sesiones fotográficas, bragas
un poco ortopédicas, ribeteadas exageradamente de encajes y puntillas16.
13
Marco Kunz in un duro articolo pubblicato in seguito all’uscita di La tempestad, evidenzia come
il “classicismo” letterario di Prada possa risultare particolarmente allettante per il grande pubblico e,
in qualche modo, giustifichi la vittoria del premio Planeta: «En sus obras de ficción Prada confirma el
conservadurismo de sus ideas normativas: evita desconcertar al lector con procedimientos técnicos
no compatibles con la inercia de sus hábitos de recepción, con lo que dificulta el placer de una lectu-
ra sofisticada, pero garantiza, en cambio, la asequibilidad de sus libros para un público numeroso»
(Marco Kunz, «Autorretrato de un escritor joven: la poetología de Juan Manuel de Prada en Reserva
natural», Versants. Revue Suisse des Littératures Romanes, 36 (1999), p. 186).
14
È stata Anne Lenquette la prima a notare il costante utilizzo da parte di Prada di triangoli senti-
mentali in cui un terzo personaggio introduce un conflitto spesso insanabile: «La narrativa pradiana
descansa sobre un sistema de parejas y tríos. En realidad, las numerosas parejas lo son sólo en apa-
riencia y, detrás de estas falsas parejas, se ocultan tríos que siguen un mismo esquema: el del famoso
triángulo amoroso. A diferencia de lo que suele ocurrir en las películas o en las novelas, donde las
variaciones de este triángulo resultan múltiples, en este caso vuelve reiteradamente la ecuación que
sitúa a una mujer en medio de dos hombres» (Anne Lenquette, op. cit., p. 234).
15
Per quanto riguarda il rapporto tra arte ed erotismo in Juan Manuel de Prada, cfr. Rubén Ca-
stillo Moreno, «El erotismo en la novelística de Juan Manuel de Prada», in AA. VV., El Erotismo en la
Narrativa española e Hispanoamericana actual, El Puerto de Santa María, Fundación Luis Goytisolo,
1999, pp. 49-56.
16
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, Madrid, Espasa Calpe, 2007, pp. 93-94.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Anche l’elogio surrealista dell’ascella femminile sembra un’eco del volumetto
d’esordio che si prolunga poi attraverso le storie di El silencio del patinador:
Muchos años después aprendería que este gusto por las axilas sin afeitar
lo compartía con los surrealistas […]. Al atraerla hacía mí, tomándola
por los costados, noté la proximidad tibia de sus sobacos, como erizos
de mar que escondiesen, bajo su aspecto hosco, una carne salobre y
recóndita como un pecado17.
Besé sus sobacos intonsos, que eran feroces y salobres como pozos de
hormigas18.
Nei passaggi in cui il narratore ritorna all’epoca della sua infanzia, gli scenari
divengono invece bui e iniziatici, carichi di sogni e insicurezze adolescenziali, paiono
irrompere nel testo svincolandosi dalle pagine della sua unica raccolta di racconti,
per ritrarre, ancora una volta, un protagonista affascinato dalla scrittura, attratto dai
misteri della notte e del sesso:
Enrabietados, resolvíamos este clima de inminencia sexual empareján-
donos a voleo; y, emboscados entre las tinieblas crujientes de carcoma
y fragrantes de incienso fosilizado, buscábamos acomodo en un presbi-
terio derruido, en una capilla lateral rezumante de verdín, en un con-
fesionario descuajeringado que podría haber inspirado a Georges Ba-
taille. Allí, prófugos de las enseñanzas de Sir Galahad, tumbados sobre
cascotes que nos lastimaban la espalda o recostados sobre paredes de
una piedra desmigajada, nos metíamos mano premiosamente, sin llegar
nunca a nada, atenazados por la impericia19.
Se si paragona il passaggio precedente con quest’altro, tratto da Las manos de
Orlac, è impossibile non notare un’affinità nel tono impiegato, negli scenari tratteg-
giati e nei gesti smargiassi e goffi dei personaggi:
Allí, en los huecos sustraídos a la tierra, surcados por vías que tem-
blaban antes de acoger el traqueteo del tren, como niños terribles
de Cocteau o buscadores de un Santo Grial inaccesible, fumába-
mos cigarrillos que sabían a hierbas medicinales […] y nos mastur-
17
Ibidem, p. 239.
18
Ibidem, p. 301. In Coños è possibile leggere: «Los sobacos de Nuria, misteriosos de tanto pelo
que les asoma, me guiñan su ojo ciego en cuanto ella se despista, con una morosidad de párpados que
caen para mostrar una pestaña inverosímil de tan peluda» (Juan Manuel de Prada, Coños, Madrid,
Valdemar, 2005, p. 20). In El silencio del patinador il dettaglio si ripete: «Se agachó para besarme, y su
melena me nubló la vista como el ala de un pajarraco. Llevaba un vestido de tirantes muy ceñido que
le dejaba al descubierto unos sobacos intonsos y algo sudorosillos» (Juan Manuel de Prada, El silencio
del patinador, Madrid, Valdemar, 1997, pp. 122-123).
19
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 64.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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bábamos en cuadrilla, con ese fanatismo deportivo de a ver quién
termina antes, y orinábamos sobre los charcos de agua podrida20.
Vi è poi un intero capitolo (da pagina 220 a 242), in cui viene riportato il primo
timido incontro amoroso del protagonista – Alejandro Losada – e di Laura, quando
erano ancora dei ragazzini, che non stonerebbe affatto all’interno di una nuova edi-
zione di El silencio del patinador perché, oltre a riproporre i temi di un’adolescenza
marcata dell’attrazione sessuale peccaminosa e a obbedire allo schema classico delle
narrazioni brevi pradiane – un soggetto riporta in prima persona un’esperienza per-
turbante che culmina in uno sbalordimento onirico o in un presagio di morte21 – ,
ritornano alcune costanti quali la presenza di elementi militari22, dimore dall’aria
viziata da un lutto e dalla polvere depositata dagli anni23, la sagoma scarmigliata e
ridicola di un grafomane di mezza tacca, etc.
Proprio il ritratto di questo scribacchino richiama alla memoria i cammei che
punteggiano Las máscaras del héroe e Desgarrados y excéntricos, con le loro esagera-
zioni parodiche e i corpi dei personaggi sorpresi in contorsioni ridicole da fantocci
disarticolati24:
20
Juan Manuel de Prada, El silencio del patinador, pp. 11-12.
21
In El silencio del patinador però, non vi è solo un’unità tematica, ma anche lo schema narrativo
rimane lo stesso in tutti i racconti, costituendo un modello universale: «Casi todos los relatos de
Prada están escritos con estuctura de árbol caído. Un follaje circular y envolvente a modo de extensí-
simo preámbulo —la copa—, y de repente, una acción que se desarrolla de forma lineal y rápida —el
tronco—. Para evitar la monotonía, la acción a veces no sale del centro de la copa sino de alguna rama
lateral e inesperada. Algunos opinarán que se trata de una dalta de recursos; y otros destacarán la ca-
pacidad del autor, dada su juventud, para crear sus propios moldes formales» (José Ángel Cilleruelo,
«A punto de nieve», Clarín, 1 (1996), p. 53).
22
«Su padre, un coronel que acababa de ser destinado a nuestra ciudad levítica, con mando sobre
el regimiento que aguardaba la invasión de los tártaros en el cuartel de las afueras» (Juan Manuel de
Prada, La vida invisible, p. 221). «En un ángulo de la biblioteca, dormido de polvo en un paragüero, se
hallaba el sable nupcial […]. La hoja del sable, en cambio, conservaba su temple y su limpieza trémula,
como pude comprobar al desenvainarla y blandirla. El acero hacía cosquillas al aire» (ibidem, p. 238).
23
«Laura me tomó del brazo y me condujo hasta la habitación donde se agolpaba la biblioteca del
coronel; si —como suele afirmarse— los libros que leemos explican los avatares de nuestra biografía,
el padre de Laura pertenecía a esa estirpe de hombres que se han propuesto, por lealtad o contrición,
una observancia severísima de los mismos hábitos: encuadernados en una piel moteada que no acep-
taba intromisiones en rústica se alineaban los volúmenes de Plutarco y Cicerón, Tácito y Tito Livio,
Virgilio y Homero, prietos en los anaqueles, como un ejército de dioses penates o vigías del tiempo
que habían visto nacer y verían morir sin inmutarse a su propietario […]. Para alguien como yo, que
ya empezaba a barruntar mi destino literario, la biblioteca del coronel poseía una fuerza intimida-
toria y sagrada, una fuerza que, añadida a la impresión de juventud cercenada que me habían tran-
smitido los retratos de su difunta esposa, empezaba a debilitar aquella animadversión que profesaba
a mi rival» (ibidem).
24
«[Emilio Carrere] Tenía una cara gorda y pálida, como de vejiga de pescado, en la que ya le
azuleaba una barba pugnaz (se afeitaba varias veces al día, pero enseguida le volvían a asomar los
cañones, como testimonios múltiples de su virilidad). Fumaba en pipa un tabaco apestoso, al que
añadía las pelusas y cazcarrias que encontraba en el fondo de los bolsillos, y miraba con ojos revira-
dos, víctimas de un mareo producido por el humo de la pipa. Llamaban la atención las guías de su
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Augusto Pérez Vellido trabajaba sobre su escritorio […] con esa clande-
stinidad aplicada y artesanal del tipógrafo que compone un semanario
satírico o del anarquista que confecciona bombas caseras. De vez en
cuando se removía en el asiento, inclinándose sobre las cuartillas, y en-
tonces asomaba a la ventana su cabezón de sacamantecas o inventor de
la guillotina, con los cabellos greñudos y canos nimbados de un fuego
revolucionario y las patillas gigantescas que enlazaban con un bigotazo
de káiser prusiano25.
L’autore utilizza lo stesso procedimento per introdurre Bruno Boavista, amico
di Alejandro Losada:
Bruno Boavista, ya lo dije antes, era un gordo apoteósico, un poco en la
tradición bonancible y a la vez cáustica de quienes se sienten cómodos y
abrigados en su gordura, al estilo de Charles Laughton. Tenía una boca
carnosa, con un labio inferior en el que colgaba la pipa que no dejaba de
chupetear incluso cuando se le apagaba, incluso cuando no la abastecía
de tabaco. Sus mejillas gruesas y exangües estaban decoradas con levísi-
mas manchas de palidez, como las impresiones que los dedos dejan en
las pieles muy delicadas o mórbidas. También su frente era pálida, como
lavada por las paradojas y risueñas imposturas que tramaba su cerebro,
pero su nariz, astuta, muy inquisitivamente aquilina, apercibía al inter-
locutor contra la impresión engañosa de ingenuidad que en principio
transmitía su aspecto zangolotino26.
Dal libro Las esquinas del aire Prada riprende invece sia la figura di un narrato-
re dedito alla scrittura e intento a convertire le proprie vicende in argilla letteraria
da plasmare in un romanzo27 sia l’impostazione biografica, spogliandola però del
corsetto della quest28 – che in La vida invisible viene invece applicato alla ricerca di
Elena – e conservando la confessione orale29 come strumento atto a infrangere il
bigote, a la moda borgoñesa, y los puños de su camisa, que se pintaba con tiza para tapar la mugre»
(Juan Manuel de Parada, Las máscaras del héroe, p. 60). «Don Jacinto Benavente tenía cara de profe-
sor de esperanto o de duendecillo conservado en un frasco de formol; hablaba con frases lapidarias,
como un Oscar Wilde de saldo, y soltaba epigramas como quien suelta escupitajos» (ibidem, p. 121).
25
Ibidem, p. 226. In realtà si potrebbero citare anche le pagine seguenti fino alla 232, ma per ragio-
ni di spazio ci limitiamo a questa caricaturesca presentazione del personaggio.
26
Ibidem, p. 200.
27
«—Pero si es precisamente ahora cuando debes viajar... Seguro que encuentras inspiración para
tu próxima novela» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 24). «Tabares y Jimena me animaban
para que contase aquella fértil derrota de Ana María Martínez Sagi en una especie de biografía» (Juan
Manuel de Prada, Las esquinas del aire. En busca de Ana María Martínez Sagi, Barcelona, Planeta,
2000, p. 367).
28
«Las esquinas del aire no es una novela, sino que participa de la biografía, el ensayo literario, el
reportaje y el libro de memorias, y que todo este mogollón de adscripciones está servida de manera
novelesca. Los anglosajones poseen una palabra que designa nítidamente este tipo de libros, quest»
(ibidem, pp. 10-11).
29
«Así vemos que aquí, tiene gran importancia la confesión, entendida como la verbalización de
hechos penosos, y como el modo de llegar a la verdad. […] Tanto Fanny como Chambers se confie-
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muro di silenzio eretto dallo scorrere del tempo. Dalla carta e dall’inchiostro nasce
così, come un prezioso e sensuale origami, la storia di Fanny Riffel, una biografia
in cui l’autore non incappa in stonature, scegliendo e maneggiando abilmente una
terza persona, a differenza di quanto avveniva nell’ultima sezione di Las esquinas del
aire dove finiva per prevalere un’“io” posticcio30.
Accanto agli echi di ampio respiro che instaurano un’intertestualità generica
con le precedenti pubblicazioni dello scrittore, ve ne sono altri che invece rientra-
no nel campo specifico dell’autocitazione ed è piuttosto facile ravvisare una ripresa
puntuale, o con minime variazioni, di frasi già collaudate, soprattutto di metafore
o similitudini che hanno raggiunto un assetto ormai definitivo. Qui ne elenchiamo
alcune:
La noche se estrellaba sobre el callejón como un ascensor sin cables ar-
rojado desde los trasteros del cielo31.
la nieve mitigó el escándalo de la sangre32.
Elena, subió las escaleras de peldaños crujientes de carcomas y pecados33.
san, y así la novela reconstruye la recepción de esas confesiones, una recepción que no supone la re-
paración ni la expiación […]. La recepción de esas historias y su transmisión es casual, cambia tanto
el papel del confesor, que no es una instancia superior que dirige la acción, e igualmente cambia el
posible resultado. La confesión aquí parece volverse claramente representación, y los dos casos, con
sus vidas disipadas, situadas entre la ingenuidad y la perversión, muestran la vida «real», oculta tras
lo social y lo permitido» (Epicteto Díaz Navarro, «Las máscaras del escritor: las primeras novelas de
Juan Manuel de Prada», p. 216).
30
«Este discurso enmarcado plantea […] ciertos problemas relativos a su estatuto comunicati-
vo, ya que no nos hallamos ante la mera transcripción de un relato oral, sino ante una cuidadosa
elaboración del mismo tras la que se percibe sin dificultad la mano del responsable del enunciado
marco. En primer lugar, su disposición narrativa reproduce el rigor de la descrita en el relato marco;
la narración que el personaje hace, presuntamente de su propia vida está sometida a una cuidada
planificación que se percibe en la organización y distribución de los materiales, en la selección de
los motivos auténticamente relevantes de una vida dilatada, en la introducción de elementos que
crean expectativa en el lector, etc. […] En segundo lugar, si atendemos al análisis del plano verbal, no
resulta difícil percibir cómo el discurso atribuido a Ana María Martínez Sagi, sigue ofreciendo una
llamativa similitud con el del enunciador del relato marco, en cuanto reproduce de modo sistemático
varios de sus estilemas definidores» (José Antonio Pérez Bowie, «Las esquinas del aire o las permea-
bles fronteras de la ficción», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan
Manuel de Prada: De héroes y tempestades, pp. 380-381).
31
Ibidem, p. 73. «La noche se desplomaba con estrépito, como un armario arrojado desde los
desvanes de Dios» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 74). «La noche ya se había
abalanzado, como un ascensor sin cables, sobre el patio de vecindad» (Juan Manuel de Prada, Las
esquinas del aire, p. 91).
32
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 395. «la nieve tapa la obscenidad de la sangre» (Juan
Manuel de Prada, La tempestad, Barcelona, Planeta, 2006, p. 210).
33
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 385. «La escalera, crujiente de carcomas o pecados,
tenía los peldaños desiguales y muy erosionados» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 88).
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Salió a abrirle, un poco a regañadientes y tras una tardanza de minu-
tos, una mujeruca muy amojamada y menuda, como alimentada con
cañamones; tenía un rostro bovino y al mismo tiempo rapaz, en insólita
hibridación zoológica, y una mirada desmigajada de legañas. Bruno de-
dujo sin demasiada lástima que tendría que mantenerse en vela las vein-
ticuatro horas del día para que los huéspedes morosos no se largasen sin
apoquinar el parné34.
la calle tenía ese aire despojado de las geografías soñadas por De Chirico35.
In La vida invisible inoltre l’autore ricorre, ancora una volta, all’abituale struttura
imperniata su coppie e terzetti, rispettando così la serialità degli intrecci già posta in evi-
denza da Anne Lenquette36. Alejandro Losada è il vertice del triangolo amoroso formato
da Laura ed Elena37 e, quest’ultima, come Jimena in Las esquinas del aire38, potrebbe esse-
re inserita in un “triángulo amistoso” costituito da Losada e Bruno39; non va dimenticata
poi la gelosia possessiva – riflesso della rivalità tra Alejandro e Gabetti in La tempestad – ,
del genitore di Laura che determina una certa freddezza nei rapporti tra questi e il pro-
tagonista. L’altra coppia è composta, ovviamente, da Fanny Riffel e Tom Chambers e,
volendo portare all’estremo la teoria della triangolazione sentimentale, non sarebbe af-
fatto insensato ipotizzare che questi, proponendosi di lenire le ferite psicologiche dell’ex
pin up, stia in realtà affrontando tutti gli uomini che in passato l’hanno oltraggiata – il
padre, lo stesso Chambers negli anni dell’adolescenza, il predicatore Burkett, James Bre-
slin, ecc. – .
Non vi è però solo una perfetta simmetria a livello di congegni narrativi, ma i vari
esseri di carta che si annidano tra le pagine mostrano un solo viso, sono statue di un car-
rillon azionato ripetutamente da Prada. Dietro le maschere di Alejandro Ballesteros, per-
34
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 385. «Era una mujeruca consumida por el insomnio
(tendría que velar para vigilar a sus huéspedes más trasnochadores, y también que madrugar, para
que no se largasen sin arreglar las cuentas), muy amojamada y menuda, como si se alimentase con
cañamones. Tenía un rostro bovino y al mismo tiempo rapaz, en insólita hibridación zoológica»
(Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 89).
35
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 617. «la calle de Carreteras, deshabitada y torcida
como un paisaje de De Chirico» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 243). «El Paseo
de Recoletos mostraba una perspectiva desolada y entumecida, como de geografía retratada por De
Chirico» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 110).
36
Cfr. Anne Lenquette, op. cit., pp. 234-236.
37
In questo caso vi è un elemento innovatore costituito dal fatto che sia un uomo a essere conteso
tra due donne, situazione che di solito appariva invece invertita: «A diferencia de lo que suele ocurrir
en las películas o en las novelas, donde las variaciones de este triángulo resultan múltiples, en este caso
vuelve reiteradamente la ecuación que sitúa a una mujer en medio de dos hombres» (ibidem, p. 234).
38
«O sea que a la pareja sentimental-profesional narrador/Jimena se aúna Tabares, un acólito
intelectual y profesional dispuesto a profesarle a Jimena una devota y platónica admiración […]. El
triángulo amistoso sustituye al triángulo amoroso» (ibidem, pp. 234-235).
39
«En cambio mientras acompañó el trastorno de Elena […] Bruno atisbó la posibilidad de una
vida enteramente distinta. […] empezó a experimentar una regeneración, no ya moral, sino incluso
orgánica» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 369).
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sonaggio principale di La tempestad, dell’anonimo narratore di Las esquinas del aire e di
Alejandro Losada si cela un unico individuo —con ogni probabilità trasposizione dell’au-
tore—, declinato secondo tratti caratteriali costanti. Il protagonista pradiano è un sogget-
to in balia della passione per la scrittura o l’arte40 che, inibito da questa visione astratta del
mondo, affronta in maniera impacciata la lotta per la vita41 e tende a idealizzare le donne
amate42. I profili delle eroine, a loro volta, si ripetono in un susseguirsi di specchi: hanno
un naso prominente, i capelli corti, i tratti del viso orientaleggianti, indossano spessissimo
una tuta da lavoro «azul mahón» o un abito che stempera le loro forme femminili43 e, infi-
ne, sono circonfuse da un’aura quasi mistica che le eleva alla categoria di sibille visionarie:
Sara se había incorporado a la utopía libertaria más por caridad que por
convicción […]. Ya iba vestida con el mono azul mahón que la rebajaba
a una condición plebeya, y se había cortado el pelo y limado las uñas.
[…] No se rebajaba al sentimentalismo, pero dejaba que sus palabras […]
sonasen contaminadas de un orgullo retrospectivo, como si su regene-
ración sirviera para aliviarla de pecados anteriores. En los anarquistas
40
«Yo mismo había dilapidado mi juventud en la exégesis de ese cuadro, me había abismado
durante años en el enigma de sus figuras y, después de arduas investigaciones y pesquisas, había
asestado a la posteridad una especie de mamotreto o tesis doctoral, en la que incorporaba otra in-
terpretación más a las existentes» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 12). «Antes de inmolar
aquellos ejemplares únicos […], los transportaba a mi casa y los devoraba en esas noches de insomnio
que el escritor inédito debe prevenir con alguna ocupación […]. En aquellos libros […] encontré el
bálsamo espiritual que requiere el neófito, y también la dosis de saludable escepticismo que robustece
cualquier vocación literaria» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 33). «Se equivocaba.
Para escribir hace falta, antes que nada, una subjetividad enferma y extraviada, tan extraviada como
la pulsión sexual del adolescente Chambers, tan enferma como el amor que profesaba a Fanny Riffel»
(Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 141).
41
«Me sentí entonces más hermanado a Nicolussi, porque comprendí que era cobarde, compren-
dí que el celibato le había gangrenado la capacidad resolutoria y lo había ensuciado con el betún de la
derrota» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 221). «Mi incapacidad para aplicar esta distinción
teórica a la práctica, agravada por mi temperamento más bien retraído […] deparaba un currículum
erótico adelgazado hasta el desfallecimiento. […] mi ineptitud ante las mujeres […] me enfurecía y
reconcomía por dentro» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 167). «Desde que coinci-
diéramos en el Ritz —me confesó—, había descubierto en mí esa desconcertada abulia que postra
determinadas sensibilidades […]. Bruno enseguida entendió que […] si en mí abulia no se introducía
un revulsivo que la trastornase, acabaría aislándome en ese albergue de inactividad en que los escri-
tores desahuciados refugian sus frustraciones» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 218).
42
«Fabio nunca llegó a corresponder mi amor, pero en cambio empezó a profesarme una devo-
ción morbosa y acaparadora […] Aquí, inevitablemente, me ruboricé, porque yo también había cedi-
do a esa tentación» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 156). «Yo había amado a Laura durante el
último tramo de la infancia […] y también durante la taciturna pubertad, con ese amor trágico y der-
rochón que no se detiene a esperar correspondencia» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 24).
43
Anne Lenquette ipotizza che il naso possa avere un valore simbolico: «La nariz de Jimena
anticiparía su infalible perspicacia en la investigación llevada a cabo» (Anne Lenquette, op. cit., p.
232). Così come l’aspetto androgino potrebbe servire a sottolineare il loro status di donne emanci-
pate: «Ahora bien, no es de extrañar que la emancipación y modernidad redunden en perjuicio a la
feminidad. De allí que tanto A. M. Martínez Sagi como Jimena o Chiara sean mujeres con un físico
andrógino» (ibidem, p. 230).
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existe la misma intención expiatoria que en los católicos: su religión los
purifica44.
[Chiara] Iba vestida con un chándal, y sobre el chándal llevaba un hol-
gado jersey masculino […] que le anulaba los senos y cualquier otra tur-
gencia de cintura para arriba45.
Encendí una lámpara y me quedé allí durante un buen rato, leyendo en
su llama las palabras que me dedicaba mi ángel de la guarda: todavía
no había aprendido el alfabeto, pero ya sabía descifrar la escritura del
fuego, como las pitonisas46.
Chiara tenía un perfil de camafeo o ángel prerrafaelita, de un quietismo
que sólo perturbaba su nariz, aquilina y algo escorada hacía un lado47.
Me había interpelado una muchacha de veintitantos años, de pelo muy
corto (como los ángeles andróginos que merodeaban en mis ensoñacio-
nes) y rasgos tímidamente orientales; era de cuerpo menudo (el guar-
dapolvo azul mahón la empequeñecía aún más y le borraba cualquier
asomo de turgencia. […] [el de Jimena] era un rostro de una unánime
belleza, […] que recordaba al de esas actrices de antaño, Sylvia Sidney o
Gene Tierney […]. Pero no fue su belleza de labios pensativos y ojos ra-
sgados lo que atrajo mi atención […] sino su nariz. Era una nariz altiva
y respingona que yo jamás había visto repetida, una nariz fuera de cata-
logación que explicaba y enaltecía las otras circunstancias de su rostro,
a la vez que las rectificaba48.
volvió a asaltarme el mismo sentimiento que ya me asaltó cuando cono-
cí a Jimena, la misma miedosa veneración que los antiguos profesaban
a las sibilas49.
Siempre me había atemorizado ese don innato de Laura para inmiscuir-
se en los pensamientos ajenos. Poseía dotes adivinatorias que la empa-
rentaban con las sibilas50.
La reconocí [Laura] a primera vista. Tenía el mismo cuerpo menudo de
la infancia (pero luego comprobaría que esta impresión era engañosa: el
guardapolvo azul mahón la empequeñecía y le borraba cualquier asomo
de turgencia) y el pelo igual de corto, dejando expedito el óvalo de su
rostro, que recordaba al de esas actrices de antaño, Sylvia Sidney o Gene
Tierney, especializadas en películas exóticas. Pero no fueron su belleza
orientalizante ni su modesta estatura […] las circunstancias que me la
44
Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 497.
45
Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 65.
46
Ibidem, p. 71.
47
Ibidem, p. 82.
48
Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 95.
49
Ibidem, p. 258.
50
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 15.
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hicieron reconocible de inmediato, sino su nariz altiva y respingona, que
yo jamás había visto repetida, una nariz fuera de catalogación que era a
la vez compendio y la excepción de su rostro51.
Anche gli aiutanti che guidano i narratori tra le insidie della trama presentano
varie affinità: in genere si contraddistinguono per la robustezza o la pinguedine del
loro fisico, i comportamenti bislacchi e una sarcastica ironia che li rende simili ai
graciosos delle rappresentazioni del Siglo de Oro – va però specificato che nei volumi
di Prada, a eccezione di Vittorio Tedeschi in La tempestad, si discostano dallo stere-
otipo teatrale grazie alla loro vasta cultura – :
—Pues yo te hacía con Giovanna Zanon, follando como un enano, y
mira tú por dónde me vienes hecho una piltrafa —dijo Tedeschi.
Aún me quedaba una exigua reserva de humor:
—¿Y cómo crees que habría venido si de verdad hubiese estado follando
con esa bruja? Seguro que en el armario guarda una fusta para azotar a
sus amantes.
—Bueno, siempre será preferible una zurra mientras te trajinan que una
zurra a palo seco, ¿no te parece?52
[Tedeschi] Tenía el torso atezado, sin concesiones a la grasa, perturbado
solamente por la caligrafía de los músculos53.
Joaquín Tabares […]. Era un gordo de piel lechosa, con ademanes de
sátrapa y una parsimonia verbal exasperante que lo hacía regodearse en
cada palabra, como si estuviera saboreando un caramelo. […] No había
alcanzado aún la cuarentena, y su obesidad le atirantaba la piel, exo-
nerándolo de arrugas, lo cual contribuía a difuminar su edad54.
[a Tabares] El vino le aflojaba más y más la lengua […] y le garantizaba
la secreción de saliva suficiente para no cesar en su cháchara ni tampoco
en la deglución de los platos que Jimena iba suministrándole. Quizás
fuese un berzotas y el tío más zafio del orbe, pero se hacía querer, y po-
seía cierto magnetismo que obligaba los demás a girar en torno a él […]
como satélites subyugados por su facundia55.
Bruno era un treintañero de aspecto cetáceo que caminaba con cierta
flojera, como si las piernas que asomaban por debajo del barrigón le
colgaran a guisa de frágiles zancos, en lugar de sostenerlo. Su tempera-
mento linfático se conciliaba con repentinos accesos de facundia que se
correspondían muy puntualmente con la naturaleza un tanto extraña de
su literatura, que trataba de ser humorística manteniendo una aparien-
51
Ibidem, p. 192.
52
Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 176.
53
Ibidem, p. 181.
54
Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 56.
55
Ibidem, p. 174.
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cia de impávida seriedad y disfrazaba las supercherías más rocambole-
scas con una pátina de erudiciones apócrifas56.
L’autore inserisce inoltre tra le pagine di La vida invisible la figura di un religioso
dalle maniere ruvide e dal cuore d’oro57, una sorta di variante di Tedeschi che, come
vedremo oltre, rispunterà nel volume successivo.
In El séptimo velo (2007), finora ultimo romanzo dello scrittore zamorano,
Prada imbastisce uno scavo trasversale tra le nefandezze dell’umanità negli anni
della Seconda Guerra mondiale ricorrendo a un universo narrativo ben costruito,
ma per certi versi “prefabbricato”, poiché spesso vengono assemblati e amalgamati
passaggi estratti da testi precedenti e si ha l’impressione che quanto scritto riguardo
a La vida invisible sia valido anche per quest’opera. La struttura di entrambi i volumi
è identica: un prologo funge da introduzione ai fatti, seguito da due parti corpose
che culminano in un epilogo rassicurante. Julio Ballesteros, in qualità di narratore,
ricalca le movenze di Alejandro Losada e, dibattendosi tra presente e passato, per
mezzo di una quest che ricorda molto da vicino quella, certamente più letteraria,
di Las esquinas del aire58, riscopre la figura non comune del padre oltre a compiere
un cammino di formazione e di crescita personale. Anche il modo di condurre
la diegesi è simile a quello di La vida invisible: chi narra è un ascoltatore attento
– di dialoghi o di nastri registrati poco importa59 – che rinuncia alla prima persona
quando trascrive sulla pagina ciò che ha udito, preferendo esprimersi attraverso una
voce narrante neutra e onnisciente.
All’interno di El séptimo velo ritorna inoltre un doppio sistema di coppie e
terzetti che ruotano attorno a Jules Tillon e Julio Ballesteros. Tillon è al centro di
due triangoli: uno formato da lui, Lucía e André – a cui si potrebbe aggiungere, in
seconda battuta Antonio, sebbene questi abbia come rivale il ricordo del partigiano,
poiché subentra dopo la sua sparizione – ; l’altro invece vede coinvolti in un giro di
56
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 198.
57
«Entre los miembros de aquel séquito disperso de samaritanos destacaba por su ubicuidad un
fraile trinitario que regentaba una hospedería […]. Se llamaba Gonzalo, rondaba la cincuentena y
tenía facciones rústicas, un poco sanchopancescas, como de campesino tostado por el sol; era un an-
darín y un culo de mal asiento que, en otro siglo, se hubiese bastado él solito para liberar a todos los
cautivos de Argel» (Ivi, p. 514). «El padre Gonzalo vestía un jersey muy holgado, de una lana tosca y
desteñida. No usaba abrigo: quizás pensaba que esta prenda denigraba su fortaleza física, quizá se hu-
biese desprendido de él al iniciar su ronda nocturna, imitando el ejemplo de San Martín» (Ivi, p. 516).
58
È curioso notare che Juan Manuel de Prada cerca di far presa su chi legge, in entrambi i libri,
insinuando, già nelle battute iniziali, che le persone oggetto dell’indagine potrebbero essere ancora
vive. «Y, en fin, podríamos buscarla a ella misma [Ana María Martínez Sagi]. ¿Quién nos asegura
que haya muerto?» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 140). «—Quiere decir que está
vivo... —No me atrevería a jurarlo —dijo, algo temeroso de que sus palabras me brindaran un asidero
para seguir inquiriendo, para seguir importunándolo—. Cuando me llamó estaba en las últimas, o al
menos eso me aseguró» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, Barcelona, Seix Barral, 2008, p. 61).
59
Julio Ballesteros ricostruisce le sfortunate vicende del genitore grazie alle conversazioni con
padre Lucas, Enric Portabella e Sabine Blumenfeld, mentre Alejandro Losada ha accesso ai dialoghi
registrati su cassette tra Chambers e Fanny.
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ricatti sessuali Olga e Otto Abetz. Ballesteros, a sua volta, intreccia una relazione con
Nuria – troncata dalla tragica morte della giovane – e, successivamente, si innamora
di Sabine Blumenfeld.
I personaggi al centro di queste geometrie sentimentali condividono, come già
accadeva nel libro precedente, parecchie caratteristiche con altri esseri pradiani.
Jules è il solo che di primo acchito sembrerebbe sfuggire al modello del protagonista
impacciato, ma la sua disinvoltura nella guerriglia è bilanciata dalla timidezza con le
donne e la paranoia ossessiva di cui è vittima lo trasforma nel corrispettivo maschile
di Fanny ed Elena, un fobico ermeneuta di messaggi immaginari che si moltiplicano
sotto il prisma del suo sguardo:
Y entretanto [Jules] consumía la espera leyendo vorazmente los
periódicos, rastreando en la apretada tipografía de la sección de anuncios
o en la más desahogada de los titulares los códigos secretos que sus
enemigos empleaban para transmitirse instrucciones. Los periódicos se
habían transformado en un vasto, incoherente, tautológico criptograma
que sólo con paciencia y dedicación podría llegar a descifrar. Y a esta
tarea inabarcable como el océano se dedicó en las semanas sucesivas,
inmerso en un laberíntico galimatías que, de vez en cuando, entre el
tumulto de cacofonías y frases obtusas, le deparaba el hallazgo de unas
palabras que, en combinación con otras (que ya había repescado en otras
secciones del mismo periódicos, o en ejemplares de ediciones anteriores),
formaban un mensaje que sus enemigos sin duda empleaban para
comunicarse, palabras que de repente adquirían un resplandor de oro60.
Julio rispecchia invece lo stereotipo dell’intellettuale insicuro e pavido, rinchiuso
nella tranquillità di un’esistenza monotona o stritolato dalla morsa del dolore per la
perdita di persone a lui care, un cinquantenne restio a prendere l’iniziativa che si vede
coinvolto in vicende in grado di scuotere le fondamenta della sua granitica apatia:
Nunca he sido persona curiosa, ni siquiera inquisitiva; más bien al
contrario, me he esforzado siempre por rehuir las confidencias ajenas,
por evitar los descargos de conciencia, incluso cuando esos descargos
y confidencias de algún modo me atañen, o sobre todo entonces. […]
Supongo que esta actitud retraída me ha granjeado alguna malquerencia
o animadversión y también cierta fama de persona esquiva; pero a
cambio me ha permitido vivir más tranquilo, porque los secretos
que llegamos a conocer mal de nuestro grado acaban de algún modo
infectando nuestros días, acaban removiendo ese mundo tenebroso que
hubiésemos preferido mantener anestesiado61.
La descrizione di Lucía richiama alla memoria quella delle altre eroine di Prada:
vi è sempre un paragone cinematografico —questa volta l’attrice presa a modello
60
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 391-392.
61
Ibidem, pp. 55-56.
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è Miriam Hopkins e non Sylvia Sidney o Gene Tierney— e la bellezza della donna
viene connotata dal carattere spumeggiante62, non dall’esuberanza del corpo:
[Lucía] Había sido una mujer bella […]; más pizpireta que sensual (en
sus retratos de juventud guardaba cierto parecido con Miriam Hopkins,
una actriz de comedia que ya casi nadie recuerda), con un punto de
travesura o socarronería en la mirada63.
Le compagne di Ballesteros, a causa di un complesso edipico del narratore, sono
quasi una copia della madre:
Nuria era intrépida y socarrona, más pizpireta que sensual, y que incluso
guardaba cierto parecido (muy diverso al de mi madre, pero en cierto
modo complementario) con Miriam Hopkins, aquella actriz de comedia
que ya casi nadie recuerda64.
Entró en la habitación una mujer menuda [Sabine] y, sin embargo,
vigorosa, que aún no habría cumplido los cuarenta años; transmitía,
además, una impresión de elasticidad que la hacía parecer más joven.
Guardaba cierto parecido con Miriam Hopkins, una actriz de comedia
que quizá ya nadie recuerde. […] Y ahora su risa se distendió con un
punto de travesura o socarronería. El mismo tipo de sonrisa que tan
atractiva hacía a mi madre, el mismo tipo de sonrisa que me había
enamorado de Nuria, por un complejo edípico seguramente65.
Gli occhi di Olga – sineddoche della sua avvenenza malinconica –, grandi come
quelli raffigurati nei mosaici bizantini, ricordano lo sguardo di Dina Cusmano in
La tempestad66, screziato però dal riflesso grigio perla del paesaggio russo che vi è
rimasto impigliato negli anni dell’infanzia:
Una de ellas [Olga] se detuvo ante Jules; tenía unos ojos grandes, como
de mosaico bizantino, de un color gris con irisaciones de nácar, y unos
pómulos que se adivinaban patricios67.
62
Come già aveva notato Anne Lenquette nell’analisi dei primi romanzi pradiani, le donne sono
nella maggior parte dei casi personaggi attivi, vivaci, che non esitano a prendere l’iniziativa, in netto
contrasto con la passività maschile: «Es de notar que es la mujer quien lleva la voz cantante en estos
triángulos. Aprovecha su posición central y estratégica para mover los hilos del amor o del engaño
amoroso» (Anne Lenquette, op. cit., p. 234).
63
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 15.
64
Ibidem, p. 17.
65
Ibidem, pp. 642-643.
66
«Tenía [...] unos ojos pardos y demasiados grandes, de mosaico bizantino» (Juan Manuel de
Prada, La tempestad, p. 21).
67
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 142.
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Anche alcuni personaggi secondari si mantengono fedeli ad archetipi già
intravisti in altri scritti. Fidel Estrada è un genitore che ha dovuto crescere la
figlia contando solo sulle proprie forze e professa nei confronti della giovane una
venerazione compiaciuta e ammirata68 – lo stesso accade a Gilberto Gabetti in La
tempestad69 e al padre di Laura in La vida invisible70 –, ma in lui non vi è traccia
della gelosia morbosa che contraddistingueva i suoi predecessori. Padre Lucas, con
il suo corpaccione da aspirante pugile, con le maniere sbrigative di chi concepisce la
propria vocazione religiosa come un mezzo per aiutare materialmente il prossimo
e con il suo eloquio al di sopra delle righe71, è un alter ego di padre Gonzalo72. Enric
Portabella, infine, non è altro che una versione “catalana” e professionale dell’estroso
Tom Chambers: grazie alle sue sessioni di ipnosi – equivalenti ai dialoghi tra Fanny
e il sosia di Rutger Hauer – la storia di Jules Tillon affiora dagli abissi dell’amnesia e
può essere tramandata. Sia Chambers che Portabella poi, contribuiscono, con il loro
approccio poco ortodosso ma estremamente umano, a dissipare le nebbie della follia
che tormentavano i loro interlocutori.
In El séptimo velo non solo gli attori che si affacciano sulla scena possiedono
volti o gesti noti, ma persino le situazioni che li vedono protagonisti sono tratte
da intrecci precedenti e, in certe occasioni, si assiste al riciclo di fondali allestiti
tempo addietro. Fidel Estrada si invaghisce di Catalina Salazar, futura madre di
Lucía, durante la rappresentazione teatrale di Santa Isabel de Ceres di Alfonso Vidal
y Planas73 e al medesimo dramma Prada aveva dedicato qualche pagina in Las
máscaras del héroe74, riassumendolo con lo stesso tono irriverente qui proposto. Da
quel libro sulla sgangherata bohème madrilena d’inizio XX secolo proviene anche la
stampa infernale dell’ufficio di Ricardo Aguilar75, proprietario del locale Pasapoga e
degno successore di don Narciso Caballero76, impresario del Teatro de la Comedia.
Il cancro che affila i lineamenti della madre di Julio Ballesteros77 è una ripetizione
68
«Pronto se entablaría entre padre e hija una aleación indestructible, entre otras razones porque
fue Estrada quien se ocupó principalmente de su educación» (ibidem, p. 187).
69
«Chiara fue el espejo en el que Gilberto se miraba: la fue modelando a su gusto, en un ejercicio
de adoración» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 131).
70
«Cuando veía salir de clase a Laura [su padre] siempre reproducía idéntico movimiento: […]
recibía a Laura con los brazos abiertos, para tomarla en volandas y mantenerla por unos segundos
suspendida en el aire, como si la ofrendase a la naturaleza que tan benigna había sido con él y su
potencia generativa, antes de comérsela a besos» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 222).
71
Cfr. Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 260-272.
72
Cfr. Juan Manuel de Prada, La vida invisible, pp. 514-524.
73
Cfr. ibidem, pp. 184-186.
74
Cfr. Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, pp. 298-306.
75
Cfr. Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 286-288.
76
Cfr. Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, pp. 135-137.
77
«Desde que a mi madre le declararan aquella metástasis cancerígena que interesaba los pulmo-
nes y el hígado y hacía inútil cualquier intervención quirúrgica, me había esforzado por asumir su
muerte irremediable» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 9).
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della tremenda malattia che consuma il padre del narratore di Sangre Azul78 in El
silencio del patinador e il genitore di Fernando Navales in Las máscaras del héroe79;
così come il diabete strazia i corpi di Fidel Estrada80 e del padre di Fanny Riffel81.
L’esperienza di Jules nel manicomio di Santa Coloma de Gramenet82 è modellata a
partire dalla reclusione di Fanny nell’ospedale psichiatrico Chicago Read83, tanto
che i due istituti appaiono intercambiabili:
El manicomio, apartado de las barriadas extremas que deshilachaban el
paisaje urbano, conservaba, visto desde la lejanía, ese aire agrícola que
tenían las instituciones de beneficencia decimonónicas. A medida que
uno se aproximaba al edificio, con pabellones que emergían a modo de
radios del bloque principal, monótonos de ventanas con rejas y muros de
un color otoñal, quedaba desmentida esta primera impresión bucólica84.
El edificio, erigido en una finca orientada hacia el mediodía y
resguardada de los vientos por la sierra, tenía una estampa señorial,
con sus pabellones como alas de un palacete y la torre grácil de su
capilla. Visto en lontananza, podía confundirse incluso con la quinta de
recreo de unos príncipes; a medida que uno se aproximaba al edificio y
contemplaba los muros de un color otoñal, monótonos de ventanas con
rejas, esta primera impresión bucólica quedaba desmentida85.
Juan Manuel de Prada accompagna poi queste riprese con giri di frase, calco
della propria scrittura, che divengono un sommesso ma costante autocitarsi86 e
78
«Cuando llegó el invierno, el abuelo cayó postrado en la cama [...], corroído por una gangrena
que no le dejaba respirar. “Cáncer óseo”, diagnosticó el médico» (Juan Manuel de Prada, El silencio
del patinador, p. 45).
79
«El cáncer óseo o los remordimientos de conciencia habían postrado a mi padre en la cama»
(Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 77).
80
«Los médicos que lo habían atendido propusieron a Lucía amputarle ambas piernas, para de-
tener el avance de la gangrena ocasionada por la falta de riego sanguíneo, pero ella se había negado
en redondo: dilatar la muerte de su padre unos pocos meses a cambio de mutilarlo se le antojaba un
ensañamiento innecesario» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 249).
81
«El muy tozudo enfermó de diabetes y se negó a tratarse con insulina. Al final hubo que am-
putarle ambas piernas y trasladarlo al hospital de Peoria» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible,
p. 341).
82
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 403-430.
83
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, pp. 487-504.
84
Ibidem, p. 135.
85
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 403.
86
«palabras brotando de la cornucopia de sus labios» (ibidem, p. 75, 346). La stessa espressione
compare più volte in Juan Manuel de Prada, La vida invisible, cit., pp. 260, 263-264, 290, 294, 319, 452,
586, 588, 635. «allá donde la piel adquiere un tacto de papel de Biblia» (Juan Manuel de Prada, El
séptimo velo, p. 221). La metafora biblica è presente altrove: «una iconografía triste de señoritas como
papel de biblia» (Juan Manuel de Prada, Coños, p. 44). «y busqué [...] la cara interna de los muslos, que
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danno vita, come si è mostrato, all’interno del corpus delle sue opere a un continuo
déjà vu, o déjà lu, alimentando così il sospetto di trovarsi di fronte non solo a
un’ autoreferenzialità intratestuale e intertestuale ludica o artistica in linea con
la temperie culturale contemporanea87, bensì a soluzioni di comodo, a formule
espressive che, con il minimo sforzo, permettono di rifinire ambienti o schizzare
fisionomie con la disinvoltura di uno zelante artigiano, abile nel ricorrere di tanto
in tanto ai trucchi del mestiere per trarsi di impaccio, in questo modo però si corre
il rischio di creare immagini che, rimbalzate dalle pareti di un labirinto di specchi,
finiscono per perdere il loro spessore letterario e si dissolvono in un’impalpabile
consistenza d’ombra.
tenían, en efecto, un tacto vegetal y sutilísimo, casi como de papel de biblia» (Juan Manuel de Prada,
Las máscaras del héroe, pp. 265-266). «Siempre es otoño en los cementerios» (Juan Manuel de Prada,
El séptimo velo, p. 254). In La vida invisible è possibile leggere: «en los cementerios siempre es otoño»
(Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 422). «sus perseguidores empezaron a poner a prueba sus
dotes hermenéuticas deslizando sus consignas [...] en el repiqueteo de la lluvia sobre los cristales de
las ventanas, en el humo de las chimeneas, en el ronquido de los otros internos, en el sigiloso goteo de
los grifos, en el ronroneo de los tubos fluorescentes, en la geometría de las constelaciones, en el tictac
de un reloj, en el tictac de un reloj, en el tictac de un reloj que ha dejado de marcar la hora pero sin
embargo sigue funcionando» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 406). I sensi di Fanny, affinati
dalla paranoia, captano gli stessi segnali: «el Enemigo multiplica sus mensajes: la luz intermitente de
los neones, […] el chisporrotear de una bombilla averiada, el parpadeo de un gato nictálope, la geo-
metría de las constelaciones, el sigiloso goteo de un grifo, las arrugas de las sábanas que la ahogaban
con su temperatura de sudario, el tictac de un reloj, el tictac de un reloj, el tictac de un reloj que ha
dejado de marcar la hora» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 407). «sobre la nieve que borra
el escándalo de la sangre» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 496). La frase è ripetuta con
qualche variante in La tempestad e in La vida invisible: «el charco de sangre que la nieve se encargaba
aplicadamente de aspirar» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 30). «la nieve mitigó el escándalo
de la sangre» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 395).
87
«El arte actual vive un poco de discursos prestados. Ha asumido con mucha facilidad algo que
vamos a llamar intertextualidad orgánica, la mezcla de materiales, técnicas, estilos y planteamientos
estéticos, de uno o diferentes sistemas» (Juan F. Villar Dégano, «Sobre el arte del futuro», Revista de
Occidente, 181 (1996), p. 53). «lo que la novela de hoy no pretende ocultar en ningún caso es que se
trata de «literatura», que su artificio es voluntariamente aceptado como punto de partida, que quiere
revelar su doble codificación: ser lenguaje, pero ser también versión sobre el lenguaje narrativo como
construcción que parodiar, homenajear, redescubrir, parafrasear, en definitiva, revisitar. La alusión
o cita literaria, referencia a modelos estilísticos que se remedan sin esconder su artificio, antes bien,
haciéndolo patente es una constante en una literatura finisecular particularmente “revisionista”, “ci-
tacionista”» (José María Pozuelo Yvancos, Ventanas de la ficción. Narrativa hispánica, siglos XX y XXI,
Barcelona, Ediciones Península, 2004, p. 52).
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"Description": "Questo lavoro ripercorre la storia della ricezione critica dell’opera di José Más (1885-1941) fino all’attuale risveglio d’interesse dovuto al suo ruolo pionieristico nella narrativa coloniale sulla Guinea Equatoriale, in particolare l’isola di Fernando Poo. Delinea quindi tutta la produzione d’ispirazione africana dell’autore, concentrandosi sul testo chiave, strutturato come viaggio, «En el país de los bubis» (1920), di cui analizza la materia autobiografica ed etnografica, i tratti stilistici e la strategia narrativa delle diverse parti, nonché la componente ideologica.\r\n\r\nThis article traces the critical reception of the work of José Más (1885-1941) and the current revival of interest due to its pioneering role in colonial writing on Equatorial Guinea, in particular the island of Fernando Poo. It outlines all African-inspired books of the author, focusing on the basic text, structured as a journey, ‘En el país de los bubis’ (1920), which analyzes the autobiographical and ethnographic material, the stylistic features and narrative strategy of its varied parts as well as the ideological component.",
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Il viaggio africano di José Más
D ANILO M ANERA
Università degli Studi di Milano
[email protected]
José Más (Écija 1885 – Madrid 1941)1 è un autore oggi ben poco conosciuto, rara-
mente menzionato dalle storie letterarie, tutt’al più con un cenno nell’ambito del regio-
nalismo andaluso, mentre per un ventennio, tra il 1915 e il 1935, la sua nutrita e variegata
produzione narrativa godette di vasto successo di pubblico e anche di critica, basti ricor-
dare l’attenzione che gli dedicò Rafael Cansinos Assens2. La guerra civile e la scomparsa
di Más segnarono un rapido oblio. In seguito, Joaquín de Entrambasaguas gli fa posto
nella sua grande antologia di romanzi e gli dedica un’approfondita panoramica3, pur non
priva di riserve, mentre Federico Carlos Sainz de Robles passa da un ritratto elogioso a
non poche perplessità4, specie considerando il giudizio più frequentamente citato, quello
1
Il cognome viene talora riportato, per norma ortografica, senza l’accento. Qui si rispettano gli
usi delle varie fonti, ma si mantiene nel testo la variante usata dall’autore all’epoca, sia a stampa che
nel suo ex-libris.
2
Con vari articoli e il saggio Sevilla en la literatura. Las novelas sevillanas de José Más, Madrid,
Rivadeneyra, 1922.
3
Joaquín de Entrambasaguas, «Introducción» a La orgía, in Las mejores novelas contemporáneas,
Tomo V (1915-1919), Barcelona, Planeta, 1959, pp. 709-774.
4
Nella voce corrispondente all’autore del suo Ensayo de un Diccionario de la Literatura. Tomo
II. Escritores españoles e hispanoamericanos, 2ª ed, Madrid, Aguilar, 1953, p. 685, scrive: «José Mas
sobresale por su viva imaginación, su colorismo descriptivo, la fuerza realista de sus temas, su prosa
natural, sin altisonancia ni rebuscamientos; su maestría narrativa y la intensidad patética de muchas
situaciones y escenas. Es un novelista de masas, malogrado en la plenitud de su labor». Ma appare
molto meno convinto in La promoción de «El Cuento Semanal» (1907-1925), 2ª ed, Madrid, Espasa
Danilo Manera
Il viaggio africano di José Más
166
di Eugenio G. de Nora5, che vede in Más un’impallidita «reedición andaluza del levanti-
no Blasco Ibáñez», maestro al quale peraltro il nostro dichiaratamente s’ispira. De Nora
mostra di preferire i romanzi satirico-critici dell’ultima stagione (specie En la selvática
Bribonicia del 1932 e El rebaño hambriento en la tierra feraz del 1935), «obras estética-
mente rezagadas, pero de un valor testimonial muy apreciable»6.
Sono della stessa opinione anche Pablo Gil Casado7 e soprattutto Francisco
Caudet8, che segnala come nei romanzi di Más quel che conta «no es el tipismo
regional, sino la denuncia de la injusticia y opresión social»9. Il tentativo di
recupero messo in atto da Caudet circa trent’anni fa è parallelo a quello di Manuel
Bernal Rodríguez10, che auspica uno studio globale e obiettivo dell’opera di Más
e s’interroga sulle ragioni del silenzio intenzionalmente caduto su di lui: non si
è trattato di calo d’interesse, ma di brusca interruzione a causa del conflitto e di
censura da parte del regime che ne è derivato, ostile alla concezione impegnata che
Más aveva della letteratura11. In quello stesso periodo si dedica in modo solitario a
Más anche l’iberista tedesco Klemens Detering, che purtroppo pubblica in proprio
e un po’ artigianalmente i risultati delle sue ricerche12, importanti anche per i dati
biografici che apporta, provenienti dalla famiglia dello scrittore. Detering attesta ad
esempio che fu incarcerato per due mesi nel 1941, poco prima della morte (avvenuta
il 18 settembre), e le sue opere, specie quelle più critiche, vennero ritirate dalla
circolazione.
Calpe, 1975, pp. 221-223.
5
Eugenio G. de Nora, La novela española contemporánea (1898-1927), tomo I, 2ª ed, Madrid, Gre-
dos, 1963, pp. 367-370.
6
Entrambe le citazioni da ibidem, p. 367.
7
Cfr. La novela social española 1920-1971, Barcelona, Seix Barral, 1973.
8
Cfr. Francisco Caudet, «Prólogo» a José Más, En la selvática Bribonicia, Madrid, Ayuso, 1980,
pp. I-XVII, e Francisco Caudet, «“El rebaño hambriento en tierra feraz” (1935) de José Más», in Be-
nito Brancaforte – Edward R. Mulvihill – Roberto G. Sánchez (eds.), Homenaje a Antonio Sánchez
Barbudo. Ensayos de literatura española moderna, Department of Spanish, University of Wisconsin,
Madison, 1981, pp. 253-268.
9
Francisco Caudet, «José Mas: Dos novelas sobre la crisis monárquica y el desengaño republica-
no», in Las cenizas del fénix. La cultura española de los años 30, Madrid, Ediciones la Torre, 1993, pp.
183-209; la cit. è da p. 184.
10
Manuel Bernal Rodríguez, «José Más, entre el costumbrismo y el compromiso», Cauce. Revista
de filología y su didáctica, 2 (1979), pp. 149-170; e Manuel Bernal Rodríguez, «“Las novelas del campo
andaluz” de José Más», Cauce. Revista de filología y su didáctica, 3 (1980), pp. 149-170.
11
Scrive Bernal Rodríguez in «José Más, entre el costumbrismo y el compromiso», p. 156: «Los
escritos de J. Más especialmente los de la última época, derivan hacia un claro compromiso social de
defensa del oprimido, del desheredado, por una parte, y de agudización crítica de estamentos sociales
y actitudes ideológicas —clero, burguesía, terratenientes etc.— que le colocarán en una situación di-
fícil, especialmente al resultar vencedores de la contienda, precisamente, los grupos sociales y las ide-
as atacados. En este sentido, su suerte corre pareja a la de muchos otros escritores comprometidos».
12
Klemens Detering, José Más: un novelista olvidado, Duisburg, K. Detering, 1981. Nonostante
rare segnalazioni, come il trafiletto «Recordando a un escritor sevillano» sulla pagina sivigliana di
ABC (9/12/1981, p. 73), il volume ha avuto scarsissima diffusione.
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La riscoperta di José Más tuttavia tarda ancora a venire. A cavallo tra XX e
XXI secolo, si registrano, accanto a sporadici riferimenti13, la riedizione del corpus
romanzesco ambientato a Siviglia, per conto di quell’amministrazione provinciale e a
cura di Virgilio Sánchez Rey14, e un bel saggio di Carmen de Urioste Azcorra15. Nel 2004,
l’editrice madrilena Visión Libros ripubblica tre romanzi di José Más16 e negli ultimi
anni ci sono avvisaglie di nuova attenzione, specie ad opera di Mohamed Ben Slama17.
Ma c’è un aspetto molto particolare per cui si è tornati a parlare della vicenda
letteraria di José Más: il suo legame con l’ex colonia spagnola della Guinea
Equatoriale18, dove visse alcuni anni durante l’adolescenza e la primissima giovinezza,
esperienza che ha alimentato un filone della sua poliedrica narrativa.
Gli studi, sviluppatisi negli ultimi tempi, sulla letteratura coloniale ispanoafricana
e su quella postcoloniale equatoguineana ispanofona riconoscono a José Más un
ruolo di precursore, con i pregi e difetti del caso. Nel 1999, due specialisti, Jacint
Creus e Gustau Nerín, raccolgono in un’antologia, Estampas y cuentos de la Guinea
13
Ad esempio: Arturo Martín Criado, «“El Rastrero”, novela de costumbres de la Sierra de Béjar»,
Revista de Folklore, t. 14a, 157 (enero 1994), pp. 22-27. Una monumentale storia letteraria lo include,
sia pur con pochi dati: Felipe B. Pedraza Jiménez – Milagros Rodríguez Cáceres, Manual de literatura
española. X. Novecentismo y vanguardia: Introducción, prosistas y dramaturgos, Cénlit, Estella (Navar-
ra), 1991, pp. 354-356.
14
José Más, Novelas sevillanas, ed. lit. de Virgilio Sánchez Rey, Diputación Provincial de Sevilla,
1994, 2 t.
15
Carmen de Urioste Azcorra, «Canon y regionalismo andaluz: José Más», in Narrativa andaluza
(1900-1936). Erotismo, feminismo y regionalismo, Universidad de Sevilla, 1997, pp. 97-152.
16
Si tratta di En la selvática Bribonicia, El rastrero: una Castilla recóndita, trágica y completamen-
te desconocida e El rebaño hambriento en la tierra feraz.
17
Cfr. Mohamed Ben Slama, «La fatalidad en las novelas sevillanas de José Mas», Espéculo: Revi-
sta de Estudios Literarios, 39 (julio-octubre 2008), http://www.ucm.es/info/especulo/numero39/jose-
mas.html (data consultazione: 01/06/2011); Mohamed Ben Slama, «La crítica social en las novelas de
José Mas», Artifara, 8 (enero-diciembre 2008), http://www.artifara.unito.it/Nuova%20serie/Artifara-
n--8/Scholastica/default.aspx?oid=108&oalias= (data consultazione: 01/06/2011); Ben Slama, Moha-
med, «La temática de las novelas cortas de José Mas», Espéculo: Revista de Estudios Literarios, 47
(marzo-junio 2011), http://www.ucm.es/info/especulo/numero47/josemas.html (data consultazione:
01/06/2011).
18
La Guinea Equatoriale è una piccola repubblica sulle coste occidentali dell’Africa centrale, com-
posta da un riquadro di terraferma (Mbini, precedentemente noto come Río Muni, con la città più
popolosa, Bata) situato tra Camerun e Gabon, e cinque isole, tra cui la maggiore, Bioko (già Fernan-
do Poo) ospita la capitale, Malabo (chiamata nel periodo coloniale Santa Isabel). Colonia spagnola
dal 1778, anche se occupata di fatto solo da fine Ottocento, è indipendente dal 1968, ma ha patito
fino al 1979 la spietata dittatura di Francisco Macías Nguema, seguita dal regime dispotico del nipote
Teodoro Obiang Nguema. Nonostante le ingenti riserve petrolifere scoperte, lo sviluppo non arriva
alla popolazione e buona parte dell’élite culturale vive in esilio, prevalentemente in Spagna. Cfr. Justo
Bolekia Boleká, Aproximación a la historia de Guinea Ecuatorial, Salamanca, Amarú Ediciones, 2003.
Sull’epoca coloniale (in concreto il segmento novecentesco) è di grande interesse, specie per l’appara-
to iconografico, il volume: José Luis Centurión, Crónica gráfica de la Guinea Española, Madrid, SIAL
– Casa de África, 2010. Si veda anche: Carlos González Echegaray, «La vida cotidiana en la Guinea
Ecuatorial durante la época colonial», in José Ramón Trujillo (ed.), África hacia el siglo XXI. Actas del
II Congreso de Estudios Africanos en el Mundo Ibérico, Madrid, SIAL – Casa de África, 2001, pp. 157-167.
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española19 prose novecentesche descrittive, odeporiche o narrative precedenti
all’indipendenza della Guinea Equatoriale. José Más è l’autore più rappresentato, con
tre brani, e quello che apporta i testi più antichi. L’anno dopo esce il fondamentale
panorama di Antonio Carrasco González, La novela colonial hispanoafricana, ora
in una seconda edizione aumentata20, dove Más è in bella vista all’inizio della parte
dedicata alla Guinea, rilievo che confermerà nel 2004 José Ramón Trujillo nella sua
preziosa bibliografia ragionata, dove lo definisce «el primer verdadero novelista
colonial»21.
A tracciare la via dell’indagine sugli scritti “africani” di Más è Juan Miguel
Zarandona Fernández22, il quale si concentra innanzitutto sulla traduzione dal
francese che il sivigliano eseguì del romanzo Batuala, di René Maran (1887-1960),
premio Goncourt 1921, uscito in castigliano l’anno successivo. Nel prologo, Más
esprime un po’ goffamente la sua sorpresa nel vedere in libreria l’opera di uno
scrittore africano di razza nera e di buona cultura, mentre l’opinione corrente era che
l’inferiorità impedisse ai neri di produrre letteratura23. E Donato Ndongo-Bidyogo,
uno dei massimi scrittori equatoguineani, riprende l’infelice passo, a mo’ d’esempio,
nell’introduzione alla sua pionieristica Antología de la literatura guineana24.
Zarandona puntualizza che Más seppe comunque, nonostante ogni prevenzione,
apprezzare il romanzo di Maran e farlo conoscere al pubblico spagnolo25. Il critico
19
Jacint Creus – Gustau Nerín (eds.), Estampas y cuentos de la Guinea Española, Madrid, Clan
Editorial, 1999. I testi di José Mas Laglera (tratti tutti da En el país de los bubis) sono: Medallones, pp.
107-119; Las botas de montar, pp. 167-175; La espuria, pp. 255-264.
20
Antonio M. Carrasco González, La novela colonial hispanoafricana. Las colonias africanas de
España a través de la historia de la novela, Madrid, SIAL – Casa de África, 2000; rinviamo però a
Antonio M. Carrasco González, Historia de la novela colonial hispanoafricana, Madrid, SIAL – Casa
de África, 2009, dove la parte V sulla Guinea è alle pp. 313-365, mentre di José Más si parla alle pp.
319-322.
21
José Ramón Trujillo, Fuentes documentales de la literatura en español en el África subsahariana.
Tradición, traducción y modernidad, Separata de Linguax. Revista de Lenguas Aplicadas, 2 (2004), p. 7.
22
Juan Miguel Zarandona Fernández, «Realismo, alegoría y utopía en las novelas africanas de José
Mas (1885-1940)», in Actas del IV Coloquio Internacional de Estudios sobre África y Asia (Alicante/
Málaga, Instituto Alicantino de Cultura Juan Gil-Albert de la Diputación Provincial de Alicante),
Málaga, Algazara, 2002, pp. 313-326.
23
Renato Maran, Batuala. Verdadera novela de negros, Prólogo, traducción y notas de José Más,
Madrid, V. H. Sanz Calleja, 1922. Il prologo è alle pp. III-XIX, e a p. III si legge: «La novela no sólo
era de negros, sino que estaba escrita por un individuo perteneciente a esta raza. El caso me pare-
ció insólito. Yo no podía concebir que un negro del Congo tuviese aptitudes de escritor. Sabía que,
educándoles en Europa, llegaban a ser buenos bailarines y que algunos hasta habían llegado a tocar
la trompeta y el violín con verdadero arte; pero de esto a describir paisajes y estados de almas, había
mucha distancia».
24
Donato Ndongo-Bidyogo (ed.), Antología de la literatura guineana, Madrid, Editora Nacional,
1984. In seguito è uscita una nuova edizione: Donato Ndongo-Bidyogo – Mbaré Ngom, Literatura de
Guinea Ecuatorial (Antología), Madrid, SIAL – Casa de África, 2000.
25
Zarandona è poi tornato recentemente sulla questione nel suo intervento «El “Prólogo” de la
traducción española del Batuala de Renato Maran de 1922: las contradicciones textuales de José Mas»,
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circoscrive poi il corpus delle opere “africane” di Más, sottolineandone l’originale
evoluzione, e lo passa in rassegna con acute osservazioni.
Infine, nel 2010 è stato riproposto ai lettori di oggi, in una collana specializzata
in libri di viaggio, con introduzione di José Esteban e un commento di Unamuno,
En el país de los bubis26, l’opera che è all’origine della linea africana nella scrittura di
José Más e su cui si concentra la presente lettura.
La storia di tale libro si dipana attraverso tre fasi. Nel 1914 esce una stesura parziale
e acerba27, rimasta senza eco. Il giovane autore stava muovendo i primissimi passi
di quella che sarà una feconda traiettoria di romanziere e non era ancora trascorso
un decennio dal suo definitivo rientro dalla Guinea. Il dato testimonia tuttavia il
ruolo dei ricordi africani e di viaggio per la vocazione narrativa di Más. L’edizione
di riferimento è però senz’altro quella del 192028, rimaneggiata e accresciuta, che
contiene le tre parti fondamentali e reca alle pp. 7-15 un importantissimo Preámbulo
que solamente interesa al autor, datato novembre 1919. Ad essa rimandano qui, d’ora
in poi, le indicazioni di pagina non diversamente specificate. Nel 1931 si pubblica una
«2ª edición corregida y aumentada»29, che in realtà ingloba soltanto una recensione
presentato al II Congreso Internacional de Estudios Literarios Hispanoafricanos África y escrituras
periféricas en español (Madrid 5-8 de octubre 2010), in corso di pubblicazione negli atti del medesi-
mo. Analizzando il testo di Más, Zarandona dimostra che è disordinato, incoerente, contraddittorio
e disinformato (fino al punto da considerare congolese Maran, originario della Guyana francese).
Invita dunque a restringere la portata di alcune affermazioni ingenue o maldestre alla mentalità e ai
pregiudizi del tempo e a quel contesto culturale, considerando invece il valore positivo della rapida
traduzione e diffusione del romanzo di Maran, operazione con cui Más contribuì allo sviluppo della
creazione letteraria spagnola a tema africano, cui era lui stesso interessato in prima persona, impor-
tando un’opera che colmava una lacuna.
26
José Más, En el país de los bubis, La Coruña, Ediciones del Viento, 2010. «Introducción» di José
Esteban alle pp. 9-14 e «Prólogo» di Miguel de Unamuno alle pp. 15-19; alle pp. 12-13 vengono ripro-
dotte le copertine delle edizioni originali. Il volume è stato recensito, tra gli altri, da Emilio Soler, «Un
andaluz en Guinea», Revista de Libros, 170 (febrero de 2010), p. 32.
27
José Más, Con rumbo a tierras africanas. Notas, impresiones y recuerdos de un viaje a Fernando
Poo, Barcelona, Labielle, 1914.
28
José Más, En el país de los bubis. Escenas de la vida en Fernando Poo, Madrid, V. H. Sanz Cal-
leja, 1920 (184 pp.). Contiene alcune foto in bianco e nero, tra cui un ritratto dell’autore a Fernando
Poo, dopo la p. 16. Anche questa scelta è significativa del valore documentale attribuito al libro. Sulla
stessa linea la copertina a colori, che mostra un capo bubi armato e danzante con lancia, ornamenti
da cerimonia e casco piumato (sullo sfondo, dominato dal giallo, si intravedono sagome di guerrieri,
una sorta di piccionaia, una palma e un banano). La figura centrale è infatti ispirata molto probabil-
mente a una foto come quella, straordinariamente simile, riprodotta a p. 144 del già citato volume di
José Luis Centurión, Crónica gráfica de la Guinea Española, scattata nel 1901 dal missionario Padre
Albanell. Altre immagini simili si possono vedere nel fondo fotografico clarettiano, disponibile on
line: http://bioko.net/claret/. È molto interessante anche la raccolta di cartoline d’epoca messa a dis-
posizione nello stesso portale: http://bioko.net/postal/ (data consultazione: 01/06/2011).
29
Más, José, En el país de los bubis, 2ª ed. corr. y aum., prólogo de don Miguel de Unamuno, Ma-
drid, Pueyo, 1931 (236 pp.).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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Il viaggio africano di José Más
170
di Miguel de Unamuno (risalente al 1921)30, posta a mo’ di prologo, e la narrazione
Justicia africana, già uscita da sola nel 192531. Su quest’ultima edizione si basa la
citata riedizione del 2010.
En el país de los bubis. Escenas de la vida en Fernando Poo, che comprende
vari approcci dell’autore alla tematica africana, ha una struttura coscientemente
eterogenea32, articolata in tre parti provviste di una loro autonomia, pur non mancando
i rimandi incrociati. La prima e la seconda sono di lunghezza pressoché uguale (circa
il 35% del volume), mentre la terza è più breve (circa il 20%). Nel Preámbulo, che per
la sua estensione e il carattere narrativo di alcuni passi autobiografici costituisce un
nucleo per nulla accessorio, Más accenna alla sua condizione di orfano povero, dopo
la morte prematura del padre, il poeta e giornalista Benito Más y Prat (1846-1892).
Sottolinea inoltre il valore decisivo del viaggio a Fernando Poo nella sua esistenza33
e colloca verso il 1910 l’embrione del libro:
En las páginas de este libro, cándidas, sencillas e ingenuamente escritas,
van reflejadas mi niñez y mi adolescencia. Es un libro de recuerdos que
tiene para mí la tristeza y el dolor de lo vivido. Casi toda la primera
parte se escribió hace nueve años. No he querido ni retocarla. Lo que
pierda en valor literario lo ganará en sinceridad y en fervor. En nuestra
existencia hay siempre un acontecimiento trascendental y decisivo. En
la mía fue el viaje a Fernando Poo, cuando aun era yo un niño. No se
trataba de un viaje de estudio ni de sport. Iba para colocarme en una
factoría, con el ansia de ganar unas pesetas que se necesitaban en casa
de mi madre. Era necesario luchar con la vida y vencerla. Y a mí me
30
Miguel de Unamuno, «En el país de los bubis», La Nación (Buenos Aires), 01/01/1921.
31
José Más, Justicia africana, La Novela Semanal, 201 (16 de mayo de 1925), 56 pp.
32
Lo nota puntualmente Zarandona: «La estructura, tanto externa como de contenido, es muy
compleja, hecho que se plasma en el completo mosaico de tipologías textuales presentes en sus no
muchas páginas: diario de viaje, descripción de paisajes, la naturaleza africana, costumbres pintore-
scas y modos de vida, tipos humanos exclusivos (lo etnográfico-etnológico), crónica social, excursio-
nes y escenas de la vida ordinaria, cuentos más o menos basados en las experiencias de cada día, le-
yendas e historias indígenas». Il critico rileva inoltre il tono «profundamente realista-costumbrista»
indicato chiaramente dal termine escenas del sottotitolo («Realismo, alegoría y utopía en las novelas
africanas de José Mas (1885-1940)», pp. 317-318).
33
La datazione dei viaggi di José Más in Guinea Equatoriale non è agevole. I dati disponibili
sono imprecisi e a volte contraddittori. L’autore, nel «Preámbulo» del 1919, indica un’età alla partenza
di 12 anni («¡Oh mis doce años de entonces!», p. 7), mentre poi nella narrazione si passa a 13 («un
muchachito que apenas contaba trece primaveras», p. 22). Sempre nel «Preámbulo», afferma di aver
compiuto 4 traversate e aver trascorso 7 anni sull’isola, con intervalli in Spagna («Cuatro veces fui a la
maravillosa isla descubierta por el valeroso navegante portugués. Siete años pasé allí, con intervalos
de unos meses que venía a España para reponerme de la crueldad del clima», p. 14). José Esteban
parla di «ocho años» trascorsi a Fernando Poo (op. cit., p. 9), poi di «siete años», fissando il rientro
all’aprile 1905 (ibidem, p. 11). Essendo Más nato il 6 giugno 1885, aveva 12 anni nel 1897 e, contando
quella della sua nascita, vedeva allora la sua tredicesima primavera. È probabile che la seconda metà
del 1987 sia l’epoca della partenza, e la seconda metà del 1904, quando il nostro aveva 19 anni, quella
del ritorno.
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pareció fácil y hasta divertido el combate. ¡Cuándo volveré a ser audaz y
temerario como entonces! (p. 7).
Emergono subito nel Preámbulo alcuni elementi chiave, che l’autore sembra
anzi voler ricalcare. Il viaggiatore è un bambino che non conosce nemmeno il mare
e deve partire in cerca di fortuna per necessità, ma non pensa a ostacoli e difficoltà,
perché, sulla spinta dei libri d’avventura, vede tutto avvolto da una luce favolosa, dal
fascino dell’ignoto:
Por mi retina pasó la azul lejanía de un país desconocido y maravilloso.
Era todo claro y ensoñador como un cuento de hadas. Luz, luz, siempre
luz. La sombra y la penumbra se desvanecían en el resplandor del
ensueño. Aquellos cuentecillos leídos meses antes, donde se hablaba de
remotas tierras, de hombres primitivos y de bosques inmensos, iban a
convertirse en realidad. Yo pronto sería el capitán de los quince años o
el rey del país de los enanos. Era el encanto sutil de lo desconocido, de
lo bellamente ignorado (p. 8).
Non a caso, al cognato Pepe che lo accompagna a Cadice, chiede di comprargli
«El Foco Eléctrico, un cuento que habla de unos países semejantes a los que yo voy
a visitar» (p. 9)34. Il viaggio si configura per il narratore autodiegetico come uno
snodo educativo, quasi un’iniziazione, umana innanzitutto, ma anche letteraria,
vibrante in queste «notas, impresiones y recuerdos que se grabaron en mi alma con
trazos indelebles» (p. 14), nonostante i rischi corsi e il fallimento economico: «casi
estuve entre las garras de la que no perdona; mas al fin venció mi fuerte naturaleza
y pude regresar a mi patria; pero tan pobre como a la salida y con muchas ilusiones
muertas» (p. 15).
La prima parte, De Cádiz a Fernando Poo (pp. 17-82), suddivisa in 20 capitoletti,
segue scrupolosamente la traversata marittima35, offerta come un percorso di
formazione, con il trasbordo dalla famiglia dell’infanzia in terraferma a una
nuova famiglia e scuola costituita dalla nave, che a sua volta fa sbarcare infine a
un nuovo mondo d’avventura, atteso e accolto in un alone di lucente azzurro da
favola. La nostalgia della casa e della patria, pur presente sullo sfondo, rimane un
riferimento remoto. Non a caso, la narrazione inizia con un’immagine di solitudine
sul bastimento simile a una culla: «No olvidaré nunca la impresión que me produjo
verme solo en aquella gran mole, que se mecía dulcemente sobre las aguas como una
cuna gigantesca» (p. 19). A poppa della «casa movible» ondeggiano «los colores de
la bandera española» (ibidem) e il capitano gli dice: «¡Te gustará el viaje, pequeño.
34
Si tratta probabilmente di quest’edizione: José Muñoz Escámez, El Foco eléctrico. (Aventuras de
cuatro niños). Novela científica para la infancia, 2ª ed. corregida y aumentada por el autor, ilustrada
por J. Cuevas y M. Méndez Bringas, Madrid, Saturnino Calleja, 1895.
35
Fonde le esperienze di più viaggi (come dichiara l’autore nella nota a p. 27, all’inizio del IV
capitolo: «Desde este capítulo mezclo impresiones y recuerdos de varios viajes»), ma presentandole
sempre come il primo avvicinamento all’isola.
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Verás cosas muy bonitas. Y aquí estarás como en tu casa. En el mar todos somos
amigos!» (p. 20). In lontananza, Cadice, «como una ciudad fastuosa de un cuento
oriental, parecía hecha de marfil, con reflejos plateados y matices de nácar» (ibidem).
Nell’ambiente cordiale ed esclusivamente maschile che trova a bordo, l’apprendistato
comincia fin dalla prima cena, seguita dal primo mal di mare, frangente in cui viene
assistito dal passeggero catalano Carles. Il mattino seguente, dopo uno scambio di
battute con lui, scrive: «Lo estimé profundamente, como si se tratara de una persona
de mi familia. Desde este momento me pareció que no estaba en un sitio extraño, ni
rodeado de hombres casi desconocidos» (p. 24). Il giovanissimo protagonista, come
dopo un rito di passaggio, prende possesso del nuovo spazio: «Aquel día comí y cené
con un apetito de salvaje. El mareo de la tarde pasada no volvió a importunarme.
Era ya todo un hombre. Recorrí el buque de proa a popa, de babor a estribor» (p. 25).
La nave tocca le Canarie, poi il deserto del Río de Oro e, sei giorni più tardi, fa
scalo nella multiforme città di Freetown in Sierra Leone. È il primo incontro, nel
caldo soffocante, con l’Africa nera: «África la fuerte, la intrincada, la de vegetación
exuberante, está a nuestra vista con todo el esplendor de su salvaje belleza. […] con
la magnificencia propia de una naturaleza virgen o paradisíaca» (p. 37).
Ed è anche l’occasione per i primi mossi quadretti di costume: l’assalto al
bastimento da parte delle lance che propongono il trasbordo a terra e una rissa tra i
loro piloti, mentre sale a bordo un gruppo di dame locali eleganti e briose. Quando
il vapore riparte, trasporta nuovi passeggeri, fonte di sorprese per l’udito, l’olfatto e
la vista:
El silencio que antes reinaba en aquel sitio habíase cambiado en una
espantosa gritería; la cámara, tan limpia, estaba ahora convertida en un
vaciadero de cáscaras de naranja y de plátanos, y el ambiente despedía un
tufillo peculiar e inconfundible. Olía a carne de negros; olor penetrante
y molesto en sumo grado. […] Por la cámara paseábanse algunos negros
jóvenes, vistiendo a la europea y de mirada inteligente; pero chicos y
grandes, varones y hembras, armaban un vocerío infernal, pues todos
querían hablar al mismo tiempo (pp. 43-44).
Ancor più sconcertante è la visione dei braccianti della Sierra Leone, ingaggiati
dal governo spagnolo per ripartirli tra gli agricoltori della colonia, sistemati a prua,
vicino agli animali, scena che fa pensare il protagonista alla tratta degli schiavi:
En amontonamiento informe, unos sentados sobre los travesaños de las
jaulas, otros extendidos en el suelo de la sucia cubierta; unos cara al sol,
otros boca abajo, descalzos, desnudos hasta la cintura, con pantalones
de colores vivos; estos ostentando sus espaldas de gigantes, aquellos sus
pechos hercúleos y brazos de líneas viriles, se veían como a unos ochenta
negros, que chillaban y vociferaban en una jerigonza insoportable,
que más parecían aullidos que palabras, callando todos atemorizados
cuando el capataz les dirigía palabras fuertes y gesticulaba (pp. 46-47).
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La vita sulla nave prosegue, tra una tombola e uno scherzo, l’avvistamento di un
branco di delfini, letture ispiratrici o d’intrattenimento, qualche personaggio curioso
tra i marinai o i viaggiatori, la contemplazione degli sconfinati paesaggi marini
diurni e notturni, il cambio di vestiti dai bauli, un espressivo racconto di caccia
all’elefante, una spettacolare tempesta elettrica e lo scalo a Monrovia, in Liberia, con
un nuovo carico di braccianti. Nell’ultima notte a bordo il ragazzino è invaso da una
desolante malinconia, e piange sopraffatto dalla solitudine, dal senso di debolezza e
incertezza per ciò che lo attende. Ma a rinfrancarlo tornano i colori fatati dell’alba
tra il monte Camerun e Fernando Poo: «Paisaje de una soñada poesía. Un solo color
domina todo: el azul; pero ¡qué riqueza en matices!: azul turquí el cielo, azul plata el
mar, azul violáceo las montañas que se alzan ante nuestro buque» (p. 76).
E il bastimento costeggia l’isola, offrendo nuove delizie paesaggistiche di una
natura rigogliosa fino all’eccesso, dipinta con vivace colorismo:
Ya se distinguen las manchas de los caseríos. Ya se desligan de lo azul los
troncos gigantescos de las ceibas y las delgadas palmeras. Ya es el curso
plateado de un río, que espejea al sol como la hoja de una espada. Ya es
el humo de un hogar, que sube lentamente, con esa pereza embriagadora
propia de los trópicos. Ya es la cinta negra que traza en el cielo una
bandada de cuervos. Ya es la roja, amarilla, verde, plomiza y tornasolada
que dibujan en el espacio bandadas de loros, palomas silvestres, colibríes
y mirlos. Ya es la chispeante llama del sol, que hace arder la tierra y nos
muestra cráteres de volcanes, abismos, valles, llanuras, colinas, playas,
escarpes, ensenadas: todo erizado de vegetación, pero de una fertilidad
prodigiosa (pp. 77-78).
Il protagonista compara con gli scali precedenti e non ha dubbi: «África, la que
yo soñé, es ésta» (ibidem). Trionfale l’approdo a Santa Isabel, impavesata a festa con
bandiere spagnole, che pare il contraltare di Cadice, quasi un presepe tropicale36:
Santa Isabel ha surgido con toda su belleza infantil. Parece que
han sacado las casitas de una caja de cartón y las han diseminado
caprichosamente por la falda del monte. El contraste es bello, grandioso.
Bajo la pujanza ciclópea de una naturaleza virgen, bajo el marco de la
vegetación ubérrima, las débiles armazones de las casas minúsculas y de
las empalizadas microscópicas (p. 78).
L’arrivo è un affettuoso tripudio di familiarità:
A los nuevos nos saludan como a antiguos conocidos. […] Una ola de
fraternidad envuelve a estos compatriotas. La cubierta se llena de grupos
animados. […] Todos parecen miembros de una numerosa familia que
36
Della chiesa di Santa Isabel dirà più avanti: «Se adorna con una torrecilla de forma cónica, que
la creí arrancada de esos cartones de construcción que fueron la delicia de mi niñez» (p. 87).
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se han reunido después de largo tiempo de separación. […] En Sierra
Leona y en Monrovia los que subían hablaban el inglés; aquí sólo se oye
el castellano (pp. 79-80).
Ma il protagonista non manca di notare alcuni aspetti discordanti, come
l’eccitazione nervosa di chi s’imbarca per il viaggio di ritorno da quello che sentono
come un esilio, o la mancanza totale di donne:
Ni una sola mujer pone su nota sencilla, tierna y atrayente. Un país sin
mujeres no se concibe. Sin embargo, la triste realidad se ofrecía en toda
su crudeza. En Santa Isabel no había ni una sola mujer blanca. Sólo en
Basilé, pueblo de colonos, existían algunas; pero que arrastraban una
vida mísera y llena de peligros (p. 81).
Si palesa soprattutto la preoccupazione per le malattie tropicali che fiaccano
fisico e animo dei coloni spagnoli37:
Los rostros pálidos delatan la pobreza de la sangre, el paso de alguna
fiebre no lejana, la huella de la horrible disentería, la señal de un grave
paludismo, la melancolía de la nostalgia. En suma: tristeza, angustia,
desilusión, cansancio de la vida (p. 79).
La narrazione si conclude, circolarmente, con la discesa dalla nave, l’abbandono
della famiglia vicaria e del mezzo di trasporto magico:
Parecía que abandonaba algo mío. Aquello era una prolongación de
la patria. Hasta que puse el pie en el bote que me conduciría a tierra
no me di cuenta de que me hallaba en África, a una distancia fabulosa
de las playas españolas. Y aquel buque, que había mirado por nuestra
existencia con la ternura de una madre, que nos había cobijado tanto
tiempo y nos había defendido de la tempestad y de las furias de las
olas, tenía para mí un prodigioso encanto de seducción. Mi gratitud
se convertía en ternura. Desde el bote veía su costado negro, fuerte,
vencedor de la inclemencia del tiempo y de los embates del mar,
y me imaginaba que todo él sonreía como despidiéndome (p. 81).
37
Già a Freetown aveva accennato ai malanni endemici che decimano i bianchi e a cui i neri pa-
iono immuni: «Aunque pocos, algunos europeos hemos visto transitar por las calles, y en todos se
nota el estrago producido por el clima: sus rostros tienen amarillez cadavérica; las venas no logran
sonrosar estos semblantes de pómulos pronunciados; la insalubridad del terreno va minando las
naturalezas, y por muy ricas que sean les roba el vigor, dejándolas exhaustas. Por el contrario, el ne-
gro, tanto el indígena como el llegado de otro punto de la costa africana, se cría fuerte, es de potente
pecho y de brazos hercúleos. Hijo del sol y de la tierra caldeada, por sus venas corre todavía la sangre
sana y ardiente de las razas primitivas» (p. 42). Más stesso ne fu vittima, anche se, in un momento
d’entusiasmo, associa la febbre all’esuberanza vitale: «Exceso de luz, exceso de color, exceso de vida.
He ahí el peligro de los países tropicales. ¡Oh extraña paradoja! La fiebre, esa terrible dolencia, no es
más que una plétora de vida causando la muerte» (p. 77).
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La seconda parte, Bajo el cielo tropical (pp. 83-146), è la prosecuzione naturale
della prima, ma risulta alquanto eclettica e frammentaria. La prima sezione (El País)
riprende la narrazione dallo sbarco, sempre dal punto di vista di Más ragazzino,
ancora pronto a infervorarsi: «Olvido toda mi existencia pasada y me creo héroe de
una novela de Julio Verne o de Mayne Reid» (p. 85). Si descrivono così la scarpata di
una ventina di metri che separa il molo di Santa Isabel dalla città (e che è come una
seconda frontiera, quasi un simbolo del dislivello tra i due mondi, del salto da fare),
l’accoglienza da parte del commerciante andaluso Alfonso Casajuana, il suo modesto
emporio con mescita, la cittadina di 50-60 case e poco distante il villaggio di coloni
bianchi, in maggioranza valenzani, di Basilé, unico punto dell’isola in cui si trovano
famiglie intere di spagnoli38. Tratteggia poi il profilo dei fernandinos, una sorta di
aristocrazia africana benestante di Santa Isabel, discendenti da famiglie “civilizzate”
della costa continentale, che hanno conservato costumi britannici, parlano inglese
tra loro e invitano la colonia bianca a eleganti e allegri balli.
Ma il documento più straordinario che Más offre sono le pagine dedicate ai
bubi, «los verdaderos indígenas de Fernando Poo» (p. 97), che al sabato si recano
all’emporio dove lavora in frotte chiassose – ma procedendo in fila indiana – per
comprare rum e vendere «gallinas, huevos, cacao, café, aceite de palma, calabó y
bambú» (ibidem). Ce li dipinge come selvaggi puerili, che divertono con la loro
«encantadora ingenuidad» (ibidem) e vivono in uno stato primitivo, salvo quelli
educati nelle missioni cattoliche e protestanti. Ma non manca di notare che la
vicinanza dei bianchi è per loro dannosa: corrotti dall’alcolismo, i bubi della costa
sembrano la caricatura di quelli dell’interno, robusti e agili. Nel descrivere, con tocchi
veloci ma attenti, gli usi, le abitazioni, le forme di governo, gli ornamenti e i rituali
degli indigeni, accanto a tratti che giudica barbari (in primo luogo la mancanza
d’igiene, ma anche il tatuaggio sul volto, l’unguento di fango ocra per proteggersi
dagli insetti o il braccialetto di liane stretto ai bambini piccoli, che con la crescita
crea deformazioni), ne annota anche altri moralmente nobili, come il valore dato
alla dignità personale o all’ospitalità (che compara con analoghi sentimenti nell’epica
omerica). E tesse in fondo un involontario elogio dei bubi quando sottolinea la loro
refrattarietà allo sfruttamento lavorativo:
Todos los medios que se han empleado para que el bubi trabaje en las
fincas de los labradores europeos han resultado infructuosos. Como
sólo se cultiva una pequeña parte de la isla, ellos se esconden en los
bosques y forman sus poblados, repartiéndose el terreno, y como sus
38
Ma le condizioni di salute ancora una volta guastano l’emozione positiva: «Yo me creía tran-
sportado por arte de encantamiento a una aldea española. No se veía ni un negro por las calles, y las
campanas de la iglesia tocaban con tal dulzura, que un contento inefable iba llenando mi alma. […]
Pasé por la plazoletilla de la iglesia y me detuve alborozado. Niños y niñas salían del templo de Dios.
Eran de raza española, pero la mayoría nacidos en Basilé. Estaban paliditos, y algunos muy delgados.
Sentí una gran lástima, una angustiosa compasión. Yo no ignoraba que el clima de la isla era fatal
para las mujeres y para los infantes» (pp. 94-95).
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necesidades están cubiertas no se avienen a trabajar dependiendo de un
amo ni se esclavizan por el dinero (pp. 102-103).
Quanto alle loro credenze religiose, le considera
tan primitivas como sus trajes, sus tocados y sus artes; adoran a un ser,
invisible para los profanos y visible para los feticheros, que representa
el genio del Bien, o sea Rupé en su lenguaje, y a un espíritu que todo los
destruye, o sea al genio del mal, llamado Morimó. Elevan sus preces al dios
del mal y no se preocupan del dios bueno, porque afirman que de este último
nada tienen que temer, puesto que su bondad es infinita (pp. 101-102)39.
La seconda sezione, Medallones, è composta da cammei romanticheggianti e
schizzi dal vivo, dedicati non a bubi, ma a personaggi della screziata umanità di
Santa Isabel. Sfilano così Violeta, meticcia bellezza crepuscolare che sembra una
sivigliana, «apuesta, gentil y desgraciada como una princesita de ensueño» (p. 105);
il domestico liberiano Jony, muscoloso e sempliciotto come un bimbo, premuroso e
grato per il buon trattamento che riceve dopo tanti soprusi; il ricchissimo Ton-Yala,
malato di vizi e alcolismo, che da Creso finisce mendicante, ossuto come un Cristo
del Greco; lo scimmiesco cubano Malanga, fanaticamente filospagnolo, decorato per
burla dal governatore; Taborda, colosso mulatto di São Tomé, proprietario di una
piantagione di cacao, ghiotto e lussurioso, che adora il tabacco e s’accende la pipa
con la fiammella dei lampioni. Affiora anche il motivo tipico dell’accesa sensualità
africana nella sinuosa figura di Matá, la ventenne fernandina che vive libera con il
figlioletto avuto da un bianco, «muchachita de andares rítmicos y de voz suave y
acariciadora», nei cui occhi neri «palpita toda la lujuria de la flora tropical» (p. 105):
Ella busca siempre nuevos amores y prefiere a los hombres de la Península
Ibérica, exceptuando a los portugueses. Se entrega cuando quiere. En
ocasiones es casta como una esposa sencilla. En cambio, cuando la tarde
o la noche tropical se impregnan de perfumes enervadores es como
una bacante ebria, y su cuerpo quema y se retuerce entre el espasmo
del supremo instante. Entonces balbucea palabras de cariño y se queja
bajito, sin rechazarnos. Mata no se entrega por plata. Su existencia es
un canto al amor y a la libertad. Y bajo el cielo encendido de la isla, esta
mujer sonríe, enseñando su blanca dentadura y henchidos de vida sus
redondos senos, duros y negros como el ébano (p. 106).
Ai Medallones segue Tríptico, tre paginette manieristiche di prosa poetica
su un mattino, un meriggio e una notte africani. Più intrigante il testo seguente,
39
In calce a questa frase pone la seguente nota: «Yo ofrezco a D. Miguel de Unamuno, para gozar
con sus donosos comentarios, este trozo de filosofía paradójica y positivista de los indígenas de Fer-
nando Poo» (nota 1, p. 102). Il filosofo bilbaino risponderà, nella già ricordata recensione bonearense,
che altrettanto fanno la maggior parte dei cristiani. Per un’articolata descrizione della religiosità bubi
si veda Amador Martín del Molino, Los Bubis. Ritos y creencias, Madrid, Labrys 54, 1993.
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Una excursión a Moka, trainato dal ritmo del viaggio, in cui brillano le capacità
d’osservazione dell’autore. Moka è un villaggio bubi di montagna presso il quale si
trovano sorgenti di acqua minerale effervescente naturale, ritenute dagli indigeni
un luogo demoniaco a causa degli uccelli morti per le esalazioni. Il narratore
autodiegetico, aggirando le proibizioni, riesce a riempire due bottiglie, che però
scoppiano durante il trasporto (affidato ovviamente a portatori neri). Da un punto di
vista ideologico, si registra il plauso per l’attività dei coloni (ad esempio nella figura
di Ángel Díaz, madrileno responsabile di una fattoria, che vive quasi sempre da solo
e si fa obbedire dal centinaio di neri alle sue dipendenze) e dei missionari clarettiani,
la congregazione decisiva nella storia della Guinea Equatoriale spagnola40. Il rettore
della missione di Banapá, ricevendo i viaggiatori, dice loro che fanno bene a voler
conoscere l’isola, così «podrán defender como se merece este rinconcito de tierra
africana, que debe ser como una prolongación de la madre patria» (p. 122).
Chiude questa seconda parte una sezione di quadretti, Recuerdos, il primo dei
quali molto significativo. Si tratta di La caja de libros. Nella tranquillità dell’isola, il
ragazzo sente desiderio di letture. Chiede in giro, ma nessuno ha libri, che trovano
noiosi. Per tre mesi deve rileggersi più volte El foco eléctrico, poi:
Escribí a casa pidiendo libros. Llegó al fin el correo, después de una
espera cruel, y me trajo unas cuantas novelas de Julio Verne y del Capitán
Mayne Reid. ¡Oh cómo gocé con aquellos cuadernos de portada azul;
con aquellas hojas agarbanzadas, a dos columnas, de letra menuda; con
aquellos ingenuos grabados en madera, donde adquirían vida real los
personajes y las descripciones! (p. 139).
A orientare la sua formazione e le sue inclinazioni letterarie è il colto compagno
di lavoro quarantenne Pedro Gay, che riceve da casa libri d’ogni genere. Tramite
lui conosce grandi autori «en lamentables traducciones de la Casa Maucci, que
entonces me parecieron bonísimas» (p. 140). Gli propone allora di importare libri da
vendere. Il loro capo è d’accordo e chiedono per il vapore seguente un assortimento
di edizioni popolari proprio alla barcellonese Maucci. In un primo momento non
trovano la cassa nel carico, poi spunta fuori due mesi dopo, e l’emozione è forte:
Aquellos libros eran un tesoro inapreciable, único. Miraba los títulos
con pasión, y cuando saqué de la caja el primer volumen, tembló entre
mis dedos como una gran mariposa. Suavemente, como si los libros
estuviesen hechos con una materia frágil y quebradiza, fui dejándolos
sobre el mostrador hasta formar una fantástica torre de papel (p. 143).
40
Sull’operato dei missionari spagnoli si veda: Jacint Creus, «La construcción de un modelo de
evangelización colonial: Guinea española, 1845-1910», in José Ramón Trujillo (ed.), África hacia el
siglo XXI, pp. 97-112. I clarettiani (o Congregazione dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di
Maria) hanno anche pubblicato dal 1903 al 1968 una rivista importantissima per la cultura coloniale
equatoguineana, La Guinea Española, disponibile on line: http://www.bioko.net/guineaespanola/la-
guies.htm (data consultazione: 01/06/2011).
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Mettono in vendita solo i doppioni. Il resto se lo spartiscono. Il giorno dopo un
ufficiale di marina compra Il giocatore e Le notti bianche di Dostoevskij, il primo
libro venduto a Fernando Poo. L’episodio colpisce fortemente Unamuno: Más,
scrive, «a quien fue la lectura la que le lanzó a los doce años a la vida aventurera,
deseaba libros para alimentar su fuente de acción, porque él vivía y los demás se
dejaban vivir».
L’ultimo quadretto, Noticias de España, è di nuovo dedicato all’arrivo dei vapori,
ma stavolta dal punto di vista della costa, di chi aspetta. Il cerchio si chiude, ora è lui
a imbarcarsi sulla lancia per salire a bordo da terra, celebrando il rito della nostalgia:
El barco traía noticias de España, de la patria querida, de los seres
amados, y nosotros infantilmente esperábamos como un maná, como
algo sagrado que nos viniera del cielo, las cartas, los periódicos, las
revistas: todo aquello que nos hablaba del terruño y de la familia lejana.
[…] y todo tomaba a nuestros ojos de Robinsones desterrados una
grandeza épica, y un deseo febril de retornar a España se iba asomando
a todas las pupilas (p. 146).
La terza parte del libro, Fantasías africanas, è formata da una serie di racconti,
rielaborazioni di storie ascoltate a Fernando Poo o spunti personali, gestiti con
mestiere e con più d’una concessione al gusto modernista per il misterioso, l’orrido
e l’esotico41. In Las botas de montar, Don Luis, uno dei coloni stabilitisi sull’isola da
più tempo, racconta del suo amore per la nera Fanny, che ha colmato la sua triste
solitudine con «su docilidad y sus atenciones» (p. 150). Un giorno Don Luis litiga con
un inglese, che poi nottetempo si presenta a casa sua con due complici per fargliela
pagare. E Fanny lo salva volteggiando vertiginosamente un machete cubano fino
all’arrivo della polizia. El aviso de la muerta è una storia d’oltretomba di quelle in
voga all’epoca. Una madre defunta appare in sogno al figlio pregandolo di toglierle
dagli occhi una scheggia di vetro della bara. Insiste finché il figlio la fa esumare ed
esaudisce la richiesta, che risulta motivata. A raccontare è il mulatto Balmaseda,
stessa fonte di El espíritu del castigo, dove, per scoprire quale dei suoi dipendenti
gli ha rubato tre bottiglie di cognac, ricorre a un vecchio stregone indigeno, che
con erbe e incantesimi fa confessare i colpevoli. El desaparecido narra di un colono
41
I contemporanei apprezzarono proprio questi aspetti. Ecco ad esempio la sintesi del diploma-
tico libertario socialista Gabriel Alomar Villalonga (Palma de Mallorca, 1873 – Il Cairo, 1941): «El
aviso de la muerta sugiere el recuerdo de Poe y Hofmann. El espíritu del castigo desprende un fuerte
vaho de sahumerio ritual salvaje, un inquietante prestigio de divinidades negras. La iniciación es un
verdadero idilio salvaje, el amor estallando en los confines entre el hombre y la fiera, como premio de
la lucha brutal en las noches de celo, bajo la selva primitiva y confidente. El desaparecido es una ráfaga
de demencia en que la Muerte colora aspectos de libertad en los límites entre el mar y el misterio. La
espuria es el mejor de esos cuentos. Sobre la última página se ciernen unos cuervos fatidicos —los
cuervos de Arturo Gordon Pym escapados a Poe—, y cuando uno de ellos se atreve a lanzarse a devo-
rar los ojos de la mujer bubi, cuyo cuerpo ha sido enterrado hasta el cuello en plena vida, nos invade
el escalofrío de un sublime terror que jamás olvidaremos» (cfr. José Más, Justicia africana, p. 4).
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che impazzisce nell’ospedale di Santa Isabel, in un delirio di persecuzione fugge
prendendo in ostaggio l’infermiere e infine si getta in mare dalla scarpata.
La iniciación riprende il filone erotico tropicale con forti tinte decadentiste42.
Durante i festeggiamenti natalizi, dai tratti carnevaleschi, un gruppo di braccianti
di Monrovia, che hanno terminato il loro contratto e attendono la nave del ritorno,
spendono parte dei risparmi nella bettola di un deportato cubano. A un certo punto
un uomo sussurra qualcosa all’orecchio di una ragazzina quasi impubere ed esce
con lei nel cortile sul retro del locale. Ma un altro li segue circospetto e s’azzuffa con
il rivale per il possesso dell’adolescente, che sorride loro, lusingata nella sua vanità
femminile. La lotta è furibonda, tra pugni, morsi e graffi, finché uno dei due riesce
ad asfissiare l’altro, abbattendolo:
La casi niña lanzó un grito de alegría. El vencedor, con el rostro
ensangrentado y el cuerpo sudoroso, avanzó hacia la negra con las pupilas
agrandadas por el deseo. Ella, al verlo avanzar, abrió los brazos después
de arrancarse el pañuelo que cubría su vientre y sus muslos de virgen.
Y arrastrada por un placer vesánico, se ofreció al vencedor, palpitante
y estremecida. Todo en silencio. El viento se aletargaba en la atmósfera
de sopor y de calma. El sol caía sobre el grupo. La virgen entregábase
sin un grito, sin una protesta. De la tierra se elevaba un vaho cálido,
ardiente. Era el aliento poderoso de la tarde africana, que enloquecía
de lujuria ante el insaciable deseo de la naturaleza tropical (p. 166).
All’uscita del libro impressionò particolarmente La espuria, che chiude il volume.
José Más, basandosi sulla tradizionale feroce punizione dell’infedeltà presso i bubi
da lui stesso descritta nella seconda parte del libro43, tesse una storia drammatica su
una coppia mista: lo spagnolo Enrique e la sua amante bubi. Quando Enrique deve
recarsi in Spagna, la lascia sola, sicché viene facilmente rapita dai suoi. Lo stregone, il
capo villaggio e le donne della tribù non hanno dubbi nel condannarla. Le anziane le
sputano addosso, le pungono il seno, danzano intorno a lei. Poi, sanguinante, viene
42
Il soggetto di La iniciación fu scelto per la copertina a colori dell’edizione del 1931, giocata sui
toni del marrone e rosso aranciato, dove si vede in primo piano la ragazza nera a seno nudo e in se-
condo piano i due maschi che lottano per lei.
43
«Los bubis rinden culto a la fidelidad. Lo severo de sus castigos podría servir de ejemplo a al-
gún celoso personaje de los dramas calderonianos. Las leyes especiales de su tribu dejan en libertad
al varón para apropiarse de varias mujeres; pero han de ser fieles al hombre que les toque en suerte,
pues en el caso de que alguna de ellas cometa adulterio es repudiada, y como castigo de su grave falta
le amputan la mano derecha. Si la desgraciada mujer consigue sobrevivir a tan inhumana operación
la dejan en el interior del bosque, y allí, durmiendo recostada en los troncos de los árboles y alimen-
tándose de plátanos y de otros frutos, se va deslizando su existencia, hasta que se le declara una en-
fermedad y muere en medio de los más terribles sufrimientos y en el más completo abandono» (pp.
101-102). Sulla durezza del castigo nel diritto tradizionale bubi si veda Günter Tessmann, Los bubis
de Fernando Póo, a cura di José Ramón Trujillo y Basilio Rodríguez, Madrid, SIAL – Casa de África,
2008 (ed. orig. 1923), pp. 205-209 e 251-252.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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condotta nella boscaglia, dove prima le amputano una mano e poi la seppelliscono
in piedi in una fossa, con solo la testa fuori. La donna sviene e quando si riprende
vede terrorizzata un avvoltoio afferrare la mano troncata e i corvi calare su di lei.
Unamuno compara questo tipo d’orrore all’Edipo di Sofocle, precisando che «sin
pasar por lo truculento, rara vez se llega a lo trágico, y sin llegar a lo trágico no se
ha sentido la poesía». E dall’insieme degli scritti di Más sente levarsi un sentore di
tragedia:
Y a pesar de todo despréndese de estos recuerdos africanos, ecuatoriales,
de un muchacho blanco desterrado entre negros, un vaho de tragedia
muda, de tragedia sin palabras. Se siente la tragedia animal, casi vegetal,
de la raza negra. […] De la visión de la raza negra, la de los bubis, […]
se forma una nube de tragedia. Esos niños grandes, lúbricos y crueles,
borrachos y embusteros, que son los negros capaces, sin embargo, hasta
de la santidad, pero de una santidad casi vegetal, constituyen uno de los
más grandes misterios de la Historia44.
Come si è potuto notare fin dal primo contatto sul bastimento, e poi lungo
tutto il libro, la visione che Más ha dei nativi africani è eurocentrica, paternalista
e riduttiva. Corrisponde alla mentalità dell’epoca, con i suoi pregiudizi negativi a
sostegno del sistema di controllo dei dominanti sui dominati, con le generalizzazioni
stereotipate che non si fa fatica a confermare, e con una costante enfatizzazione della
differenza45. Anche quando coglie con simpatia qualche aspetto della cultura locale,
Más lo valuta con criteri etnocentrici, banalizzando istituzioni e mitologie, filtrando
le osservazioni empiriche non solo attraverso il discorso egemonico corrente, ma
anche attraverso la propria formazione quasi da autodidatta, intrisa, come s’è visto,
di toni favoloso-romanzeschi.
I bubi poi appaiono doppiamente emarginati, perché sospinti alla periferia della
loro stessa isola, essendo la capitale, i suoi dintorni e i pochi nuclei significativi
44
Un simile commento presta ovviamente il fianco a critiche come quella di Benita Sampedro
Vizcaya, che addita l’entusiasmo colonialista del rettore di Salamanca nello studio «Breve visita al
archivo colonial guineano», in Gloria Nistal Rosique – Guillermo Pié Jahn (eds.), La situación actual
del español en África, Madrid, SIAL – Casa de África, 2007, pp. 246-271, dove si legge, a p. 252: «Una-
muno usa esta oportunidad para expresar un profundo entusiasmo con el proyecto colonial, filtrado
con complejas y liberadoras ansiedades sobre la atracción sexual tropical. Pero quizás su nota más
personal en este prólogo sea la transposición del ‘quijotesco’ ser español a la realidad guineana. Una-
muno sugiere que es, precisamente, la lectura de novelas, y la subsiguiente necesidad de aventuras, lo
que —como al hidalgo manchego— ha transportado a José Mas (y, por extensión, la empresa colonial
española en su conjunto) a estos distantes territorios del África tropical».
45
Come nota Carrasco González, «todas las corrientes ideológicas españolas fueron igual de ra-
cistas: el negro era un salvaje, con un grado de primitivismo indudable y al que no se le apreciaban
rasgos de cultura» (op. cit., p. 315) e «Más no se puede desprender del paternalismo con el que el
blanco se revestía ante el negro. Era común en la época y pertenecía a la mentalidad de entonces. El
negro era para los ojos europeos un ser primitivo; a veces cruel y a veces niño. Y la labor educadora
de pueblos que andaban desnudos, no conocían la escritura y practicaban el canibalismo, se les hacía
algo imprescindible» (ibidem, p. 321).
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occupati da una società europea e panafricana, poliglotta e multietnica, in cui
possono avere solo un ruolo secondario, non solo nei confronti dei bianchi, ma
anche dei fernandini. L’indigeno può emanciparsi solo copiando il colonizzatore,
nonostante ciò produca talora effetti stridenti o anche ridicoli per il portatore della
cultura “superiore”. E la presunta missione civilizzatrice è ben riassunta dal bilancio
che tratteggia, dopo 5 anni di presenza a Banapá, il rettore clarettiano:
Con la ayuda de mis compañeros he logrado mucho de los indígenas.
Tenemos escuelas de primera enseñanza y de artes y oficios, y
lentamente vamos infundiendo la fe en estos espíritus ingenuos y
sencillos. Alrededor de la misión hemos formado un pueblecito. Los
que viven ahí se visten y se calzan. Las mujeres tienen ya idea del pudor
y velan sus desnudeces. Hemos conseguido crearles esas necesidades, y
así les inculcamos el amor al trabajo y al ahorro. Muchos de esos bubis
están como braceros en nuestra finca; a otros les hemos regalado una o
dos hectáreas de terreno para que las cultiven por su cuenta. Nosotros
recogemos el fruto y lo mandamos a España, y después les entregamos
lo que ha producido en plata contante y sonante. Claro está —dijo el
rector, sonriéndose— que ese terreno queda, después de cierto número
de años, a favor de nuestra amada congregación, como premio a nuestros
desvelos y sacrificios (p. 124).
Ne emerge una concezione del civilizzare inteso come cancellare una preesistente
condizione difettosa o colmare vuoti, creando bisogni e inculcando “valori” e
abitudini civili. L’africano nero è visto – sempre per opposizione e in riferimento
al bianco – come un essere subalterno, immaturo, elementare o deforme, senza
identità né storia, da ricondurre a schemi europei. Educandolo daccapo, come un
bambino, si può forse condurlo a una vita pienamente umana.
Más non guarda con troppa fiducia a questo processo di assimilazione forzata,
e mostra invece, in modo ricorrente, una propensione istintiva a favore della
mescolanza razziale biologica, che si palesa nell’elogio del mulatto. Ad esempio, il
figlioletto della fernandina Matá: «un hermoso niño de tez bronceada, en cuyos ojos
arde la llama del aventurero y en cuyo cuerpo se diseñan ya las líneas de la agilidad
y de la fuerza, tan peculiares en esta raza mixta» (pp. 105-106).
Un buon esempio d’ibridazione, per cui Más rinvia addirittura al crogiolo
andaluso, è la figura di Violeta, fernandina educata in Inghilterra:
Su cuerpo tiene ondulaciones y movimientos de andaluza, y toda ella
recuerda ese tipo de mujer, entre mora y cristiana, que suele verse en el
barrio de la Macarena, de Sevilla. Violeta sabe el inglés y el español; pero
ella, por su gracia meridional, es más española que inglesa. Violeta tiene
muchos pretendientes; pero no se ha decidido todavía por ninguno.
Violeta sueña quizá con un mulato guapo, fuerte, dominador, que
conquiste por la fuerza de su brazo y por la intensidad avasalladora de
su mirada todo un reino (p. 104).
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Alla dimensione mulatta corrisponde in qualche misura la società urbana
composita, creolizzata e di un certo dinamismo, intravista a Freetown e Monrovia
e in uno stato ancora molto embrionale a Santa Isabel46. In En el país de los bubis, il
campione di tale strato sociale è Balmaseda: «El mulato era un hombre de una fina
sensibilidad. Bien constituido, fuerte, musculoso, esbelto y ágil, llevaba en sí toda la
briosa naturaleza de las razas mixtas. Su valor rayaba en lo temerario» (p. 156).
Non a caso, all’occorrenza, si comporta come un bianco: «A Balmaseda se le iba
terminando la paciencia. De pronto avanzó hacia el grupo de negros suplicantes, y
una lluvia de bofetones y patadas cayó sobre sus servidores, que se dispersaron por
el solar como una nube de cuervos» (p. 167).
Per Más, i mulatti educati dagli europei marcano la distanza con i nativi anche
in una sola generazione; l’apporto bianco sembra risiedere nello spirito sagace e
attivo, quello nero nella complessione robusta e resistente alle condizioni ambientali
africane47. Ovviamente, è un rapporto diseguale e un meticciato a senso unico48,
data l’assenza di donne bianche e il colonialismo di dominio e sfruttamento in atto
in Guinea Equatoriale.
Il narratore secondario di Las botas de montar, Don Luis, si costruisce un alibi
per il fatto di amare la remissiva Fanny scomodando la morena de la sierra:
Era la negra más bonita de la isla. Sus ojos tenían la expresión dulce
y suave de una niña; parecía una Virgencita negra. Muchas veces la
comparé con la Virgen de Montserrat. Ella sonreía gozosa al saber que
también había imágenes cristianas de su obscuro color (p. 150).
E Fanny, in un passo emblematico, rivela fino a che punto ha introiettato il
divario:
Yo me tendí en un diván que teníamos en uno de los ángulos de la sala
y Fanny se echó a mis pies como un falderillo. Yony nos trajo el café.
Después los brazos de mi mujercita negra se colgaron de mi cuello.
— Quisiera —me dijo— haber nacido blanca para ser más digna de ti.
— ¿Acaso la dignidad reside en el color? (p. 152).
46
Quella che Más ritrae è, beninteso, una fase di scontro e incomprensione, siamo certo ben di-
stanti da figure interrazziali di passaggio o spazi creoli potenzialmente fertili e creativi nel ridefinire
un’identità culturale. Tuttavia è un aspetto rimarchevole, e non a caso sono proprio alcuni dei testi
che stiamo commentando quelli scelti da Jacint Creus e Gustau Nerín per la loro già ricordata anto-
logia del 1999.
47
Cfr. nota 37. Nella figura di Taborda, un esempio di carattere rimasto poco energico: «este mu-
lato es infantil, porque si se hubiese dado cuenta de su fuerza y de su gigantesca estatura y hubiese
heredado de su padre el espíritu aventurero, Taborda no se conformaría a vivir como un burgués y
capitanearía alguna tribu salvaje de las que rinden admiración y obediencia a la osadía y a la teme-
ridad» (p. 112).
48
Sulla questione si veda, tra gli altri: Gustau Nerín i Abad, Guinea Ecuatorial, historia en blanco y
negro. Hombres blancos y mujeres negras en Guinea Ecuatorial (1843-1968), Barcelona, Península, 1997.
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Dopo il suo gesto di coraggio, Don Luis si rende conto che «el amor debía
de ser el crisol maravilloso donde se podían fundir los antagonismos y los odios
de dos razas» (p. 154). Ipocrisia o buona fede che la si voglia ritenere, non appare
comunque un progetto realistico. Se per i dominatori le unioni miste (come per altri
versi l’educazione missionaria) sono una sorta di cooptazione di corpi o soggetti
inferiori, per i dominati collaborare con gli invasori significa tradire e corrompersi,
sicché le donne che s’uniscono ai bianchi sono viste come “inautentiche”, devianti e
colpevoli. È quanto accade alla sventurata protagonista del racconto La espuria, «la
única mujer que viniendo del bosque se había atrevido a romper con la costumbre
y la moral establecidas por sus leyes» (p. 177), diventando così un esempio perfetto
di assimilazione subordinata:
La bubi quedó hecha dueña absoluta de la vivienda, en unión de una
muchachita de Corisco que le servía de doncella y de criada. La bubi
vestía ya como una mujer europea. Peinábase con el cuido y el arte de
una mujer de Sierra Leona y usaba botas pomposas, con grandes lazos
de colores. Todos los domingos iba a oír misa a la iglesia católica. Era
sencilla, infantil, ingenua. Enrique había conseguido el raro prodigio de
reunir en una sola hembra a la esclava y a la amante (p. 178).
In vari momenti del libro l’aspetto o il comportamento degli indigeni è
comparato a quello animale, dalla ferinità dei braccianti assiepati sulla nave alle
donne bubi che ridono bestialmente davanti al castigo della “spuria”, passando per
Fanny paragonata a un cagnolino. Come avverte il filosofo camerunense Achille
Mbembe, il nativo è ricacciato nel perimetro dell’animalità per procedere al suo
addomesticamento: viene addestrato a servire nel mondo fatto per il padrone. Il
colono si appropria del nativo, familiarizza con lui e infine lo utilizza49. Severo è il
giudizio del critico della Guinea Conakry M’bare N’gom, che cita proprio En el país de
los bubis, appoggiandosi sulla descrizione repellente e negativa di taluni personaggi
neri, come esempio dell’immagine d’alterità subalterna e irrilevante, quando non
mostruosa, dell’autoctono equatoguineano nel discorso coloniale spagnolo50.
49
Achille Mbembe, Postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005, p. 272: «L’intera epistemologia del co-
lonialismo è fondata su un’equazione semplicissima: non c’è praticamente alcuna differenza tra il prin-
cipio nativo e il principio animale, e ciò giustifica l’addomesticamento dell’individuo colonizzato».
50
M’bare N’gom, «Geografías postcoloniales de la memoria. Guinea y el discurso colonial en
España», in Rosa M. Medina Doménech – Beatriz Molina Rueda – María García Miguel (eds.), Me-
moria y reconstrucción de la paz. Enfoques multidisciplinares en contextos mundiales, Granada, Cata-
rata, 2008, pp. 69-91. Cfr. p. 79: «El cuerpo africano es creado como un ente disfuncional y pasivo, lo
cual contribuye a su negación como sujeto histórico. Es un cuerpo feo, imperfecto, inmutable y sin
identidad. En la novela En el país de los bubis, de José Más Laglera, el negro es representado como un
ser exótico, primitivo y con cualidades zoológicas […]. Son representaciones sexualizadas, animali-
zadas, fijas e históricas tras las cuales transpira la incapacidad del africano de generar cultura y de
producir conocimientos».
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La buona accoglienza ricevuta da En el país de los bubis51 e l’esperienza della
già citata traduzione di Batuala spingono Más a un ambizioso progetto di feuilleton
ambientato in Africa, scritto nella seconda metà del 1922 e pubblicato nel 1924:
La piedra de fuego52. La struttura portante è quella di un viaggio di sola andata,
dall’avamposto di Gombe, nella Nigeria britannica, verso l’inesplorato cuore del
continente, alla volta di una leggendaria montagna di cristallo con pietre sacre
d’un rosso acceso, che potrebbero essere preziosissime gemme. La spedizione è
composta da Eliazar e Diana, fratello e sorella mulatti, con i loro servi e portatori
neri, e Roberto, un ingegnere inglese (ma nato a Gibilterra e cresciuto a Siviglia). I
tre sono mossi dallo spirito d’avventura più che dalla sete di ricchezze, apprezzano
le emozioni del pericolo e la bellezza degli scenari naturali, idillici o spaventosi
che siano. Lungo il percorso si susseguono scene di caccia e di guerra tribale, un
incendio della selva e una truce “festa del sangue”, notti di luna e zuffe di ippopotami
lungo il fiume, praterie con branchi di giraffe e uno smisurato gorilla che s’accende
di lussuria vedendo le grazie di Diana al bagno e dev’essere abbattuto (la scena è
ripresa dall’immagine di copertina, dove la belva urlante afferra la giovane svenuta).
Roberto escogita un ingegnoso espediente per salvare il gruppo quando vengono
incolpati della scomparsa di un idolo, e tra lui e Diana sboccia l’amore. I tre arrivano
infine nello sperduto villaggio dello zio stregone dei due mulatti, Balachó, fonte
delle notizie sulla “pietra di fuoco”, il quale si lascia convincere a mostrargliela. Li
accompagna in una caverna vulcanica piena di quarzi dai bagliori rossastri. Da lì un
cunicolo li conduce al ventre del vulcano da cui le prodigiose pietre ricevono luce
e calore. Nella cavità un vermiglio lago solidificato e trasparente mostra cadaveri
di uomini a animali inghiottiti dalla montagna. Roberto preleva di nascosto un
campione dei cristalli, per verificare se si tratta di rubini, ma Balachó se ne accorge
e invoca vendetta contro la profanazione. I tre si arrampicano su per il cratere e
fuggono all’esterno grazie a una fenditura, ma troppo tardi: l’eruzione li raggiunge.
L’unica consolazione degli innamorati è venir travolti dalla lava stretti in un abbraccio.
L’autore alterna scene drammatiche a momenti umoristici o descrittivi, e
dosa assai bene concitazione e slarghi, suspense e colpi di scena. Sembra il sogno
realizzato di Más ragazzino: «Todo el valle parecía en aquel momento la estampa
51
Detering evidenzia tuttavia che l’interesse mostrato dai numerosi recensori dell’epoca non an-
dava al contenuto sociale, ma era precipuamente stilistico, ed esemplifica con l’articolo di Pascual
Santacruz sul mensile Nuestro Tiempo di Madrid del maggio 1921: «Hay en El país de los bubis, pági-
nas que igualan sino superan en colorido a las de Blasco Ibáñez. Entre la generación nueva de prosi-
stas, conozco muy pocos —iba a decir ninguno— que manejan el léxico con la maestría y elegancia
de este fogoso y galano escritor. Posee un respetable caudal de vocablos que distribuye con espíritu
de verdadera precisión y tiene sobre todo, en grado sobresaliente el esplendor de la frase. Es un estilo
el de Más, lleno de luz, ya de la cegadora cenital, ya de la tamizada y poética de los crepúsculos» (op.
cit., pp. 30-31).
52
José Más, La piedra de fuego, Madrid, Renacimiento, 1924 (294 pp.). In calce, a p. 290, figurano
le date di composizione: «Sevilla, 29 de agosto de 1922 – Madrid 19 de diciembre de 1922».
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de un libro de aventuras»53. Si corona anche l’orientamento dell’autore verso una
specifica miscela razziale54: «Diana era hermosa, con esa hermosura incomparable
de las mulatas hijas de padre blanco y de madre negra, producto de dos razas que
con el cruzamiento vigorizaban la especie tan necesitada de nuevas energías»55.
Il romanzo breve Justicia africana esce nel maggio 1925 nella collana popolare
La Novela Semanal56. Come si è detto, verrà poi inserita, con alcuni ritocchi,
nell’edizione del 1931 di En el país de los bubis. Con il titolo cambiato in Birika y
Sittó, è l’unico testo di una nuova quarta parte, chiamata Estudios psicológicos. Tale
aggiunta, insieme a quella dello scritto unamuniano, si spiega come scelta editoriale
e forse volontà di riunire tutte le narrazioni brevi e medie di ispirazione africana: il
plurale nel titolo della nuova sezione lascia infatti intuire una presumibile volontà
di arricchirla in seguito.
La storia s’impernia sulla rivalità tra due bubi della stessa tribù: Sittó ed Essile. Il
primo è scapolo e ha risparmiato per comprare la ballerina adolescente Birika come
moglie. Il secondo, capo della milizia reale, pur avendo già varie mogli, è molto
ricco e s’incapriccia di Birika. Sittó lo prega di lasciargliela. Essile finge per burla di
accettare, ma in realtà non rinuncia ed è d’accordo con la madre di Birika, l’anziana
Timbabá. Invano Sittó cerca di convincere Birika, dopo le nozze, a fuggire con lui
dove comandano i bianchi, ma la ragazza è rispettosa di leggi e usanze, ribatte che
l’inganno si paga. Sittó allora affronta Essile, che lo provoca. Sittó perde il controllo e
lo uccide, subendo poi la punizione tribale: morire di fame e sete nella foresta legato
indissolubilmente al cadavere di Essile, finendo preda degli uccelli rapaci.
Il testo è di taglio piuttosto diverso dai racconti precedenti, oltre che notevolmente
più esteso. Il tentativo dell’autore sembra essere quello, arduo, di assumere la
prospettiva dell’africano, come prova anche l’uso sistematico di termini e frasi in
lingua bubi (tradotti in nota), assente altrove. La società dei bianchi compare solo
in un’allusione di Sittó che vuol attrarre Birika lontano dal villaggio: «Allí tendrás
todas esas libertades de que gozan las mujeres de los blancos pálidos. […] Tu mano
53
Ibidem, p. 202.
54
Zarandona segnala che il dettaglio poco verosimile di una famiglia mista agiata e regolare agli
inizi di una colonia britannica in Africa è «revelador de la personalidad de Mas y su postura a favor
de la convivencia total de las razas» («Realismo, alegoría y utopía en las novelas africanas de José
Mas», p. 321, nota 4).
55
José Más, La piedra de fuego, pp. 8-9.
56
Quello delle serie settimanali di novela corta fiorite tra il 1907 e il 1936 fu un fenomeno editoriale
di enorme portata in Spagna, che ampliò notevolmente il pubblico dei lettori e a cui parteciparono
quasi tutti gli scrittori dell’epoca. Lo studioso pioniere in questo campo è Federico Carlos Sainz de
Robles, con il già ricordato volume La promoción de «El Cuento Semanal» (1907-1925). Sull’apporto
di Más si veda il già citato articolo di Mohamed Ben Slama, «La temática de las novelas cortas de
José Mas». In concreto su La Novela Semanal (1921-1925) si veda: José María Fernández Gutiérrez,
La novela semanal, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 2000 (il riferimento al
fascicolo di José Más è a p. 187).
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Il viaggio africano di José Más
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izquierda no será cortada, ni servirá de festín a las aves de rapiña». E proprio qui si
colloca una nota che recita: «Véase mi libro En el país de los bubis, donde se describe
el castigo que ha de sufrir la mujer cuando falta a sus deberes conyugales»57.
L’edizione nell’affermata collana ad alta tiratura si apre con una nota anonima
(ma nella quale non è affatto irragionevole immaginare l’intervento dell’autore), alle
pp. 3-8, intitolata José Más, assai rilevante per constatare il consapevole progetto
“africano” del nostro e ricapitolarne lo sviluppo. Innanzitutto viene riportato il
proposito espresso da Más nel prologo alla traduzione di Batuala:
La novela que describa las costumbres de los salvajes del África tenebrosa
y recóndita está todavía por explorar en España. Este es un nuevo filón
que descubro a mis compañeros. Yo empecé dando el ejemplo con mi
libro En el país de los bubis, y, Dios mediante, pienso seguir con una
serie de novelas de Fernando Poo y de la Guinea Continental Española.
Es necesario que el lector se interese por estos restos de nuestro antiguo
poderío colonial58.
Poi si rammenta la tappa successiva:
Después de En el país de los bubis, con un largo intervalo durante el cual
José Más ha consolidado su prestigio de novelista, el autor de La orgía
publica otra obra de ambiente, escenarios y personajes africanos: La
piedra de fuego. Es una novela de aventuras que hace pensar en las obras
maestras del género, en aquellas Minas del Rey Salomón, por ejemplo,
que apasionaron nuestra adolescencia, hechas con el interés supremo de
un folletinista y el arte de un verdadero escritor59.
Per presentare infine la più recente:
He aquí ahora su tercera obra sobre el fondo lujuriante y las pasiones
primitivas, con paisajes inflamados y fértiles, con negros consumidos
por los pecados capitales en todo su brutal ímpetu.
Justicia africana, la novela con que José Más inaugura su colaboración
en La Novela Semanal, señala acaso la culminación de género
[…]. Profunda y genesiaca energía colma Justicia africana. Plástico
descripcionismo la enriquece y abrillanta. Un hálito feroz de humanidad
salvaje nos encalidece el pensamiento al leerla. Y su final tan implacable,
tan terrible como aquel otro del cuento La espuria quedará para siempre
fijo en el recuerdo de los lectores60.
57
José Más, Justicia africana, p. 42. La nota è la n. 2 e, nello stabilire una connessione, segna anche
la distanza, non solo cronologica, dal libro precedente. Frequenti sono in questa narrazione i riferi-
menti alla penosa condizione femminile, in una civiltà tradizionale bubi ciononostante coesa.
58
Ibidem, p. 3.
59
Ibidem, p. 4. Si fa riferimento ovviamente a Le miniere del Re Salomone (1885), del britannico
Henry Rider Haggard (1856-1925), romanzo con cui la trama di La piedra de fuego ha qualche asso-
nanza.
60
Ibidem, pp. 5-6.
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In seguito verrà ancora, nella fase più radicalmente critica di Más, il romanzo
En la selvática Bribonicia61, dove, dietro il paravento della rovinosa civilizzazione
di un paese centrafricano immaginario, selvaggio e felice, ad opera di stranieri
colonizzatori che, attratti dalle ricchezze minerarie, vi portano l’alienazione del
capitalismo occidentale, si legge – anche mediante scoperti rimandi nei nomi
dei personaggi – una satira pungente della società e politica spagnola tra la fine
della monarchia di Alfonso XIII e gli inizi della Repubblica. Qui l’Africa è solo un
riferimento utopico, che però lascia trasparire posizioni in qualche misura ribaltate
rispetto a quelle della gioventù62.
Di certo, il Más pionieristico che colpì all’epoca e oggi desta nuovamente
l’attenzione, nel bene o nel male, partecipa di quell’africanismo letterario che risultò,
anche suo malgrado, strumento del discorso coloniale63, disegnando spazi “vergini”
per giustificarne l’occupazione. La sua Africa nera e selvaggia, sempre “tenebrosa e
recondita”, ostile scenario adatto alle scorrerie eroiche, rispetta i cliché dell’esotismo
avventuroso: è un territorio dell’incompiuto e del manipolabile, ciecamente
sottomesso a tradizione e superstizione, anomalo nelle bellezze come nelle crudeltà.
Más non menziona gli abusi dei bianchi e la resistenza indigena, preso com’è dal
paesaggismo, dalla curiosità etnografica e dall’aneddotica quotidiana. Tuttavia è
difficile ravvisare in lui intenti propagandistici, un (rap)presentare per la prima volta
quei luoghi al fine di “addomesticarli” e aprire la via a chi vi ci sarebbe trasferito:
Más insiste semmai al contrario sulla delusione e le difficoltà, la nostalgia e la
mancanza di prospettive. Con questo corpo estraneo, con questo smisurato ignoto
che lo sovrastava, il giovanissimo Más cercò i punti di contatto di cui era capace, si
lasciò raggiungere, provò in seguito a raccontarlo. Ma soprattutto, per lui l’Africa
e l’isola di Fernando Poo rimasero per sempre legati all’insostituibile esperienza,
umana e letteraria, del viaggio.
61
José Más, En la selvática Bribonicia. Historia novelada de un país que quisieron civilizarlo, Ma-
drid, Pueyo, 1932.
62
Non è esattamente questo l’ultimo capitolo “africano” di Más, di cui uscì ancora, postumo, il fas-
cicolo di 16 pp. El fetichero blanco, «Novelas y Cuentos», Madrid, Dédalo, 1942. Alcune fonti indicano
tale titolo negli anni ’20, ma da un lato la serie, di fattura modesta, non esisteva in quel decennio, e
dall’altro Más non avrebbe avuto nessuna ragione per non includere anche questi testi nell’edizione
del 1931 di En el país de los bubis. La raccolta, d’ampio formato e carattere tipografico assai ridotto,
contiene due racconti fino ad allora inediti: El fetichero blanco (pp. 3-6) e El espejo en la selva (pp.
11-13), i quali presentano un’involuzione conservatrice probabilmente obbligata dalle circostanze,
nell’ultimo tribolato momento dell’esistenza di Más, subito dopo la guerra civile (cfr. Klemens Dete-
ring, op. cit., pp. 35-36). Gli altri testi, già noti, sono Justicia africana (pp. 6-11), Las botas de montar
(pp. 13-14), El aviso de la muerta (pp. 14-15), El espíritu del castigo (pp. 15-16) e El desaparecido (p. 16).
63
«La meta del africanismo literario era, por medio de un proceso narrativo muy estratégico,
articular un “texto” comprensible y aceptable para el imaginario de la opinión pública metropolitana
y, por ende, justificar la aventura colonial de España» (M’bare N’gom, op. cit., p. 78).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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Fare dell’Africa un nuovo Brasile:
letteratura e retorica coloniale
nell’ottocento portoghese
V INCENZO R USSO
Università degli Studi di Milano
[email protected]
1. Il progetto coloniale come progetto culturale
Il mondo è ormai quasi completamente lottizzato,
e ciò che resta, sta per essere ripartito, conquistato e colonizzato.
Pensare a queste stelle che, la notte, sono lassù sopra la nostra testa,
a questi vasti mondi che non raggiungeremo mai.
Vorrei annettere i pianeti se solo potessi: penso spesso a questo.
Mi rende triste vederli così chiari e, tuttavia, così lontani
Cecil Rhodes1
Per nove decimi l’Africa era già ripartita nel 1900, solo per un decimo lo era
nel 1876. Nel 1880 la presenza europea si limitava nel continente africano alle sole
fasce costiere, all’Algeria, Senegal, Gabon, sotto la bandiera francese; Gambia, Sier-
ra Leone, Angola e Mozambico, sotto la bandiera portoghese. Quindici anni dopo,
1
Ora in Michael Hardt – Antonio Negri, Impero, tr. it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli, 2000, p. 211.
Vincenzo Russo
Fare dell’Africa un nuovo Brasile: letteratura e retorica coloniale nell’ottocento portoguese
192
la famigerata e fulminea “corsa all’Africa”, a cui avevano partecipato – con ipocrita
complicità prima, poi trasformatasi in reciproca ostilità – oltre alle potenze coloniali
consolidate (Inghilterra, Francia, Spagna) e nuove (Germania e Italia), piccoli stati
come il Belgio e il Portogallo (del resto già installato in Africa), si era conclusa: ine-
sorabilmente, gli spazi bianchi scomparivano per lasciar posto alla acribia dei car-
tografi e dei geografi nazionali, artefici moderni di un più ampio progetto coloniale:
«l’intelligenza coloniale è, in gran parte, una applicazione dell’intelligenza geogra-
fica», scrive nel 1890 lo scrittore e intellettuale portoghese Jayme Batalha Reis2. Nei
remoti possedimenti schiere di uomini (le cui mansioni spesso si sovrappongono)
come geografi, amministratori, poeti, ingegneri, scrittori, avventurieri, fotografi – e
davvero la fotografia e la letteratura, entrambe mosse dalla capillare diffusione del
giornalismo, sembrano essere le due arti che contribuiscono con più efficacia alla
produzione di un immaginario coloniale – si adoperano per creare o ricreare una
realtà coloniale nel cuore stesso della vita metropolitana. La singolare competizione
che si svolge sul territorio africano e che vide come protagoniste le spedizioni di
ricerca e le compagnie coloniali facenti capo alle nazioni europee, proprio perché
rappresenta l’ultima conquista comune di territorio non europeo da parte di poten-
ze continentali, impresse tanto a livello giuridico che geopolitico un nuovo nomos
della terra, se per nomos intendiamo «la misura che distribuisce il terreno e il suolo
della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data
dell’ordinamento politico, sociale e religioso»3.
L’impresa coloniale europea aveva dispiegato i suoi mezzi (scienza, cultura) per
ridurre quel vuoto in un “pieno di nomi”, in un catalogo, in un archivio4: le scienze e la
tecnica (e il discorso ideologico euforico finesecolare che le accompagna) diventano
a un tempo il motore e la giustificazione del colonialismo, e il progresso (le sue
filosofie così come le retoriche nazionaliste europee che del suo mito si riempiono la
bocca) ammette nel suo nome l’esportazione “forzata” della civilizzazione.
In Culture and Imperialism, Edward Said mostra, soprattutto nel campo
narrativo francese e inglese, secondo lui, paradigmatici di questo processo, lo sforzo
formidabile – complesso, contraddittorio – che le culture nazionali europee hanno
compiuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in quel periodo che va sotto
il nome ormai classico di “Età degli imperi”. Said muove dal Conrad di Heart of
2
Jayme Batalha Reis, Estudos Históricos e Geográficos, Lisboa, Agência das Colónias, 1941, p. 210
(tr. it. dell’autore).
3
Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum»,
traduzione e postfazione di E. Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1991, p. 59.
4
Sulla questione dell’archivio come dispositivo di conoscenza e di esercizio del potere cfr. Thomas
Richards, The Imperial Archive, Knowledge and the Fantasy of Empire, London and New York, Verso,
1993. Sul caso imperiale portoghese si veda Nuno Porto, «O museu e arquivo do Império (o terceiro
império português visto do Museu do Dundo, Companhia de Diamantes de Angola», in Cristiana
Bastos – Miguel Vale de Almeida – Bela Feldman-Bianco (coordenação), Trânsitos coloniais: diálogos
críticos luso-brasileiros, Lisboa, Imprensa de Ciências Sociais, pp. 117-132.
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Fare dell’Africa un nuovo Brasile: letteratura e retorica coloniale nell’ottocento portoguese
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Darkness per cogliere la coscienza ambigua del rapporto moderno tra letteratura
e progetto coloniale allorché, all’inizio della narrazione, la condanna dell’impresa
coloniale («la conquista della terra non è una bella cosa a guardarla troppo da vicino»)
è riscattata solo dall’Idea: «un’idea che la sostiene; non un pretesto sentimentale ma
un’idea; e una fiducia disinteressata in quell’idea: qualche cosa da esaltare, davanti
alla quale inchinarsi, e alla quale offrire sacrifici…»5.
La grande lezione di Said è appunto quella di aver dimostrato – al contrario
di quanto generalmente si crede – che è l’azione imperialista, l’Impero a seguire
l’Idea quale complessa e stratificata produzione delle culture nazionali metropoli-
tane. L’immaginario coloniale di questa epoca, infatti, si forgia non solo sulle ide-
ologie e sull’azione politica ufficiale, sulla storiografia, sulla economia, sui nuovi
saperi codificati dalla modernità (l’antropologia, l’etnografia, la sociologia) ma ri-
cade più o meno coscientemente, più o meno surrettiziamente nelle opere d’arte,
riarticolandone i miti, le figure, i cliché. In questo senso, non solo nei testi della
cosiddetta letteratura “coloniale” (in senso stretto) ma anche in quelli di scrittori
che apparentemente non si interessano di questioni coloniali o che non appoggiano
apertamente la condotta della politica ufficiale dello stato di appartenenza si può
riconoscere quella “struttura di atteggiamento e di riferimento” comune agli imma-
ginari imperiali dell’epoca. L’analisi del “corpus” letterario, selezionato quasi sempre
fra le opere canoniche della letteratura nazionale – che traducono in narrazione la
densa costruzione della Nazione – consente di mappare quei luoghi testuali in cui il
discorso coloniale fra le pieghe della propaganda politica e l’ideologia dell’autore si
riconfigura in nuove versioni del progetto imperiale come spia di un rinnovato con-
senso all’espansione d’oltremare. Said ci insegna che analizzare dei romanzi – tanto
più se circoscritti agli anni di genesi e sviluppo del colonialismo moderno – significa
leggerli «dapprima come grandi prodotti dell’immaginazione creativa o interpreta-
tiva, e poi […] come parte del rapporto tra cultura e impero»6. Anzi proprio per-
ché l’Imperialismo è sostenuto da diversificate formazioni ideologiche che alla fine
dell’Ottocento, soprattutto dopo la corsa all’Africa, hanno assunto la consistenza e
lo spessore di un’impresa a lungo termine, studiare dal punto di vista culturalista le
opere d’arte del canone europeo significa innanzitutto analizzare i dispositivi atti a
creare e / o consolidare l’Idea che riscatti l’impresa coloniale. Non è soltanto la spe-
ranza (più o meno frustrata) del profitto, impulso spesso convincente di tutta la
propaganda metropolitana a mobilitare l’immaginario coloniale; oltre e al di sopra
di esso, esiste un impegno sempre rinnovato e diffuso – laddove novità e perpetua-
zione7 sono i lati della stessa medaglia della fluida modernità coloniale europea (si
5
Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, in I capolavori di Joseph Conrad, con uno scritto di I. Calvino,
Milano, Mondadori, 2003, p. 10.
6
E. W. Said, Cultura e Imperialismo, tr. it. di S. Chiarini e A. Tagliavini, prefazione di J. Buttigieg,
postfazione di G. Baratta, Roma, Gamberetti, 1998, p. 18.
7
«It is the process of ambivalence, central to the stereotype, that my essay explores as it constructs
a theory of colonial discourse. For it is the force of ambivalence that gives the colonial stereotype its
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Fare dell’Africa un nuovo Brasile: letteratura e retorica coloniale nell’ottocento portoguese
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rinnova per perpetuare, e per perpetuarsi l’Impero deve rinnovarsi) – dal momento
che, come scrive Walter Benjamin,
le ideologie dei dominatori sono per loro natura più mutevoli delle idee
degli oppressori. Esse devono, infatti, non solo, come queste ultime
adattarsi di volta in volta al conflitto sociale, ma anche tradurlo ogni
volta in una situazione in fondo armonica8.
Dicevamo allora che questo impegno rinnovato e diffuso del progetto coloniale
è teso, da una parte, a creare consenso e a far accettare l’idea nella metropoli che i
territori lontani e le loro genti debbano essere sottomessi; dall’altro, a rivitalizzare
le energie della società metropolitana in modo che quei «bravi cittadini potessero
pensare all’imperium come a un dovere prolungato nel tempo, quasi metafisico di
governare popolazioni subordinate»9.
Quanto allora ci preme studiare è il rapporto fin troppo diretto, eppure com-
plesso, perché stratificato e spesso ambiguo, tra progetto coloniale come tema domi-
nante nella vita sociale, politica e culturale delle metropoli e le letterature da queste
prodotte, a un tempo suo contributo e suo effetto. Se è indubbio che l’altrove fine-
secolare – sia esso il Maghreb francese, l’India britannica o l’Africa equatoriale per
i portoghesi (Africa che in realtà si riduce a zone molto piccole geograficamente
rispetto a quanto la retorica “onirica” africanista pretendesse) – si riempie di nomi,
di senso, o come scrive Said, quei luoghi distanti bastano da soli a svolgere un ruo-
lo inestimabile nell’immaginario, nell’economia, nella vita politica e nella struttura
sociale della Gran Bretagna, della Francia e del Portogallo, è altrettanto vero che a
informare questo immaginario la cultura (e la letteratura in particolare) dispiegherà
tutto un intreccio di invenzioni mitiche, retoriche, mistificatrici, – si pensi al ruolo
delle riscritture delle storiografie “esotiche” da parte delle storiografie europee – de-
clinate in modo da comporre una ampia strategia di “forme culturali associate al
dominio”. Alla fine dell’Ottocento, è la stessa impresa coloniale in quanto esperien-
za e pratica dell’altrove, cioè, in quanto reale e simbolica “discesa agli inferi” delle
colonie, che fornisce la base moderna per ridisegnare, legittimando, confutando,
problematizzando, le varie idee sulla cultura. Il moderno discorso coloniale parla,
insomma, per esperienza, per “conoscenza diretta” spacciata per scienza: l’Impero si
giustifica, almeno, per il disturbo che si è preso di allargarsi e allargare i suoi territori.
Come scrive perentoriamente l’esploratore portoghese Serpa Pinto10, solo l’esperien-
currency: ensures its strategies of individuation and marginalisation; produces that effect of proba-
bilistic truth and predictability which, for the stereotype, must always be in excess of what can be
empirically proved or logically construed» (Homi Bhabha, «The other Question», in Contemporary
Postcolonial Theory, edited by Padmini Mongia, London etc., Arnold, p. 37).
8
Citato in Romano Luperini, L’allegoria del moderno: saggi sull’allegorismo come forma artistica
del moderno e come metodo di conoscenza,Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 7.
9
E. W. Said, op. cit., p. 36.
10
«Os factos procurados neste livro sam a expressão da verdade. Verdade triste muitas vêzes, mas
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Fare dell’Africa un nuovo Brasile: letteratura e retorica coloniale nell’ottocento portoguese
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za può garantire la verità, l’autorità – personificata nella sua figura di nobile (inte-
so come sinonimo di non-lucrativo)11 viaggiatore – deriva solo dalla testimonianza
delle cose africane. Tuttavia, la moderna traduzione culturale dell’impresa coloniale
(con i suoi agenti sul campo a raccogliere informazioni per le codificazioni metro-
politane), come si diceva, ha bisogno di codificare questa “conoscenza” soprattutto
in termini di rappresentazione di sé, ricerca di identità che passava inevitabilmen-
te per l’alterità (come crogiolo di istanze diversissime, addirittura antagoniste): «Il
colonialismo costruisce figure dell’alterità e dirige i suoi flussi con una complessa
struttura dialettica. La costruzione negativa degli altri, dei non europei, è ciò che
fondamentalmente crea e sostiene la stessa identità europea»12.
2. Politica e immaginario coloniale nel Portogallo di fine ottocento
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la cultura portoghese codifica per la
prima volta in immaginario coloniale tutta quella costellazione di pratiche politi-
che, di conoscenze empiriche, di discorsi ideologici, di teorizzazioni scientifiche o
pseudo-scientifiche sulle rovine del suo Impero storico, dopo la perdita delle “In-
die” e del “Brasile”: lo spazio africano. La scelta di studiare gli immaginari coloniali
all’epoca dell’età degli imperialismi europei (1875-1914) non significa dimenticarne
le profonde stratificazioni storiche e culturali – il che è tanto più vero per un Paese
come il Portogallo che già dal XVI secolo ha consumato il passaggio da nazione a
impero13 – piuttosto deriva dall’idea che è in quel periodo di tempo (Congresso di
Berlino, corsa all’Africa e sua spartizione, prima guerra mondiale) che la modernità
occidentale trasforma l’imperialismo in un vero e proprio progetto di cultura. An-
che per la cultura portoghese, quanto meno a livello di investimento immaginario e
di produzione mito-poietica, è valida la considerazione di Edward Said per cui l’idea
sistematica di impero d’oltremare nelle culture di Inghilterra, Francia e Stati Uniti
(che egli analizza) gode di uno status privilegiato:
Si tratta di un’idea che ha molto a che fare con le proiezioni dell’imma-
ginario, sia nella finzione narrativa che nella geografia e nell’arte, e che
que seria crime ocultar. Procurei apresentar nêlle os resultados de um trabalho aturado de muitos
meses, e garanto o que digo sôbre geografia Africana, porque só eu sou uma autoridade para falar
nella na parte respectiva á minha viagem, em quanto outro não houver seguido os meus passos atra-
véz d’Àfrica, e não me convencer do contrario» (Serpa Pinto, Como eu atravessei a África. A carabina
d’el rei, vol. I, 1ª ed. 1881, Mira-Sintra, Publicações Europa-América, 1998, p. XVIII).
11
«Não fui á Àfrica ganhar dinheiro. Tive a mesquinha paga de official do exèrcito e não quiz
outra» (Serpa Pinto, op. cit., p. XVIII).
12
Michael Hardt – Antonio Negri, op. cit., p. 125.
13
«A empresa descobridora e colonizadora, ao contrário da dos espanhóis, foi desde o começo, ou
quase, identificada com a actividade fundamental da Nação» in Eduardo Lourenço, «Retrato (póstu-
mo) do nosso colonialismo inocente», Critério, 3 (Janeiro de 1976), p. 10.
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acquisisce una sua costante realtà attraverso atti effettivi di espansione,
di amministrazione, di investimento, come nel perseguire un determi-
nato obiettivo. Vi è un che di sistematico nella cultura imperialista, in
nessun altro impero tanto evidente come in quello inglese e francese e,
seppur in modo diverso, statunitense, cosicché quando parlo di “strut-
tura di atteggiamento e di riferimento” è per l’appunto a questo aspetto
che io mi riferisco14.
Eppure, rispetto ai progetti imperiali che la corsa all’Africa innesca nelle vecchie
e nuove potenze europee, la questione coloniale portoghese di fine Ottocento non è
solo il prodotto storico di un dibattito europeo che ricade al livello nazionale sulla
teorizzazione ideologica e sulla pratica politica e diplomatica: la costruzione, tanto
reale quanto simbolica, del terzo impero portoghese, se da un lato accompagna la
vita politica nazionale per l’intero secolo (e più decisamente durante l’ultimo quin-
dicennio) funzionando come paradigma di tutti i discorsi sull’identità e sui destini
del Paese, dall’altro comporta un riassestamento strutturale (politico, economico,
sociale) che adegui l’immagine del Portogallo imperiale alla nuova realtà geografica
africana. Difatti, se è vero che la perdita del Brasile (la cui secessione risale al 1822)
non fu sentita come vero e proprio “trauma” da parte della cultura portoghese, la
quale non produsse una letteratura dell’elaborazione del lutto, è pur vero che il ridi-
mensionamento imperiale fu in qualche modo assorbito dalla compensazione che
il progetto coloniale africano rappresentava. A metà del secolo, l’opzione coloniale
portoghese necessitava di essere riformulata concettualmente in termini nuovi: non
più legata alla realtà e agli stereotipi di nazione negriera o commercialmente pro-
tezionista, essa si sforza di sintonizzarsi sull’ora europea, su pressione e imitazione
diretta o indiretta degli imperi centrali, in primis della alleata Inghilterra, tanto più
dal momento in cui l’Africa cessava di essere considerata una terra di confino e di-
ventava lo spazio del desiderio imperiale europeo. Ma la sostituzione della geografia
imperiale (“fare dell’Africa un nuovo Brasile”), come la stessa formulazione indica,
privilegiava – ancora in ampi settori dell’opinione pubblica – le retoriche della con-
tinuità, della perpetuazione mimetica di forme sociali arcaiche già sperimentate dai
portoghesi in Brasile, della tradizione della colonizzazione africana (se non mondia-
le), del suo primato e della sua missione storica.
Già prima del 1870, prima cioè dell’interesse europeo per l’Africa, il terzo impe-
ro portoghese per quanto possa essere teorico (data la scarsa conoscenza dei terri-
tori africani e l’interesse minimo da essi suscitati nell’opinione pubblica), comincia a
funzionare come un vero e proprio specchio identitario, per reazione all’idea di infe-
riorità con cui la cultura portoghese si rappresentava ed era rappresentata dalle altre
nazioni in pieno XIX secolo. D’altronde, sin dall’epoca delle Scoperte geografiche,
l’identità nazionale del Portogallo si era andata costruendo sulla sua proiezione im-
periale. Senza impero coloniale, poteva diventare addirittura difficile pensarsi come
14
E. W. Said, op. cit., pp. 19-20.
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“portoghesi”: «Portugal existia através do seu império, e através dele, imaginava-se
centro»15. L’Africa come nuovo e rinnovato spazio imperiale avrebbe permesso alla
nazione di pensarsi ancora come tale, nonostante la perdita di egemonia nel sistema
mondiale e la crisi di immagine che la secessione del Brasile aveva provocato.
Tal como o período de ruína nacional e perda de prestígio está associa-
do ao fim do império brasileiro, o ressurgimento nacional tem de passar
pela redescoberta das fórmulas que fizeram a grandeza nos séculos de
ouro. É em África que as humilhações passadas podem ser curadas, é
aí, é só aí que Portugal pode de novo dirigir a Europa; é essa a chave do
renascimento nacional. De uma forma ou de outra todos os intellectuais
dos anos setenta, oitenta e noventa partilham desta noção, que se torna
uma dos mais significativos traços de união da população portuguesa16.
La questione coloniale, ancora una volta, è dettata dalla stretta e pur ambigua
relazione nazione / impero: la rappresentazione identitaria dell’una passa sempre per
la costruzione di una “comunità immaginata” imperiale. Nell’immaginario politico
nazionale finesecolare, l’idea per cui la sopravvivenza del Portogallo sarebbe dipe-
sa dall’esistenza dell’impero, dalla sua manutenzione a tutti i costi fa il paio con
la coscienza della vulnerabilità del paese – tanto più in tempi di minacce esterne
(nella versione doppia dell’unificazione iberica e/o dell’annessione castigliana17) – e
con la discussione sulla sproporzione imperiale portoghese. Non a caso, il dibattito
che attraversa tutta la politica “africanista” portoghese sulla vendita o quanto meno
sull’alienazione di una parte dei territori coloniali perdurerà con alterne fortune
alla fine dell’Ottocento, come dimostrano certe posizioni, non raramente isolate, di
intellettuali come Eça de Queirós o Oliveira Martins.
As relações de Portugal com as suas colónias são originais. Elas não nos
dão rendimento: nós não lhes damos um único melhoramento: é uma
sublime luta – de abstenção! […] Para quê temos colónias? E aí de nos
que não as teremos muito tempo! Bem cedo elas serão expropriadas por
utilidade humana. A Europa pensará que imensos territórios, pelo facto
deplorável de pertencer a Portugal, não devem ficar perpetuamente se-
questradas do movimento da civilização; e que tirar as colónias à nossa
15
Margarida Calafate Ribeiro, Uma História de Regressos: Império, Guerra Colonial e Pós-Colonia-
lismo na Literatura Portuguesa, Porto, Afrontamento, 2004, p. 41.
16
António José Telo, Lourenço Marques na Política Externa Portuguesa, Lisboa, Edições Cosmos,
1991, pp. 19-20.
17
Il fantasma dell’annessione castigliana diventa un vero e proprio tema letterario nella seconda
metà dell’800, come testimonia il racconto di Eça A catastrofe, abbozzo testuale del romanzo non
compiuto A Batalha do Caia, in cui il romanziere immagina l’invasione castigliana del suo Paese a
fini puramente didattici: l’estremo oltraggio avrebbe bruscamente risvegliato dal sonno un Porto-
gallo sonnambulo. L’idea di decadenza intimamente legata a quella di una necessaria rigenerazione
nazionale attraversa tutta l’opera di Eça de Queirós. Le parole di Ega in Os Maias ne sono un famoso
esempio: «Portugal não necessita reformas […] Portugal o que precisa é a invasão espanhola».
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inércia nacional, é conquistá-las para o progresso universal. Nós temó-
las aferrolhadas no nosso cárcere privado de miséria. Não tardará que
na Europa se pense em as liberartar. Para evitar esse dia de humilhação
sejamos vilmente agiotas, como compete a uma nação do século XIX – e
vendamos as colónias! Mas somos pobres, meus senhores! E que se di-
ria de um fidalgo (quando os havia) que deixasse em redor dele os seus
filhos na fome e na imundície – para não vender as salvas de prata que
foram dos seus avós? Todos diriam que era um imbecil canalha! Pois
bem, estes quatro milhões de portugueses são os filhos esfomeados do
Estado, para quem as colónias estão como velhas salvas de família pos-
tas a um canto num armário18.
Dopo la forzata spoliazione da parte dell’Inghilterra di fasce territoriali al confi-
ne fra Angola e Mozambico a seguito dell’Ultimatum del 1890, l’immaginario politi-
co e culturale portoghese cesserà di pensare l’Africa come uno spazio in eccesso per
la nazione e quindi come merce per un possibile scambio commerciale. La difesa dei
confini coloniali diventerà un obbligo storico e sacro per l’imperialismo nazionalista.
Interpenetrando os interesses económicos, a ideológia assumiu, após o
Ultimatum, um papel de grande relevo com repercussões directas na
própria evolução política portuguesa no século XX. Os sentimentos na-
cionalistas tomavam corpo em torno da ideia de império tecendo-se mi-
tos à volta dos territórios coloniais encarados como parcelas “sagradas”
de um património inalienável a cujos direitos se associava a vocação
ultramarina portuguesa19.
La specificità dell’imperialismo portoghese moderno risiede proprio nel carat-
tere “organico” delle colonie (siano esse sconosciute, sognate o solo disprezzate) dal
momento che esse sono considerate come un innesto vitale, un complemento senza
discontinuità nel corpo della nazione. Non è un caso allora che, anche a livello giu-
ridico, il Portogallo sia stato insieme alla Francia il primo stato europeo a sostenere
alla Conferenza sul Congo (1885) «l’assoluta uguaglianza tra gli status territoriali,
considerando il suolo delle colonie e delle terre d’oltremare come un dominio posto
sullo stesso piano del “territorio statale” della madrepatria europea»20. Quella che
doveva sembrare una equiparazione artificiale, fondata su questioni meramente tat-
tiche, divenne una delle idee fondanti dell’immaginario imperiale portoghese lun-
go l’intero Novecento: «E a África, e specialmente a Ángola, apresentava-se como
o sucedâneo da Índia e do Brasil, para nos garantir geográfica e economicamente
18
Eça de Queirós, As Farpas (Lisboa 1871-72), coordenação de Maria Filomena Mónica, S. João
de Estoril, Princípia, 2004, pp. 115-120.
19
Maria Manuela Lucas, «A ideia colonial em Portugal, 1875-1914», Revista de História das Ideias,
14 (1992), p. 313.
20
Carl Schmitt, op. cit., p. 60.
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uma autonomia que nos não garante por si só o território português da peninsula
hispânica»21.
In questo senso, il nazionalismo portoghese – la cui recrudescenza risale al tem-
po dell’Ultimatum inglese – è, a differenza di quanto avviene nelle altre potenze
europee, quasi sempre imperialista.
Durante todo o século XIX, mas sobretudo no seu último quartel, esteve
sempre na questão colonial um dos pontos mais críticos do nacionalis-
mo português: é em torno dela que, por grande parte, se pensa a identi-
dade do país e se refaz a sua memória, se traçam os caminhos a percor-
rer, se calculam as hipóteses de sobrevivência nacional num mundo em
trasformação22.
Se la maggior macchina mitografica della coscienza coloniale è, anche in Por-
togallo, la letteratura – di impostazione più o meno colonialista –, il suo contributo
allo studio dell’immaginario imperiale finesecolare dovrà necessariamente essere
considerato nell’orizzonte del discorso identitario del Paese, al fine di svelare tanto
l’affinità quanto la differenza portoghese nella costruzione dei suoi miti culturali
rispetto al resto degli imperi europei.
3. Genealogie di un discorso coloniale sull’Africa
L’indipendenza del Brasile (1822) e quindi – dal lato portoghese – la fine di quel
secondo impero, di quell’impero “monocoloniale” centrato tutto in America del Sud,
corrisponde in termini reali, non meno che simbolici, a un profondo mutamento di
paradigma su cui tutta la cultura sente la necessità di investire: con l’espressione “fare
dell’Africa un nuovo Brasile”23, secondo la vulgata storiografica attribuita al progetto
di Sá da Bandeira già alla fine degli anni Trenta del XIX secolo e chiosata da molti
(non ultimo, Oliveira Martins che l’avvertiva come frustrazione e possibilità, a un
tempo) deve, infatti, intendersi tutta la mobilitazione non solo politico-diplomatica
e socio-economica ma soprattutto culturale che il Portogallo – almeno per tre quarti
del secolo, e più coscientemente a partire dagli anni Settanta – sviluppa intorno a ciò
che resta del suo Impero. Difficilmente si può negare che l’imperialismo portoghese
21
Oliveira Martins, Portugal em África. A questão colonial. O conflito anglo-português, prefácio do
prof. José Gonçalo de Santa-Rita, Lisboa, Guimarães e C.ª Editores, 1953, p. 163.
22
Valentim Alexandre, Velho Brasil, Novas Áfricas: Portugal e o Império (1808-1975), Porto, Afron-
tamento, 2000, p. 174.
23
Uno dei tratti specifici del colonialismo portoghese deve essere rintracciato proprio nello iato
temporale tra l’esperienza della colonizzazione del Brasile e il progetto colonialista in Africa: «O
Brasil podia, portanto, ser usado como recurso simbólico para a construção de un império africano»
(Miguel Vale de Almeida, «O Atlântico Pardo. Antropologia, pós-colonialismo e o caso “lusófono”»,
in Cristiana Bastos – Miguel Vale de Almeida – Bela Feldman-Bianco (coordenação), op.cit., p. 32).
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sia diacronicamente un imperialismo “per sostituzione”, almeno secondo la vulgata
storiografica: alle Indie si sostituisce il Brasile alla fine del ’500, così come il Brasile è
sostituito dall’Africa nel XIX secolo. È pur vero, però, che la “sostituzione” del Brasile
con l’Africa (e il solo evocare il nome dell’intero continente, quando in verità, si trat-
ta di fasce costiere il cui interno è ancora “bianco”, immacolato, vedremo, non è solo
una strategia lessicale di “svuotamento” comune all’Europa coloniale, quanto anche
una portoghesissima proiezione onirica di grandezza inesistente24) necessiterà di un
“sovrappiù” ideologico che la cultura (grazie anche ai nuovi saperi) dovrà costruirsi
per presentare la moderna impresa imperiale senza rotture e discontinuità. Il surplus
ideologico sarà garantito al progetto coloniale, in primo luogo, dalla vittoria del libe-
ralismo, e dalla diffusione del giornalismo che ne delineerà le idee-guida, in secon-
do luogo (e soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta), dalla competitività
internazionale, e dal conseguente interesse per l’Africa, e infine, dalle politiche di
modernizzazione delle colonie (si pensi a Andrade Corvo e al governo regenerador)
e dalla potenziale opportunità che i territori africani offrivano per incanalare l’emi-
grazione metropolitana fino a quel momento diretta quasi esclusivamente in Brasile.
I primi due tempi dell’Ottocento coloniale portoghese, dagli inizi fino al 1840 il
primo, e compreso nel trentennio 1840-1870 il secondo, possono essere considerati
il retroterra storico e culturale del colonialismo moderno. Il primo tempo, segnato
da instabilità politica e decadenza nazionale, è segnato, in seguito alla proclamazio-
ne del nuovo regime liberale, dall’azione di tutta l’intellighenzia nazionale che, se
non dimentica la vocazione imperiale portoghese, comincia a discutere la vendita
o l’alienazione di parte dei territori coloniali e abolisce il traffico negriero – Sá da
Bandeira, 1836 – più per pressione esterna (inglese) e per accattivarsi il favore euro-
peo (ma anche per evitare l’invio di ulteriore manodopera angolana in Brasile) che
per astratti ideali umanistici. Il secondo tempo, invece, si caratterizza per le prime
controversie territoriali, ancora di poca importanza, che coinvolgono le potenze eu-
ropee e il Portogallo, il quale, se continua a essere attaccato come il paese per eccel-
lenza dello schiavismo e del traffico negriero, può vantare tuttavia – anche grazie a
varie misure giuridiche più o meno applicate come quella del 1854 e del 1859, o quel-
la del 186925 – l’alibi abolizionista. È in questo ambiente che i primi segnali di novità
si infiltrano nel discorso coloniale portoghese allorché l’ideologia ufficiale comincia
a considerare una necessità tradurre il carattere moderno della civilizzazione colo-
24
Nella sua relazione del 19 Ottobre del 1877, l’allora governatore-generale dell’Angola, Caetano
Alexandre de Almeida e Albuquerque, scrive al Ministro della Marina e dell’oltremare che «a exten-
são da província para o interior é um mal sem proveito […] pois sem os principais estabelecimentos
parecem ilhas perdidas num oceano indígena sem limites […] É preciso, portanto, confessar triste-
mente que o nosso império no interior é imaginário» (Maria Manuela Lucas, op. cit., p. 304).
25
Se l’abolizione effettiva del traffico negriero risale al 1858, la fine della schiavitù nelle colonie
portoghesi, istituito dalle leggi del 1854 e del 1859, è solo teorica. Senza alcuna eco in Angola, queste
stesse misure legislative furono ribadite nel 1869, e se da un lato procedevano all’abolizione della
schiavitù, dall’altro obbligavano gli schiavi a servire i loro signori fino al 1878, con lo statuto di liberti.
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niale perseguita nel resto dell’Europa: la modernizzazione dei territori (il fomento
delle opere pubbliche e lo sfruttamento minerario), l’investimento nella creazione
di una rete di trasporti, la fine della schiavitù, la discussione intorno all’utilizzo del
“lavoro obbligatorio” degli africani, il dibattito su antischiavismo / schiavismo, l’av-
vicinamento alla vecchia alleata inglese in nome di una apertura di tipo liberista del
mercato e degli scambi, a discapito dell’atavico protezionismo iberico.
L’internazionalizzazione della questione africana induce la cultura e la politi-
ca portoghese a creare i suoi anticorpi ideologici: secondo la vulgata coloniale del
tempo, prima di allora, nessuna potenza europea avrebbe osato contestare i “nostri
possedimenti”; ora gli interessi e le mire espansioniste degli altri preoccupano, e
le preoccupazioni difensive di Lisbona si addensano tutte nel mito della “presenza
secolare” dei portoghesi in Africa e della prima concettualizzazione di quel contro-
mito della “spoliazione” che in tante variazioni si declinerà alla fine dell’Ottocento.
Eppure, sono gli ultimi trenta anni del secolo XIX e i primi del secolo XX a codi-
ficare culturalmente, durante l’esplorazione, l’occupazione militare e la spartizione
africana, l’ideologia imperiale portoghese: a questo periodo risale la formazione e
l’evoluzione tanto delle sue mitologie culturali quanto delle sue conseguenze nella
dottrina coloniale ufficiale e nella pratica politica26 nella misura in cui sia il contesto
nazionale che quello internazionale obbligheranno a rivedere e a ripensare le po-
sizioni del Paese. Se la fine-secolo segna un discrimine fondamentale per la storia
futura di tutta la colonizzazione europea (“The scramble for Africa”, Congresso di
Berlino 1884-1885), essa assume in Portogallo un significato speciale, tanto per le sue
vicende interne che per quelle esterne (l’Ultimatum del 1890, il regicidio del 1908,
instaurazione della repubblica nel 1910, inizio della Grande Guerra e sua successiva
entrata al fianco degli alleati in difesa dei suoi possedimenti coloniali).
Al terzo periodo (1870-1890) del lungo secolo coloniale portoghese risale la ri-
sposta – si dica subito, in ritardo – del Portogallo alle “minacce” internazionali che
prevedeva da un lato un forte investimento nelle spedizioni scientifiche (è del 1875 la
nascita della Società di Geografia di Lisbona), in risposta agli esploratori di Inghilter-
ra, Francia, Belgio, dall’altro la creazione di un consenso popolare all’emigrazione più
sistematica in Africa27.
Il mito dell’Eldorado, erososi verso la fine degli anni Sessanta, grazie al ritrova-
mento delle mine angolane torna a ricorrere in modo frequente nell’immaginario
coloniale portoghese: la costruzione dell’Africa come un “secondo Brasile”, anche
26
Se è senza dubbio vero che è l’interesse a creare il mito, spesso la relazione è inversa: ossia,
progetti di indole economica o politica, lungi dal rappresentare il risultato di calcoli oggettivi e di
una programmazione finalizzata allo sfruttamento delle risorse, diventano essi stessi riflesso delle
mitografie culturali. Cfr. su questa questione Jill Dias – Valentim Alexandre, O Império Africano
1825-1890, in Nova História da Expansão Portuguesa, vol. X, direcção de Joel Serrão e A.H. Oliveira
Marques, Lisboa, Editorial Estampa, 1998.
27
Si veda per un’importante testimonanzia Eça de Queirós, A Emigração como força civilizadora,
Lisboa, D. Quixote, 1999.
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quale strenuo tentativo ideologico di colmare il vuoto della sua perdita reale, passa
per la diffusione immaginifica di uno spazio non solo ricco di oro, ma anche – e sarà
un cambiamento paradigmatico – di terreni fertili da coltivare, di avorio, di miele.
Portugal parecia ter voltado aos tempos felizes e aureos das descobertas
marítimas do seculo XV e do opulento commercio oriental do reinado
de D. Manuel e dos monarchas da primiera metade so seculo XVI. A
corrente da opinião publica estabelecia-se na direcção dos nossos vastos
e abandonados dominios africanos. Os jornais e os ecriptores de pezo
dedicavam columnas e paginas a mostrar aos incredulos as riquezas mi-
nerarias que aquelles novos Eldorados encerravam28.
La scoperta delle miniere di oro rivitalizza il mito dell’Eldorado chiosato
nell’opera di Eça de Queirós, anche su diretta influenza di quel King’s Salomon Mi-
nes di Haggard, che lo stesso Eça fece pubblicare nel 1890: anzi, è forse proprio in
A Ilustre Casa de Ramires che lo spazio, geografico e immaginario, africano passa
dall’essere soltanto luogo dell’arricchimento coloniale attraverso l’oro facile a luogo,
invece, dell’imprenditorialità agricola.
Al mito dell’Eldorado è poi legata la promozione dell’emigrazione dalla metro-
poli all’Angola che non è altro che una eco, neppure tanto attenuata, del generale
progetto “branquizante”, di sostituire, cioè, l’umanità nera con quella bianca. A pro-
getti di eugenetica di massa, come quelli di ridurre ai minimi termini la popolazione
nera angolana, attraverso l’emigrazione, si oppongono tuttavia le tesi “scettiche” di
António Seixas, secondo il quale più che esportare uomini il Portogallo ha bisogno
di importarne. La difficoltà della colonizzazione portoghese, continua il saggista,
deriva anzi dal fatto che i territori africani non offrono condizioni di esistenza agli
emigranti della Metropoli che in larga misura sono poveri e vanno alla ricerca più di
lavoro salariato che di terre vergini da coltivare.
Quem emigra é pobre, pobrissimo. A sua única riqueza è o seu trabalho,
o seu capital único a actividade pessoal. Precisa de salários e não de
terrenos virgens. Precisa de empresários e não de trabalhadores. […] A
mãe pátria dá terrenos aos emigrantes. Mas de que servem os terrenos
sem capitaes? Poucos homens, tendo a liberdade de escolha, se resignam
voluntariamente a ser Robinson Crusoe, e a crear civilisação para si, com
as suas próprias faculdades!29
Come testimoniano le posizioni di António Seixas, un certo atteggiamento più
“realista” nei confronti dell’Africa comincia a insinuarsi all’interno dello stratifica-
28
A. E. Victoria Pereira, Portuguezes e Inglezes em África: Romance Scientifico, Lisboa, João Ro-
mano Torres, 1892, p. 17.
29
António José de Seixas, A Questão Colonial Portugueza em presença das condições de Existência
da Metropole, Lisboa, Typographia Universal, 1881, pp. 23-24.
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to discorso colonialista: ristrettissimi settori dell’élite nazionale provano a proporre
soluzioni nuove (come la vendita o l’alienazione di territori) per una gestione più
proficua dei possedimenti portoghesi in nome di un “colonialismo economico” qua-
le quello inglese piuttosto che di un colonialismo esclusivamente di “prestigio”. Il
personaggio di Gouveia immaginato da Eça de Queirós in A Ilustre Casa de Ramires
(1900) incarna alla perfezione lo spirito positivo dell’economista, pronto a vendere
o a cedere quelli che il senso comune chiama i “padrões da glória” della nazione,
scagliandosi contro le mitologie passatiste dell’impero. Il discorso per cui “l’Africa è
buona da vendere!” pronunciato dall’economista Gouveia nel romanzo queirosiano
si convertirà presto in discorso minoritario nella retorica coloniale del Portogallo, la
cui cultura anche letteraria continuava a specchiarsi nell’Africa per vedere il riflesso
(o solo per illudersi di vederlo) della propria grandezza imperiale.
Se ormai l’occasione di agire indisturbato in Africa era perduta30, il Portogal-
lo, per provare al mondo civilizzato – il quale, lo aveva “addirittura” snobbato, alla
conferenza di Bruxelles (1876) indetta da Leopoldo II – la sua sovranità sui territori
africani, organizza, mimeticamente all’azione degli imperi centrali, le sue spedizioni
scientifiche che, oltre a mappare il territorio fino ad allora ignoto e preteso, funzio-
navano da elemento legittimante al mito della presenza secolare portoghese in Afri-
ca31. La rivendicazione in nomine historiae si legava indissolubilmente al mito della
vocazione coloniale del popolo portoghese, che il parossismo della ideologia colo-
niale mostrando senza rotture, evocava nei termini di una missione che da esclusi-
vamente storica si elevava a meta-storica, a spirituale. La storia portoghese coloniale
doveva ricucire l’avventura imperiale dal momento che essa era la conseguenza di
una vocazione, di un sentimento nazionale che va al di là della dominazione che le
contingenze storiche hanno determinato.
In tante portoghesi novels of empires riecheggia la formula del Paese che ha
come futuro il destino già “pre-destinato” dal suo passato di gloria. In un medio-
cre, ma significativo romanzo coloniale dal titolo Portuguezes e Inglezes em Áfri-
ca. Um romance scientifico scritto da Victoria Pereira (1892) l’immagine dell’arrivo
dell’esploratore africano a Lisbona che ovviamente ricorda «quello dei navigatori
del secolo XV e XVI, che hanno scoperto i paesi, i quali sono oggi la nostra gloria
30
«Os portugueses daquele período não souberam encontrar recursos económicos e a vontade
política necessários para tomar posse das terras entre as duas costas oceânicas. Sem ter, na altura
rivais europeus que se interessasem pelo interior, perderam uma oportunidade histórica que nunca
mais se lhes apresentaria: a exclusividade comercial e militar no interior da África centro-austral» in
René Pélissier, História das Campanhas de Angola. Resistências e revoltas 1845-1941, Lisboa, Estampa,
1986, p. 92.
31
Si veda per esempio l’«Esboço Histórico» —una sorta di introduzione strategica— alla relazio-
ne di viaggio di Capelo e Ivens, De Angola à Contracosta. È tuttavia curioso notare come le epigrafi
poste all’inizio rispettivamente tratte da Camões e da una lettera dell’ Abbé Durand alla Société de
Geographie de Paris del 1880, funzionino come veri e propri segnali di prestigio coloniale. È signifi-
cativo che oltre al vate nazionale, si necessiti del ricorso alle fonti straniere per rimpolpare il mito del
primato storico portoghese proprio dinnanzi al consesso europeo.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 191-209. issn: 2240-5437.
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e il nostro incubo» è solo un esempio fra i tanti di come la cultura, non solo alta,
pensa all’Africa come lo spazio privilegiato in cui si possa compiere il destino por-
toghese che è alle spalle: «No hotel, o major tres vezes que chegar ás janelas e fallar
nas suas viagens, nos paizes do ouro, dos diamantes e no brilhante futuro que estava
reservado a Portugal, quando o povo, essa alavanca poderosa, o ajudasse no seu
emprehendimento»32.
Il mito dell’ eredità sacra delle colonie africane (primato storico, scoperta di
“nuovi mondi” svelati al “mondo”, missione provvidenziale dei portoghesi) infor-
mano quello che è stato definito “Colonialismo di prestigio”: esso non solo è funzio-
nale ai discorsi del nazionalismo quanto soprattutto alla proiezione del Portogallo
a livello internazionale. Infatti, presenza secolare in Africa e vocazione coloniale in
connubio (insieme agli altri miti meno specifici, ma comuni con il resto d’Europa
come quello della superiorità dell’uomo bianco o della missione civilizzatrice, sia
essa religiosa, tecnologica o culturale) diventano potenti fattori di coesione nazio-
nale e un vero e proprio vessillo ideologico nelle dispute europee.
La questione coloniale diventa, allora, in questi anni non solo terreno di batta-
glia europeo, quanto un vero e proprio motivo di scontro politico tanto tra il Partito
Regenerador e Progressista, entrambi monarchici, ma anche per il nuovo sogget-
to rappresentato dal nascente movimento repubblicano. Non bisogna dimenticare
che l’immaginario coloniale, che prende forma nelle opere letterarie e saggistiche di
questo periodo, tradurrà anche una dialettica politica interna, si nutrirà delle varie
posizioni ideologiche assunte dinnanzi alle vicende storiche del Portogallo e inter-
nazionali, non lasciando tuttavia intravedere nessuna possibilità di superamento del
circolo vizioso nazionalismo-imperialismo, nessuna forma di resistenza33 alle sue
retoriche: «il progetto coloniale si consolidava come una delle pietre basilari del
nazionalismo portoghese, tendendo a sacralizzarsi»34.
Non è infatti un caso che prima del Congresso di Berlino, i tentativi politico-
diplomatici dei governi regeneradores di negoziare con l'antica alleata, l’Inghilterra,
prima con il Trattato di Lourenço Marques35 (1879), poi con il Trattato del Congo36
32
A. E. Victoria Pereira, op. cit., p. 20.
33
In realtà, esiste tutta una linea anti-espansionista nel Portogallo ottocentesco che, tuttavia, ho
delle riserve a definire anticolonialista. Per un esempio su tutti, si veda il ritratto dello storico Alberto
Sampaio definito «um dos primeiros teorizadores do anti-colonialismo, e isso numa época em que,
ao nível das decisões formais, nos vinhamos empenhando cada vez mais numa política africanista de
nenhuma vantagem», João Medina, Eça de Queirós e a Geração de 70, Lisboa, Moaraes Editores,1980,
pp. 205-219.
34
Jill Dias – Valentim Alexandre, op. cit., p. 47.
35
Il testo prevedeva dal lato portoghese varie concessioni in Mozambico (libertà di transito e
commercio, apertura dei fiumi navigabili), dal lato inglese, invece, la promessa della costruzione
della ferrovia, in seguito allo studio del territorio da parte di una commissione appositamente creata.
36
Venivano in questo testo così ripartite alcune zone strategiche nella provincia del Congo: sovra-
nità portoghese sul litorale africano del fiume (tra 5º e 8º grado di latitudine sud) e sulla sponda sini-
stra, mentre si concedeva agli inglesi il controllo delle tariffe coloniali e la limitazione dell’influenza
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(firmato nel 1884), siano oggetto di feroci attacchi da parte dei repubblicani, che non
si lasciano sfuggire l’occasione di coinvolgere governo e opposizione (con la com-
plicità della Monarchia) nella responsabilità dello smembramento coloniale, della
rovina dello stato, della inevitabile riduzione del Portogallo a provincia spagnola37.
La cultura portoghese finesecolare sarà molto sensibile al richiamo di certe idee
di decadenza, se non proprio escatologiche, relative alla perdita dell’identità nazio-
nale come sinonimo della perdita delle colonie. Il mito della spoliazione straniera
fa pendant con quello della invasione spagnola nell’alimentare quel senso della fine
non solo storica, ma geografica, spirituale, che pervade la letteratura portoghese tra
Ottocento e Novecento.
Quando al congresso di Berlino tra il Novembre del 1884 e il febbraio dell’anno
successivo – vero e proprio snodo simbolico della spartizione dell’Africa –, i diplo-
matici portoghesi prendono la parola, non fanno che ribadire i diritti coloniali di
ordine storico, contro le usurpazioni delle potenze straniere (di volta in volta, defi-
nite mercantiliste, sanguinarie, atee, belliciste, “imperialiste”), potenze con le quali
lo stesso Portogallo convive non di rado in regime di subalternità politica.
Dalle posizioni congressuali, si ricava l’immagine di un Portogallo tentato di
assicurarsi la definitiva protezione “imperiale” sotto l’egida inglese (il Portogallo è
definibile come “colonia informale” dell’Inghilterra)38 dalla quale spera di ricevere
benefici (in nome di un colonialismo per inerzia) e allo stesso tempo, di un paese af-
flitto da una volontà schizofrenica, in bilico tra massimalismo espansionista (a costo
di tradire la vecchia alleanza inglese per nuove relazioni diplomatiche) e velleitario
isolazionismo (come andava difendendo, per esempio, Luciano Cordeiro39).
I diritti storici, si diceva, più che essere i soli universalmente validi (almeno dalla
prospettiva lusitana), diventano – secondo il parere di uno storico ancora nel 1938 – gli
unici: «É costume dizer-se que Portugal só presentava direitos históricos nesta emer-
gência. É claro que ele ao menos tinha uns direitos: os outros não apresentavam nada»40.
portoghese nella zona dello Chire.
37
Ecco la descrizione della sessione di inaugurazione del club repubblicano di Lisbona, da parte di
Eça de Queirós, in A Capital (começo de uma carreira!), p. 297: «Si discuteva, a bassa voce, fumando,
di prossime sessioni, di progetti, delle speranze politiche, delle infamie della Monarchia; e le voci
sommesse, davano un tono di cospirazione, alle accuse, alle ingiurie lanciate contro il Governo: gli si
attribuiva, in modo unanime, la vile decadenza della nazione: e da un circolo di gente da cui saliva un
fumo spesso di sigarette, ognuno esponeva quello che per lui era una “grande vergogna” – la rovina
economica, il basso valore dei salari, i favoritismi, gli impieghi, l’abbandono delle colonie».
38
Boaventura de Sousa Santos, «Entre Prospero e Caliban: Colonialismo, pós-colonialismo, e
inter- identidade», in Maria Irene Ramalho – António Sousa Ribeiro (eds.), Entre ser e estar. Raízes,
percursos e discursos da identidade, Porto, Afrontamento, 2001 p. 26.
39
Cfr. Luciano Cordeiro, Questões Coloniais, selecção de textos e prefácio por A. Farinha de Car-
valho, Lisboa, Vega, s.d. Dopo il Congresso di Berlino, lo statista e padre fondatore della Società di
Geografia di Lisbona, difendeva la necessità di abbandonare le negoziazioni con le altre potenze
imperiali e confidare appena nell’appoggio del “negro” africano, il «nostro solo fedele alleato».
40
Ora citato in Isabel Castro Henriques, Percursos da Modernidade em Angola. Dinâmicas comer-
ciais e transformações sociais no século XIX, Lisboa, IICT/ICP, 1997, p. 90.
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Nel computo globale, nonostante certe proiezioni catastrofiste interne, il risul-
tato del Congresso stabiliva per il Portogallo la sovranità sulla sponda sinistra del
Congo (la destra era attribuita allo Stato Libero del Congo) e quella sui territori di
Cabinda e Molembo. Frustrata la pretesa di appropriarsi della zona del Congo infe-
riore, a vantaggio del Belgio, nazione senza tradizioni coloniali, come la propaganda
coloniale di quel tempo non si stancava di ripetere, gli anni successivi furono di
ripensamento strategico-militare (il sognato e ancora una volta frustrato mapa cor-
de-rosa che avrebbe dovuto collegare la costa angolana con quella mozambicana) e
diplomatico: l’avvicinamento alla Germania e alla Francia (1886) sarebbe stato, con
la rivendicazione appunto di un suo corridoio sudafricano, il primo passo in funzio-
ne anti-britannica (il mapa cor-de-rosa avrebbe costituito uno dei maggiori ostacoli
al progetto Cape-to-Cairo, tradizionalmente attribuito a Cecil Rhodes, ma in verità
già sottoscritto da Johnston).
Nel quarto periodo (1890-1910), che inizia con la cesura forte rappresentata
dall’Ultimatum inglese dell’11 Gennaio 1890 e dalla conseguente reazione portoghe-
se, il discorso coloniale tende a “sacralizzarsi” intorno a miti che vengono dal passa-
to come appunto la vocazione coloniale dei portoghesi. L’Ultimatum innesca tutto
un nuovo e articolato investimento ideologico sull’impero fondato tanto su retori-
che nazionaliste quanto colonialiste: è il periodo post-Ultimatum il vero momento
del Prospero portoghese, che dopo l’affronto della “perfida Albione”, si preoccupa di
legittimare i suoi territori ultramarini tanto attraverso l’occupazione militare e le va-
rie campagne contro i regni indigeni (come quella contro il re africano Gurgunhana
del 1895) quanto anche attraverso la realizzazione delle condizioni più favorevoli
all’installazione di una popolazione bianca capace di sostituire il “selvaggio”, al fine
di trasformare i territori che vanno dalla metropoli alle colonie (dal Minho a Timor,
dirà qualche decennio più tardi Salazar) in territorio nazionale. Come un vero e
proprio impero centrale, le guerre di occupazione sono indispensabili al Portogallo
per la valorizzazione del territorio africano, benché l’azione bellica, nel linguaggio
colonialista dell’epoca, fosse esclusivamente provocata dalla selvajaria dell’Altro: la
stessa violenza dei “civilizzatori”, per un attimo (auto)proclamatisi Prospero, è solo
la conseguenza della furia selvaggia degli africani.
Os heróis portugueses, perante esta situação, procuram enfrentar esta
selvajaria desaustinada com a serenidade, altivez e confiança que lhes
é conferida pelo «orgulho da raça». Foi este traço particular dos Portu-
gueses que os empurrou para a «perigosa loucura que constitui hoje a
obra imortal do nosso génio colonizador»41.
La sacralizzazione dell’Impero era totalmente compiuta, almeno sul piano ideo-
logico: sebbene già presente nei decenni antecedenti, il mito dell’eredità sacra diven-
ta predominante, sconfiggendo quasi del tutto le correnti più pragmatiche che pre-
41
Isabel Castro Henriques, op. cit., p. 91.
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dicavano la ricomposizione o addirittura la riduzione del territorio coloniale (voci
queste che ebbero la loro massima espressione alla fine degli anni ’70 e che perdura-
rono per esempio all’interno della stessa Società di Geografia). Ma le conseguenze
della crisi dell’Ultimatum non si limitarono al piano strettamente ideologico, ma
investirono il piano economico, geo-politico e socio-culturale. In campo strategico-
militare e politico le campagne africane di occupazione portarono in quest’ultimo
decennio alla definizione dei confini del Mozambico e alla fine della disputa sul-
le frontiere fra Angola e Stato libero del Congo. Anche il discorso coloniale nella
rappresentazione dell’Altro africano subì un forte irrigidimento disciplinare da par-
te di quei saperi (antropologia, sociologia, etnografia) che sostituirono la retorica
dell’umanitarismo liberale (che risaliva a Andrade Corvo), ormai ritenuto ingenuo
se non proprio utopico, e davvero poco adatto alla realtà attuale della nuova con-
quista, con il razzismo di tipo “scientifico” che si impose negli anni novanta come
l’ideologia predominante. Basato sul “darwinismo sociale”, ideologia che mutuava
da Darwin i concetti di “selezione naturale”, di “sopravvivenza delle specie più favo-
rite”, usati in biologia per introdurli nello studio delle società umane, la riduzione
sistematica dell’africano operata dal discorso coloniale portoghese – lungi dall’es-
sere l’unico in Europa – contribuisce a giustificare la sua pratica colonialista. Come
è stato da molti dimostrato, appare significativo che proprio nell’opera di Oliveira
Martins sia visibile il passaggio da un paradigma ermeneutico di tipo filantropico-
umanitarista a un regime dominato invece dal darwinismo sociale nella visione por-
toghese dell’Altro:
O plano poético da educação dos pretos seduz hoje em dia os ânimos
entusiastas que, não podendo conceber já como as velhas religiões, fun-
dam novos cultos filantrópicos. A história prova que a educação dos
povos “bárbaros” só pode ser feita pela força. Mal-grado isso, a filantro-
pia persiste em esperar que a Bíblia, traduzida em bundo ou em banta,
acabe por converter “os selvagens”; que a férula do mestre-escola fará
deles homens como nós […] [Mas] abundam os documentos que nos
mostram no negro um tipo antropologicamente inferior, não raro pró-
ximo do antropóide e bem pouco digno do nome de homem42.
Lo storico portoghese repubblicano e progressista non si accorge di usare, come
molti altri in Europa, il discorso della scienza (in questo caso dell’antropologia fisi-
ca) per ridurre drasticamente la rappresentazione culturale dell’Altro. Pur essendosi
affermate in tempi di euforia coloniale, di affermazione anche culturale del Prospero
portoghese finalmente riflesso nell’Impero africano, le tesi del darwinismo socia-
le che riducevano l’africano colonizzato alla stregua della scimmia perdureranno
nell’ideologia e nella politica coloniale almeno fino agli anni Trenta del Ventesimo
42
Oliveira Martins, O Brasil e as Colónias Portuguesas, (1ª ed. 1880), Lisboa, Guimarães e C.ª
Editores, 1953, p. 263.
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secolo portoghese. A livello di immaginario culturale – appare quasi scontato dir-
lo – la visione europea dell’africano “animalizzato” codificata a fine Ottocento dalla
rappresentazione antropologica continuerà a ricadere in mille variazioni lungo tutto
il Novecento.
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"Description": "El artículo que se presenta a continuación propone una aproximación a la lírica de Alejandra Pizarnik a partir del análisis estilístico computacional del corpus de su poesía completa. En particular, aprovechando algunas aportaciones críticas sobre la obra de la autora argentina, se indagan las formas de la representación de un sujeto poético dominante, que se construye a través de la colisión entre las dimensiones lacerantes de la muerte y la corporeidad para engendrar la imagen fragmentada de una individualidad escindida y contradictoria. Las modalidades discursivas mediante las cuales se lleva a cabo dicha representación se exploran a raíz de indicios reveladores como el uso peculiar de los pronombres personales o de las localizaciones espaciales, observados según un enfoque diacrónico que permita contemplar la evolución poética de una autora cuya obra oscila constantemente entre el impulso autorreferencial y la sublimación estética.\r\n\r\nThe following paper proposes an approach to Alejandra Pizarnik’s poetry based on the quantitative stylistic analysis of the corpus of her complete poetical works. In particular, exploiting some critical studies about the work of the Argentinian poet, it investigates the forms of the representation of a prevailing poetic subject, that is built through a collision between the painful conditions of death and corporeity in order to breed the fragmented image of a split and contradictory individuality. The discursive modalities through which this representation is pursued are explored through the study of a distinctive use of personal pronouns and spatial localizations, that are observed in a diachronic perspective with the intention of considering the poetic evolution of a writer whose work constantly wavers between the autobiographical urge and the aesthetic sublimation.",
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Fragmentación y descorporización del yo
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La obra de Alejandra Pizarnik1 ha sido estudiada exhaustivamente por numero-
sos especialistas y según múltiples niveles de análisis, que se tratara de sus coleccio-
nes de poemas o de su obra en prosa, o también, sobre todo en tiempos recientes, de
sus diarios, publicados integralmente por Lumen junto a la totalidad de sus escritos2.
Con este artículo me propongo examinar el conjunto de su poesía a través de un
método experimental, que pretende sondear las potencialidades de un instrumento
utilizado por los estudiosos de lingüística computacional y que últimamente ha co-
menzado a ser empleado también por los críticos literarios para estudiar los textos
más a fondo desde un punto de vista estilístico. Se trata de un software3 que permite
detectar la frecuencia de palabras, metáforas o giros sintácticos típicos de un dado
autor o texto y que consiente obtener resultados muy apreciables también en los
trabajos de corte literario o cultural.
1
Para las finalidades de este trabajo, no me parece preciso detenerme en la trayectoria bio-biblio-
gráfíca de la poeta, de la cual existen por lo menos dos reconstrucciones minuciosas a las que remito:
César Aira, Alejandra Pizarnik, Barcelona, Ediciones Omega, 2002; Cristina Piña, Alejandra Pizarnik,
Buenos Aires, Planeta, 1991.
2
Estas, las referencias exactas: Poesía completa, Barcelona, Lumen, 2000; Prosa completa, Barcelo-
na, Lumen, 2002; Diarios, Barcelona, Lumen, 2003. La edición de los tres volúmenes es de Ana Becciu.
3
Me refiero a WordSmith Tools, Oxford, OUP, creado por Mike Scott en 1997, sobre cuyo fun-
cionamiento se pueden obtener informaciones en el siguiente enlace: http://www.lexically.net/
wordsmith (fecha de consulta: 25/05/2011).
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Fragmentación y descorporización del yo en la poesía de Alejandra Pizarnik
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Valiéndome de la ayuda de este programa, analizaré la obra poética de Alejan-
dra Pizarnik centrándome en el aspecto que más me ha interesado entre los muchos
que se destacan en los ensayos sobre su labor literaria, el de la representación del su-
jeto, tema sobre el que razonaré integrando dichos estudios con los datos sacados de
la computación telemática4, basada en la versión digitalizada de su Poesía completa.
Si para una operación de este tipo es imprescindible poseer ya unas cuantas nocio-
nes sobre el texto que es objeto de estudio y sobre la poética de su autor, también
es cierto que de esta forma se pueden averiguar en detalle estas nociones y hallar
unos cuantos elementos más que sería difícil obtener sin el auxilio del ordenador.
En particular, en el caso de la obra de Pizarnik, ya estudiada según las más variadas
perspectivas, me parece un nivel de investigación enriquecedor, sobre todo por-
que permite trabajar en el conjunto de sus textos poéticos desarrollando el análisis
lingüístico-estilístico según un enfoque diacrónico5.
Uno de los elementos más significativos que detectan muchos críticos a la hora
de analizar los poemas pizarnikianos es la fragmentación6 que sufre el yo lírico,
que a nivel lingüístico se da bien en el uso de los pronombres, bien en el empleo de
nombres y metáforas detrás de las que se esconde el sujeto poético7. De hecho, toda
la poesía de Pizarnik resulta caracterizada por binomios contrapuestos que buscan
la fusión y que son expresados en la mayoría de los casos a través del oxímoron que,
4
Para abordar el estudio de los textos literarios a través de los softwares creados para los análisis
computacionales, he consultado el volumen de John Sinclair, Corpus, concordance, collocation, Ox-
ford, OUP, 1991. Como muestra de los excelentes resultados a los que se puede llegar en estudios de
este tipo, véase el artículo de Michael Stubbs, «Conrad in the computer: examples of quantitative
stylistic methods», Language and Literature, 14, 1 (Febraury 2005), pp. 5-24, del que me he servido
para aventurarme en este análisis, aunque mi trabajo aproveche tan sólo algunas de las copiosas po-
sibilidades ofrecidas por la estilística cuantitativa, siendo un primer acercamiento llevado a cabo de
manera bastante empírica.
5
La edición utilizada para este análisis sigue sólo parcialmente un criterio cronológico, ya que
recoge todas las colecciones poéticas publicadas en vida por Pizarnik, incluyendo también, al final
del libro, poemas sueltos o enteros poemarios inéditos. Por lo tanto, a la hora de digitalizar el corpus,
he variado el orden de los poemas, colocándolos, en la medida de lo posible, según sus fechas de
composición, para estudiarlos en una perspectiva estrictamente diacrónica.
6
A este respecto, véase el estudio de Enid Álvarez, «A medida que la noche avanza», Debate Femi-
nista, 15 (abril 1997), pp. 3-34. Y sobre todo el ensayo de Ana María Rodríguez Francia, La disolución
en la obra de Alejandra Pizarnik. Ensombrecimiento de la existencia y ocultamiento del ser, Buenos
Aires, Corregidor, 2003, donde la estudiosa analiza la disolución del ser en la obra según un enfoque
filosófico y psicoanalítico.
7
Las máscaras con las que se disfraza de manera más recurrente el sujeto pizarnikiano ya han
sido estudiadas por la mayoría de los críticos, por eso he privilegiado el análisis de los pronombres
personales, que en todo caso se asocian muy a menudo a dichas máscaras. Sin embargo, cabe al
menos señalar que las metáforas utilizadas por Pizarnik al construir su propio personaje poético
suelen remitir a dos campos semánticos distintos: el de la errancia, con el que siempre se representan
estados transitorios, pasajeros y al que pertenecen los siguientes lemas: la <loca> (5 ocurrencias),
la <niña> (28), el <pájaro> (29), la <sonámbula> (10), la <viajera> (5); y el de la identidad negada,
indefinida, al que pertecen el <ángel> (11), el <fantasma> (6), el <maniquí> (4), la <muñeca> (7), la
<sombra> (88), etc.
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como ha puesto de relieve Anna Soncini8, es la figura clave de este discurso poético,
del que determina decididamente el ritmo estílistico. En cuanto al uso peculiar de
los pronombres personales, cabe hablar incluso de trinomios, los que construye la
poetisa para representar a una misma persona, es decir aquel sujeto preponderante
a partir del cual erige sus poemas. Si el pronombre “yo” es el que, por obvias
razones, más reitera a lo largo de toda su producción9, a este la poeta yuxtapone,
distribuyéndolos de una forma bastante significativa a nivel cuantitativo10, los de
“ella” y “tú”, que por un lado adquieren unas connotaciones que los equiparan al
pronombre de primera persona y por otro se diferencian de este desempeñando
papeles distintos.
Para empezar, cabe señalar que la representación del sujeto según esta triparti-
ción pronominal cambia en una perspectiva diacrónica: si la preponderancia del
pronombre “yo” es constante a lo largo de todo el corpus, se nota una mayor fre-
cuencia del pronombre de segunda persona en la primera mitad del poemario res-
pecto al de tercera persona, que sí aumenta de manera notable en la segunda mitad11.
Cual primer dato cuantitativo, esta relación puede hacernos suponer que, según se
desarrolla la poética de Pizarnik, se registra una mayor tendencia a la despersonali-
zación. Dicho de otra forma, cuánto más evoluciona el discurso poético, tanto más
se desdobla y fragmenta el sujeto de la enunciación.
El uso de un pronombre u otro determina ante todo unos cambios reveladores
en el tono del discurso poético, ya que cada lema, aunque sirva para representar un
mismo ser, presupone una percepción distinta de este ser por parte de la poeta. En
lo que concierne el empleo del lema “yo”, notamos en seguida la preponderancia
de oraciones de tipo aseverativo, caracterizadas por un tono desgarrador de cla-
mor y protesta, como si el pronombre de primera persona fuera el más adecuado
para las proyecciones más concretas de la autora, como si conllevara una especie de
aceptación, aunque no pasiva, de lo que está encarnando. Veamos algunos de los
innumerables ejemplos de este uso: en un poema temprano, el que cierra La última
8
Anna Soncini, «Itinerario de la palabra en el silencio», Alejandra Pizarnik – Violeta Parra, Cua-
dernos Hispanoamericanos – Los complementarios, 5 (mayo 1990), p. 10.
9
Se registran 188 ocurrencias del lema <yo> en todo el corpus poético, a las que hay que sumar
las 252 del lema <me>, las 67 del pronombre personal <mí> más las 26 de <mío/a/s> y las 458 de los
adjetivos posesivos <mi/s>.
10
Las ocurrencias del pronombre <tú> cuando se refiere al mismo sujeto poético a lo largo de
todo el corpus son 28, a las que cabe añadir las 83 del lema <te>, las 76 de los adjetivos posesivos <tu/
s>, las 18 del lema <ti> y las 8 de los lemas <tuyo/a/s>. En cuanto al pronombre <ella>, se han regi-
strado 37 ocurrencias, mientras que las de los adjetivos posesivos correspondientes, <su/s>, son 153.
11
Gracias al auxilio de WordSmith Tools, es muy inmediato observar la distribución de cada lema
a lo largo del corpus de referencia: utilizando la herramienta denominada “plot”, se nota una mayor
ocurrencia del lema <tú> entre el 41% y el 55% del texto, mientras que el lema <ella> recurre mucho
más entre el 76% y el 97% del texto. En cuanto al lema <yo>, su distribución es decididamente unifor-
me aunque aumenta considerablemente a partir del 20% del texto.
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inocencia12 y que se titula emblemáticamente Sólo un nombre, encontramos estos
tres versos: «alejandra alejandra / debajo estoy yo / alejandra»13. Aquí hallamos una
de las primeras escisiones que sufre el sujeto lírico, que, como ha evidenciado Alicia
Genovese, «queda enfrentado a su manifestación múltiple y fragmentada, represen-
tada por simple repetición del nombre propio»14.
Otro rasgo fundamental que hay que destacar al hablar del uso de “yo”, es que
siempre aparece en construcciones escuetas, adosado a imágenes sintéticas e inten-
sas como si se quisiera devolver una impresión, exacta y circunstancial, de cierto
tipo de esencia. El verso recién citado es un buen ejemplo de ello y si lo comparamos
con otro posterior de dos años, procedente de Las aventuras perdidas15, comproba-
mos el mismo efecto: «Yo lloro debajo de mi nombre. / Yo agito pañuelos en la noche
/ […] Yo oculto clavos / para escarnecer a mis sueños enfermos. / Afuera hay sol. / Yo
me visto de cenizas»16. Otra vez, encontramos un tipo de representación que oscila
entre la protesta vehemente y la aceptación de lo que se está enunciando, aceptación
que casi parece lindar con la autoconmiseración. El quiasmo final, y toda la cadena
de contrastes en los que se rigen estos versos, nos ofrecen una muestra significativa
de lo que se ha llamado tono de protesta: el “yo” siempre se define en oposición
a algo adverso, que se encuentre fuera o dentro del mismo sujeto. Así, el descen-
tramiento del “yo” no sólo se produce a través de la construcción de sus alter ego
pronominales, sino que se da también a partir del mismo pronombre de primera
persona, bien en antagonismo a la realidad, a la “escena”17, a la que el sujeto no se
conforma, bien en desacuerdo con su propia manera de ser.
Veamos más ejemplos de lo dicho hasta aquí: uno tomado de Extracción de la
piedra de locura18, largo poema de la colección homónima, donde leemos: «Cada
hora, cada día, yo quisiera no tener que hablar. Figuras de cera los otros y sobre todo
yo, que soy más otra que ellos»19. Y otro sacado de El infierno musical20, significati-
vamente titulado Piedra fundamental:
12
Alejandra Pizarnik, La última inocencia, Buenos Aires, Ediciones Poesía Buenos Aires, 1956.
13
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 65.
14
Alicia Genovese, «La viajera en el desierto», Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), p. 10.
15
Alejandra Pizarnik, Las aventuras perdidas, Buenos Aires, Altamar, 1958.
16
Alejandra Pizarnik, «La jaula», en Poesía completa, p. 73.
17
Cristina Piña, en su artículo «La palabra obscena» [en Alejandra Pizarnik – Violeta Parra, Cua-
dernos Hispanoamericanos – Los complementarios, 5 (mayo 1990), pp. 17-38], define la palabra y el su-
jeto pizarnikianos como obscenos, siguiendo la etimología de este término, es decir “fuera de escena”,
“que no se puede representar en la escena”, para analizar el desdoblamiento y la fragmentación del yo
lírico a partir de esta metáfora.
18
Alejandra Pizarnik, Extracción de la piedra de locura, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1968.
19
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 251.
20
El infierno musical, Buenos Aires, Siglo XXI, 1971.
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Una vibración de los cimientos, un trepidar de los fundamentos, drenan
y barrenan, y he sabido donde se aposenta aquello tan otro que es yo,
que espera que me calle para tomar posesión de mí y drenar y barrenar
los cimientos, los fundamentos, aquello que me es adverso desde mí,
conspira, toma posesión de mi terreno baldío, no, he de hacer algo, no,
no he de hacer nada, algo en mí no se abandona a la cascada de cenizas
que me arrasa dentro de mí con ella que es yo, conmigo que soy ella y
que soy yo, indeciblemente distinta de ella21.
El mecanismo de contradicción aquí llega a su cumbre y la fragmentación del sujeto
se propaga siguiendo por lo menos dos direcciones: una indefinida, representada
por la reiteración del concepto de otredad junto al pronombre de primera persona, y
otra más concreta, ejemplificada por la aparición del lema “ella”, en una de sus pocas
ocurrencias al lado de “yo”. Nótese, en el último fragmento citado, la diferencia de
ritmo respecto a los poemas anteriores, algo que ocurre evidentemente por tratarse
de un poema en prosa, pero, a pesar de esto, cabría preguntarse si la dispersión que
se registra a nivel de significados, en particular en lo que concierne las connotacio-
nes asumidas por el lema “yo”, no afecte también a la forma en que aparecen dichas
connotaciones. Es decir, si por un lado todo aparece más implícito en cuanto al
sentido de lo enunciado, por otro se nota una dilatación, avalada por la repetición
de unos mismos sintagmas relacionados con el pronombre de primera persona, que
vuelve explícitas las metáforas que representan el sujeto, algo que no ocurría en las
anteriores concordancias del lema analizado, donde las imágenes que se le asocia-
ban resultaban condensadas y casi impresionistas. Es, en definitiva, como si una
representación del sujeto a través del lema “yo”, en la etapa final de la producción
pizarnikiana, se tornase imposible, se hiciese ella misma tan fragmentaria y alusiva
como el ser al que se refiere.
Pasemos ahora a las ocurrencias del lema “tú”, un pronombre cuyo utilizo supo-
ne un constante acto acusatorio por parte del yo lírico hacia sí mismo y un enfrenta-
miento directo a sus propias contradicciones que no encontrábamos en las proyec-
ciones relacionadas con el pronombre de primera persona. Una de las modalidades
discursivas que se acompaña a este pronombre es la oración interrogativa, que pue-
de implicar o no una respuesta en primera persona dando lugar a unos monólogos
en forma dialogal, a través de los cuales el sujeto indaga en su propia esencia: «En el
eco de mis muertes aún hay miedo. ¿Sabes tú del miedo? Sé del miedo cuando digo
mi nombre. […] Sí. En el eco de mis muertes aún hay miedo»22. Se percibe aquí un
tono semejante al que caracterizaba las concordancias del lema “yo”, y eso se debe
a que, en las ocurrencias del lema “tú” en enunciados interrogativos, no hallamos
una diferenciación sustancial entre los dos polos en que se escinde el sujeto poético,
mientras sí hay un desdoblamiento más tangible en otros tipos de enunciados. La
21
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 264.
22
«El miedo», en ibíd., p. 87.
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tipología más frecuente y relevante es la de la oración exclamativa, mediante la cual
se formula todo tipo de recriminación dirigida al sujeto que se representa a través
del “tú”. Veamos unos cuantos ejemplos, empezando por Hija del viento, un poema
procedente de Las aventuras perdidas:
Han venido. / Invaden la sangre. / Huelen a plumas, / a carencia, / a
llanto. / Pero tú alimentas al miedo / y a la soledad […] Pero tú te abrazas
/ como la serpiente loca de movimiento / que sólo se halla a sí misma /
porque no hay nadie. / Tú lloras debajo de tu llanto, / tú abres el cofre de
tus deseos23.
Nótese, en primer lugar, la comparación del “tú” a la imagen de la serpiente, un símil
bastante peculiar24 en el panorama semántico pizarnikiano, sobre todo consideran-
do que se refiere al mismo sujeto, que sí suele ser representado a través de las me-
táforas más originales, pero que nunca adquiere unas connotaciones tan negativas
como en este caso. Este elemento nos ofrece una primera clave para descodificar los
valores atribuídos al lema “tú”. Si en el caso del “yo”, como se ha dicho, encontrá-
bamos una actitud de aceptación e incluso de autoconmiseración que siempre se
acompañaba a un afán de protesta, en las proyecciones del sujeto a través del “tú”
hallamos en cambio una actitud acusatoria que proyecta en el ser representado por
el pronombre de segunda persona todo lo negativo que el yo lírico rastrea en sí
mismo. Y precisamente gracias al uso de la segunda persona, el sujeto cumple un
primer acto de distanciamiento de sí que se completará, como veremos, al utilizar la
tercera persona. Otro elemento en el que hay que fijarse es el diferente efecto que se
obtiene con la repetición anafórica del pronombre personal. Si con la reiteración del
“yo” al principio del verso el resultado que se obtenía era una afirmación-confirma-
ción de lo que se postulaba, el “tú” anafórico no hace otra cosa que acentuar la carga
recriminatoria, el tono de acusación que conlleva su uso. Veamos dos diferentes
pasajes de Extracción de la piedra de locura, donde eso se hace patente: «Yo relato mi
víspera, ¿Y qué puedes tú? Sales de tu guarida y no entiendes. Vuelves a ella y ya no
importa entender o no. Vuelves a salir y no entiendes. No hay por donde respirar y
tú hablas del soplo de los dioses»25. Y más adelante: «Visión enlutada, desgarrada,
de un jardín con estatuas rotas. […] Tú te desgarras. Te lo prevengo y te lo previne.
Tú te desarmas. Te lo digo, te lo dije. Tú te desnudas. Te desposees. Te desunes. Te
lo predije»26. Este fragmento es emblemático de las dos diferentes representaciones
del sujeto a través de los dos pronombres: aquí el “yo” se ubica en una posición de
superioridad en la que, permaneciendo en su actitud lapidaria, juzga a su alter ego,
valiéndose de la aliteración obsesiva construida a través de verbos que sólo expresan
23
Ibíd., p. 77.
24
Tan peculiar que esta es la única ocurrencia registrada a lo largo de todo el corpus.
25
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 251.
26
Ibíd., p. 253.
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negatividad. Ya no hay aceptación ni piedad o conmiseración: el sujeto se construye
no ya en oposición, sino destruyendo lo que le es adverso.
Con el uso del pronombre de tercera persona, el proceso de fragmentación y de
distanciamiento de sí mismo por parte del “yo” alcanza su ápice. En la mayoría de las
ocurrencias del lema “ella”, encontramos unas imágenes que revelan unas proyeccio-
nes ideales del sujeto. Es como si el “yo” se mirara desde fuera y describiese lo que
ve, como si una vez cuestionado y destruído lo que le es adverso, pudiera apartarse
de lo que era y concebir una nueva forma de ser. Ya a partir de los primeros poemas,
hallamos estas características asociadas al uso del lema “ella”, que siempre recurre en
enunciados de tipo descriptivo. Poema para Emily Dickinson27, de La última inocen-
cia, nos ofrece una muestra de lo que acabamos de decir: «Del otro lado de la noche
/ la espera su nombre, / su subrepticio anhelo de vivir / […] Algo llora en el aire, /
los sonidos diseñan el alba. / Ella piensa en la eternidad»28. Como se puede notar, la
actitud del sujeto poético aquí es contemplativa, casi ensoñada y el verso es concen-
trado, vuelve a transmitir las imágenes a través de impresiones fugaces, y eso no sólo
se debe al hecho de que pertenece a una colección temprana. En efecto, casi todos
los fragmentos en que aparece el pronombre de tercera persona resultan marcados
por la concisión, así como ocurría con el de primera persona, y es interesante notar
cómo, en el caso de “ella”, esta característica se mantenga hasta el final, mientras que
en el caso de “yo”, como se ha visto, hay un cambio muy pronunciado en los poemas
más tardíos. Por otra parte, hay que destacar otra afinidad entre los dos lemas, que
en cambio resultaba menos evidente en la construcción del pronombre de segunda
persona, y es la mencionada oposición del sujeto a la realidad que le rodea. La di-
ferencia reside, como ya se ha esbozado, en el mayor grado de distanciamiento de
sí mismo por parte del ser que se registra en el uso del lema “ella”, es decir que el
tono descriptivo que caracteriza el empleo de este pronombre sitúa el sujeto en una
dimensión contemplativa y distante, de ahí que su oposición a los elementos que le
circundan resulte menos traumática.
Veamos un ejemplo más del recurso a este pronombre para llegar a la reitera-
ción que sufre en la parte final del corpus: «Ella canta junto a una niña extraviada
que es ella: su amuleto de la buena suerte. Y a pesar de la niebla verde en los labios y
del frío gris en los ojos, su voz corroe la distancia que se abre entre la sed y la mano
que busca el vaso. Ella canta»29. Estas líneas, que proceden de Cantora nocturna, la
prosa poética que abre Extracción de la piedra de locura, nos indican una vez más
como la representación del sujeto a través del pronombre de tercera persona su-
ponga y asevere un distanciamiento que infunde a los versos un tono más sereno,
a pesar de que las imágenes sean tan negativas como las que aparecían en muchas
27
Emily Dickinson, como otras poetisas o mujeres “malditas”, entre las que hallamos por ejemplo
a Janis Joplin o Silvina Ocampo, se configuran como alter ego de la poeta en varios poemas.
28
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 64.
29
Ibíd., p. 203.
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de las concordancias del lema “yo”. Y eso tiene mucho que ver con el proceso de
despersonalización que sufre el sujeto: aunque se dé aquí la misma construcción
por oposición que se registraba en el análisis de “yo”, el hecho de representarse a tra-
vés de la tercera persona origina un alejamiento y una despreocupación que dejan
reproducir unos valores positivos: ella piensa en la eternidad, ella canta, en vez de
luchar en contra de lo que le es adverso.
Todo eso lo encontramos también en la etapa final de la producción poética pi-
zarnikiana, en particular en el conjunto de poemas Textos de sombra30, donde el yo
lírico se desdobla en el alter ego de la protagonista de estos textos, Sombra:
Ella se abandona en la tregua originada por la noche. Dentro de ella todo
hace el amor. […] Ella se abandona a un pensar desmesurado y al hechizo
por un espacio definido: un lugar que obra como llamamiento. […] Ella
no espera en sí misma. Nada de sí misma. Demasiado ensimismada. […]
Todo ha sido demasiado y ella se irá. Y yo me iré31.
El “yo” del fragmento final, que no podría ser más emblemático, reestablece la co-
nexión entre sujeto poético y alter ego en tercera persona después de una larga su-
cesión de imágenes positivas asociadas al personaje de Sombra. Son aquellas pro-
yecciones ideales a través de las que el sujeto ha logrado salir de sí mismo para
construirse a partir de su propia fragmentación y representarse de manera diferente.
Sin la carga comprometedora que llevaba consigo el pronombre de primera persona,
pueden reaparecer todos los atributos, positivos y negativos, asociados al ser que se
ha ido formando a lo largo del corpus, un ser que, una vez despersonalizado, puede
volver a encarnar el yo que le permitirá dar el paso al que ha aspirado desde el prin-
cipio, tal como se aclarará a continuación.
La fragmentación del sujeto lírico, en efecto, no es representada sólo mediante
el uso de diferentes pronombres personales, sino que se da también a través de des-
plazamientos espaciales que remiten a una oposición entre dos tiempos distintos en
los que se ubica, descentrándose, la voz de la poeta.
Una de las contraposiciones más notables que se registra a nivel de adverbios de
lugar es la que Pizarnik construye a partir del enfrentamiento de un “aquí”, donde
se encuentra el yo lírico sin poder transcenderlo en la realidad, y un “allá” anhelado
y alcanzado en el espacio poético32. Estos adverbios encubrirían, según ha notado
Enid Álvarez, dos fases de la vida que coexisten en el yo lírico, y la segunda fase re-
presentaría aquella muerte que, como se verá más adelante, no sólo es deseada por
30
Se trata de un grupo de textos, fechables entre 1971 y 1972, que han sido publicados póstumos
junto a otros poemas: Textos de sombra y últimos poemas, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1982.
31
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 407, 418, 433.
32
Las ocurrencias del adverbio <aquí / acá> registradas en todo el corpus poético son 24, mientras
que las del adverbio <allí / allá> son 14, es decir poco más de la mitad. Esta relación numérica haría
aventurar que se otorgue más importancia a los primeros que a los segundos. Sin embargo, como se
verá más adelante, siempre adquiere más importancia la dimensión no presente, no circunstancial.
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el sujeto a lo largo de todo el corpus, sino que es un estado ya existente: «el yo se
desdobla y desde una orilla de la vida se observa a sí mismo desplazarse a la otra»33.
Repasemos algunas ocurrencias de estos adverbios para rastrear las connota-
ciones que adquieren respecto a lo dicho hasta aquí. La oposición entre el “aquí” y
el “allá”, la encontramos ya en un poema temprano, Noche, que procede de La tierra
más ajena34, donde se nota una indefinición que se aclarará en las composiciones
posteriores, pues los adverbios adquirirán en ellas unos significados concretos y es-
pecíficos. En esta, la contraposición sólo se da a nivel absoluto: «Correr no sé dónde
/ aquí o allá / singulares recodos desnudos / basta correr!»35. La clave está en aquellos
recodos que podrían constituir un amparo para el yo lírico, pero que en realidad
son desnudos, no ofrecen protección, así que el sujeto se verá obligado a asumir su
condición bipolar, entre un “aquí” y un “allá”, y a dejar de correr.
En Árbol de Diana36, siete años más tarde, vuelve el mismo contraste y con la
misma indefinición: en el poema 21, un fragmento de tan sólo tres versos, se nos
dice: «He nacido tanto / y doblemente sufrido / en la memoria de aquí y de allá»37.
Recordemos que dicha colección es la que consolida el estilo pizarnikiano, de ahí en
adelante los temas serán los mismos y, de hecho, las connotaciones de los adverbios
analizados, a partir de este momento no cambiarán sino que irán precisándose. Es
interesante fijarse en la colocación de dichos adverbios al lado del lema “memoria”,
una palabra nada casual en el universo semántico pizarnikiano, ya que la memoria38
siempre remite a una época pasada, la de la niñez, etapa de una inocencia difícil de
recobrar, y que, en el caso de este poema, sería representada por el “allá” final. Va-
mos adentrándonos en otro binomio típico de toda la producción, no sólo poética,
de Pizarnik, o quizá sería mejor hablar una vez más de trinomio: la mencionada
etapa de la infancia vuelve una y otra vez en contraposición al tiempo presente, pero
también se contrapone a la presencia de la muerte para finalmente fundirse e identi-
ficarse con ella. Es decir que, siendo la muerte un estado anhelado, pues es un estado
de paz y de vuelta a la inocencia perdida, resulta que ésa y la infancia vienen a ser lo
mismo, dos polos que rodean el sujeto en su etapa presente, igualmente deseados e
inalcanzables. De ahí que el “allá” del poema 21 remitiría bien a la infancia de que se
tiene memoria, bien a la muerte que sigue siendo presente al lado del sujeto.
La misma colocación la encontramos en Crepúsculo, un poema que pertenece
a Los trabajos y las noches39, donde encontramos los siguientes versos: «El viento se
33
Enid Álvarez, op. cit., p. 17.
34
Alejandra Pizarnik, La tierra más ajena, Buenos Aires, Botella al Mar, 1955.
35
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 20.
36
Alejandra Pizarnik, Árbol de Diana, Buenos Aires, Sur, 1962.
37
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 123.
38
Carolina Depetris reflexiona sobre los mecanismos de la memoria como forma para construir
la identidad en su Aporética de la muerte: estudio crítico sobre Alejandra Pizarnik, Madrid, Canto-
blanco, UAM Ediciones, 2005, pp. 70-75.
39
Alejandra Pizarnik, Los trabajos y las noches, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1965.
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lleva el último gesto de una hoja / El mar ajeno y doblemente mudo / en el verano
que apiada por sus luces / Un deseo de aquí / Una memoria de allá»40. Otra vez la
memoria se asocia a un “allá”, mientras al presente, al “aquí”, se le yuxtapone algo
concreto, el deseo. He aquí una ecuación bastante esclarecedora de las sinuosas con-
tradicciones del universo pizarnikiano: por un lado un deseo, que es presente, tangi-
ble, y que no aspira a otra cosa sino que a aquel “allá” del que se tiene memoria; por
otro, dicha memoria, igualmente presente, aunque sea precisamente la memoria de
algo que no existe, ya que es el objeto del deseo, algo que no se posee. El “allá” vuelve
entonces a representar un estadio inaccesible, mientras que el “aquí” sigue teniendo
su valor adverso, reduciéndose a puro deseo.
Y justo en el uso del adverbio “aquí”, que siempre supone un “allá” aunque no se
le nombre explícitamente, quiero detenerme para realzar su percepción negativa por
parte del yo lírico. En Lamento, un poema suelto fechable entre 1956 y 1960, leemos
lo siguiente: «poemas / versos / no tienes nada que decir / nada que defender / sueña
sueña que no estás aquí / que ya te has ido / que todo ha terminado»41. Lo primero
que cabe destacar es que el adverbio de lugar en este caso simboliza las dificultades
relacionadas con el escribir, algo que recurre en toda la obra pizarnikiana como una
obsesión por encontrar las palabras exactas con las que manifestar lo que atormenta
el sujeto. El irse a un “allá” no mencionado supone entonces alcanzar aquella etapa
de la existencia presente sólo a nivel de pensamiento pero no en la vida real, para en-
contrar alivio del infierno de esta vida. Y en efecto, aquella huida del horror del “aquí”
se relega a la dimensión del sueño, la única donde se pueda concebir y experimentar.
Veamos más ejemplos de esta connotación del “aquí”, que, aunque acoja en sí ma-
tices diferentes, siempre remite a un mismo significado, simbolizando un lugar que
no es propio del sujeto poético, sino que lo hace versar en una condición en la que no
puede ser lo que querría. En el poema 29 de Árbol de Diana tenemos un íncipit muy
interesante en este sentido: «Aquí vivimos con una mano en la garganta. Que nada
es posible ya lo sabían los que inventaban lluvias y tejían palabras con el tormento de
la ausencia»42. Es significativo que el “aquí”, en este fragmento, se arrime a la imagen
de la garganta, un lema que aparece sólo diez veces en todo el corpus poético y que
sin embargo es de importancia capital en el firmamento semántico pizarnikiano. Tal
como ha señalado Enid Álvarez43, las referencias a la asfixia, como la que acabamos
de citar, abundan en toda la obra de la poeta y se configuran como un tema de raíz
autobiográfica, porque aluden al asma de la que sufría Alejandra en la vida real.
Así que el “aquí” asume en el fragmento un significado que se relaciona una vez
más con un estado psico-físico concreto e indeseado: en el “aquí” se vive sin poder
respirar, en el “aquí” nada es posible, que se trate de escribir o simplemente de vivir.
40
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 204.
41
Ibíd., p. 306.
42
Ibíd., p. 131.
43
Enid Álvarez, op. cit., p. 12.
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La connotación negativa del adverbio de lugar se mantiene a lo largo de todo el
corpus44 hasta llegar a un poema en prosa tardío, otra vez de corte autobiográfico,
donde el lema “aquí” alcanza su valor más concreto, remitiendo a un espacio físico
real, el del hospital psiquiátrico en el que estuvo internada Alejandra en sus últimos
días. Se trata de Sala de psicopatología, procedente del ya citado Textos de sombra,
donde se puede leer lo siguiente:
Como he soñado tanto que ya no soy de este mundo, aquí estoy, entre las
inocentes almas de la sala 18, persuadiéndome día a día de que la sala,
las almas puras y yo tenemos sentido, tenemos destino […] Sí, aquí en
el Pirovano45, hay almas que NO SABEN por qué recibieron la visita de
las desgracias46.
El poema habla por sí solo, el campo semántico del adverbio de lugar se completa
tiñéndose de real y trágico, puesto que el “aquí” ya no es el espacio de la vida cotidia-
na que no permite respirar, sino que se ha convertido en un infierno bien definido:
ya no existe yo lírico ni las proyecciones ficticias que daban lugar a un personaje,
sino que la voz autorial irrumpe en el universo poético en un impulso mucho más
autobiográfico que en el resto del corpus.
Para seguir analizando el desdoblamiento espacial que sufre el sujeto pizarni-
kiano, cabe pasar en revista ciertas ocurrencias de uno de los dos lemas que consti-
tuyen otro binomio muy significativo, el formado por la contraposición entre “des-
de” y “hacia”47. Como pasaba con los adverbios de lugar analizados hasta aquí, lo que
resulta más interesante es notar las connotaciones que adquiere el lema selecciona-
do48, según se combine con imágenes diferentes a lo largo del corpus, para originar
sin embargo un mismo significado.
Empecemos por un poema titulado Desde esta orilla, procedente de Las aventu-
ras perdidas: el título ya resulta emblemático, porque contiene una de las imágenes
44
Reproduciré a continuación algunas concordancias del lema <aquí> registradas con el auxilio
de WordSmith Tools y que son entre las más relevantes para el discurso desarrollado hasta ahora pero
que por razones de espacio no he podido reseñar en detalle: <No hay silencio aquí sino frases que
evitas oír> [Poesía completa, p. 232]; <aun si el poema (aquí, ahora) no tiene sentido, no tiene desti-
no> [Ibíd., p. 223]; <Golpean con soles. Nada se acopla con nada aquí> [Ibíd., p. 268]; <¿Hablan las
imágenes de papel? Solamente hablan las doradas y de ésas no hay ninguna por aquí> [Ibíd., p. 269].
45
Es el nombre del hospital psiquiátrico donde Alejandra escribió este poema.
46
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 411-412.
47
He aquí la relación numérica de los dos lemas: <desde>, 25; <hacia>, 15.
48
Como ocurría con los adverbios de lugar recién considerados, el “desde” siempre implicará un
estado presente, en el que se encuentra y se define el sujeto poético, mientras que el “hacia” siempre
supondrá un “allá” ansiado por dicho sujeto, una suerte de proyección ideal. Por ser los dos lemas
en evidente contraposición, considero suficiente detenerme solamente en uno de los dos, en este
caso el más relevante en términos numéricos, ya que los valores otorgados al otro se pueden intuir
fácilmente por constraste.
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pizarnikianas más interesantes y obsesivas, la de la orilla49: «Desde esta orilla de
nostalgia / todo es ángel. / La música es amiga del viento / amigo de las flores / amigas
de la lluvia / amiga de la muerte»50. Los dos extremos del fragmento nos indican la
connotación que asume “desde”: tanto en su colocación al lado de “orilla” y, sobre
todo, de “nostalgia”, como en la palabra “muerte” situada al final de la cadena anafó-
rica de los versos posteriores, encontramos otra contradicción del mundo lírico de
la poeta. El “desde” remite a un “aquí” que implica nostalgia y que alude a valores
positivos, de serenidad y amistad, que al mismo tiempo se acompañan a la presencia
de aquella muerte que es algo que el sujeto pizarnikiano ansía constantemente. Si
se relaciona el lema “nostalgia” con el lema “muerte” que cierra el verso, se puede
hablar, utilizando un sinónimo, de añoranza de esa muerte, que se encuentra en la
otra orilla, en el “hacia” ideal al que alude el primer verso y que es “amiga” de los
elementos enumerados, se sitúa cerca de ellos y por lo tanto también está cerca del
sujeto. Vamos a anticipar algo que se verá en detalle más adelante para que este dis-
curso quede más claro. La muerte, en todo el corpus poético, es representada por lo
menos en dos formas que se mantienen hasta el final: por un lado es una presencia,
concreta y presente para el sujeto lírico, y por otro siempre se encuentra en otro
lado, en la mencionada otra orilla, como algo deseado e inalcanzable. Volviendo al
verso que se está analizando, la muerte es representada en ambos modos: se encuen-
tra en el lugar desde el que está hablando el yo poético y a la vez está en otra parte,
como hace inferir la colocación de “nostalgia” al lado de “orilla”. Para completar el
cuadro, hay que centrarse precisamente en el lema “orilla”, que remite a un estadio
transitorio y es símbolo por excelencia del desplazamiento. Si se observan las demás
concordancias de “orilla”, hay que fijarse por lo menos en las dos que, por oposición,
nos aclaran el significado que asume el lema en nuestro verso. Me refiero a El sueño
de la muerte o el lugar de los cuerpos poéticos, de Extracción de la piedra de locura:
«Hablo del lugar en que se hacen los cuerpos poéticos […] Y es en ese lugar donde
la muerte está sentada, viste un traje muy antiguo y pulsa un arpa en la orilla del río
lúgubre»51. Y también al poema XVII de Los pequeños cantos, una colección estem-
poránea publicada por Alejandra en la revista venezolana Árbol de fuego en 1971, en
el que se lee: «Instruidnos acerca de la vida / suavemente / imploraban los pequeños
seres / y tendían sus brazos / por amor de la otra orilla»52. La otra orilla, la orilla del
río lúgubre, es evidentemente el lugar apto para la muerte, es decir un sitio, una
49
Estimando que el estudio de palabras funcionales como las que hemos visto hasta ahora pudie-
ra ofrecer datos más variados, no he incluído en esta parte algunas palabras lexicales perteneciente
al mismo campo semántico y que son íconos espaciales del mundo poético pizarnikiano. Entre ellas
quiero señalar por lo menos las que siguen: <bosque> (13 ocurrencias), <casa> (21),<fondo> (13),
<jardín> (39), <mundo> (31), <muro> (17) y la mencionada <orilla> (8), en la que sí me detendré al
hablar de su colocación con <desde>.
50
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 98.
51
Ibíd., pp. 254-255.
52
Ibíd., p. 395.
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dimensión que quiere alcanzar el yo lírico (y sus múltiples alter ego, como vienen a
ser, por ejemplo, los pequeños seres) desde su propia orilla. Es más, si retomamos
nuestro verso inicial a la luz de los que acabamos de repasar, veremos otro matiz
relacionado con el lema “desde”: si por un lado implica y representa un estado de
nostalgia, por otro proyecta todo lo que viene a continuación en la otra orilla, donde
“todo es ángel”, es decir todo es muerte. Una vez más, entonces, el “aquí” expresado
por el “desde” simboliza un estadio de la vida no grato, del que el yo quiere apartarse
cruzando un río que le ha de llevar al otro estadio, concebido a partir de metáforas
positivas y de imágenes reiteradamente oximóricas.
En un poema de 1963 no recogido en libro y titulado En honor de una pérdida,
volvemos a encontrar una imágen perteneciente al campo semántico de la asifixia,
cuando el yo lírico nos dice: «Feroz alegría cuando encuentro una imagen que me
alude. Desde mi respiración desoladora yo digo: que haya lenguaje en donde tiene
que haber silencio»53. Otra vez nos encontramos con un “aquí” donde la respiración,
sinónimo de vida, es desoladora, y donde se hacen patentes las dificultades oca-
sionadas por el escribir, algo, esto último, que hallamos también en un poema sin
título, procedente de Textos de sombra, donde se nos presenta otro elemento funda-
mental de la poética pizarnikiana, la espera, la tensión hacia otro lugar inaccesible,
representado de manera muy parecida a las diferentes imágenes de la muerte vistas
hasta aquí: «Algo en mí me castiga / desde todas mis vidas: / – Te dimos todo lo ne-
cesario para que comprendieras / y preferiste la espera, / como si todo te anunciase el
poema / (aquel que nunca escribirás porque es un jardín inaccesible […])»54.
La aparición del concepto de espera cierra el círculo que se ha trazado a partir
del lema “desde”: en el lugar en el que se encuentra el sujeto, sólo se puede esperar
o soñar con aquella otra etapa de la vida tan codiciada. La otra orilla donde sentaba
la muerte y el jardín inaccesible que es el poema ideal jamás escrito vienen a ser lo
mismo y nos devuelven a un mismo punto de partida, aquella realidad insomne, de
espera constante que constituye una de las dos caras opuestas en las que se desdobla,
o mejor dicho, se desplaza el sujeto poético.
Abordemos entonces, para concluir el discurso, otro aspecto aludido varias ve-
ces a lo largo de este trabajo, el de la frecuente aparición de la muerte55 en la poesía
de Pizarnik, para observar cómo este motivo afecta la imagen del yo lírico que cons-
53
Ibíd., p. 345.
54
Ibíd., p. 431.
55
La muerte es un tema delicado en el universo pizarnikiano, ya que, come es sabido, Alejandra
se suicidó a la edad de 38 años. Casi no existe artículo sobre su obra en que no se puntualice que hay
que aproximarse con mucho cuidado a aquel umbral que media entre su existencia y su poesía. Al
respecto ha surgido todo tipo de polémica, ya que la tentación de leer muchos motivos de su poesía
según una perspectiva autobiográfica es frecuente, siendo este un caso peculiar de incorporación
recíproca de vida y literatura. Sobre esta cuestión, véanse en particular los artículos que registran
el debate surgido en los Ochenta entre dos críticos que además eran amigos de la poetisa: Antonio
Beneyto, «Alejandra Pizarnik ocultándose en el lenguaje», Quimera, 34 (diciembre 1983), pp. 23-27;
Ana Becciu, «Alejandra Pizarnik: un gesto de amor», Quimera, 36 (febrero 1984), p. 7.
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truye la poetisa. La dimensión de la muerte, presente de manera obsesiva56 en todo
el corpus, no sólo poético, de Alejandra Pizarnik, es encarnada por un personaje
femenino con gran capacidad de seducción, tal como le define Enid Álvarez, «que
irrumpe […] en el escenario y dialoga o intenta dialogar con la voz poética, quien
asume un papel activo frente a ésta»57. Como ya se ha anticipado, se trata de un es-
tadio que el sujeto lírico anhela constantemente y se configura entonces como algo
que parece inalcanzable. Son varios los pasajes en los que se registra esta tensión por
parte del yo poético: «La muerte está lejana. / No me mira. / ¡Tanta vida Señor! / ¿Para
qué tanta vida?»58, leemos en el segundo poemario pizarnikiano, y «mi corazón está
loco / porque aúlla a la muerte / y sonríe detrás del viento / a mis delirios»59, en Las
aventuras perdidas, o más adelante, en Adioses del verano: «Quisiera estar muerta y
entrar también yo en un corazón ajeno»60, para citar solamente algunos casos. Pero al
mismo tiempo, este elemento se define en otros pasos como algo presente, tangible,
familiar para el sujeto, que, en La jaula, nos dice: «Sé gritar hasta el alba / cuando la
muerte se posa desnuda en mi sombra»61 y, en Extracción de la piedra de locura, repite:
«Miserable mixtura. Yo restauro, yo reconstruyo, yo ando así rodeada de muerte»62.
Si todo lo dicho resulta avalado por los ejemplos mencionados y por los demás
desdoblamientos presentes en el corpus, hay que considerar otro aspecto para exa-
minar la relación entre el sujeto y la dimensión fúnebre con la que se asocia constan-
temente. Como ya se ha esbozado, una de las etapas fundamentales de la trayectoria
poética de Pizarnik se centra en la asociación de la muerte con la superación y pérdida
de su condición infantil, tanto que, según Tamara Kamenszain, «la precocidad de su
vocación literaria consistió en desplegar el poema como un relato post-mortem»63.
Esta interpretación me parece la más acertada para describir la relación entre muer-
te y sujeto lírico en todo el corpus, o al menos a partir de un determinado momento
del discurso poético. Si en los primeros poemas prevalece la dimensión del deseo y
de la tensión hacia una muerte inaccesible, según avanzamos en el corpus nos damos
cuenta de que las ocurrencias del lema “muerte” se asocian cada vez más a imágenes
y sintagmas que la sitúan al lado del sujeto. Es decir que el sujeto se expresa desde
una condición de difunto, o, dicho de otra forma, encarna la muerte en sí mismo.
56
Para tener una idea de la frecuencia de este elemento en la obra pizarnikiana, baste saber que el
lema <muerte> es la tercera palabra lexical más frecuente (92 ocurrencias) en todo el corpus poético
aquí analizado, precedida sólo por <silencio> (101) y <noche> (185), dos lemas que por otro lado
pueden considerarse parte del mismo campo semántico.
57
Enid Álvarez, op. cit., p. 14.
58
«Noche», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 57.
59
«El despertar», en ibíd., p. 92.
60
En Extracción de la piedra de locura, en ibíd., p. 236.
61
Ibíd., p. 73.
62
Ibíd., p. 247.
63
Tamara Kamenszain, «La niña extraviada en Pizarnik», Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), pp.
11-12.
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Veamos unos cuantos ejemplos de esta representación: en Silencios, pertene-
ciente a Los trabajos y las noches, encontramos una ecuación que nos enseña precisa-
mente la personificación de la muerte por parte del yo: «La muerte siempre al lado.
/ Escucho su decir. / Sólo me oigo»64; en un poema posterior, la muerte es percibida
como madre: «Abrazada a la tierra. Tierra o madre o muerte, no me abandones aun
si yo me he abandonado»65; y aún, en La mesa verde, de Textos de sombra, aparece
aquella muerte de la niña a la que se ha aludido66, y esto sirve a la poeta para esta-
blecer un enlace entre muerte y vida, que vienen a (con)fundirse: «Me rememoro al
sol de la infancia, infusa de muerte, de vida hermosa»67. Ahora bien, si es verdad que
el sujeto asimila la muerte acogiéndola en sí mismo y volviéndose cadáver, eso hace
suponer que su propia representación será afectada por este hecho. En este sentido,
es útil detenerse en la representación del cuerpo68, analizando en particular el cam-
po léxico corporal en su relación con el de la muerte.
Lo primero en que quiero centrarme es precisamente la ocurrencia de ciertos
lemas que pertenecen al universo somático y que se asocian constantemente, como
veremos, a la construcción del yo poético como cadáver. Empecemos por el mismo
lema “cuerpo” que, en dos ocasiones, nos ofrece una buena muestra de lo que hemos
venido diciendo: «Mi cuerpo se pobló de muertos / y mi lengua de palabras crispa-
das, / ruinas de un canto olvidado»69, se nos dice en un poema sin título, no recogido
en libro y fechable entre 1956 y 1960. El campo léxico de los tres versos remite evi-
dentemente a una dimensión mortuoria, que no afecta solamente el cuerpo citado
de forma explícita sino que atañe también a lo que sale de ese cuerpo, es decir las
palabras, que son crispadas y son ruinas. Y en Amantes, de Los trabajos y las noches,
leemos lo siguiente: «no lejos de la noche / mi cuerpo mudo / se abre / a la delicada
urgencia del rocío»70. Aquí el cuerpo cobra un valor vital, ya que se abre para recibir
estímulos externos, sin embargo, su colocación al lado del adjetivo “mudo” lo vuelve
inerte. Además, no deja de ser emblemático el utilizo de un adjetivo perteneciente
al campo léxico del silencio, es decir en oposición a la posibilidad de la palabra, tal
como ocurría en los versos citados anteriormente. Esto se debe al hecho de que en
toda la poesía de Pizarnik siempre hay una relación muy estrecha entre el decir, o
mejor dicho, el escribir, y el cuerpo, que lucha para que de él pueda salir la palabra
esencial y exacta. Véanse, a este repecto, las siguientes líneas, sacadas de un poema
64
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 188.
65
«Escrito en “Abahuac” (Talitas)», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 442.
66
Sobre este motivo, véase también Delfina Muschietti, «Alejandra Pizarnik: la niña asesinada»,
La voz del otro. Homenaje a Enrique Pezzoni, Filología, 1-2 (1989), pp. 231-241.
67
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 449.
68
Sobre las representaciones del cuerpo en la poesía de Alejandra Pizarnik, véase ante todo el
estudio de David W. Foster, «The representation of the Body in the Poetry of Alejandra Pizarnik»,
Hispanic Review, 62, 3 (Summer 1994), pp. 319-347.
69
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 316.
70
Ibíd., p. 159.
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en prosa titulado emblemáticamente El deseo de la palabra: «Ojalá pudiera vivir so-
lamente en éxtasis, haciendo el cuerpo del poema con mi cuerpo, rescatando cada
frase con mis días y mis semanas»71. El “ojalá” inicial nos aclara esta imposibilidad
de la palabra a partir del cuerpo, que de hecho es mudo y origina palabras muertas72,
además de aspirar él mismo a morir, como podemos leer en el ya citado En honor
de una pérdida: «El dorado día no es para mí. Penumbra del cuerpo fascinado por
su deseo de morir»73. Asimismo, la línea inicial de El deseo de la palabra nos habla
de un éxtasis negado, que es el éxtasis del cuerpo, el goce que se torna imposible,
precisamente por la condición mortífera del sujeto.
Sigamos repasando más ocurrencias corporales relacionadas con la dimensión
de la muerte. Otra vez encontramos la mudez asociada al cuerpo, en un poema
amoroso de Los trabajos y las noches en el que el sujeto lírico se describe de esta
forma: «Recibe este rostro mío, mudo, mendigo. / Recibe este amor que te pido. / Re-
cibe lo que hay en mí que eres tú»74. También abundan en todo el corpus referencias
explícitas a partes del cuerpo sin vida, que nos confirman una vez más la condición
de difunto, de cadáver, del sujeto lírico, como en el siguiente ejemplo: «Adentro
de su canción hay un vestido azul, hay un caballo blanco, hay un corazón verde
tatuado con los ecos de los latidos de su corazón muerto»75. Es significativo que sea
precisamente el corazón, fuente de vida por antonomasia, el lema al que se asocia el
adjetivo “muerto”, y aún más si lo comparamos con el “corazón verde” que le precede
en las líneas citadas, ya que este color76, en todo el corpus poético, siempre remite a
dimensiones sombrías y fúnebres. Otro ejemplo de esta asociación lo encontramos
en el ya citado Desde esta orilla: «Aun cuando el amado / brille en mi sangre / como
una estrella colérica, / me levanto de mi cadáver / y cuidando de no hollar mi sonri-
sa muerta / voy al encuentro del sol»77. Aquí no sólo nos encontramos frente a una
sonrisa muerta, otro oxímoron que bien ejemplifica la representación del sujeto de
la que hemos hablado hasta ahora, sino que vemos dicho sujeto salir de su condi-
ción de difunto e ir hacia una dimensión que nos parece luminosa, positiva, siendo
encarnada por el sol del verso final. Sin embargo, como hemos visto al analizar la
preposición “desde”, el lugar adonde se dirige el yo lírico es aquella otra orilla en la
71
En El Infierno musical, en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 269-270.
72
Sobre las palabras y los textos como cadáveres de la representación reflexiona María Negroni
en un ensayo dedicado a la prosa tardía de Pizarnik: El testigo lúcido: la obra de sombra de Alejandra
Pizarnik, Rosario, Beatriz Viterbo, 2003.
73
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 345.
74
«En tu aniversario», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 157.
75
«Cantora nocturna», de Extracción de la piedra de locura, en Alejandra Pizarnik, Poesía com-
pleta, p. 213.
76
Sobre la simbología de los colores en la obra pizarnikiana véanse el citado estudio de Enid
Álvarez y el de María Negroni, «Alejandra Pizarnik: melancolía y cadáver textual», Inti. Revista de
Literatura Hispánica, 52-53 (verano 2001), pp. 169-178.
77
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 98.
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que se encuentra, de nuevo, la muerte. A través de este tránsito de una condición
mortuoria a otra, queda aún más clara la construcción de un sujeto que se concibe
dentro de un universo fúnebre, del que participa la vida misma.
Todo lo postulado hasta aquí se nos hace más patente si lo situamos dentro de
un esquema, trazado por Enid Álvarez, que lee la representación del cuerpo precisa-
mente como un tránsito desde una condición inicial de sacrificio hasta la descorpo-
rización propiamente dicha. Según la estudiosa, el cuerpo pizarnikiano «sufre por
los castigos que le infligen los otros o por la propia compulsión autopunitiva»78 y, por
eso, se sacrifica. Son varias las alusiones al sacrificio a lo largo del corpus, un sacrifi-
cio en que el cuerpo se ofrece para que hagan de él lo que quieren. «Todos los gestos
de mi cuerpo y de mi voz para hacer de mí la ofrenda, ramo que abandona el viento
en el umbral»79, leemos por ejemplo en Caminos del espejo, de Extracción de la piedra
de locura, y «he sido toda ofrenda / un puro errar / de loba en el bosque / en la noche
de los cuerpos»80, en Los trabajos y las noche, del poemario homónimo. Ahora bien,
este cuerpo que es don para el sacrificio, según Álvarez, se descorporiza, se presenta
como cuerpo puro, asexuado y sin señas de identidad, lo cual nos remite al proceso
de desdoblamiento y despersonalización trazado. Pero sobre todo nos remite a ese
éxtasis negado al que se ha aludido a propósito de El deseo de la palabra y que nos de-
vuelve un cuerpo muy pocas veces erotizado, deseante, siendo, en la mayoría de los
casos, inerte, el cuerpo de un cadáver. De hecho, otra ocurrencia interesante del lema
“éxtasis” nos confirma lo que acabamos de decir: «La vía del éxtasis entre las piernas.
[…] Las verdaderas fiestas tienen lugar en el cuerpo y en los sueños»81. Compárese
este fragmento con el que viene a continuación, sacado de Los pequeños cantos: «los
deterioros de las palabras / deshabitando el palacio del lenguaje / el conocimiento
entre las piernas / ¿qué hiciste del don del sexo?»82. En los tres ejemplos menciona-
dos, el momento del placer se ubica en el cuerpo de manera fugaz, y, según Álvarez,
es desplazado rápidamente al poema, ya que los verdaderos espacios de la satisfac-
ción están en la imaginación. El éxtasis se consigue entonces a través de la sublima-
ción, que remite una vez más al tránsito de una condición presente a otra inmaterial.
Porque, al mismo tiempo, como se ha visto, lo que se configura y es anhelado
como el espacio del placer —es decir de la vida con sus estímulos corporales, físi-
cos— es paradójicamente la muerte tan ansiada, que es también «sublimada en el
sueño y en la poesía» y que sobre todo se convierte en «productividad textual»83
dentro del mismo texto. El poema, por lo tanto, puede nacer sólo dentro de ese en-
torno fúnebre, donde el sujeto, a través de su propia descorporización, así como de
78
Enid Álvarez, op. cit., p. 12.
79
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 241.
80
Ibíd., p. 171.
81
«Extracción de la piedra de locura», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 253.
82
«En esta noche en este mundo», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 399.
83
Enid Álvarez, op. cit., p. 14.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 211-229. issn: 2240-5437.
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Fragmentación y descorporización del yo en la poesía de Alejandra Pizarnik
228
la fragmentación y la encarnación de la muerte analizadas en el trabajo, se construye
y representa siempre en el umbral entre dos estados, naciendo y muriendo a la vez
dentro del espacio poético: «Yo, asistiendo a mi nacimiento. Yo, a mi muerte»84.
R E F ERENCIAS BIBLIO GR ÁFICAS
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"Description": "Lo studio prende le mosse dalla contemporanea apparizione di due traduzioni della Divina Commedia nella Penisola Iberica: la prima in prosa castigliana, per opera di Enrique de Villena, nel 1428, la seconda in endecasillabi catalani, firmata da Andreu Febrer nel 1429. Dopo aver analizzato la genesi delle due versioni, sono stati messi in evidenza i metodi impiegati dai due traduttori, che risultano strettamente dipendenti dal diverso obiettivo che si erano prefissati: Febrer pare intenzionato a creare un’opera letteraria in qualche modo autonoma, mentre lo scopo della traduzione spagnola sembra essere stato quello di fornire un testo a fronte per facilitare la lettura dell’originale con un \"supporto\". Il confronto delle soluzioni via via adottate permette di far emergere i possibili contatti tra Villena e Febrer durante l’elaborazione delle loro opere, ipotizzabile a partire dalla comune formazione giovanile nell’ambito della corte catalana. Data la vastità delle opere, lo studio è stato condotto prendendo come punto di riferimento il canto III dell’Inferno e, più in generale, la prima cantica. Alla luce di quanto analizzato, sembra plausibile ipotizzare che la versione castigliana poté servire in qualche caso a Febrer e non viceversa.\r\n\r\nThe first translations into a vernacular language of Dante’s Divina Commedia were carried out in 1428 and 1429: the first, in Castilian prose, signed by Enrique de Villena; the second in Catalan verse, that is, hendecasyllabic tercets as in the original text, by Andreu Febrer. My aim in this study is to outline a short depiction of the cultural moment where they both dwelled in order to understand the relationship between their versions, so as to subsequently undertake an approach to both texts to assess the modus operandi they followed. Finally, I try to substantiate the hypothesis of a possible contact between both writers while each of them was at work on his translation. As far as Febrer is concerned, his aim seems to have been to create a somehow autonomous literary work, while the purpose of the Spanish translation appears to have been to present a parallel text as a support for an easier reading of the original one. Since their aims are not the same, it follows that the outcome of their work cannot be compared from the stylistic point of view. Nevertheless, if we do compare them, we may understand more clearly the creative stance of both authors and, lastly, identify out the possible contacts between Villena and Febrer while they were at work on their versions. At the end of a first appraisal of the texts under examination it is possible to assume that, even if the Catalan poet knew Italian better, his translation was probably of no use to Villena precisely because of the excessive liberties the former took with the text and also due to his reiterated resorting to Italianisms and Occitanisms. On the contrary, the text in Spanish, precisely due to its different purpose, is far more likely to have been of some use to Febrer’s work. My impression, supported by a few examples, is that Febrer somehow managed to read his colleague’s work and that he in some instances drew on it. Given the extent of their work, to carry out my study I have decided to take the Third Canto of the Inferno, and especially the first stanza, as my point of reference.",
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
A B
NNA ENVENUTI
Università degli Studi di Milano
[email protected]
Nel 1428 e nel 1429 furono portate a termine le prime traduzioni in lingua volga-
re della Divina Commedia: in castigliano e in prosa, almeno in apparenza, la prima,
firmata da Enrique de Villena; in catalano e in versi, terzine di endecasillabi come
nell’originale, la seconda, ad opera di Andreu Febrer. Cercherò di tracciare un breve
quadro del momento culturale in cui si collocano per capire la concomitanza delle
due versioni e in seguito proverò un’approssimazione ai due testi per valutare i di-
versi modus operandi; infine, tenterò di sottoporre a prova l’ipotesi di un possibile
contatto tra i due scrittori durante l’elaborazione delle rispettive traduzioni. A tal
fine, data la vastità delle opere, mi è parso necessario operare una scelta e ho indivi-
duato come punto di partenza per l’analisi il canto III dell’Inferno, frammento assai
noto, ovvero, la soglia della città dolente1, e, più in generale, la prima cantica.
1
La traduzione di Febrer si trova conservata in un unico manoscritto, nella Biblioteca dell’Escorial
(II L 18). Oggi si può leggere facilmente grazie all’edizione completa realizzata da Anna Maria Gallina,
pubblicata qualche anno fa dall’editorial Barcino (Dante Alighieri, Divina Comèdia, versió catalana
d’Andreu Febrer, a cura di Anna Maria Gallina, 6 voll, Barcelona, Editorial Barcino, 1989); il testo di
Villena, invece, si trova manoscritto nella Biblioteca Nacional di Madrid (MS 10186). Pascual ha por-
tato a termine l’edizione critica dell’Inferno, dotandola anche di un corposo studio introduttivo (José
Antonio Pascual, La traducción de la «Divina Comedia» atribuida a D. Enrique de Aragón, estudio
y edición del Infierno, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1974), ma l’intera versione si può con-
sultare anche nelle Opere complete di Villena dell’edizione della Turner (Enrique de Villena, Obras
completas, ed. de Pedro Cátedra, Madrid, Turner, 1994). Il manoscritto, non autografo, fu scoperto e
studiato da Mario Schiff («La première traduction espagnole de la «Divine Comédie», in Homenaje
Anna Benvenuti
Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
232
Com’è risaputo, i primi decenni del ‘400 in Spagna rientrano generalmente sotto
le ampie etichette di Humanismo o Prerrenacimiento2. Si tratta di un periodo in cui
avviene un mutamento di influenze, dal momento che la letteratura italiana scalza
quella francese, divenendo modello e autorità riconosciuta, grazie anche alla già
collaudata relazione della Corona d’Aragona con le terre italiane, che aveva favori-
to una precoce introduzione delle istanze culturali del Bel Paese. Esiste un divario
culturale, o se vogliamo, di mentalità, tra la Catalogna e la Castiglia, proprio per
l’apertura della prima alle novità europee e alla mobilità dei suoi uomini, per motivi
economici, politici o militari. Andreu Febrer viaggiò lungo l’arco della sua intera
esistenza, come diplomatico al servizio di tre successivi sovrani aragonesi, e vis-
se lungamente anche in Italia, dove appunto intraprese la traduzione della Divina
Commedia3; Enrique de Aragón, invece, si presenta come un personaggio molto più
complesso, in virtù del suo essere in qualche modo un uomo di transizione, a metà
tra la mentalità proto-umanistica degli intellettuali catalani – era catalano lui stesso,
dal lato paterno – e il radicamento nelle tradizioni castigliane che aveva assorbito
dalla famiglia materna. Pedro Cátedra nel suo saggio Enrique de Villena y algunos
humanistas4, sottolinea, infatti, il suo ruolo di tramite culturale tra il regno d’Ara-
a Menéndez y Pelayo. Estudios de erudición española con un prólogo de Juan Valera, Madrid, Libreria
general de Victoriano Suarez, 1899, pp. 269-307).
2
Si veda, ad esempio, tra gli altri, Concepción Salinas Espinosa, «Dos obras del siglo XV: Hu-
manismo versus retraso cultural», in José M. Maestre - Joaquín Pascual Barea (ed.), Humanismo y
Pervivencia del mundo clásico, I.2, Actas del I Simposio sobre humanismo y pervivencia del mundo
clásico (Alcañiz, 8-11 de mayo de 1990), Instituto de Estudios Turolenses (CSIC) - Servicio de Publi-
caciones de la Universidad de Cádiz, 1993, pp. 899-1002. Si vedano, inoltre, i lavori di alcuni studiosi,
tra cui Jeremy Lawrance e Peter Russell, che denominano «Humanismo vernáculo» il periodo in cui
si procede alla «translation and adaptation of classical works for the entertainment and instruction
of noble and unprofessional readers» (Jeremy Lawrance, «Humanism in the Iberian Peninsula», in
A. Goodman – A. Mackay, The Impact of Humanism on Western Europe, London, Longman, 1990, p.
222).
3
La biografia di Febrer è stata ricostruita con precisione da Martí de Riquer (Martí de Riquer,
«Andreu Febrer, castellano di Catania, primo traduttore della Commedia in catalano, in Dante e la
Magna Curia. Atti del Convegno di Studi Palermo, Catania, Messina, 7-11 novembre 1965, Palermo,
Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1966, pp. 2-11). Nato a Vic, tra il 1375 e il 1380, dal
1418 fu al servizio di Alfonso V il Magnanimo, che lo nominò governatore del castello Ursino di
Catania, come ricompensa dei servizi resi ai suoi predecessori. Nel 1419 il poeta figura nei docu-
menti come algutzir e cavallerís di re Alfonso, nel regno di Sicilia, col relativo ufficio di esecutore di
giustizia. Con questo titolo compare nei prologhi alle cantiche e nell’explicit del manoscritto della
traduzione della Commedia. Nel 1420 prese parte ad un’altra campagna militare, una spedizione in
Sardegna e Corsica per reprimere una sollevazione. Insieme con lui troviamo impegnati anche alcuni
tra i più illustri poeti catalani del tempo, come Jordi de Sant Jordi e Ausiàs March. Nel 1426 gli fu tolta
la castellania di Catania, ma in compenso fu istituita a suo favore una rendita annuale di 40 once d’oro
sul porto di Trapani. Morì tra il 1440 e il 1444.
4
Pedro Cátedra, «Enrique de Villena y algunos humanistas», in Academia literaria renacentista.
III. Nebrija, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1983.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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gona e la Castiglia5. Le sue disavventure lo portarono ad alternare la sua dimora
tra la Catalogna e le terre castigliane: dopo un periodo, in gioventù, che potremmo
chiamare “di formazione” trascorso presso la corte catalana, Villena pensò di fare il
proprio interesse trasferendosi in Castiglia e, dopo gli esordi in catalano, si dedicò
alla scrittura esclusivamente in castigliano. Il periodo speso in Catalogna, tuttavia,
gli fece respirare lo stesso clima di entusiasmo culturale di Febrer6, dal momento che
ebbero la possibilità di vivere nel culmine del cosiddetto “Umanesimo catalano”7.
Grazie all’interesse di alcuni sovrani che potremmo chiamare “illuminati”, come
Joan I e, soprattutto, Alfonso il Magnanimo, si assiste nella corte catalana (non solo
a Barcellona o Valencia, ma anche in Sicilia e più tardi, a Napoli) ad un fermento
culturale senza precedenti che dà i suoi frutti concreti, oltre che in alcune opere
originali, soprattutto nel campo delle traduzioni, che rappresentarono un ingente
sforzo di assimilazione del sapere circolante in Europa e di recupero della tradizione
classica8. I sovrani promuovevano la creazione artistica e la circolazione del sapere
ed è in questo ambiente che si forgiano personalità come quella di Bernat Metge o
degli stessi due autori di cui ci stiamo occupando. In un primo momento si privile-
giarono i volgarizzamenti di testi classici, ma progressivamente si aggiunsero versio-
ni di opere redatte nelle diverse lingue volgari. Anche in questo caso l’origine della
tendenza va ricercata in Italia, e lì, infatti, nascono altresì le prime approssimazioni
teoriche «moderne», come il De interpretatione recta redatta dal Bruni, per giustifi-
care la sua versione dell’Etica Nicomachea.
Enrique de Villena non si sottrasse alla «moda» delle traduzioni latine, cimen-
tandosi dapprima con una Retorica ad Herennium, per poi accettare la sfida di vol-
gere l’Eneide al castigliano, incitato da Don Juan II di Navarra, fratello del futuro
5
Pedro Cátedra, «Sobre la obra catalana de Enrique de Villena», in Homenaje a Eugenio Asencio,
Madrid, Gredos, 1988, pp. 127-140.
6
«La personalidad intelectual de don Enrique se diferencia radicalmente de la de los escritores
castellanos, sus contemporáneos, y sólo se puede calibrar y comprender plenamente desde el medio
cultural y cientifico de la corte catalana» (Elena Gascón Vera, «Enrique de Villena: ¿Castellano o
catalán?», in Vilanova, Antonio (ed.), Actas del X Congreso de la Asociación Internacional de Hispa-
nistas, Barcelona, 21-26 de agosto de 1989, Barcelona, PPU, 1992, pp. 195-206, p. 196).
7
Si veda Lola Badia, «L’humanisme català: formació i crisi d’un concepte historiogràfic», in Ac-
tes del V Col·loqui Internacional de la Llengua i Literatura Catalanes, Andorra, 1-6 d’octubre de 1979,
Montserrat, PAM, 1980, pp. 41-70; Martí de Riquer, L’humanisme català, Barcelona, Barcino, 1934;
Rico, Francisco, Petrarca y el humansimo catalán, in Actes del sisè col·loqui internacional de Llengua i
Literatura Catalanes, Roma 28 setembre-2 octubre 1982, Montserrat, PAM, 1983.
8
Esiste una vastissima bibliografia su tale argomento. In particolare si veda Peter Russell, Traduc-
ciones y traductores en la Península Iberica, 1400-1550, Bellaterra, Universidad Autónoma de Barce-
lona, 1985; José Francisco Ruiz Casanova, Aproximación a una historia de la traducción en España,
Madrid, Cátedra, 2000; Margherita Morreale, «Apuntes para la historia de la traducción en la Edad
Media», Revista de Literatura, XV, 29-30 (enero-junio 1959), pp. 3-10; Roxana Recio, La traducción
en España ss. XIV-XVI, León, Universidad de León, 1995,; Guillermo Serés, La traducción en Italia y
España durante el siglo XV. La «Iliada en romance» y su contexto cultural, Salamanca, Universidad de
Salamanca, 1997.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Anna Benvenuti
Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
234
Alfonso il Magnanimo. È da sottolineare la sicurezza che ostenta, esplicitata in più
punti, sulle sue capacità di traduttore, andando decisamente controcorrente rispetto
alle dichiarazioni della maggior parte dei suoi colleghi contemporanei, che si la-
mentano dell’incapacità delle lingue volgari di rendere la complessità e la bellezza
dell’originale latino. Sul versante delle lingue romanze, lo stesso Villena aveva già
compiuto un esperimento particolare, traducendo un suo scritto catalano, Els dotze
treballs d’Hercules, in castigliano, nel 14179.
Il fenomeno delle traduzioni interessò ben presto gli autori che provenivano
dall’Italia, in primo luogo Petrarca, poi Boccaccio e, infine, Dante. La Divina Com-
media iniziò a circolare agli inizi del Quattrocento, soprattutto tra notai e cancellieri
e ben presto godette di straordinaria fortuna, a giudicare dalle molteplici citazio-
ni presenti nelle opere catalane del periodo10, prima fra tutte Lo Somni di Bernat
Metge. Poco tempo dopo la conoscenza del capolavoro dantesco si estese anche in
Castiglia dove, nell’arco di un secolo compaiono ben tre traduzioni, benché solo
quella di Villena sia completa11, e numerose testimonianze e citazioni anche nei testi
castigliani.
I due traduttori, dunque, condividevano una mentalità di “proto-humanistas”,
che si basava su un comune patrimonio culturale condiviso nell’ambiente della corte
catalana. Le fonti del loro sapere, fondamentali per sorreggere la faticosa operazione
che decisero di intraprendere, erano le stesse e possono essere individuate per lo più
nei grandi nomi della letteratura catalana medievale, da Ramon Llull, a Francesc
Eiximenis a Bernat Metge.
Naturalmente un confronto puntuale tra le due versioni si presenta come un
lavoro ampio e, al momento, non ancora concluso. L’aspetto relativo al comune pa-
trimonio culturale, tuttavia, risulta uno dei più interessanti, poiché la letteratura ca-
talana precedente si presenta in più di una occasione come sostegno alla compren-
9
Si veda Enrique de Villena, Los doze trabajos de Hércules, ed. Margherita Morreale, Madrid, Real
Academia Española, 1958.
10
Testimoniano la diffusione della Divina Commedia nel XV secolo alcuni autori come l’umanista
Ferran Valentí, discepolo di Leonardo Bruni, che cita Dante e la sua opera nel prologo della sua tra-
duzione dei Paradoxa ciceroniani, o lo stesso Ausiàs March. Riferimenti a Dante compaiono anche
nel Curial e Guelfa e nel Tirant lo Blanch di Martorell, nello Spill di Jacme Roig e in altre operette
minori moralistiche, come le Sentencias Catholicas del diví poeta Dant florentí di Jaume Ferrer de
Blanes. Esistono anche commenti e glosse del poema in catalano, come il Tractat de les penes par-
ticulars d’infern del frate francescano Joan Pasqual del 1436, tratto in parte dal commento di Pietro
Alighieri. Il culmine del «dantismo» catalano sembra segnato da un componimento di Bernat Hug
de Rocabertí, scritto intorno al 1467, La gloria d’amor, che riproduce la terzina dantesca ed imita il
contenuto della Commedia (H. C. Heaton, The Gloria d’Amor of Fra Rocabertí, New York, Columbia
University Press, 1916, pp. 49-98).
11
Pubblicata a Burgos nel 1515, abbiamo La Traducción del Dante de lengua toscana en verso cas-
tellano, che comprende l’Inferno, opera di Pedro Fernández de Villegas, nativo di Burgos (1453-1536).
Ne esiste una seconda edizione, del 1868, il cui prologo è di Hartzenbusch. Il metro impiegato è la
copla de arte mayor, con le stesse rime del Laberinto de Fortuna (ABBA, ACCA); abbiamo, inoltre, una
versione anonima del Purgatorio, in quintillas, praticamente sconosciuta.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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sione del testo o come fonte per la resa della traduzione. Spicca, tra tutti, il magistero
di Raimon Llull, che oltre ad offrire una vasta bibliografia, fornisce anche un sup-
porto teorico per la giustificazione del plurilinguismo, così tipicamente dantesco12.
Tornando, però, alla rapida presentazione generale delle due opere, si è già det-
to che la versione di Villena è in prosa e quella di Febrer in versi. Tale distinzione
rimanda immediatamente alle intenzioni dei due traduttori: benché il risultato sia
assai diverso, è probabile che entrambe le versioni siano state il frutto di una com-
missione esterna, “dall’alto”13; ma, mentre nel caso di Febrer, pare che l’obiettivo sia
stato quello di creare un’opera letteraria in qualche modo autonoma, scopo della
traduzione spagnola sembra essere stato quello di fornire un testo a fronte per facili-
tare la lettura dell’originale con un “supporto”. Corrobora l’ipotesi il fatto che il testo
a noi pervenuto sia scritto letteralmente a margine delle pagine di un volume con
l’opera dantesca originale, e la segua verso per verso14. Inoltre, spesso l’impressione è
che il lavoro di Villena a noi pervenuto sia una prima stesura, che ancora necessitava
di una revisione, poiché spesso il copista inserisce più varianti per un vocabolo.
Da un lato Febrer si impone di tradurre la Divina Commedia in modo totale,
rispettando la versificazione originale e il sistema rimico, dall’altro, Villena traduce
per permettere la comprensione del testo italiano, come se, mutatis mutandis, met-
tesse i sottotitoli15.
Data la disparità di intenti, è evidente che si può parlare di cosciente scelta di
metodo soprattutto per Febrer, che di fatto accetta il più collaudato – e medievale –
metodo verbum verbo, benché talvolta si lasci prendere la mano – per nostra fortuna
– da ventate di modernità e provi a elaborare una traduzione che privilegia il senso
e non stravolge la lingua d’arrivo.
Una conseguenza immediata di ciò che si è appena detto è che mentre nella
versione catalana abbondano gli italianismi, utili per mantenere una fedeltà assoluta
12
Conoscitore di numerose lingue, tra cui arabo, latino, catalano, italiano e castigliano, Llull teo-
rizza la necessità di rendere la sua lingua capace di esprimere i concetti più alti della teologia, utili ai
fini della sua opera missionaria: giustifica, pertanto, l’inclusione di barbarismi, calchi, neologismi che
possano dare maggiore vigore e capacità espressiva all’idioma.
13
Nel caso di Villena, è lo stesso autore a spiegarci che la traduzione è stata portata a termine
contemporaneamente al ben più faticoso lavoro riguardante l’Eneide: «[…] durante este tiempo fizo
la transladaçion de la Comedia de Dante –a preçes de Ynigo López de Mendoça– e [la] Retórica de
Tulio Nueva, para algunos que en vulgar la querién aprender […] tomando esto por solaz, en com-
paraçión del trabajo que en la Eneyda pasava […]» (cito da Enrique Villena, Obras completas, Glossa
116, p. 59).
14
Il testo di Villena si presenta, come detto, a margine di quello dantesco e, graficamente, va a
capo ad ogni verso, ma non ha una struttura metrica.
15
Che la traduzione non abbia intenzione letteraria e che non sia considerata dal suo autore opera
rilevante lo deduciamo dalle parole stesse di Villena già citate, che ne parla come di un “divertisse-
ment” mentre lavorava alla assai più impegnativa traduzione dell’Eneide. Possiamo, però, arguirlo
anche dall’evidente disparità che c’è tra la citata versione del poema virgiliano e quella che qui esa-
miniamo: la prima è condotta secondo i dettami dell’esegesi medievale, la seconda privilegia una
traduzione letterale, che talvolta non tiene conto del senso complessivo delle frasi.
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al modello e facilitati dalla somiglianza tra le due lingue, la versione castigliana li
rifugge, proprio perché lo scopo è rendere comprensibile il testo a chi l’italiano non
lo sa o lo conosce poco. Lo stesso non si può dire dei latinismi, però, che entrambi
mostrano di amare, dal momento che, com’è risaputo, danno prestigio alla lingua.
Ho già specificato che le intenzioni dei due traduttori non sono uguali e di con-
seguenza i due testi non possono essere paragonati dal punto di vista della riuscita
stilistica. Il confronto delle due traduzioni, tuttavia, ci consente di capire più chiara-
mente l’iter creativo dei due autori e, infine, permette di far emergere i possibili con-
tatti tra Villena e Febrer durante l’ elaborazione delle loro versioni. Una prima lettura
ç
esclude che i due lavorassero a stretto contatto. Febrer non capisce versi che invece
Villena traduce senza difficoltà (almeno apparente) e viceversa. È ovvio supporre
che i due non si trovassero nello stesso luogo, ma questo dato non ci impedisce di
ipotizzare che avessero contatti sporadici o, ancora meglio, che in questi contatti
(personali o meno) avessero la possibilità di dare un’occhiata al lavoro in fieri.
Come ho anticipato, data la vastità delle opere in esame, ho deciso di iniziare
l’ approccio a partire dal canto terzo dell’Inferno. Esso presenta l’ entrata “ufficiale”
ç ç
di Dante nella città dolente e l’incontro con Caronte che lo traghetta oltre il fiume
Acheronte. Osserviamo, quindi, le terzine iniziali del canto III16:
Dante, If. III, 1-6 Villena Febrer
«Per me si va ne la città Por mí se va a la cibdat do- «Per mi va hom a la ciutat
dolente, liente dolent,
per me si va ne l’etterno
ç por mí se va en el eternal per mi va hom a la eternal
dolore, dolor dollor,
per me si va tra la perduta por mí se va entre la perdi- per mi va hom vers la perdu-
gente. da gente da gent.
Giustizia mosse il mio alto el mi fazedor movió la ju- Justícia moch lo meu alt
fattore; sticia factor;
fecemi la divina podestate, la divinal potestat me fizo Féu a mi la divinal potestatz,
la somma sapienza e ‘l pri- la alta sabiduria e el primer L’alta sapiència e.l primer
ç
mo amore. amor amor.
>convien saber Padre e Fijo
e Spíritu Sancto<
Si può notare che la vicinanza delle tre lingue fa sì che senza eccessivi sforzi i due
traduttori si trovino con tre endecasillabi (la prima terzina) in rima, praticamente
uguali al modello. La seconda terzina, invece, comincia a darci un’idea del diverso
tipo di sforzo cui sono costretti i due autori, poiché Villena, non interessato (per lo
meno nella fase di prima stesura) allo schema rimico, non deve forzare la sintassi.
Per il testo italiano cito a partire da Dante Alighieri, La Divina Commedia a cura di S. Jaco-
16
muzzi, A. Dughera, G. Ioli, V. Jacomuzzi, Torino, S.E.I, 1990, che riproduce l’edizione Petrocchi.
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Anzi, come appunto per una comprensione più sicura, aggiunge la spiegazione degli
ultimi due versi, esplicitando il riferimento alla Trinità che poteva risultare oscuro.
Un esempio assai più evidente ci è offerto dalla terzina ai vv. 121-123:
Dante, If. III, 121-123 Villena Febrer
«Figliuol mio», disse il ma- Fijo mío dixo el maestro «Fillol meu», dix lo mestre
estro cortese cortés ensenyats
«quelli che muovo ne l’ira aquellos que mueren en la «cells qui moren en la ira de
di Dio yra de Dios Déu,
tutti convegnon qui d’ogne Todos vienen aquí de toda tots pervenen ací de tots re-
paese parte gnats
Febrer è costretto a sostituire l’aggettivo cortès, pur presente in catalano, con
ç
un “improbabile” ensenyats, in modo da avere una parola-rima per il verso 123, in
cui usa regnats, diverso dall’originale, ma pertinente per senso. Villena, invece, non
ç
essendo “schiavo” della rima, può essere lineare nella sua traduzione.
La terzina ai versi 130-132, invece può fornire uno spunto riguardo al testo ori-
ginale su cui i due autori condussero la traduzione:
Dante, If. III, 130-132 Villena Febrer
Finito questo, la buia cam- Aquesto fenesçido la oscura Ffenit açò, cella scura com-
pagna conpaña >tierra< pagna
tremò si forte, che lo spa- tremió así fuerte que del tremà tan fort, que de gran
vento espanto espavent
la mente di sudore ancor el entendimiento e la volun- la pensa encara de suor me’n
mi bagna tad aún agora de suor me banya
baña
È da segnalare, innanzitutto, che l’opera di Villena non è stata sicuramente con-
ç
dotta sul testo su cui è copiata: l’autore dettò la sua versione a un copista, che la scris-
ç
se su un volume pulito, che riporta, però, una versione diversa del capolavoro dan-
tesco. Febrer, come ho già anticipato, iniziò il suo immane lavoro quando si trovava
in Italia. La sua, però, non era una vita sedentaria: il suo ruolo di diplomatico lo co-
stringeva a frequenti spostamenti. È presumibile che non avesse sempre sottomano
la stessa versione della Divina Commedia (il che spiegherebbe numerosi passi dis-
seminati lungo tutta la traduzione). Febrer, però, che porta a termine un lavoro con
pretese di autonomia artistica, deve fissare le scelte via via effettuate. Villena, invece,
si tiene aperta la porta delle varianti, e, così facendo, ci da modo di supporre che, se
non sempre, qualche volta avesse la possibilità di consultare più di un testo di Dan-
te. Il verso 130, in cui Villena riporta due accezioni ugualmente documentate nei
codici danteschi, “campagna” e “compagna” sembra un indizio piuttosto evidente.
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L’ipotesi che vorrei proporre a questo punto è la seguente: per quanto probabil-
mente fosse proprio il poeta catalano a conoscere meglio la lingua italiana (consi-
derando che aveva vissuto in Italia durante anni) sembra che la sua traduzione non
sia stata utile a Villena proprio a causa dell’eccessiva libertà e dell’insistito ricorso a
italianismi e occitanismi. Al contrario, è più probabile che fosse il testo in castiglia-
no, proprio in virtù della sua diversa funzione, a poter offrire qualche sostegno al
lavoro di Febrer. L’impressione è che Febrer abbia avuto modo di leggere il lavoro
del collega e che in qualche caso lo abbia sfruttato. Certo non sempre gli fu possibile
servirsene, proprio perché Villena spesso fraintende il modello in passi che a Febrer
risultavano invece chiarissimi. In effetti, è plausibile che il contatto sia stato a senso
unico e che abbia favorito solo il traduttore catalano. Non è possibile escludere che
si tratti di coincidenze – suffragate dalla vicinanza dei codici linguistici – eppure
sembra chiara la vicinanza di versi come If., V, 22:
Dante Villena Febrer
Non impedir lo suo fatal Non enpaches el su andar No m’empatxes lo seu fadal
andare: fadado anar,
O, sempre nello stesso canto, il verso 33, che descrive l’ azione della “bufera
infernale” sulle povere anime dei lussuriosi, in cui il secondo verbo impiegato da
Febrer sembra suggerito proprio dalla traduzione proposta da Villena:
Dante Villena Febrer
Voltando e percotendo li Rebolviéndolos e firiendo Que remenant e firent los
molesta los enoja molesta
Febrer vuole tradurre Dante senza perdere di vista il valore letterario della nuo-
va opera in catalano: si tratta, in effetti, di un aspetto per molti versi sottovalutato, se
teniamo conto dei numerosi giudizi negativi che si è meritato17. Dobbiamo, invece,
considerare che in quegli anni i poeti catalani, tra i quali Febrer si annoverava, usa-
vano come lingua poetica il provenzale e solo con Ausias March, qualche anno più
tardi, il catalano sarà definitivamente usato come codice poetico. Per questo motivo,
la traduzione di Febrer mi sembra possa ritenersi un’opera moderna: non solo per
l’uso del catalano, ma anche per il coraggioso impiego del verso endecasillabo, anco-
ra non acclimatato nelle terre iberiche. Ho già cercato di evidenziare altrove gli sfor-
17
Si vedano Modest Prats, «Per a una valoració de la versió catalana de la Divina Comèdia de An-
dreu Febrer», in Studia in honorem Prof. Martí de Riquer, III, Barcelona, Quaderns Crema, 1988, pp.
97-107; Antoni Badia I Margarit, «La versione della «Divina Commedia» di Andreu Febrer (secolo
XV) e la lingua letteraria catalana», in Atti del VIII congresso internazionale di studi romanzi (Firenze
3-8 aprile 1956), Firenze, 1960, pp. 3-36; Anna Maria Gallina, «Una traduzione catalana quattrocente-
sca della “Divina Commedia”», Filologia Romanza, IV, 1957, pp. 235-266.
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zi che Febrer compie per cercare di rielaborare il testo dantesco, cercando sempre
di mantenersi fedele all’originale18. Febrer rielabora, e ottiene così i versi migliori, i
passi in cui non ha difficoltà nella comprensione dell’originale, che sono, in ultima
analisi, i passaggi in cui non ha neppure avuto bisogno dell’ipotizzato supporto del
testo di Villena. Un esempio può essere fornito dalla terzina seguente, in cui sono
descritti i dannati avari e prodighi che, incontrandosi, si insultano a vicenda:
Dante, If. VII, 28-30 Villena Febrer
Percoteansi ‘ncontro; e po- Firíense en encontrando e Urtaven-se uns ab altres,
scia pur lì después solamente aquellos cridant:
Si rivolgea ciascun, voltan- Se rebolvían cada uno bol- «Tu fuist avar» e «Tu fuist
do a retro, tando atrás guastador».
gridando: «Perché tieni?» e Gridando por qué tienes e E puys cascú se girava, tor-
«Perché burli?» por qué burlas nant
Febrer ha compreso perfettamente la situazione mostrata da Dante e grazie a
questo, riesce a ricostruire una terzina perfettamente coerente e aderente, ma in-
dipendente dal solito legame parola per parola che è, di fatto, cifra stilistica della
traduzione.
Di fronte alla mancata comprensione dell’originale, i due traduttori reagiscono
in modo diverso: Febrer cerca una soluzione, talvolta ricorrendo ai commenti, tra
cui sembra predominare quello di Benvenuto da Imola19, talvolta cercando supporto
nel lavoro di Villena, infine provando a trovare un senso a partire dal contesto; Don
Enrique, invece, meno preoccupato della coerenza globale del suo lavoro, che forse
intendeva rivedere in un secondo momento o che semplicemente gli interessava
meno, lascia i passi oscuri così come li trova, giustapponendo una parola dietro
l’altra nell’ordine i cui compaiono nel modello. Si veda a questo proposito la terzina
del canto VI, 67-69, in cui Dante parla della situazione drammatica della sua amata
Firenze e si riferisce all’odiato Papa Bonifacio VIII, in un passo assai complesso e
discusso anche dai commentatori della Divina Commedia:
18
Anna Benvenuti, «Hay serva Ytàlia, de dol castell»: traduzione e interpretazione dei canti poli-
tici della Divina Commedia nella versione di Andreu Febrer», in La Catalogna in Europa, l’Europa in
Catalogna. Transiti, passaggi, traduzioni, Associazione italiana di studi catalani, Atti del IX Congresso
internazionale (Venezia, 14-16 febbraio 2008), http://www.filmod.unina.it/aisc/attive/Benvenuti.pdf
(ultima consultazione: 22/06/2011).
19
Ibidem.
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Dante, If. VI, 67-69 Villena Febrer
Poi appresso convien che Después de aquesto con- Aprés un poch, cové que
questa caggia vién que aquésta caya aquesta cage
Infra tre soli, e che l’altra Dentro de tres <años> soles Entre tres sols, e que l’altre
sormonti e que la otra sobrepuje remont
Con la forza di tal che testé Con la fuerça de tal que Ab la força d’aquell que té
piaggia plagará cabeças esta plaga.
Mentre è probabile che Febrer sia ricorso a qualche commento per interpretare
le parole di Ciacco, benché poi si sia orientato verso una soluzione lontana dal testo
dantesco, Villena legge l’ultimo verso in modo errato, ma non si pone il problema:
“testé” diventa “teste”, ossia “cabeças”. Di fondo, sembra chiaro che l’obiettivo prin-
cipale del lavoro di Don Enrique sia di rendere leggibile la Commedia, non di inter-
pretarne i passi oscuri.
Un indizio di un possibile contatto tra i due traduttori giunge, infine, da un testo
esterno, ma strettamente legato alla versione di Villena, ossia una traduzione di un
sonetto di Petrarca, il CXLVIII del Canzoniere che si trova sullo stesso manoscritto
della Biblioteca Nacional di Madrid, MS. 10186, ff. 196r-199r in cui si trova la Divina
Commedia20 e che presumibilmente è opera dello stesso autore. La traduzione del
sonetto è corredata da un commento tipicamente medievale che manifesta soprat-
tutto l’interesse di Villena per la cosmografia e la geografia, argomento della poesia
stessa di Petrarca, che verte su un’enumerazione di fiumi assai “prosaica”. È possibile,
però, confrontare un’analoga enumerazione di fiumi presente proprio nella Comme-
dia, nel VI canto del Paradiso, vv. 58 sgg.:
Dante, Pd., VI, 58-60 Villena Febrer
E quel che fé da Varo infino Sabes aquello que fizo de E ço que féu de Varro fins al
a Reno, Varo fasta Reno, Ren,
Isara vide ed Era e vide Istra vió e Era e vido a Sena Yzera viu e Lera e viu Senna
Senna
E ogne valle onde Rodano E todos los valles onde el E tota vall d’on lo Rose s’em-
è pieno. Roinne es llieno. plèn.
Nel quarto verso del sonetto (Rodano, Hibero, Ren, Sena, Albia, Era, Hebro),
che rimane invariato nella traduzione, compaiono quattro fiumi presenti anche in
20
Si veda Derek C. Carr, «A fifteenth century castilian translation and commentary of a Petrar-
chian sonnet: Biblioteca Nacional, MS. 10186, folios 196r-199r», Revista Canadiense de Estudios His-
pánicos, 5 (1981), pp. 123-143, e Anna Bevenuti, «La traduzione e il commento del sonetto CXLVIII del
Canzoniere di Petrarca attribuiti a Enrique de Villena», La Parola del testo, X, 2 (2006), pp. 351-367.
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Dante. A proposito del fiume Era (Loira), nel commento leggiamo: «Era se entiende
por el río de Lera. E nasçe en los campos de Françia e passa por la çibdad de Lliera
[…]»21. La corretta identificazione del fiume Era con la Loira è quantomeno sorpren-
dente, dal momento che tale interpretazione è stata a lungo dibattuta dalla critica
dantesca e petrarchesca, e Villena nel commento non si dimostra particolarmente
acuto nella descrizione e individuazione geografica dei fiumi. Il singolare riconosci-
mento del fiume, può essere, però, spiegato attraverso la traduzione della Commedia
di Febrer, che traduce direttamente “Era” con “Lera”, forse suggerendo a Villena la
corretta interpretazione per il suo commento al sonetto. D’altra parte, la concomi-
tanza dei due lavori di Villena pare plausibile dal momento che si trovano entrambi
sullo stesso manoscritto.
In conclusione, Villena e Febrer intraprendono negli stessi anni un’impresa
davvero imponente, in linea, comunque, con quanto stava avvenendo negli am-
bienti culturali più moderni. La motivazione che li spinge è simile, riconducibile a
quell’esigenza di assimilazione e recupero delle opere più importanti del panorama
europeo, da quelle classiche a quelle volgari. Che il risultato finale sia, per tanti ver-
si, così differente, dipende senza dubbio dalla funzione diversa che i due traduttori
perseguono con la loro opera che, in ultima analisi, incide sul valore che essi stessi
attribuiscono alle loro produzioni e, forse, anche sui possibili contatti che intercor-
sero tra loro.
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—, «La traduzione e il commento del sonetto CXLVIII del Canzoniere di Petrarca attribuiti a
Enrique de Villena», La Parola del testo», X, 2 (2006), pp. 351-367.
21
Cito a partire dall’edizione delle opere di Villena: Enrique de Villena, Obras completas.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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"Description": "Nell’articolo si esamina la storia della traduzione in italiano del titolo del capolavoro di Pedro Calderón de la Barca, «La vida es sueño». Dopo tre secoli in cui, alla stregua di altre lingue (inglese, francese, tedesco), il titolo veniva reso con «La vita è un sogno», si è passati a una fase novecentesca in cui è prevalsa l’intitolazione «La vita è sogno», sempre più uniformemente adottata a partire dalla traduzione ad opera di Gherardo Marone (pubblicata nel 1920). L’autrice, che ha adottato per la sua recente traduzione (2009) il titolo «La vita è un sogno», riflette sulle modalità di resa in italiano di sintagmi analoghi (parti nominali di un predicato) e analizza le scelte traduttive che, nel corpo del testo, hanno adottato per lo stesso sintagma Orioli, Cancelliere e Puccini, autori di tre importanti traduzioni dell’opera calderoniana pubblicate rispettivamente nel 1967, 1985 e 1990.\r\n\r\nThis essay examines italian translation’s story of the title ‘La vida es sueño’, Calderón de la Barca’s masterpiece. After three centuries in which, as other languages (english, french, german) currently do, the title was translated as ‘La vita è un sogno’, in the XXth century predominates the title ‘La vita è sogno’, starting from Gherardo Marone’s translation (1920). Fausta Antonucci, who adopted for her recent translation (2009) the title 'La vita è un sogno', examines how similar noun phrases are expressed in italian, and analyzes how the same noun phrase (“la vida es sueño”) is translated, inside the text, by Orioli, Cancelliere and Puccini, authors of three important translations from the calderonian masterpiece, published in 1967, 1985 and 1990.",
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La vita è sogno o La vita è un sogno?
Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
F AUSTA A NTONUCCI
Università Roma Tre
[email protected]
Vorrei innanzitutto ringraziare, in apertura di queste pagine, i colleghi ed amici
responsabili di Tintas per avermi offerto la possibilità di esporre, offrendole alla di-
scussione della comunità scientifica, le ragioni che mi hanno mosso nello scegliere
il titolo italiano della mia traduzione de La vida es sueño, pubblicata nel 2009 nella
collana Dulcinea della casa editrice Marsilio.
Questo breve articolo vuole infatti essere una risposta il più possibile
argomentata alle obiezioni che da più parti mi sono state formulate, ora in modo più
aperto ora in modo più velato, a proposito della scelta di tradurre La vida es sueño
con La vita è un sogno, invece che La vita è sogno. Scelta, quest’ ultima, adottata in
modo unanime da tutti i traduttori che più recentemente si sono misurati con il
grande testo calderoniano, e in particolare dai tre che sono stati per me un punto di
riferimento per la qualità della loro proposta traduttiva e/o per la consapevolezza
critica che aveva presieduto al loro lavoro di traduzione: Luisa Orioli, Enrica
Cancelliere e Dario Puccini, citati nell’ordine cronologico di apparizione della loro
fatica (rispettivamente 1967, 1985 e 1990)1.
1
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno. Il dramma e l’«auto sacramental», a cura di Luisa
Orioli, Milano, Adelphi, 1967 (consultata nella 9a ed., 2005); Pedro Calderón de la Barca, La vita è
sogno, traduzione di Enrica Cancelliere, Palermo, Edizioni della fondazione Andrea Biondo – Teatro
stabile di Palermo, 1985 (consultata nell’ed. successiva, Palermo, Novecento, 2000); Pedro Calderón de
Fausta Antonucci
La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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Riservandomi di tornare più avanti sulla storia della traduzione italiana del
titolo de La vida es sueño, mi limiterò per ora a dire che la decisione di adottare,
per la mia traduzione, il titolo La vita è un sogno ha obbedito, in primo luogo, a
un’esigenza di coerenza. Infatti, tutte le volte che, nel testo, mi ero trovata a tradurre
i sintagmi «es sueño», «fue sueño», «como sueño», li avevo resi con «è un sogno», «è
stato un sogno», «come un sogno»; e poiché il titolo di un’opera di teatro nel Siglo
de Oro si trova sempre variamente menzionato nel testo, mi è sembrato opportuno
che il titolo italiano riflettesse fedelmente le scelte traduttive che avevo operato nel
testo su sintagmi analoghi.
Naturalmente, se si questiona la bontà della traduzione La vita è un sogno per La
vida es sueño (problema questo che non voglio affatto eludere, ma che affronterò più
avanti), si questionerà allo stesso modo la bontà delle traduzioni sopramenzionate
per i sintagmi «es sueño», «fue sueño», «como sueño»; e allora varrà la pena di
leggerli nel loro contesto, e di osservare come li hanno tradotti Luisa Orioli, Enrica
Cancelliere e Dario Puccini.
La prima occorrenza si ha al v. 2109, quando Segismundo, appena risvegliatosi
nella torre dopo la breve parentesi a palazzo, risponde a Clotaldo che gli chiede di
raccontargli quale sia stato il suo sogno:
Clotaldo Lo que soñaste me di
Segismundo Supuesto que sueño fue,
no diré lo que soñé, 2110
lo que vi, Clotaldo, sí.
Sia Orioli, sia Cancelliere, sia Puccini, traducono il v. 2109 come segue:
«Ammesso che un sogno fu mai» (Orioli, p. 139), «Anche se fosse stato un sogno»
(Cancelliere, p. 181), «Ammesso che fosse un sogno» (Puccini, p. 157).
La seconda, e ben più famosa, occorrenza si ha al v. 2186, alla fine del lungo
monologo di Segismundo che chiude il secondo atto:
¿Qué es la vida? Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño; 2185
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.
Se Cancelliere («perché tutta la vita è sogno», p. 185) e Puccini («ché tutta la vita
è sogno», p. 161) scelgono di non inserire l’articolo indeterminativo, non così Luisa
Orioli, che, in contraddizione con la titolazione scelta, traduce «la vita è un sogno»
(p. 143).
la Barca, La vita è sogno, traduzione di Dario Puccini, in Teatro del «Siglo de Oro», tomo III: Calderón,
Milano, Garzanti, 1990 (consultata nell’ed. singola, Milano, Garzanti, 2003).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
247
E vediamo l’occorrenza seguente, in tutto analoga a questa appena commentata,
anche nelle divergenze fra i traduttori. Si tratta di una parte della risposta che
Segismundo dà ai soldati che sono entrati nella torre per liberarlo, all’inizio del terzo
atto:
Y pues sé 2320
que toda esta vida es sueño,
idos, sombras, que fingís
hoy a mis sentidos muertos
cuerpo y voz, siendo verdad
que ni tenéis voz ni cuerpo; 2325
Orioli traduce il v. 2321 con «che la vita è solo un sogno» (p. 153); Cancelliere
e Puccini con «che tutta la vita è sogno» (rispettivamente p. 199 e p. 173). E ancora,
poco più avanti, sempre Segismundo:
Ya os conozco, ya os conozco,
y sé que os pasa lo mesmo
con cualquiera que se duerme. 2340
Para mí no hay fingimientos,
que, desengañado ya,
sé bien que la vida es sueño.
Adesso Orioli traduce il v. 2343 con «so già che la vita è sogno» (p. 155); «so
bene che la vita è sogno» (p. 199), Cancelliere; «ben so che la vita è sogno» (p. 175),
Puccini. Ma quando, poco dopo, a «la vida» come soggetto si sostituisce «aquesto
mesmo», ecco che di nuovo sia Orioli sia Puccini ritornano a inserire l’ articolo
indeterminativo:
Segismundo Ya
otra vez vi aquesto mesmo
tan clara y distintamente 2350
como agora lo estoy viendo,
y fue sueño.
Orioli: «e fu un sogno» (p. 155); Puccini: «Ma era un sogno» (p. 175); Cancelliere,
più coerente, traduce «e fu sogno» (p. 201). Stessa situazione sintattica e stesse scelte
al v. 2964: è sempre Segismundo che parla, quando sta per cedere al desiderio nei
confronti di Rosaura.
Esto es sueño, y pues lo es,
soñemos dichas agora, 2965
que después serán pesares.
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Orioli: «Se è vero che questo è un sogno» (p. 193); Puccini: «se questo è davvero
un sogno» (p. 215); mentre Cancelliere: «questo è sogno; e poiché lo è» (p. 245).
E arriviamo infine alla chiusura del dramma, ancora nelle parole di Segismundo:
[…] Y cuando no sea, 3310
el soñarlo sólo basta;
pues así llegué a saber
que toda la dicha humana,
en fin, pasa como sueño.
In questo caso, sostituendosi all’identificazione («es sueño» o «fue sueño») il
paragone («como sueño») tutti e tre i traduttori introducono senza problemi l’articolo
indeterminativo: Orioli traduce il v. 3314 con «passa infine come un sogno» (p. 215);
Cancelliere: «passa alla fine come un sogno» (p. 271); Puccini: «scorre e passa come
un sogno» (p. 239).
Come si può vedere dalla carrellata di esempi che precede, nessuno dei tre
traduttori adotta sempre la stessa scelta per la resa in italiano dei sintagmi «es
sueño» / «fue sueño», neanche Enrica Cancelliere, che pure è fra i tre la più fedele
alla eliminazione dell’ articolo indeterminativo nel predicato nominale. Queste
oscillazioni dipendono, in gran parte, dal contesto di apparizione del sintagma:
laddove esso rimanda palesemente al titolo (vv. 2186, 2321, 2343) prevale la scelta
di eliminare l’articolo indeterminativo, laddove il soggetto del predicato nominale,
invece di «vida», è un neutro («lo que vi», «esto», «aquesto mesmo»), prevale la
scelta di inserire l’ articolo.
L’oscillazione fra le due scelte traduttive del titolo in italiano ha d’altra parte la
sua radice nel testo originale: se in alcuni casi, quelli che ho citato fin qui, appare
legittimo tradurre il sintagma «es sueño» con «è un sogno», in altri casi questa
opzione non appare possibile. Mi riferisco a quelle occorrenze nelle quali «sueño» si
contrappone a «verdad», entrambi i termini della disgiuntiva senza articolo, tanto in
spagnolo come, correttamente, in italiano. Vediamole:
A rabia me provocas 1680
cuando la luz del desengaño tocas.
Veré, dándote muerte,
si es sueño o si es verdad.
Mas, sea verdad o sueño,
obrar bien es lo que importa:
si fuere verdad, por serlo, 2425
si no, por ganar amigos
para cuando despertemos.
Luego fue verdad, no sueño;
y si fue verdad, que es otra 2935
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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confusión y no menor,
¿cómo mi vida le nombra
sueño?
Tradurre La vita è sogno trasporta dunque fin nel titolo la contrapposizione
essenziale che si manifesta in questi versi; è una scelta interpretativa giustificatissima,
che tuttavia, mi pare, esercita una certa forzatura rispetto all’ uso corrente italiano;
forzatura che emerge nelle menzionate oscillazioni nel tradurre, internamente al
testo, il sintagma «es sueño» / «fue sueño». A riprova, si veda come l’introduzione
dell’articolo indeterminativo nella traduzione del nome del predicato scivoli «a
tradimento» perfino nella traduzione del v. 1683 da parte di Enrica Cancelliere, che
pure fra i tre traduttori che, come ho più volte detto, sono stati per me un punto di
riferimento, è la più constante nell’evitare l’uso dell’articolo: «Ma ora, uccidendoti,
vedrò / se è realtà oppure solo un sogno» (p. 141).
In queste pagine, come ho già detto, non mi propongo affatto di difendere la
scelta traduttiva del titolo La vita è un sogno per La vida es sueño come la migliore
possibile, ma solo di mostrarne le ragioni. Come ha affermato Umberto Eco, tradurre,
cioè «dire quasi la stessa cosa» in un’altra lingua, «è un procedimento che si pone […]
all’insegna della negoziazione»2; non sempre il traduttore ha a disposizione un’unica
traduzione accettabile, molto più spesso ha davanti a sé diverse opzioni e deve
necessariamente sceglierne una, dopo averne soppesato svantaggi e benefici. Nel
mio caso, la scelta di tradurre il titolo come La vita è un sogno ha obbedito a diverse
considerazioni. La prima è stata, come ho già detto, l’ esigenza di mantenere una
coerenza traduttiva fra tutti i sintagmi analoghi presenti nel testo. Il fatto che molti
di questi sintagmi siano stati tradotti (soprattutto da Orioli, ma anche da Puccini e,
anche se in minor misura, da Cancelliere) con l’articolo indeterminativo prima del
nome del predicato, ha rafforzato una mia convinzione linguistica (sarebbe meglio
chiamarla «percezione», poiché non è esplicitata in nessuna grammatica italiana
da me consultata): che cioè in italiano, se la parte nominale del predicato è un
sostantivo, si tenda a farla precedere da un articolo, determinativo o indeterminativo
a seconda dei casi. Naturalmente è possibile anche la scelta contraria, però mi pare
che la tendenza maggioritaria sia all’uso dell’articolo prima del nome del predicato.
Porterò a supporto un esempio che mi pare in tutto analogo, sia nella struttura
sintattica sia nel significato apotegmatico, al sintagma che ci interessa: la frase biblica
«Militia est vita hominis super terram» (Giobbe, 7:1, versione della Vulgata). La
cosiddetta Bibbia Riveduta di Luzzi (revisione della gloriosa traduzione del Diodati,
Ginevra, 1607) traduce la frase con «La vita dell’uomo sulla terra è una milizia»3. Il
2
Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, p. 10.
3
La Sacra Bibbia. Versione riveduta, a cura di Giovanni Luzzi. Testo consultabile alla pagina web
http://www.intratext.com/IXT/ITA0169/ (data consultazione: 22/05/2011). Le traduzioni più recenti,
condotte sui testi originali oppure sulla cosiddetta Nuova Vulgata, hanno versioni diverse, e invano
vi cercheremmo un corrispondente traduttivo funzionale al caso esemplificato.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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Vocabolario Treccani4, alla voce milizia, all’accezione 3a, sotto l’indicazione «fig.»
(‘accezione figurata’) scrive: «la vita è una m[ilizia]. (cfr. Giobbe 7:1: militia est vita
hominis super terram), frase, questa, adoperata anche estens., a significare che la vita
è in genere una lotta o che essa va spesa al servizio di un nobile ideale». Se si cerca in
Internet la frase latina, si troveranno una quantità di siti (articoli religiosi, citazioni
latine, ecc.) nei quali la traduzione è correntemente «La vita dell’ uomo sulla terra
è una milizia»5, «La vita per l’ uomo sulla terra è un combattimento»6. Ma è giusto
dire anche che una delle traduzioni storiche della Vulgata in italiano, la Bibbia di
Antonio Martini (1769), traduce la stessa frase con «Milizia ell’ è la vita dell’ uomo
sopra la terra»7, dunque senza articolo.
Ma torniamo al titolo del dramma calderoniano e alla storia della sua traduzione
in italiano. L’affermarsi dell’opzione La vita è sogno è un fenomeno esclusivamente
novecentesco, sulle cui dinamiche vale la pena di soffermarsi, non senza prima
aver fatto una breve carrellata sulla storia traduttiva precedente, che è invece quasi
unanimemente orientata a tradurre il titolo con La vita è un sogno, sulla stessa
linea peraltro dell’ inglese, del francese e del tedesco, lingue nelle quali il titolo
del dramma calderoniano si è sempre tradotto (e tutt’ oggi viene tradotto senza
eccezioni) rispettivamente con Life is a dream, La vie est un songe, Das Leben ist ein
Traum. Nel XVII secolo, delle sette traduzioni-adattamenti in italiano censite da
Carmen Marchante, tra cui la più volte ristampata e riadattata La vita è un sogno
attribuita a Giacinto Andrea Cicognini, solo una si intitola La vita è sogno8. Nel
XIX secolo, le due traduzioni di Pietro Monti (1855) e Giovanni La Cecilia (1857)
si intitolavano entrambe La vita è un sogno9. La vita è un sogno intitolava Arturo
Farinelli nel 1916 il suo erudito saggio sulle fonti del dramma10; così intitolavano le
4
http://www.treccani.it/vocabolario/milizia/ (data consultazione: 14/05/2011).
5
http://retescuole14-15.it/prodotti/02_03/classeL/motti.htm (data consultazione: 22/05/2011);
http://www.efira.it/locuzioni_latine/index_m.htm (data consultazione: 22/05/2011).
6
http://www.salpan.org/ARTICOLI/Militia_hominis.htm (data consultazione: 22/05/2011).
7
Vecchio Testamento secondo la Volgata tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato da
mons. Antonio Martini, vol. X. Consultata nell’edizione di Venezia, 1831, digitalizzata sotto la direzio-
ne di Vittorio Volpi e disponibile nel sito http://www.utopia.it/allegati/bibbia_martini_online_testo.
htm (ultima consultazione: 22/05/2011).
8
Si tratta di una commedia del “repertorio di Eulalia”, attrice di una compagnia al servizio del
duca di Modena, repertorio copiato in calce a una lettera del 1681 conservata nell’Archivio di Stato
di Modena e menzionata da Carmen Marchante, «Calderón en Italia: traducciones, adaptaciones,
falsas atribuciones y scenari», in Maria Grazia Profeti (a cura di), Tradurre, riscrivere, mettere in sce-
na, Firenze, Alinea, 1996, p. 57; poi rivisto in Calderón en Italia. La Biblioteca Marucelliana Firenze,
Firenze, Alinea, 2002, p. 86.
9
Pietro Calderón de la Barca, Teatro scelto, con opere teatrali di altri illustri poeti castigliani, vol-
garizzamento con prefazioni e note di Pietro Monti, Milano, Società Tipografica dei classici italiani,
1855, II; Teatro scelto spagnuolo antico e moderno […] versione italiana di Giovanni La Cecilia, Torino,
Società Unione Tipografico-Editrice, 1857, III (La vita è un sogno vi viene attribuita a Lope de Vega).
10
Arturo Farinelli, La vita è un sogno, Torino, Bocca, 1916, 2 voll.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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loro traduzioni Angelo Monteverdi nel 192011, Camillo Berra nel 193112 e Corrado
Pavolini nel 194313.
Proprio il 1920, anno nel quale si pubblica la traduzione di Monteverdi, è da
considerarsi il terminus a quo per l’ affermazione, sempre più consistente, del titolo
alternativo che traduce letteralmente lo spagnolo. Il 1920 è infatti l’ anno nel quale
Gherardo Marone pubblica a Napoli la prima edizione della sua traduzione, poi più
volte ristampata da Bompiani, con il titolo La vita è sogno14. Lo seguono in questa scelta
Gerolamo Bottoni (1927)15, Gian Francesco Malipiero (1944)16, Antonio Gasparetti
(1957)17, Francesco Saba Sardi (1970)18, oltre ai tre traduttori che ho menzionato fin
dall’inizio, Orioli, Cancelliere e Puccini. Può aver pesato sull’adozione di questa scelta,
via via più unanime con lo scorrere degli anni, la statura culturale del suo iniziatore,
l’ italo-argentino Gherardo Marone, intellettuale di rilievo negli anni a cavallo fra
prima e seconda guerra mondiale, amico personale di Ungaretti, antifascista attivo
e coerente, italianista e ispanista molto prolifico? E’ impossibile rispondere con
certezza, ma a me pare probabile che la scelta di Marone abbia influito con forza sul
circolo di intellettuali che in un modo o in un altro entrarono in contatto con lui;
un circolo assai ampio che può essere stato determinante nell’imporre questo titolo
al mondo della cultura italiana del secondo dopoguerra19. Sarà il caso di ricordare
a questo proposito che Salvatore Quasimodo scelse proprio questo titolo per una
raccolta di sue poesie composte tra il 1946 e il 1948, caratterizzate da una vena di
consapevolezza civile e di impegno etico: La vita non è sogno (1949). Il titolo La vita
è un sogno viene così progressivamente abbandonato, fino al punto di perdere le sue
risonanze “alte”, connesse con la citazione intertestuale del dramma calderoniano;
a riprova, nel 1993 venne utilizzato per tradurre il titolo di un film americano di
seconda categoria, la commedia Dazed and confused di Richard Linklater.
11
Drammi di Pedro Calderón de la Barca, tradotti da A. Monteverdi, La Vita è un Sogno, Il Mago
Prodigioso, Firenze, Luigi Battistelli, 1920, vol. I.
12
Pedro Calderón de la Barca, La vita è un sogno, Il principe costante, a cura di Camillo Berra,
Torino, Tipografia Sociale-UTET, 1931 (più volte ristampata negli anni successivi).
13
Pedro Calderón de la Barca, La vita è un sogno. Dramma in tre atti e sette quadri, versione [dallo
spagnolo] di Cesare Vico Ludovici, Giulio Pacuvio e Corrado Pavolini, Torino, Set-Soc. Ed. Torinese
(edizioni de Il dramma), 1943.
14
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno, con un commento di Gherardo Marone, Napoli,
l’Editrice italiana, 1920.
15
Pietro Calderón de la Barca, La vita è sogno, prefazione e traduzione di Gerolamo Bottoni,
Milano, C. Signorelli, 1927.
16
La vita è sogno (da Calderón de la Barca): tre atti e quattro quadri, libera traduzione [dallo
spagnolo] di G. Francesco Malipiero. Milano, Tip. A. Cordani, 1944.
17
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno, traduzione [dallo spagnolo e nota di] Antonio
Gasparetti, Milano, Rizzoli, 1957.
18
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno - L’alcade di Zalamea - Il gran teatro del mondo,
introduzione e traduzione a cura di F. Saba Sardi, Milano, Fabbri, 1970.
19
Sulla figura e l’opera di Marone si veda almeno Nancy L. D’Antuono, Avventura intellettuale e
tradizione culturale in Gherardo Marone, Salerno, Laveglia, 1984.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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Ma che la scelta traduttiva La vita è sogno sia una scelta in gran parte
intellettualistica, non del tutto introiettata a livello linguistico spontaneo, lo
dimostrano a mio modo di vedere i casi di oscillazione traduttiva, nel corpo del
testo, dei sintagmi «es sueño», «fue sueño»; oltre a quelli già menzionati più sopra,
relativi alle traduzioni di Orioli, Cancelliere e Puccini, sarebbe davvero interessante
controllare quanti ne esistano nelle traduzioni di Marone, Bottoni, Malipiero,
Gasparetti e Saba Sardi. In attesa di questa verifica, vorrei aggiungere alla casistica
sopra riportata altri due esempi, che mi sembrano specialmente interessanti. Il
primo è tratto dalla voce La vita è sogno redatta da Mario Casella per il Dizionario
letterario Bompiani delle opere e dei personaggi; nonostante il titolo scelto per l’opera
di cui dà conto, Casella nel testo scrive, a proposito del risveglio di Segismundo
nella torre alla fine del secondo atto:
E allora il problema della vita, in rapporto alla vana fantasmagoria del
mondo sensibile, gli si illumina di una luce nuova. Tutta la vita è un
sogno, che bisogna vivere con la coscienza che essa è un sogno dal quale
dovremo un giorno svegliarci, portando con noi soltanto la somma del
bene compiuto20.
Il secondo caso è a noi più vicino, ed è tratto dal manifesto per la rappresentazione
del dramma calderoniano messa in scena dal Piccolo di Milano (Teatro Strehler)
per la regia di Luca Ronconi nella stagione teatrale 1999-2000: il titolo scelto è La
vita è sogno, ma sul manifesto, in sovrimpressione al titolo, compaiono in caratteri
grandi i versi di chiusura del secondo atto, riadattati dalla traduzione di Luisa
Orioli: «Tutta la vita è un sogno e i sogni son sogni»21.
R i f e r i m e n t i b i b l io g r a f ic i
[le traduzioni de La vida es sueño sono elencate seguendo l’ ordine alfabetico del nome del traduttore]
http://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?tipo=4&ID=117&imm=1&contatore=0&
real=0 (data consultazione: 15/05/2011).
http://retescuole14-15.it/prodotti/02_03/classeL/motti.htm (data consultazione: 22/05/2011).
http://www.salpan.org/ARTICOLI/Militia_hominis.htm (data consultazione: 22/05/2011).
http://www.efira.it/locuzioni_latine/index_m.htm (data consultazione: 22/05/2011).
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è un sogno, Il principe costante, a cura di Camillo Berra,
Torino, Tipografia Sociale-UTET, 1931.
20
Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Milano,
Bompiani, 1951, VII, p. 834.
21
http://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?tipo=4&ID=117&imm=1&contatore=0
&real=0 (data consultazione: 15/05/2011).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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Fausta Antonucci
La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
253
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Milano, C. Signorelli, 1927.
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Calderón de la Barca, Pietro, Teatro scelto, con opere teatrali di altri illustri poeti castigliani,
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introduzione e traduzione a cura di F. Saba Sardi, Milano, Fabbri, 1970.
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Laveglia, 1984.
Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Milano,
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Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/ (data consultazione: 14/05/2011).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253.
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La dura belleza
En torno a la obra de Mercè Rodoreda
C LARA J ANÉS
Gabriel García Márquez en un artículo publicado en El País con motivo de su
muerte, dijo de Mercè Rodoreda: «una mujer invisible que escribe en un catalán
espléndido unas novelas hermosas, duras, como no se encuentran muchas en las
letras actuales»1.
El empleo de esos dos adjetivos, duras y hermosas, es tan acertado que puede
aplicarse a toda la producción de nuestra escritora y probablemente también a su
persona y su vida. Nacida en 1908, durante su infancia vive en el barrio de San Ger-
vasio de Barcelona, y su mentor es su abuelo, que le lee a Verdaguer y a los poetas
catalanes más importantes y la lleva a pasear y a ver los jardines de los vecinos. De
estas dos experiencias nacen los dos grandes intereses de Rodoreda: la literatura y
las flores. Pero cuando ella cuenta doce años muere su abuelo, se descubre la preca-
ria situación económica de la familia y regresa el tío rico de América, para ayudar.
Al año —Rodoreda tiene entonces trece—, el tío expresa su deseo de casarse con
ella. Tendrán que esperar a que cumpla los veinte para contraer matrimonio. Cinco
años después de ese matrimonio forzado, Mercè empieza a escribir. Estamos ya en
1933. Escribe cuatro novelas donde satiriza costumbres y estereotipos literarios, y,
además, colabora en revistas. En 1937, con una nueva novela, Aloma, gana el Pre-
mio Creixells. Acontece la guerra y parte a París. Cuando París es ocupado por los
nazis, deja la capital francesa. Para entonces su matrimonio se ha deshecho y se
1
Las citas con página remiten al «Cartapacio: Mercé Rodoreda», publicado en la revista Turia
(Teruel), 87 (junio-octubre, 2008).
Clara Janés
La dura belleza. En torno a la obra de Mercè Rodoreda
256
ha consolidado su relación con el escritor y crítico Armand Obiols (seudónimo de
Joan Prat). Es un periodo difícil. La joven de San Gervasio se gana la vida como
costurera, ha intentado la pintura y escrito algún cuento. En 1954 parte con Obiols
a Ginebra —donde él es traductor de Naciones Unidas—, y allí se entrega del todo
a la literatura. De hecho ya en París, proyectando su futuro regreso, había escrito a
su amiga Anna Murià: «Pienso escribir cuentos que harán temblar a Dios». Así en
1958 aparecen Veintidós cuentos, libro al que, años después, seguirán Mi cristina y
otros cuentos (1967), Parecía de seda y otras narraciones (1978) y Viajes y flores (1980).
En 1962 publica La plaza del Diamante, que los críticos consideran la mayor novela
catalana escrita en el período 1939-1963; en 1966, La calle de las camelias, en 1967
Jardín junto al mar. Tras la muerte de Joan Prat (1971), se traslada a Romanya de la
Selva. Escribe Espejo roto (1974). Una nueva novela, Cuanta, cuanta guerra, aparece
en 1980. Muere en 1983 dejando inacabada La muerte y la primavera. En el año 2002
se reúne toda su poesía con el título Agonía de la luz.
Esta mujer invisible, pues, se va haciendo intensamente visible a través de su
escritura. Y, con todo, sigue absolutamente oculta, porque Rodoreda, como todo
escritor, en cuanto escribe, se parapeta en esa belleza y esa dureza, seguramente las
que le ha impuesto la vida, para proteger su intimidad. Rodoreda se empeña en la
escritura generando una construcción de tal potencia que acaba por convertirse en
dicha escritura. En cierto modo lo desvela en el prólogo de Espejo roto, cuando dice:
«Escribo porque me gusta escribir. Si no pareciese exagerado diría que escribo para
gustarme a mí. Si de rebote lo que escribo gusta a los demás, mejor, Quizá es más
profundo. Quizá escribo para afirmarme. Para sentir que soy…»
Dejemos sus primeros intentos literarios, que ella no considera, y tracemos un
arco desde La plaza del Diamante a su novela póstuma. De plasmar el ambiente po-
pular de barrio de Gracia, a través, tanto de La plaza del Diamante como de La calle
de las camelias, con tan espléndido realismo que las páginas se llenan de ecos vivos
para el que lo ha conocido, pasa Mercè Rodoreda a proponernos los espacios y per-
sonajes fruto de su fantasía en libros como Viajes y flores, Cuanta, cuanta guerra y La
muerte y la primavera. Nos ofrece así un mundo de sutilezas, de intenso colorido, de
singulares movimientos, de inesperadas mutaciones y de tal belleza estilística que si
las demás obras la colocaban a la cabeza de los narradores catalanes de posguerra,
ésta la singulariza absolutamente dentro del panorama literario de toda la península.
¿Cuál es el intento real de Rodoreda en La plaza del Diamante o Espejo roto, y
cuál el de estos otros libros oscuros y misteriosos? ¿Se trata, como han afirmado, del
fruto de dos personalidades, o de dos voluntades? Yo creo que la escritura de Rodo-
reda es una escritura que nace de la pasión, pero sobre todo de la voluntad. Ella sabe
perfectamente por dónde se mueve. Por este motivo niega sus primeras novelas y
después de Espejo roto puede decir (en entrevista hecha por Soler Serrano): «tengo
tres novelas y media». Y sobre esa media afirma:
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Clara Janés
La dura belleza. En torno a la obra de Mercè Rodoreda
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[…] va corriendo por la casa porque hay unos capítulos que quiero arre-
glar y no encuentro nunca el momento. […] Cuando yo escribí La plaza
tenía la sensación de que escribía una buena novela. En ésta ya no me
pasó tanto. Y si tenía muchas dudas con Espejo roto, en esta novela aún
es peor. No sé verla, ya digo, me parece que es genial o me parece que
es un desastre.
Autocrítica rigurosa, pues, la de Rodoreda, que, a la vez no oculta sus maestros
ni sus intenciones. En la misma entrevista confiesa haber leído «[…] mucha literatu-
ra francesa y los escritores franceses tienen un estilo muy diáfano, con una claridad
extraordinaria. Me fue muy útil. Escribí un cuento que se llamaba Una tarde de cine.
Es de una chica tonta que explica que va con su novio al cine. Son un par de páginas.
La plaza del Diamante, cuando empecé a escribirla, cogí el estilo del cuento ese,
Una tarde de cine, y entonces me sentí segura. Bueno, también había leído Viaje a la
Alcarria de Cela y, especialmente, Memorias de un cazador, de Delibes. Y esto me
lanzó a escribir La plaza».
En otras ocasiones habla de Dostoievski, Tolstoy, K.Mansfield, Kafka, Chejov,
Carver, Proust, Celine o Poe. Pero hay algo más importante: cuando Soler Serrano
le pregunta por los años de la guerra y afirma que ésta «le proporcionó nuevos enfo-
ques y un conocimiento mucho más directo de la realidad humana», ella dice:
Mire, yo he ido muy poco a la escuela […] pero he ido a una escuela
muy buena, que es la escuela de la vida […] y se aprende mucho. Como
el Buscón, como el Lazarillo de Tormes, yo digo: «Señor, yo soy de San
Gervasio y he recorrido medio mundo.
Es de San Gervasio, y también ha vivido en Gracia, y por ello conoce esos detal-
les que considera tan importantes: «si usted explica el interior de una casa, es más
fácil que retrate el dueño de la casa que si usted habla del dueño de la casa», dice.
Esto es lo que más le interesa durante esta etapa, y por ello cuando le preguntan si
cree con Joaquim Molas que la suya es una versión personal de la novela de análisis
psicológico, responde: «no sé…». Es decir, sabe que no es exactamente eso, que su
propósito confesado es otro. Carme Arnau nos recuerda, por lo que se refiere a La
plaza del Diamante, que dijo querer: «escribir una obra kafkiana en la cual las pa-
lomas, de tantas, se convirtiesen en una pesadilla». Y además, en ella, las palomas
reflejarían también «las transformaciones, las metamorfosis, que experimenta su
protagonista». Resalta también la estudiosa el gusto de Rodoreda por el cine y con-
cretamente menciona a Hitchcock, autor de Rebeca, Psicosis, Vértigo, Los pájaros…
La belleza y la dureza —las dos caras de la invulnerabilidad de la inteligencia de
Rodoreda— se manifiestan también en sus propias afirmaciones. Dice, por ejemplo,
en el prólogo a Espejo roto: «Una novela se hace con una gran cantidad de intuicio-
nes, con una cierta cantidad de imponderables, con agonías y resurrecciones del
alma, con exaltaciones, con desengaños, con reservas de memoria involuntaria […]
toda una alquimia […] una novela son palabras».
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 255-260. issn: 2240-5437.
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Enric Bou matiza que Rodoreda, a través de su trabajo con el idioma: «[…] con-
sigue crear una lengua literaria de apariencia realista y de un gran efecto simbólico.
[…] Sus grandes novelas pueden ser leídas en clave histórica y política, después de
obligar al lector a un ejercicio de desmontaje». Se trata de «una aproximación a los
misterios de la realidad en apariencia cotidiana despejando las incógnitas de una
vida misteriosa».
Respecto a este doble aspecto, lo cotidiano y lo misterioso, el primero domina
en La plaza del Diamante y Espejo roto —novela tan compleja y con tantos persona-
jes que tuvo que ser escrita con fichas—, mientras que el segundo va cobrando fuer-
za a medida que pasan los años. Esta sucesión tiene una lógica no sólo histórica sino
escritural. A Espejo roto que es una novela panorámica de la Barcelona de principios
del siglo XX, del mundo de la burguesía catalana, con la cual acabará la guerra, si-
guen, como hemos visto, Cuanta, cuanta guerra y La muerte y la primavera.
Rodoreda, en la entrevista mencionada, califica la salida de París de apocalípti-
ca. Soler Serrano comenta: «Además, entre la muerte y las bombas». Y ella replica:
«Pero le diré una cosa, era exaltante, yo era joven y todo aquello fue una aventura
tan enorme que no me ha sabido mal. Estuvimos tres días sin comer por ejemplo. El
día que empezamos a comer algo parecía que comíamos madera…».
Lo apocalíptico, sin duda, le lleva a escribir Cuanta, cuanta guerra, pero ese
sabor a madera, esa sensación extraña, puede muy bien ser el desencadenante de
su libro más terrible: La muerte y la primavera, acaso aquel al que Carme Arnau se
refiere cuando dice: «Después de publicar Cuanta, cuanta guerra, su última novela,
una de sus obras más oscuras, manifestó el deseo un poco malévolo de escribir un
libro que no gustase a nadie».
Estas dos últimas novelas, como decía, junto al libro de cuentos Viajes y flores,
son a mi juicio las obras cumbres e inigualables de Rodoreda. Enric Bou resume así
la primera:
Narra la aventura del joven Adrià Guinart que pasa tres años recorrien-
do un paisaje de gran belleza huyendo de los desastres de la guerra. El
atavismo, un mundo onírico y nocturno presiden la mínima acción,
en la que se yuxtaponen imágenes de una belleza misteriosa: «un rayo
de luna como una espada me cayó encima, el río lo repitió». La guerra
es metáfora de la existencia, presidida por el absurdo que implican la
muerte, la destrucción».
Pero no hay que olvidar que justamente la obra empieza de un modo análogo al
Lazarillo de Tormes: «Nací a medianoche, en otoño, con una mancha en la frente…»
Ese tono sitúa de inmediato el texto, digamos, en una “onda literaria”, que no tarda
en ampliarse, hasta que la vemos irse transformando, abarcando también la tradi-
ción popular, la literatura fantástica o los cuentos contados junto al hogar durante
las frías noches de invierno, cuentos crueles y de miedo, pero llenos de poesía y, de
pronto, situados en un panorama cinematográfico de paisaje después de la batalla o
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La dura belleza. En torno a la obra de Mercè Rodoreda
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en un bosque encantado con animales y personas hermosísimas o perversas y malé-
ficas. El lector sigue de sorpresa en sorpresa sin respirar hasta el final.
En cuanto a La muerte y la primavera, de atmósfera semejante a alguno de los
cuentos de Viajes y flores, se trata de una obra llevada a cabo después de La plaza
del Diamante, y, como ésta, presentada sin éxito al premio Sant Jordi, ahora en 1961.
Veinte años después, Rodoreda sigue trabajando en ella, «luchando —dice— como
si me fuera la vida». Pocas semanas antes de morir afirmaba: «Antes que nada aca-
baré La muerte, falta poquísimo». Armand Obiols (Prólogo a la obra), con todo, ya
en el ‘61 le escribía:
No creo que en toda la prosa catalana exista un personaje tan vivo como
Colometa ni un pueblo tan alucinante y real como el de La muerte… La
impresión que La muerte deja de ambiente es más fuerte que Colome-
ta, no sé por qué. No me puedo quitar de la cabeza el pueblo, la mon-
taña partida, el ruido del río, el herrero… como si se tratara de aquellos
sueños inexplicables de los que te acuerdas mucho tiempo después.
Obiols tenía razón. La misma fuerza tienen los cuentos de Viajes y flores.
El mero título de la obra, Viajes y flores, destaca, de entrada, dos polos contra-
puestos: el movimiento del trayecto por un lado y, por otro, la quietud de la planta.
En los viajes la atmósfera y el ambiente humano son algo más generalizado; a través
de las flores, en cambio, se diría que se nos ofrecen retratos de un carácter. Así se nos
transmite una amenaza de violencia en el pueblo de la guerra, las mujeres son vícti-
mas en el pueblo de las mujeres abandonadas y en el de los ahorcados, hallamos alto
surrealismo en el pueblo de la brujería y en el igualmente inquietante y enigmático
pueblo de las niñas perdidas donde el misterio de los bosques les induce el deseo de
no moverse de allí. Por el contrario, entre las flores, hay una, la flor caballero, que
es inquieta, «está en guerra con el viento», mientras en el pueblo de las dos rosas se
establecen dos orientaciones: la buena y la mala noticia.
En esa aldea, del lado del poniente todo está horadado de madrigueras, del de
levante, lleno de vegetación; en poniente no llueve; en levante no deja de llover. Los
habitantes no tienen interés por el futuro: en la pared de su comedor, cuando va a
darse una buena noticia, crece una rosa azul y se queda un día; si la noticia es mala
aparece una rosa negra. Este es un cuento donde se borran los límites entre poesía
y prosa. Todo en él es poético y está polarizado por esa flor azul que representa
siempre lo imposible. La rosa negra, en cambio, nos introduce con intensidad en
las inmediaciones de ultratumba. Nos hallamos ante el cruce de dos mundos, del
tiempo al no tiempo. Así llegamos al pueblo de vidrio a través de la transparencia. En
él los hombres no necesitan libros, «saben encontrar en el espacio, grabado para la
eternidad, todo lo que ha pasado en el mundo». Es la transparencia de la sabiduría,
que no necesita materia para producir el conocimiento.
Muy cerca de la sabiduría se halla la felicidad, que, en cambio, surge simboliza-
da a través de un color sutil y plural, el del arco iris en el pueblo de la felicidad. Pero
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la felicidad no es para el hombre, la alegría (flor de fuego) lo incendia todo y muere
en el fuego sin comprender; y, a veces, la existencia depende exclusivamente de la
existencia ajena (la flor sombra: «sólo vive cuando viven los que dan luz»). Y ya es-
tamos en los rasgos humanos: la flor saltamontes «se te echa encima»; la atrevida flor
delirio pone el pie en el suelo; la flor disfraz es seductora y engañadora, «cuando eres
completamente suyo, de una sacudida se desarraiga y desaparece»; la flor caminante
es «caprichosa, vagabunda»; la flor saeta va y viene, y no se sabe de dónde sale. Sí,
claramente todo es posible en ese mundo, las flores se mueven. Todo está vivo. Hay
que estar inmensamente alerta, no sucumbir a las llamadas; hay que estar atento a
la verdad de uno mismo. El viaje —sea cual sea el panorama— tiene que ser una
peregrinación al propio centro, al centro de la flor.
Sin duda por una peregrinación al centro, que en eso consistía el intercambio
amistoso más importante de mi vida, leí yo por primera vez a Rodoreda. La leí im-
pulsada por Rosa Chacel, que la admiraba profundamente. Con Rosa nos leíamos
todo lo que escribíamos prácticamente cada día por teléfono, y luego hacíamos reca-
pitulación juntas en su casa, y también leíamos libros a la vez. Rodoreda admiró La
sinrazón y Rosa, por su parte, le escribió sobre La plaza del Diamante:
Empezaré por decirle que el encanto que tiene para mí su libro es —por
paradójico que parezca— el de una cosa dificilísima. Me sume en una
especie de contemplación interrogante: ¿Cómo se puede hacer una cosa
tan sencilla?... Claro que hay que añadir y tan perfecta. […] Digo una
cosa tan sencilla porque se hace difícil ver en qué consiste su eficiencia
poética, la fuerza de su veracidad.
Poesía y veracidad, belleza y dureza… Todo concretado, encarnado en palabras,
convertido en realidad inapelable, siempre envuelta por un enigma. Después de leer
a Rodoreda, sobre todo estas últimas obras, siento como muy certeras las palabras
de Breton: «tan sólo la imaginación me permite llegar a saber qué puede ser».
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] | Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 261-269. issn: 2240-5437.
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Los olvidados e La aventura del Muni
Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
G IULIANA C ALABRESE
Università degli Studi di Milano
[email protected]
La Guinea Equatoriale ha così tanti volti da non poter essere osservata da un
solo punto di vista. Il violento regime dittatoriale in cui il paese vive da oltre qua-
rant’anni non può che essere studiato a partire dalle differenze etniche e ripercor-
rendo a ritroso la storia di quei territori almeno fino al periodo delle prime colo-
nizzazioni spagnole. Il tutto si muove sullo sfondo di una natura aggressiva e ben
poco accogliente, in cui nessuno degli altri attori presenti sulla scena ha un ruolo
secondario: le organizzazioni internazionali, i petrolieri senza scrupoli e le potenze
europee più o meno conniventi. È intuibile, perciò, che un solo viaggio in Guinea
Equatoriale non sia sufficiente a comprenderla tutta: per quante esperienze sia di-
sposto a vivere il viaggiatore, la realtà equatoguineana è così complessa che diventa
necessario assumerla (e poi narrarla) in piccole dosi.
Questo tratto emerge con chiarezza dai due libri di viaggio di cui si intende par-
lare qui, Los olvidados. Revelaciones de un viaje a la dramática realidad de Guinea
Ecuatorial (Madrid, Foca Ediciones, 2004), di Eduardo Soto-Trillo, e La aventura
del Muni (Vitoria, Ikusager Ediciones, 2010) di Miguel Gutiérrez Garitano, com-
plementari l’uno per l’altro e tuttavia ancora visioni parziali sulla poliedrica realtà
equatoguineana.
«Uno debe intentar conocer siempre el porqué de contar ciertas cosas, la inten-
ción que subyace en el que delata. […] Hay personas cuya única función es trans-
Giuliana Calabrese
Los olvidados e La aventura del Muni. Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
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mitir» (Los olvidados, p. 193). Queste parole sintetizzano bene il ruolo che Eduardo
Soto-Trillo ha voluto assumere nel suo libro: la missione che si impegna a compiere
è quella di raccontare, senza cadere nella trappola di perdersi in troppe considera-
zioni personali o preamboli retorici che attutiscano il colpo che andrà a sferrare.
Eduardo Soto-Trillo (1972) è un avvocato internazionalista esperto in diritti
umani e con un’ampia esperienza, anche sul campo, di aree colpite da conflitti inter-
nazionali. A due anni dal suo primo libro Voces sin voz (Bogotá, Intermedio, 2002),
libro di viaggio sullo sfondo della guerriglia colombiana delle farc, con Los olvida-
dos accompagna il lettore in Guinea Equatoriale, facendogli scoprire la cruda realtà
che la contraddistingue.
La scelta di questa meta non è casuale: il padre di Soto-Trillo, infatti, è un me-
dico ormai in pensione che lì aveva esercitato la sua professione quando il paese era
ancora sotto il dominio coloniale spagnolo, ma era stato costretto a scappare con
tutta la sua famiglia nel 1969, quando si instaurò il regime di Macías Nguema. Tra
il 2003 e il 2004, a più di trent’anni di distanza dalla sua fuga dal paese, è proprio il
padre dell’autore a proporgli un viaggio in Guinea per vedere come vanno le cose,
adesso che la Spagna non ha più molta voce in capitolo e una nuova e più violenta
dittatura, quella di Obiang, ha sostituito quella di Macías Nguema. L’autore, perciò,
del tutto ignaro della situazione equatoguineana se non per i frammentari racconti
dei suoi genitori, decide di partire, spinto dal più autentico, forse, tra i motori del
viaggio: la curiosità.
Fin dalle prime pagine, Soto-Trillo stabilisce che il suo vero compagno di viag-
gio sarà il lettore, e così decide di accompagnarlo in un processo di conoscenza
graduale di questa piccola area del pianeta: prima di partire, l’autore si documenta
più che può consultando biblioteche, siti web, amiche della Commissione Europea
dei Diritti Umani e amici dottorandi, e così facendo, in realtà, riporta senza alcuna
pedanteria le informazioni acquisite, riuscendo a preparare al viaggio insieme a lui
anche il lettore, che tra le righe può recuperare perfino una breve bibliografia sulla
Guinea. Nonostante la sua genuina sete di conoscenza, l’autore non nega che la sua
curiosità sulla meta del viaggio inizia ad essere stimolata quando è ormai certo che
il periodo che lui e suo padre hanno scelto per partire è tra i più delicati:
En aquellos días, ya del mes de abril, en los periódicos se daba cuenta
de lo que estaba sucediendo en la Comisión de Derechos Humanos re-
unida en Ginebra. Este organismo de la onu, encargado de denunciar a
los Estados que violaban sistemáticamente derechos tan fundamentales
como la prohibición de la tortura, el derecho a un juicio justo o, simple-
mente, el derecho a la vida, acababa de asolver al régimen de Obiang de
todos sus pecados (p. 16).
In realtà, Soto-Trillo spiega che le premesse per la partenza si fanno ancor meno
rosee quando, una volta smorzatasi l’attenzione dell’Europa sulla Guinea, Obiang
progetta di liberarsi dei suoi rivali politici con presunte accuse di colpi di stato e
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Giuliana Calabrese
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ordina l’arresto dei suoi due principali oppositori, Plácido Mikó e Felipe Ondó, oltre
a un centinaio di altre persone (compresi minorenni e donne incinte), per i quali il
processo si sarebbe tenuto proprio durante la permanenza dell’autore e di suo padre
in Guinea. A questo proposito, riferendosi alle numerose informazioni che reperisce
in ogni dove, Soto-Trillo riconosce che «yo mismo estaba cayendo en la trampa de
mi padre, hacerme con una red propia de informadores» (p. 28).
L’acquisizione della conoscenza sarà il filo conduttore, sebbene piuttosto sotter-
raneo, del viaggio: Soto-Trillo riferisce puntualmente ciò che impara o quello che gli
viene raccontato da chi invece la Guinea l’ha vissuta in prima persona. Il suo, quindi,
si preannuncia come un vero e proprio viaggio di ricerca, forse fatto anche di inge-
nuità – resta da capire se trasmessa volontariamente oppure no – e di totale assenza
di pregiudizi. Il giovane Eduardo, all’epoca del viaggio ancora studente di dottorato,
si lascia pervadere dallo spirito del ricercatore (anche universitario, se vogliamo)
e riesce a immetterlo nel racconto con suggestione: qualsiasi informazione viene
acquisita con un’innocente aria di stupore e riportata non lasciandosi andare mai a
commenti personali o considerazioni frettolose e superficiali, tanto che nel testo si
fa ampio uso discorso diretto dei personaggi incontrati.
Sicché il viaggio avviene più che altro attraverso gli incontri di chi vive ancora
in Guinea, soprattutto diplomatici e uomini con cui il padre aveva intrecciato rap-
porti più o meno stretti durante la sua permanenza: tramite le loro parole e la loro
prospettiva, Soto-Trillo ordisce un racconto che prende forma a poco a poco e che
assume i tratti di denuncia di una realtà così misera e ricca al tempo stesso.
A onor del vero, va riconosciuto che qualche pregiudizio viene riservato al pa-
dre, il vecchio medico: la sua mentalità “coloniale” è rimasta invariata nonostante il
passare dei decenni, tanto, per esempio, da interessarsi affinché un boy possa accom-
pagnarli dappertutto una volta arrivati a destinazione. Ma anche questa tara viene
trattata con dolcezza da Soto-Trillo, che spesso prova addirittura tenerezza per il
vecchio padre che, anch’egli ingenuamente agli occhi del figlio, crede di ritrovare
una Guinea diversa da com’è in realtà.
I colori del viaggio assumono così almeno due sfumature: è il viaggio del figlio
– e insieme a lui del lettore – che guarda e scopre, ed è anche il viaggio di riscoperta
del padre, i cui occhi sono invece velati di nostalgia e senso di inadeguatezza per
una realtà che lo fa sentire impotente e di cui, forse, si ostina a non volersi rendere
conto pienamente.
Con due percorsi paralleli lungo la stessa traiettoria, quindi, padre e figlio si
addentrano sempre più nei territori equatoguineani. Descrivendo le procedure per
ottenere i visti per raggiungere il paese o per superare i posti di blocco al suo in-
terno, cosa sempre paradossalmente troppo facile o troppo difficile, i viaggiatori si
spostano da Malabo a Bata, diretti infine verso Evinayong, dove il medico vuole ren-
dere omaggio spiritualmente al suo vecchio amico Bonifacio, oppositore del regime.
È originale il modo di bilanciare il procedere del viaggio e la conoscenza che
via via l’autore – e di conseguenza il lettore – acquisisce. Mentre padre e figlio per-
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corrono il cammino che li porterà nel cuore della Guinea spagnola, si stabilisce una
proporzionalità inversa tra le informazioni che al giovane Eduardo vengono fornite
da chi incontra lungo la strada e la sua capacità di rendersi conto da solo di quanto
lo circonda, e in seguito di inserirlo con giudizio critico nel racconto.
All’inizio del viaggio, mentre i due si trovano a Malabo, ciascuna delle persone
incontrate (per caso o su appuntamento) dà il suo contributo con una denuncia fe-
roce – anche se pronunciata spesso a denti stretti – su uno dei molti aspetti negativi
del paese. Così succede con le parole di un vecchio collega del padre che racconta
loro della mancanza di luce e acqua corrente nelle città – figurarsi nei villaggi – e del
divieto da parte del regime di parlare di prostituzione o, peggio ancora, di aids. O
ancora, quando un giornalista locale spiega che criticare il presidente e la sua fami-
glia sarebbe un crimine e come le notizie non possano né entrare né uscire dal paese.
Questi sono tutti discorsi che l’autore riporta in presa diretta, senza retorica né com-
menti personali, e con rispetto massimo per la sua dichiarazione di fede: «Nosotros
no podíamos emitir ningún juicio. El viaje nos daría la respuesta» (p. 56). L’esatto e
inferocito riassunto della situazione economica e politica in cui versa la Guinea, per
esempio, viene fornito da un giovane insegnante in cui l’autore si imbatte nel Centro
di Cultura Spagnola:
La cooperación española es la peor que pueda haber, descontrol y más
descontrol; mientras tanto, los americanos se están llevando todo el pe-
tróleo a cambio de nada, y los franceses son los dueños de Getesa, la
telefónica guineana, y del Ministerio de Economía; ellos se quedan con
todos los grandes contratos (p. 59).
In questa prima tappa insulare del viaggio, anche gli incontri con i diplomatici
e i funzionari spagnoli si rivelano fruttuosi per l’autore: in essi non trova ricche
fonti di informazione, ma nelle loro figure Soto-Trillo può incarnare la critica verso
la cooperazione spagnola, ormai inerme, indolente e fatiscente come i palazzi che
ospitano gli enti spagnoli o le segretarie, poche e annoiate, che vi lavorano.
Più si addentra nel cuore dell’Africa (nominata direttamente solo una volta at-
terrati sul continente), maggiore è la capacità di giudizio critico di Soto-Trillo, men-
tre le parole delle persone che lui e suo padre incontrano diventano via via meno
preponderanti per lasciare spazio alle impressioni di viaggio. Di certo anche a Bata,
capitale della zona continentale, non mancano racconti che suscitano sdegno, come
quello del responsabile della federazione di religiosi nella zona continentale che li
guida nell’ospedale della città, spiegando che adesso sono le famiglie dei pazienti a
dover provvedere con biancheria e medicine. È toccante l’ immagine dell’anziano
medico coloniale che crede nella sua missione e si sente responsabile in prima per-
sona per aver lasciato il paese in balia di se stesso:
Mi padre no hizo ningún comentario cuando salimos del hospital.
Aquel desastre no le hacía sentirse mejor por representar él mismo una
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época en la que las cosas funcionaban. Estaba triste, enfermedades con-
tagiosas antes controladas se expandían ahora libremente; otras, en otro
tiempo olvidadas, se habían hecho habituales en la Guinea del petróleo.
En cierta forma, se sentía responsable de toda esa gente a la que, un día,
sintió que abandonaba; ese panorama de desolación le dolía y ya era
demasiado mayor para plantearse un retorno, una nueva lucha (p. 108).
Sempre a Bata, l’incontro con un vecchio sconosciuto e le parole di quest’ulti-
mo creano addirittura l’attesa di un lieto fine, facendo acquistare al libro per un mo-
mento le caratteristiche di un romanzo: «Los que matan deben morir, y esto ocurrirá
tarde o temprano, todos estamos preparados para cuando llegue el momento. Dios,
la Virgen y todos los santos lo saben» (p. 112). Nel frattempo, l’autore non manca
di fornire rapidi e crudi cenni al processo che si sta portando avanti nei giorni del
suo viaggio: «Seguro que los del juicio han empezado a hablar. Las torturas siempre
funcionan; al final, uno es capaz de acusar a su padre y a su madre con tal de que
acaben» (p. 129).
Evinayong, patria dell’amico del vecchio medico, Bonifacio, e meta finale del
viaggio, si avvicina, ed è proprio in questo ultimo tratto che il racconto assume
anche qualche aspetto più tipico del reportage, soprattutto man mano che i due
viaggiatori si addentrano nella foresta tropicale, mentre la cultura ancestrale africa-
na diventa poco alla volta protagonista di quest’ultima tappa. La condizione della
donna, leggermente più emancipata in città, per paradosso grazie alla possibilità di
prostituirsi, nei villaggi più interni è rimasta invariata da millenni, se non addirit-
tura peggiorata con l’introduzione progressista del divorzio; la stregoneria sembra
essere l’unica alternativa alla mancanza di ospedali e medici preparati, e la povertà
in cui è costretto il paese – nonostante la ricchezza di petrolio – quasi giustifica l’an-
tropofagia, in mancanza di altra carne di cui cibarsi. L’autore mantiene il consueto
atteggiamento anche a contatto con questi ultimi e più misteriosi volti della Guinea:
«Las conclusiones podían ser erróneas, llenas de prejuicios, pero admitían muy po-
cas objeciones, especialmente por mi parte, un ignorante; se basaban en un contacto
íntimo con esa realidad tantas veces mal interpretada desde la distancia» (p. 196).
Con un sentimento di profonda codardia e vergogna che lo accomuna al padre,
perché si sente come se stesse abbandonando a se stessa la Guinea Equatoriale, Soto-
Trillo lascia il paese, e lascia anche il lettore, riassumendo per lui gli ultimi avveni-
menti politici riguardanti il processo:
Pocos días después de nuestra salida, después de un juicio lleno de irre-
gularidades y en el que nada se pudo demonstrar fehacientemente, el tri-
bunal condenó por el supuesto intento de magnicidio y de golpe de Esta-
do a 68 de los acusados, 12 de los cuales a veinte años de prisión (p. 262).
Le ultime parole dell’epilogo, infine, non possono che lasciare anche nel lettore
un profondo senso di amarezza e impotenza:
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A principios del año siguiente, los Estados Unidos reabrieron su emba-
jada en Malabo para reforzar sus relaciones con el presidente Obiang y
proteger así los intereses de sus compañías petroleras. Meses más tarde,
el gobierno de Aznar decidió impulsar la cooperación con el régimen
de Obiang, y las ministras Ana Palacio, de Asuntos Exteriores, y Ana
Pastor, de Sanidad, visitaron Guinea Ecuatorial sin realizar ningún co-
mentario crítico sobre la situación del país (p. 262).
Ben diverso è lo sguardo di Miguel Gutiérrez Garitano, che si sposta in Africa
con lo spirito dell’ esploratore-naturalista, decidendo di tralasciare gli spinosi ar-
gomenti d’attualità, salvo menzionarli di sfuggita in pochissime righe, paragrafetti
davvero brevi per un libro di quasi cinquecento pagine.
Nel libro La aventura del Muni (Vitoria, Ikusager Ediciones, 2010) Miguel Gu-
tiérrez Garitano (Galdakao, 1977) racconta la cronaca di due viaggi in Guinea Equa-
toriale da lui realizzati tra il 2002 e il 2005. Il giovane scrittore e giornalista basco,
da sempre appassionato di letteratura di viaggio e affascinato dalle esotiche avven-
ture degli esploratori ottocenteschi, nel suo libro, il secondo dopo Voces fronterizas:
poemas y reflexiones (Vitoria-Gasteiz, Psikor, 2008), dichiara di aver ripercorso il
cammino per terre guineane del grande pioniere suo conterraneo Manuel Iradier y
Bulfi (Vitoria, 1854 – Valsaín, 1911). È grazie a quest’ultimo che la regione africana
poté entrare effettivamente a far parte dei possedimenti coloniali spagnoli, e proprio
all’esploratore di Vitoria è dedicata la ONG Asociación Africanista Manuel Iradier,
altra presenza costante nell’opera di Gutiérrez Garitano. L’associazione umanitaria,
con sede a Vitoria ma presente anche a Cogo con una base operativa, venne fondata
nel 1988 da Álvaro Iradier, pronipote dell’esploratore Manuel, e dal medico Enrique
Gutiérrez Fraile, zio del nostro giovane scrittore. È stata proprio la ONG ad avere
un ruolo chiave nella mediazione tra le autorità equatoguineane e Miguel Gutiérrez
Garitano, permettendogli di recarsi nel paese africano in cambio di un reportage
fotografico.
Come spiega anche lo scrittore Javier Reverte nel suo prologo al libro, la struttu-
ra tematica dell’opera è divisa in tre parti: alle vicende dell’autore in Guinea si alter-
nano da un lato la storia e l’etnografia del paese e dall’altro il continuo riferimento
alle esplorazioni di Iradier e al suo diario di viaggio África. Viajes y trabajos de la
Asociación Euskara la Exploradora (1887), fedele compagno e guida di Gutiérrez
Garitano, come lui stesso dichiara subito:
En mi equipaje cargué siempre con África, el libro que recoge la hazaña
de Iradier. Sus páginas, en comunión con los bellos paisajes de Guinea,
me permitieron insuflar una noción de realidad a las fantasías ateso-
radas desde mi infancia. Sus fascinantes líneas, sus grabados llenos de
animales y bosques, me hicieron constatar, sobre el terreno, que el país
tropical todavía conserva su encanto fronterizo, su atractivo como tierra
de acción y aventura (p. 14).
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Gutiérrez Garitano si mette in cammino dichiarando di trovarsi nello stato o
“momento letterario” definito come iniziale per i viaggiatori dallo scrittore Arturo
Pérez-Reverte, il quale
sostiene que todo viajero pasa por tres fases en su devenir por los cami-
nos del mundo: la primera es la etapa Stevenson, en la que uno es joven,
está lleno de energía y todavía cree en un mundo dividido en buenos y
malos donde existen mapas que conducen a tesoros fabulosos (p. 23).
E Gutiérrez Garitano ha intravisto nella Guinea di Iradier la sua personale isola
del tesoro.
Nei primi capitoli del libro le vicende dell’autore assumono tratti diaristici, la-
sciando poco spazio allo spirito di avventura che il titolo lascia presagire; con den-
sità di dettagli, Gutiérrez Garitano racconta il suo arrivo in Africa, con un volo da
Madrid a Malabo, tessendo costanti parallelismi tra le parole di chi ha visto la Gui-
nea prima di lui o dell’ormai fraterno Iradier e il riscontro della realtà africana in cui
si sta immergendo:
Mi amigo Álvaro Iradier dice que Malabo es una ciudad de espaldas al
mar. Y yo estoy de acuerdo. Pero añadiría que es una urbe cerrada sobre
sí misma, volcada en un amor proprio sin ventanas al mundo circun-
dante. Al viajero le produce una sensación de ahogo, de claustrofobia
acentuada por el estado ruinoso y sucio que toda ella presenta (p. 38).
Con lunghe panoramiche cinematografiche sugli esotici paesaggi in cui si ad-
dentra e con una minuziosa tecnica quasi da naturalista, il giovane scrittore ac-
compagna il lettore nella regione continentale della Guinea: sempre sulle orme di
Manuel Iradier, da Malabo si dirige a Bata e da lì verso la città di Cabo San Juan,
intenzionato a trovare la tomba dell’antico re benga Bonocoro III (incontrato a suo
tempo dall’esploratore Iradier) con il beneplacito delle autorità locali.
Poco alla volta, tra i cenni alla pirateria contemporanea che infesta il Golfo di
Guinea e le difficoltà nel navigare il fiume verso l’isola di Elobey Chico (dove Iradier
aveva fissato la sua dimora), l’avventura di Gutiérrez Garitano inizia a diventare av-
vincente, soprattutto da quando l’autore decide di intraprendere l’impresa di scalare
il Monte Mitra. Sono suggestive e accattivanti le leggende che vengono raccontate a
proposito del Mitra, così come vivace è il racconto dell’ascesa al monte attraverso la
foresta equatoriale in compagnia di due guide locali, di un cacciatore di elefanti e di
voraci formiche carnivore. A questo proposito, va detto che non mancano passaggi
ironici o addirittura umoristici: è questo il caso del raggiungimento dell’agognata
cima del monte, che l’autore dichiara essere il Mitra più per stanchezza che per con-
vinzione. In casi come questo Gutiérrez Garitano si sente particolarmente vicino al
«caballero de la Mancha, el más ilustre viajero de ficción» (p. 128).
Dopo una breve permanenza nel villaggio di Cogo, con compagni di viaggio
sempre nuovi, il giovane scrittore si sposta verso la zona più “turistica” della Guinea,
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il Parco Nazionale del Monte Alén. Del ricco apparato paratestuale riferiremo in
seguito, ma vale la pena fare fin d’ora un breve cenno alla preziosa cartina della Gui-
nea che Gutiérrez Garitano inserisce tra le pagine finali del suo libro: grazie a questa
risorsa, gli spostamenti dell’autore si possono seguire con più facilità e confrontare
con i percorsi dei pionieri dell’Ottocento.
A guidarlo tra la selvaggia vegetazione del parco c’è Jesús Elá, il vecchio caccia-
tore nero più famoso della Guinea, ormai a capo delle guide del parco. L’entusiasta
Miguel non può fare a meno di provare un brivido di piacere quando l’anziana guida
gli mostra la cartina del territorio del Monte Alén: la zona che si apprestano a esplo-
rare è abitata dai gorilla.
I giorni che il nostro scrittore si prepara a trascorrere nella foresta equatoriale
gli servono da pretesto per inserire nel suo racconto una digressione storico-natu-
ralistica sui progetti di salvaguardia dell’ambiente equatoguineano, fino ad arrivare
al programma con cui negli anni Novanta dello scorso secolo venne istituito l’unico
parco nazionale presente in Guinea, appunto quello che sta per visitare. Puntualizza
a tal proposito:
Estas medidas, de aprobación relativamente reciente, o han fracasado o
están en vías de hacerlo. No es que los proyectos estén mal planteados;
no es que la gente que hay detrás esté mal preparada; simplemente, están
hechos por europeos con mentalidad europea. Todas estas siglas suenan
muy bien en los despachos de Bruselas, pero en el Muni son papel mo-
jado (p. 286).
Il cammino sulle trace di Iradier è quasi concluso, ma prima di lasciare la Gui-
nea Equatoriale Gutiérrez Garitano torna a Cogo perché «pretendía iniciarme y
convertirme en un bandijo o adepto de la secta secreta del bwiti» (p. 407). Grazie a
un’abbondante dose di iboga, la pianta allucinogena che permette di raggiungere il
“Más Allá”, l’intrepido scrittore intraprende l’ultima e più pericolosa tappa del suo
viaggio, quella che gli permette di conoscere il Secreto, la conoscenza mistica de-
stinata ai pochi iniziati del bwiti, un culto sincretico che intreccia cristianesimo e
animismo:
El Secreto era la base ideológica y mística, al tiempo que el nexo de
unión de las antiguas sociedades secretas africanas. Los iniciados en
el Secreto poseían conocimientos espirituales que hermanaban a sus
miembros y los diferenciaban del resto de los simples mortales (p. 402).
Se la cerimonia iniziatica e le quattordici ore di trance, oltre al battesimo con
cui termina l’iniziazione (e che sancisce il passaggio a una nuova vita come persona
che può vedere más allá) non hanno ancora messo a rischio l’incolumità del giovane
Miguel, lo stesso non si può dire dell’indignazione suscitata tra le autorità guineane
per la sua iniziazione al culto bwiti. Quando all’autore, ormai sospettato di essere
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una spia spagnola, viene “suggerito” di recarsi al commissariato di Bata per alcune
“domande”, non gli resta che prendere il primo volo per Madrid e scappare prima di
trovarsi in pericolo sul serio.
Nonostante predomini il viaggio, La aventura del Muni va oltre questa sola di-
mensione. Le dense e approfondite digressioni storiche ed etnografiche e i ricchi
apparati bibliografici e fotografici fanno del libro un’autentica opera enciclopedica,
tanto che Javier Reverte nel suo prologo scrive: «El libro tiene un valor muy sencil-
lo: cubre un vacío importante cual es la carencia de textos históricos sobre Guinea
Ecuatorial, tanto en los tiempos de la exploración, como en los de la colonia y en la
siguiente andadura desde la independencia del país» (p. 9).
Tuttavia, è per le sue indiscutibili qualità di reportage che lo scorso 3 maggio
2011 il libro è stato inserito tra gli otto finalisti della quarta edizione del Premio de
Literatura de Viajes Camino del Cid.
I due libri qui commentati raccontano dunque il diverso approccio di due gio-
vani viaggiatori spagnoli verso lo stesso luogo, le stesse persone e la stessa atmosfera.
Le storie che hanno raccontato, più socialmente impegnata e forse più coinvolgente
quella di Soto-Trillo, più esaustiva dal punto di vista storico e geografico quella di
Gutiérrez Garitano, si completano a vicenda e potrebbero addirittura formare un
primo piccolo corpus del nuovo millennio di letteratura di viaggio verso la Gui-
nea Equatoriale. Infatti, i pochi libri di viaggio recenti su questo paese risalgono
al periodo tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, quando il
passaggio dalla dittatura di Macías Nguema a quella di Obiang comportò una lieve
riapertura delle frontiere e qualche ostacolo in meno per i viaggiatori (in gran parte
diplomatici e giornalisti).
Soto-Trillo e Gutiérrez Garitano mostrano che cosa è cambiato negli ultimi
anni, ma soprattutto che cosa in Guinea Equatoriale è rimasto pressoché immutato
dall’epoca coloniale o addirittura dai tempi ancestrali.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 261-269. issn: 2240-5437.
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| Unimi Open Journals |
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] | RECENSIONI
Tintas. Quaderni di letteratura iberica e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
Romancero. Canti narrativi della Spagna che ogni antologia è una sfida persa in
medievale, introd. e note di Giuseppe Di partenza: mancherà sempre, a detta dei
Stefano, trad. di Enrico Di Pastena, con testo lettori avvisati, qualche brano merite-
a fronte, Venezia, Marsilio, 2011, 443 pp. vole o addirittura imprescindibile, e ce
ne sarà sempre qualcuno a cui si poteva
rinunciare. Ci sottrarremo, dunque, alla
Rilanciata con vigore da qualche anno consuetudine di stendere l’inventario
sotto la direzione di Marco Presotto, la delle presenze e delle assenze, e ci dedi-
collana “Dulcinea” della Marsilio propo- cheremo ad altro, ossia a valutare il pos-
ne un nuovo titolo di sicuro interesse. Si sibile impatto del volume sul pubblico a
tratta di un’impresa rischiosa, per certi cui è diretto: in prima istanza al lettore
versi, ma opportunamente affidata alla colto che s’interessa di cose ispaniche
sapienza di Giuseppe Di Stefano, che ha (rara avis, ancor oggi), e poi a quelli che
potuto fare scorta di precedenti espe- saranno, presumibilmente, i principali
rienze titaniche in editoriali spagno- consumatori del libro, vale a dire gli stu-
le, affrontate sempre col giusto piglio. denti universitari.
L’impresa è quella, immancabilmente Fin dal sottotitolo (con l’indicazione
insidiosa, di realizzare un’antologia; e in “canti narrativi”), il volume vuole espli-
questo caso è ancor più spinosa, dal mo- citare un aspetto sovente dimenticato,
mento che l’obiettivo del volume di cui e comunque assai poco presente allo
parliamo è quello di offrire un florilegio studente medio di letteratura spagnola,
(necessariamente non ampio, ma spera- o d’altra area: il profondo legame che
bilmente significativo) di un corpus dal- si stabilisce, almeno in età medievale e
le dimensioni tanto estese da non essere rinascimentale, tra la dimensione del
controllabili. testo, che fluttua tra l’oralità e parziali
Possono, dunque, i 72 testi selezionati forme di scrittura, e quella dell’accom-
per il libro, e poi messi nelle mani di En- pagnamento in musica, a volte semplice
rico Di Pastena, felicemente gravato dal e popolaresca, talora raffinata e cortigia-
compito di approdare a una traduzione na. Su questo vincolo insiste, opportuna-
(mai come in questo caso di nobile ser- mente, la bella introduzione di Di Stefa-
vizio), rappresentare un'immagine dav- no, che si apprezza per l’estrema chiarez-
vero affidabile dell'immensa tradizione za espositiva, la linearità esemplare della
romanceril? Certamente no, verrebbe struttura organizzativa, e la densità dei
da dire, e d’altro canto è ben risaputo contenuti e dei temi affrontati. Il risulta-
RECENSIONI
274
to è un insieme di poco più di trenta pa- pico del traduttore che si dichiara scon-
gine, che costituiscono nel loro insieme fitto nello scontro con il testo d’origine è
un ottimo avvicinamento al romancero da tempo moneta corrente, e non poteva
nel suo complesso e alle sue mille sfac- mancare nemmeno nella breve nota che
cettature. La snellezza dell’introduzione antecede la raccolta dei romances. Enrico
non fa a pugni con la completezza della Di Pastena, non nuovo a prove tradutti-
rassegna delle principali questioni, mol- ve insidiose (penso alla Teoría y juego del
te delle quali ancora oggetto di dibattito, duende lorchiana), sceglie un cammino
che definiscono la dimensione proble- transitato e indubbiamente consiglia-
matica di questo corpus: le origini del bile, quello di evitare la forzatura della
romance, la sua struttura metrica, la cen- rima assonante e della specularità metri-
trifuga trasmissione, le ricreazioni con- ca nella versione italiana rispetto all’ori-
tinue, l’andamento dialogico e talvolta ginale spagnolo. Tuttavia non manca di
quasi teatrale di molti testi, il loro rag- esercitare una scelta personale, che ci
grupparsi (certo più per nostra comodi- sembra del tutto condivisibile, quale è
tà che non per esplicita volontà dei testi quella di riprodurre nella lingua d’arri-
stessi) in filoni tematici. Si aggiunga, poi, vo le imprevedibili alternanze dei tempi
a completamento dell’apparato, l’ampia verbali che caratterizzano molti roman-
annotazione (sono circa 60 pagine) che ces, e che senz’altro ne costituiscono una
accompagna, in fondo al volume, ogni delle cifre stilistiche più peculiari.
singolo romance scelto, e la sua indub- Un ottimo strumento didattico e di
bia utilità per il lettore meno avvezzo ai mediazione culturale ci sembra, in de-
personaggi e alle leggende della cultura finitiva, questa antologia, che riesce a
ispanica, e si avrà un quadro del valore vincere la battaglia con le pagine a di-
complessivo del volume. sposizione (sempre troppo poche) e a
Forse risulta lievemente sbilanciata la offrire un percorso di lettura valido, ben
distribuzione dei testi in categorie, tra organizzato, e di sicura comprensibili-
cui spicca quella dei romances novelle- tà anche per un pubblico, duole dirlo,
schi (ben 33 brani sui 72 complessivi). sempre meno abituato al testo poetico
Si tenga conto, però, come correttamen- medievale.
te ricorda Di Stefano, che l’etichetta di
novelesco si è sempre applicata a una Alessandro Cassol
vastissima congerie di testi, anche sen-
sibilmente diversi fra loro, che presen-
tano elementi di non facile collocazione
in altre categorie, dai contorni ben più
definiti. Né sarà da trascurare l’indub- Juan de Robles, Tardes del Alcázar. Doctrina
bia fascinazione di gran parte di questi para el perfecto vasallo, a cura di Antonio
romances, come quello, celeberrimo, del Castro Díaz, Ayuntamiento de Sevilla, 2011,
Conde Arnaldos e del suo incontro con 328 pp.
il vascello incantato, significativamente
posto ad apertura della silloge.
Quanto alla versione italiana, è chia- Tardes del Alcázar si conserva in un
ro che della traduzione di testi poetici è manoscritto autografo custodito nel-
sempre oltremodo difficile parlare. Il to- la Biblioteca Capitular y Colombina di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
274
to è un insieme di poco più di trenta pa- pico del traduttore che si dichiara scon-
gine, che costituiscono nel loro insieme fitto nello scontro con il testo d’origine è
un ottimo avvicinamento al romancero da tempo moneta corrente, e non poteva
nel suo complesso e alle sue mille sfac- mancare nemmeno nella breve nota che
cettature. La snellezza dell’introduzione antecede la raccolta dei romances. Enrico
non fa a pugni con la completezza della Di Pastena, non nuovo a prove tradutti-
rassegna delle principali questioni, mol- ve insidiose (penso alla Teoría y juego del
te delle quali ancora oggetto di dibattito, duende lorchiana), sceglie un cammino
che definiscono la dimensione proble- transitato e indubbiamente consiglia-
matica di questo corpus: le origini del bile, quello di evitare la forzatura della
romance, la sua struttura metrica, la cen- rima assonante e della specularità metri-
trifuga trasmissione, le ricreazioni con- ca nella versione italiana rispetto all’ori-
tinue, l’andamento dialogico e talvolta ginale spagnolo. Tuttavia non manca di
quasi teatrale di molti testi, il loro rag- esercitare una scelta personale, che ci
grupparsi (certo più per nostra comodi- sembra del tutto condivisibile, quale è
tà che non per esplicita volontà dei testi quella di riprodurre nella lingua d’arri-
stessi) in filoni tematici. Si aggiunga, poi, vo le imprevedibili alternanze dei tempi
a completamento dell’apparato, l’ampia verbali che caratterizzano molti roman-
annotazione (sono circa 60 pagine) che ces, e che senz’altro ne costituiscono una
accompagna, in fondo al volume, ogni delle cifre stilistiche più peculiari.
singolo romance scelto, e la sua indub- Un ottimo strumento didattico e di
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personaggi e alle leggende della cultura finitiva, questa antologia, che riesce a
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complessivo del volume. sposizione (sempre troppo poche) e a
Forse risulta lievemente sbilanciata la offrire un percorso di lettura valido, ben
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cui spicca quella dei romances novelle- tà anche per un pubblico, duole dirlo,
schi (ben 33 brani sui 72 complessivi). sempre meno abituato al testo poetico
Si tenga conto, però, come correttamen- medievale.
te ricorda Di Stefano, che l’etichetta di
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bia fascinazione di gran parte di questi para el perfecto vasallo, a cura di Antonio
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Conde Arnaldos e del suo incontro con 328 pp.
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
275
Siviglia con segnatura 56-4-48. La sua l’analisi di testi ispanici in prosa tardo-
storia editoriale risale al 1635, quan- medievali e rinascimentali.
do viene composto da Juan de Robles Dopo alcune pagine di biografia su
(1575-1649), ecclesiastico originario di Juan de Robles, brevi ma molto effica-
San Juan del Puerto (Huelva) trasferitosi ci come inquadramento per l’oggetto di
a Siviglia da giovanissimo. Nel 1636 Ro- studio, Antonio Castro Díaz, prolifico
drigo Caro, censore e amico dell’autore studioso di letteratura spagnola medie-
fin dai tempi dell’università, firma l’ap- vale e rinascimentale e autore di notevo-
provazione per dare il libro alle stampe. li edizioni critiche come Los Coloquios
Tuttavia, l’opera rimane in forma di ma- de Pedro Mexía (Sevilla, Diputación
noscritto fino al 1948, quando la Dipu- Provincial, 1977), Silva de varia lección
tación Provincial di Siviglia la pubblica (Madrid, Cátedra, 1989-1990) e Diálogos
in una trascrizione di Manuel Justinia- o Coloquios di Pedro Mexía (Madrid,
no e con il prologo di Miguel Romero Cátedra, 2004), si addentra in un’accu-
Martínez. Spiega Antonio Castro Díaz, rata descrizione del manoscritto auto-
curatore del volume qui recensito, che grafo di Juan de Robles.
l’edizione del ‘48 «adolece de ciertos È molto precisa (e sempre chiara,
defectos que el tiempo ha acrecentado, qualità mai scontata per le edizioni
como su carácter casi paleográfico, su critiche) la nota che spiega i criteri fi-
escasa tirada —que la convierte en pieza lologici seguiti dal curatore nella sua
de bibliófilo, difícil de encontrar— y los nuova edizione: per esempio, la moder-
fallos de carácter técnico en la repro- nizzazione di Castro Díaz riguarda gli
ducción del texto, ya sea por erratas o accenti e l’utilizzo delle lettere maiusco-
por errores de interpretación en la tran- le e minuscole, che vengono adattati in
scripción textual» (pp. 19-20). Tuttavia è base alle regole ortografiche della Real
a quest’ultima che Castro Díaz fa riferi- Academia Española. Spiega inoltre il
mento nella sua nuova edizione, soprat- curatore come siano stati modernizzati
tutto per l’interpretazione problematica e uniformati alcuni grafemi in prece-
di alcuni termini del manoscritto, ma denza equivoci per il loro valore voca-
sempre con le dovute riserve, come egli lico o consonantico, e prosegue dicendo
stesso dichiara, a causa delle numerose che «para facilitar la lectura, hacemos
lacune che presenta. un uso discrecional y moderado de los
La riedizione di Tardes del Alcázar, paréntesis, de los que el manuscrito usa
spiega Castro nella pagina dei ringra- con profusión y, a veces, abusa. Respe-
ziamenti, rientra nel Proyecto de Inve- tamos las contracciones de palabras
stigación FFI2009-08070 del Ministerio usuales en el Siglo de Oro (deste, dellas,
de Ciencia e Innovación, un lavoro di dél), pero adaptamos al uso moderno la
ricerca sul dialogo ispanico diretto da unión o separación de otras según su
Ana Vian Herrero, professore ordina- sentido o por imposición de las normas
rio presso la Universidad Complutense; actuales» (p. 64).
come si può leggere sulla pagina web del Di indubbia utilità per il lettore
progetto (cosultabile all’indirizzo http:// odierno risulta il ricchissimo appara-
www.ucm.es/info/dialogycabddh/in- to di note fornite dal curatore, sempre
dex.html), il lavoro comprende l’inven- ben equilibrate ed esaustive, e soprat-
tario, la descrizione, l’edizione critica e tutto l’indice tematico e onomastico che
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
276
Castro Díaz inserisce in coda alla sua battito) che si svilupperà nella seconda
edizione come «un glosario de las vo- tarde. Quest’ultima, che ha luogo il gior-
ces arcaicas o insólitas catalogadas, un no successivo, ha infatti come oggetto i
repertorio de los principales nombres y principi teorici sui quali si va imper-
asuntos documentados en el libro y co- niando il dialogo: la forma di stato della
mentados en nota, y un inventario de los monarchia assoluta, l’addottrinamento
fenómenos lingüísticos y literarios ob- degli individui affinché la loro condotta
servados en la obra de Robles» (p. 277). si adegui ai principi di tale assolutismo
Dice Castro Díaz di aver rispettato le e la politica del Conde-Duque de Oliva-
ultime volontà dell’autore, che aveva ri- res, a cui Juan de Robles dedica la sua
toccato il testo in attesa che venisse stam- opera. Si può notare facilmente, perciò,
pato, cosa che purtroppo non venne mai che Tardes del Alcázar appartiene al ge-
realizzata quando l’autore era ancora in nere del dialogo dottrinale, caratteriz-
vita. Aggiunge il curatore che ha pre- zato da temi e insegnamenti universali
ferito lasciare traccia delle due fasi del che un maestro trasmette a un allievo,
processo di elaborazione con un’apposi- il cui ruolo dev’essere quello di assenti-
ta lista di varianti in appendice al libro. re o porre domande affinché il maestro
L’accuratissimo studio introduttivo possa riproporre con fermezza i suoi
di Castro Díaz prosegue con una spiega- precetti.
zione del genere del dialogo dottrinale, Come succede nella maggior parte
entro il quale rientra il libro, e con un’il- delle opere dialogiche, l’autore ha optato
lustrazione della struttura e dell’argo- per un tipo di dialogo drammatico o di-
mento dell’opera. Il curatore è attento a retto, ovvero i personaggi parlano senza
dare solo i giusti cenni storici e stilistici che l’autore li introduca previamente nel
del genere letterario e a suggerire in nota discorso. La presenza dell’autore si nota
gli approfondimenti. Avrebbe potuto es- soltanto nella dedica al Conde-Duque
sere rischioso fare riferimenti più speci- de Olivares, a cui Juan de Robles chiede
fici a un genere così diffuso e studiato e di insegnargli a raggiungere la perfezio-
invece Castro Díaz riesce a menzionarlo ne del perfecto vasallo, e nel prologo al
con il giusto equilibrio senza mettere in lettore, in cui l’autore, oltre a dichiara-
ombra le Tardes rispetto all’antico gene- re l’utilità dell’opera ai fini di educare
re dialogico a cui appartiene. i suoi lettori come buoni vassalli e cit-
L’opera è divisa in due parti (tardes) tadini, sottolinea l’umiltà del suo stile
di diversa lunghezza e lascia spazio a in modo che possa essere compreso e
un’eventuale conclusione che tuttavia interiorizzato da tutti e cerca inoltre di
non venne mai prodotta, caratteristica, accattivarsi l’attenzione e l’indulgenza
questa di avere un finale aperto con un del pubblico con il topico della captatio
possibile ampliamento successivo, tipica benevolentiae.
dei dialoghi di quell’epoca. La struttura interna dell’opera è quel-
La prima parte, più breve rispetto alla la del dialogo classico: la prima tarde
seconda, serve per inquadrare il con- serve come praeparatio prologale; nella
testo dell’azione: vengono presentati i seconda tarde si sviluppa la contentio,
personaggi che dialogano, si precisano la vera e propria discussione che a sua
lo spazio e il tempo e si specifica l’ar- volta si divide in propositio, in cui si ri-
gomento della conversazione (o del di- propone il tema, e probatio o resolutio,
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
277
in cui si apportano argomentazioni per sta edizione critica si è ormai abituato,
consolidare la tesi proposta e offrire una Castro Díaz accenna alla contestualiz-
sintesi finale. zazione storica e urbana dell’Alcázar e
Anche in questa illustrazione delle spiega come questo assuma la funzione
parti che compongono il dialogo clas- topica di locus amoenus.
sico, Antonio Castro Díaz evita di dare Il curatore approfondisce con intelli-
nozioni troppo manualistiche: i cenni genza come il tempo, lo spazio, l’aspetto e
teorici che fornisce sono quelli necessari il carattere dei personaggi possano essere
a inquadrare l’opera nel suo contesto sto- studiati nell’opera attraverso una varietà
rico ed entro il genere a cui appartiene e di elementi deittici e cinesici inseriti nella
il lettore sente di non aver bisogno di al- conversazione. Così spiega, per esempio,
tro per apprezzare l’edizione che leggerà. come l’amenità dei giardini dell’Alcázar
I personaggi che dialogano nell’opera serva da sfondo al dialogo; o ancora,
sono soltanto due: il licenciado Sotoma- come le indicazioni sull’aspetto fisico e la
yor, maestro e palese alter ego dello stes- condizione sociale di don Juan permet-
so autore, e il suo giovane allievo don tano di comprendere le sue aspirazioni.
Juan de Guzmán, già protagonisti di un Secondo Castro Díaz, questi elementi
altro dialogo di Juan de Robles ne El cul- suppliscono bene alla mancanza di tratti
to sevillano (uno dei trattati di retorica drammatici delle Tardes, in genere fre-
di maggior successo in quegli anni). Se quenti nei dialoghi per conferire dinami-
la figura del maestro è facilmente iden- smo all’opera e sostituiti in questo caso
tificabile con Juan de Robles, più diffi- da brevi didascalie a margine del testo;
cile è invece trovare una corrisponden- come è avvenuto nelle altre parti teoriche
za reale al personaggio di don Juan de dell’introduzione al testo, anche la profu-
Guzmán: Castro Díaz suggerisce che si sione di inserti deittici e cinesici viene il-
potrebbe trattare di Gaspar de Guzmán, lustrata da Castro Díaz, sempre in modo
VII Duque di Medina Sidonia, oppure piuttosto «didattico», attraverso esempi
di una personificazione dei difetti della chiarificatori tratti dal testo.
famiglia dei duchi di Medina – con cui Sono frequenti invece i procedimenti
il Conde-Duque de Olivares non aveva narrativi utilizzati per animare la con-
buoni rapporti – o ancora si potrebbe versazione e al tempo stesso alleggerirla
trattare di un simbolo della nobiltà più della serietà che impone l’argomento. È
giovane, che deve prepararsi dal punto molto meticolosa la descrizione proposta
di vista intellettuale e politico al ruolo a per tali argomenti: in primo luogo risal-
cui era destinata. tano per la loro frequenza e varietà gli
Qualche accenno al tempo dell’opera exempla, di derivazione classica, biblica
è stato fatto in precedenza – il dialogo o di opere moderne, che consolidano i
si sviluppa in due tardes di due giorni concetti esposti nella conversazione. Con
successivi – mentre lo spazio è quello l’identico proposito di tamponare l’aridi-
dei giardini dell’Alcázar di Siviglia, dove tà espositiva della teoria, Juan de Robles
maestro e allievo si danno appuntamen- inserisce anche detti e proverbi di autori
to e il cui carattere paradisiaco e quasi classici o estratti da repertori moderni,
bucolico propizia la conversazione. Con oppure ancora racconti di derivazione
il consueto atteggiamento di essenzia- folclorica, aneddoti storici che «por su
lità e precisione, a cui il lettore di que- carácter insólito, sorprenden al lector y
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
278
retienen su atención acerca de lo que se soluto come rappresentante divino dello
está argumentando» (p. 32), episodi sivi- Stato, e tale atteggiamento porta Oliva-
gliani vissuti dai due personaggi, o usi e res a promuovere una serie di riforme
costumi dell’epoca che apportano all’ope- amministrative, economiche e sociali al
ra un indiscutibile valore documentale e fine di garantirsi uno stato pacifico ma
che, afferma Castro Díaz, senza le Tardes, forte al tempo stesso, e su questo clima
sarebbero sicuramente caduti nell’oblio. di esaltazione della monarchia assoluta
Poco alla volta, quindi, il curatore si si imperniano le Tardes. La politica di
addentra nell’argomento e nel contenu- Olivares inizia a vedersi attaccata dalla
to più specifico dell’opera, descrivendo Francia attorno al 1635, quando Luigi
con minuzia le battute che i due per- XIII e Richelieu si preparano a dichia-
sonaggi si scambiano nelle tardes e il rare guerra alla Spagna di Felipe IV: «es,
contesto storico e politico sul quale si sin duda, en este ambiente de eferve-
imperniano. scencia nacionalista en el que se fraguan
È molto apprezzabile la decisione di las Tardes del Alcázar, por lo que tam-
Antonio Castro Díaz di spiegare il con- poco resulta casual que Robles dedique
testo storico e politico dell’opera soltan- su obra al Conde-Duque, pues con ella
to dopo averla presentata con profusio- pretendió defender y propagar de forma
ne di dettagli nella prima parte della sua rotunda la política que el valido estaba
introduzione. Questo brillante modo di llevando a cabo por aquellos mismos
organizzare le informazioni fa sì che Tar- años en que la redactó» (p. 44).
des del Alcázar si affermi con incisività e Conclude Castro Díaz questa parte
non soltanto come un esempio tra molti sul contesto in cui vengono scritte le
della sua epoca di letteratura dottrinale. Tardes dicendo che l’opera propone me-
È intelligente e ben studiata anche l’idea todi per la rinascita dello Stato di fronte
di far procedere di pari passo i fatti sto- alla crisi politica, economica e morale
rici della Spagna del XVII e XVII secolo che si era manifestata dalla fine del XVI
e la storia della letteratura didattica e secolo con intensità crescente: «Así, las
della trattatistica così diffusa all’epoca e Tardes podrían entenderse como un
così influente per le Tardes: «La expre- antídoto —entre otros muchos y cada
sión más acabada de la teoría político- cual con su particular orientación— que
jurídica medieval en nuestro suelo fue- procuraba atajar el problema de España,
ron las Partidas de Alfonso X el Sabio, de clamando por la participación de todos
las que Robles extrajo tan abundantes y los ciudadanos para que se congregasen
jugosos pasajes para sus argumentacio- en torno a su rey, a fin de colaborar en
nes en las Tardes del Alcázar» (p. 42). un esfuerzo común para salvar a la pa-
Oltre alla finalità pedagogica che tria malherida» (p. 45).
Juan de Robles aveva ereditato dal- Non si può dimenticare, tuttavia, che
lo spirito umanista, è evidente che gli Juan de Robles ha concepito le Tardes
esempi letterari da cui trae ispirazione innanzitutto come Doctrina para el
vengono da lui modellati in base alla perfecto vasallo, e cioè, «como un ma-
contingenza storica: il Conde-Duque nual para que el vasallo se comporte
de Olivares, a cui, ricordiamo ancora de manera sumisa y obediente con las
una volta, Robles dedica le sue Tardes, autoridades públicas, cuya cúspide es el
lotta per irrobustire la figura del re as- rey, sin que, en contrapartida, los gober-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
RECENSIONI
279
nados puedan exigir responsabilidades tre il lavoro di Puccini come suo tradut-
a los gobernantes ni preguntarse por el tore e diffusore sulla stampa, alla radio
sentido de las órdenes que reciben de e presso gli editori italiani: nel solo 1961
ellos» (p. 47). Ciò nonostante, Castro escono per Parenti di Firenze Milizia-
Díaz vede l’opera di Robles così collega- ni a Ibiza e per il Saggiatore di Milano
ta alla realtà politica entro la quale viene Ritratti di contemporanei e la tragicom-
scritta, che considera lo smembramento media Il trifoglio fiorito. L’amicizia tra i
della Spagna iniziato nel 1640 a causa due è scandita da notizie sulle vicende
della guerra contro i francesi e la caduta familiari, pacchetti affidati alle poste o
di Olivares nel 1643 come i motivi prin- ad amici comuni in visita, nonché im-
cipali che impedirono la pubblicazione pressioni di viaggio e cenni a riflessioni
delle Tardes del Alcázar a quel tempo, politiche, come in occasione del “Mani-
inconveniente a cui pone rimedio con festo dei 101” del 1957, firmato da Puc-
grande maestria riscattando l’opera cini, che prende spunto dai fatti d’Un-
dall’oblio e arricchendo il genere dei gheria per condannare lo stalinismo,
dialoghi rinascimentali, proposito im- provocando la repressione togliattiana.
plicito del progetto di Ana Vian Herrero Puccini è infatti un intellettuale di sini-
in cui rientra l’edizione di Castro Díaz. stra e «il rapporto che lo unisce al poeta
si fonda su una comune vocazione let-
Giuliana Calabrese teraria ed è alimentato dalla stessa fede
negli ideali di giustizia e libertà» (anco-
ra Morelli, p. 17). Costante è lo scambio
di pubblicazioni e consigli: Puccini non
manca di chiedere dritte per il suo fon-
Dario Puccini e Rafael Alberti, Corrispon- damentale Romancero della resistenza
denza inedita (1951-1969), a cura di Gabriele spagnola (1960), Alberti invia testi e cor-
Morelli, con una testimonianza di Stefania regge bozze. Si seguono anche casi mi-
Piccinato Puccini, Milano, Viennepierre, nuti, rivalità o incertezze, perfino guai
2009, 163 pp. pratici come la pretesa da parte della
Società degli Autori spagnola (franchi-
sta) di incassare i diritti dell’esule Alber-
Il carteggio tra il grande poeta e pit- ti, che fa fatica a cancellarsi. Insomma,
tore gaditano Rafael Alberti (1902-1999) la variegata testimonianza di un senti-
e il noto ispanista Dario Puccini (1921- to dialogo personale e professionale.
1997) è «una tessera fondamentale di Nel 1963, Rafael si trasferisce con
quel ricco mosaico di relazioni umane María Teresa León in Italia, dove tra l’al-
e letterarie che i rappresentanti più si- tro affondano le sue radici familiari, rea-
gnificativi della cultura italiana hanno lizzando un desiderio più volte espresso
costruito intorno alla figura di Alberti», da Buenos Aires. La scelgono tra vari
come sottolinea il curatore Gabriele Mo- Paesi, oltre che per i rapporti editoriali
relli (p. 39). L’epistolario, fitto soprattut- in corso, perché più mediterranea, più
to tra gli inizi del 1951 e la fine del 1963, vicina all’Andalusia. E optano per Roma
ci informa sull’evoluzione della scrittura in quanto più divertente di Milano. Vi
di Alberti in Argentina e sullo stato della resteranno 14 anni, fino al rientro nella
sua ricezione in Italia. Testimonia inol- Spagna della transizione nel 1977. Il poe-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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a los gobernantes ni preguntarse por el tore e diffusore sulla stampa, alla radio
sentido de las órdenes que reciben de e presso gli editori italiani: nel solo 1961
ellos» (p. 47). Ciò nonostante, Castro escono per Parenti di Firenze Milizia-
Díaz vede l’opera di Robles così collega- ni a Ibiza e per il Saggiatore di Milano
ta alla realtà politica entro la quale viene Ritratti di contemporanei e la tragicom-
scritta, che considera lo smembramento media Il trifoglio fiorito. L’amicizia tra i
della Spagna iniziato nel 1640 a causa due è scandita da notizie sulle vicende
della guerra contro i francesi e la caduta familiari, pacchetti affidati alle poste o
di Olivares nel 1643 come i motivi prin- ad amici comuni in visita, nonché im-
cipali che impedirono la pubblicazione pressioni di viaggio e cenni a riflessioni
delle Tardes del Alcázar a quel tempo, politiche, come in occasione del “Mani-
inconveniente a cui pone rimedio con festo dei 101” del 1957, firmato da Puc-
grande maestria riscattando l’opera cini, che prende spunto dai fatti d’Un-
dall’oblio e arricchendo il genere dei gheria per condannare lo stalinismo,
dialoghi rinascimentali, proposito im- provocando la repressione togliattiana.
plicito del progetto di Ana Vian Herrero Puccini è infatti un intellettuale di sini-
in cui rientra l’edizione di Castro Díaz. stra e «il rapporto che lo unisce al poeta
si fonda su una comune vocazione let-
Giuliana Calabrese teraria ed è alimentato dalla stessa fede
negli ideali di giustizia e libertà» (anco-
ra Morelli, p. 17). Costante è lo scambio
di pubblicazioni e consigli: Puccini non
manca di chiedere dritte per il suo fon-
Dario Puccini e Rafael Alberti, Corrispon- damentale Romancero della resistenza
denza inedita (1951-1969), a cura di Gabriele spagnola (1960), Alberti invia testi e cor-
Morelli, con una testimonianza di Stefania regge bozze. Si seguono anche casi mi-
Piccinato Puccini, Milano, Viennepierre, nuti, rivalità o incertezze, perfino guai
2009, 163 pp. pratici come la pretesa da parte della
Società degli Autori spagnola (franchi-
sta) di incassare i diritti dell’esule Alber-
Il carteggio tra il grande poeta e pit- ti, che fa fatica a cancellarsi. Insomma,
tore gaditano Rafael Alberti (1902-1999) la variegata testimonianza di un senti-
e il noto ispanista Dario Puccini (1921- to dialogo personale e professionale.
1997) è «una tessera fondamentale di Nel 1963, Rafael si trasferisce con
quel ricco mosaico di relazioni umane María Teresa León in Italia, dove tra l’al-
e letterarie che i rappresentanti più si- tro affondano le sue radici familiari, rea-
gnificativi della cultura italiana hanno lizzando un desiderio più volte espresso
costruito intorno alla figura di Alberti», da Buenos Aires. La scelgono tra vari
come sottolinea il curatore Gabriele Mo- Paesi, oltre che per i rapporti editoriali
relli (p. 39). L’epistolario, fitto soprattut- in corso, perché più mediterranea, più
to tra gli inizi del 1951 e la fine del 1963, vicina all’Andalusia. E optano per Roma
ci informa sull’evoluzione della scrittura in quanto più divertente di Milano. Vi
di Alberti in Argentina e sullo stato della resteranno 14 anni, fino al rientro nella
sua ricezione in Italia. Testimonia inol- Spagna della transizione nel 1977. Il poe-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
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ta, che ha già passato i sessant’anni, vive di Alessandra Riccio (Roma, Iacobelli,
in Italia una grande fioritura creativa, 2009). Nel 1956 María Teresa León man-
nello stimolante clima romano dell’epo- da a Puccini un soggetto cinematografi-
ca, entrando in contatto con interlocu- co, ambientato in un paesino di scultori
tori del calibro di Ungaretti, Pasolini, del carrarese, che ritiene adatto a De Sica,
Guttuso, Gatto, Gassman, Carlo Levi, e una raccolta di racconti, Las peregrina-
Aligi Sassu e tanti altri. Nel folto gruppo ciones de Teresa (uscita nel 1950 a Buenos
di ispanisti amici (come Vittorio Bodi- Aires e ora disponibile nella ricca edizio-
ni, Angela Bianchini, Elena Clementelli, ne curata da María Teresa González de
Ignazio Delogu e Mario Socrate, oltre Garay nel 2009 per l’Instituto de Estudios
al fedele traduttore Eugenio Luraghi), Riojanos), che è un po’ l’embrione della
Dario Puccini, che traduce nel 1976 per sua indimenticabile autobiografia, Me-
Editori Riuniti il primo volume dell’au- moria de la melancolía (1970).
tobiografia di Rafael, L’albereto perduto,
è un riferimento costante, anche se le Danilo Manera
missive naturalmente si riducono, per
via del contatto diretto. La casa degli
Alberti diventa inoltre un punto d’in-
contro per gli esuli repubblicani e arti-
sti di ogni latitudine. Rafael si dedica in Vicente Luis Mora, La luz nueva. Singulari-
particolare alla grafica, studiando nuove dades en la narrativa española actual, Córdo-
tecniche d’incisione, che perfezionano ba, Berenice, 2007, 255 pp.
la sua poetica pittorica. In Italia espone,
i suoi versi si leggono, le sue opere tea-
trali si rappresentano. All’urbe che ama, Vicente Luis Mora (Córdoba, 1970),
viscerale, belliana e trasteverina dedica critico letterario irrequieto e scrittore
Roma, pericolo per i viandanti (trad. di poliedrico – ha pubblicato le raccolte di
Vittorio Bodini, Firenze, Passigli, 2000). poesie Nova (2003), Construcción (2005)
Su tutta quella stagione, si veda il docu- e Tiempo (2009); il libro di racconti Sub-
mentato studio di Maira Negroni, Rafa- terráneos (2005); due volumi miscella-
el Alberti: l’esilio italiano (Milano, Vita e nei dal titolo Circular (2003) e Circular
Pensiero, 2002). 07. Las afueras (2007); il romanzo Alba
Speriamo che questo volume, in cui Cromm (2010) –, in questo studio ri-
respira l’impulso eternamente giovane prende il discorso iniziato con l’apertura
di Rafael Alberti, possa servire anche a del blog Diario de lecturas (2005) e pro-
ricordare una sensibile assenza nel no- seguito con i saggi Ética y poética de la
stro panorama editoriale, quella di María literatura española actual (2006) e Pan-
Teresa León (1903-1988), straordinaria gea. Internet, blogs y comunicación en un
scrittrice con al suo attivo romanzi, rac- mundo nuevo (2006). In prima battuta,
conti, sceneggiature, teatro e biografie. La Mora cerca di districare le direttrici del-
sua voce fa capolino tra queste pagine e le correnti estetiche che nel panorama
viene rievocata in un piccolo libro, uscito delle lettere spagnole odierne si sfiora-
da poco, della figlia della coppia, Aitana no, si intersecano o si respingono in un
León Alberti, Memorie inseparabili. Ma- intreccio di fili multicolori che a un oc-
ria Teresa León e Rafael Alberti, a cura chio miope, poco avvezzo alla dissezio-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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ta, che ha già passato i sessant’anni, vive di Alessandra Riccio (Roma, Iacobelli,
in Italia una grande fioritura creativa, 2009). Nel 1956 María Teresa León man-
nello stimolante clima romano dell’epo- da a Puccini un soggetto cinematografi-
ca, entrando in contatto con interlocu- co, ambientato in un paesino di scultori
tori del calibro di Ungaretti, Pasolini, del carrarese, che ritiene adatto a De Sica,
Guttuso, Gatto, Gassman, Carlo Levi, e una raccolta di racconti, Las peregrina-
Aligi Sassu e tanti altri. Nel folto gruppo ciones de Teresa (uscita nel 1950 a Buenos
di ispanisti amici (come Vittorio Bodi- Aires e ora disponibile nella ricca edizio-
ni, Angela Bianchini, Elena Clementelli, ne curata da María Teresa González de
Ignazio Delogu e Mario Socrate, oltre Garay nel 2009 per l’Instituto de Estudios
al fedele traduttore Eugenio Luraghi), Riojanos), che è un po’ l’embrione della
Dario Puccini, che traduce nel 1976 per sua indimenticabile autobiografia, Me-
Editori Riuniti il primo volume dell’au- moria de la melancolía (1970).
tobiografia di Rafael, L’albereto perduto,
è un riferimento costante, anche se le Danilo Manera
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via del contatto diretto. La casa degli
Alberti diventa inoltre un punto d’in-
contro per gli esuli repubblicani e arti-
sti di ogni latitudine. Rafael si dedica in Vicente Luis Mora, La luz nueva. Singulari-
particolare alla grafica, studiando nuove dades en la narrativa española actual, Córdo-
tecniche d’incisione, che perfezionano ba, Berenice, 2007, 255 pp.
la sua poetica pittorica. In Italia espone,
i suoi versi si leggono, le sue opere tea-
trali si rappresentano. All’urbe che ama, Vicente Luis Mora (Córdoba, 1970),
viscerale, belliana e trasteverina dedica critico letterario irrequieto e scrittore
Roma, pericolo per i viandanti (trad. di poliedrico – ha pubblicato le raccolte di
Vittorio Bodini, Firenze, Passigli, 2000). poesie Nova (2003), Construcción (2005)
Su tutta quella stagione, si veda il docu- e Tiempo (2009); il libro di racconti Sub-
mentato studio di Maira Negroni, Rafa- terráneos (2005); due volumi miscella-
el Alberti: l’esilio italiano (Milano, Vita e nei dal titolo Circular (2003) e Circular
Pensiero, 2002). 07. Las afueras (2007); il romanzo Alba
Speriamo che questo volume, in cui Cromm (2010) –, in questo studio ri-
respira l’impulso eternamente giovane prende il discorso iniziato con l’apertura
di Rafael Alberti, possa servire anche a del blog Diario de lecturas (2005) e pro-
ricordare una sensibile assenza nel no- seguito con i saggi Ética y poética de la
stro panorama editoriale, quella di María literatura española actual (2006) e Pan-
Teresa León (1903-1988), straordinaria gea. Internet, blogs y comunicación en un
scrittrice con al suo attivo romanzi, rac- mundo nuevo (2006). In prima battuta,
conti, sceneggiature, teatro e biografie. La Mora cerca di districare le direttrici del-
sua voce fa capolino tra queste pagine e le correnti estetiche che nel panorama
viene rievocata in un piccolo libro, uscito delle lettere spagnole odierne si sfiora-
da poco, della figlia della coppia, Aitana no, si intersecano o si respingono in un
León Alberti, Memorie inseparabili. Ma- intreccio di fili multicolori che a un oc-
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ne, potrebbero apparire come un tessuto nel Zabala, Félix Romeo, Antonio Oreju-
ben ordito e quasi omogeneo, complici do, Francisco Casavella, Lolita Bosch,
anche la versatilità e la permeabilità che Ismael Grasa, Sergi Pàmies, etc. L’autore
caratterizzano un buon numero di auto- del saggio li definisce «mutantes» (p. 31)
ri. La mappa tracciata dalla penna dello perché il fattore scatenante della muta-
studioso individua quattro linee portan- zione che li ha allontanati dalla temperie
ti attorno alle quali si concentra la pro- tardomoderna sarebbe stata l’onnipre-
duzione romanzesca contemporanea. senza ossessiva dei mass media nella vita
La rotta più battuta e maggiormen- quotidiana delle generazioni nate negli
te sottoposta a una mappatura da parte anni ’60 e ’70. La “no-modernidad” in-
della critica sarebbe quella “tardomo- vece, concetto ripreso da Bruno Latour,
derna”, ancorata a una concezione “tra- non è chiaro se debba essere considera-
dizionale” del narrare, in cui soprav- ta un’alternativa alla postmodernità (p.
vivono l’idea di un tempo lineare, la 71), oppure come uno spazio interstizia-
presenza di un soggetto scisso immer- le, difficile da definire, tra quest’ultima e
so in un ambiente urbano, la fiducia un’ulteriore proiezione estetica che Mora
nell’esistenza di una verità assoluta; il ha chiamato “Pangea”, in un chiaro rife-
tutto articolato rispettando lo schema rimento alla primordiale unione tra le
tripartito – premessa, nodo, epilogo – terre emerse del nostro pianeta. La cifra
del romanzo del XIX secolo. Tra gli scrit- di questa nuova narrativa sarebbe infatti
tori che si muovono a loro agio nelle rappresentata da un’ampia visione glo-
acque stagnanti di questo modello vi sa- bale, sfaccettata e capace di riprodurre
rebbero Luis Magrinyá, Juan Manuel de sulla pagina, sia essa cartacea o digitale,
Prada, Ignacio Martínez de Pisón, Juan i sistemi di reti in cui viviamo: «Pangea
Bonilla, Belén Gopegui, Lorenzo Silva, se constituye como un sistema-red, más
Alan Pauls, Jorge Volpi, Fernando León, rizomático que modular […], único ca-
Ignacio Padilla, Care Santos, José Ángel paz de aprehender de un modo complejo
Cilleruelo, Joaquín Pérez Azaústre, An- la sociedad-red (Castells) en que nos en-
drés Neuman, etc. Un possibile supera- contramos, dejando los menos resquicios
mento di quest’approccio è offerto, ovvia- posibles» (p. 74). Le coordinate che defi-
mente, dal canone postmoderno, il quale nirebbero tale letteratura, ancora in fie-
prevede il sorgere di un testo atomizzato, ri, sono una continuità temporale che si
sia dal punto di vista spaziale che tempo- risolve nella figura del cerchio e che ha la
rale, in cui il protagonista indossa svaria- consistenza di un fluido; l’impalpabilità
te maschere e si agita in maniera convulsa dell’“io” al riparo di nicknames, avatars,
in un universo plurisensoriale, generato etc.; l’aspirazione a riflettere una totalità
dall’amalgamarsi di alta e bassa cultura non assoluta ma globalizzata; l’esistenza
in un ironico sovvertimento di qualsiasi di non-luoghi situati tra le maglie eteree
appiglio epistemologico. I nomi ascrivi- di Internet o sospesi nella realtà virtuale;
bili a questo orientameno estetico sareb- l’impossibilità della veridizione e, infine,
bero quelli di Rodrigo Fresán, Eloy Fer- a livello strutturale, un’ibridazione tra la
nández Porta, Robert Juan-Cantavella, scrittura e le modalità espressive proprie
Javier Calvo, Juan Francisco Ferré e, pur delle moderne tecnologie.
con qualche strascico modernista, Isaac Una volta delineata la cornice teorica
Rosa, Diego Doncel, Jorge Carrión, Ma- all’interno della quale ci si vuole muo-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
282
vere e dopo aver suggerito una possibile Vicente Luis Mora ritiene dunque
via d’uscita per l’esercizio letterario stan- che grazie a un approccio critico e let-
tio, Mora prova a stilare un decalogo per terario a 360 gradi si potrà produrre e
un nuovo paradigma critico, a suo giu- analizzare il romanzo del futuro – «In-
dizio più flessibile e democratico, che formación y comunicación, lectura y
trova nel blog un’agorà in cui dare vita a escritura son una en el ciberespacio, y
un confronto costruttivo, teoricamente esto está alterando nuestra capacidad de
perfettibile all’infinito, poiché concede observación y, en consecuencia, nuestro
il diritto di replica immediata al lettore modo de narrar lo observado» (p. 77)–,
e all’autore del libro recensito. Seguono ma forse il suo entusiasmo cibernetico
quindi varie riflessioni su alcuni scritto- non gli permette di rendersi pienamente
ri appartenenti alle categorie estetiche conto che la maggior parte delle carat-
definite in precedenza (Eduardo Lago, teristiche elencate nel definire l’estetica
Enrique Vila-Matas, José María Merino, di “Pangea” sono tangenziali all’atto del-
José Ángel González, Rodrigo Fresán, lo scrivere poiché non presuppongono
Diego Doncel, Juan Francisco Ferré, nessuno stravolgimento radicale dello
Manuel Vilas, Salvador Gutiérrez Solís, strumento letterario – i nicknames o gli
Javier Fernández, Javier Moreno, Agu- avatars paiono più un debito dell’infor-
stín Fernández Mallo, Julián Jiménez matica nei confronti delle lettere, sebbe-
Heffernan) in un tentativo di offrire una ne sia doveroso ammettere che Internet,
dimostrazione pratica del taglio valu- paradossalmente, crei una maggiore
tativo auspicato, sebbene tra le pagine, aspettativa di corrispondenza tra iden-
secondo un’impostazione tradizionale, tità reale e fittizia; inoltre, l’irrompere
si oda solo la voce dello studioso e non sul foglio di sistemi comunicativi non
quella dei bloggers. necessariamente legati alla sfera di una
Gli ultimi bagliori emanati da La luz letteratura canonica aveva già raggiunto
nueva sono invece una manciata di con- una sua teorizzazione con le avanguar-
siderazioni riguardo all’intromissione die storiche –, semmai ne confermano
diuna realtà globalizzata e tecnologi- l’estrema duttilità nel raccogliere e nel
ca nell’opera di vari poeti e prosisti: gli restituire gli umori di una società sem-
hamburger di McDonald’s divengono pre più liquida che – e qui sta il merito
simbolo dell’alienazione dell’inividuo; il del libro di Mora – dev’essere descritta
telefono e il cellulare invece, così come e studiata a partire da un coacervo ete-
le mail, costringono a cambiare le regole rogeneo di conoscenze enciclopediche
delle conversazioni, forgiando dialoghi capaci di passare con agilità il confine,
meticci e franti; in un mondo con una ormai liberato da anacronistici pregiu-
geografia rattrappita dai trasporti veloci e dizi settoriali o specialistici, che separa
dalla World Wide Web, ecco che gli aero- la cultura accademica da quella “pop”
porti da non-luogo di transizione diven- (il problema era già stato sollevato, tra
gono territori di conquista per complesse gli altri, da Germán Gullón, Gonzalo
trame narrative, mentre la terminologia Navajas, José María Pozuelo Yvancos),
informatica e la navigazione virtuale “afterpop” (Eloy Fernández Porta) o
mettono a disposizione un inedito oriz- “techno-pop”.
zonte metaforico e simbolico da cui at-
tingere a piene mani, ecc. Simone Cattaneo
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
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Eduardo Mendoza, Riña de gatos. Madrid Anche quest’opera, dunque, presen-
1936, Barcelona, Planeta, 2010, 427 pp. ta una condensazione di tecniche della
postmodernità che rimane la tendenza
estetica dominante dello scrittore catala-
«Es como las viejas películas de Dis- no nella quale ironia, parodia e autoparo-
ney, en las que se entremezclaban imá- dia sono gli elementi di maggior spicco.
genes de actores reales y personajes de Il protagonista di Riña de gatos è
dibujos animados»: così Eduardo Men- Anthony Whitelands, un critico d’arte
doza ha definito in alcune recenti inter- inglese esperto di pittura spagnola, il
viste la sua ultima opera che ha suscitato quale, giunto a Madrid nella primavera
opinioni generalmente favorevoli (pre- del ’36 per stimare il patrimonio artisti-
mio Planeta 2010). In effetti, lo scrittore co del duca de la Igualada e soprattutto
torna ad offrire ai suoi lettori un testo per certificare l’autenticità di un quadro
brillante e accattivante, di sicuro valore misterioso (un presunto Velázquez),
letterario, definito da molti il suo mi- rimane coinvolto in una serie di avve-
gliore lavoro dell’ultimo decennio, forse nimenti imprevisti che lo trasformano
alla pari con le sue opere più riuscite e in una specie di detective e allo stesso
tradizionalmente riconosciute dalla cri- tempo in un perseguitato costretto ad
tica e dal pubblico. adottare espedienti insoliti per salvar-
Oltre alla novità dello sfondo madri- si la vita. La trama, dunque, prevede
leno (dopo tanti romanzi ambientati a l’inserimento repentino del protagonista
Barcellona) e dei molteplici riferimenti in un contesto che gli è quasi totalmen-
storici a persone e vicende politiche nei te estraneo e dentro al quale dovrà, suo
mesi che precedono lo scoppio della malgrado, imparare velocemente a des-
guerra civile, è opportuno mettere in treggiarsi: lo sguardo dello straniero è lo
risalto forti parallelismi con La verdad sguardo dell’altro che avidamente assi-
sobre el caso Savolta (1975), soprattutto mila con tutti i sensi protesi e immedia-
per alcuni procedimenti narrativi e per tamente restituisce un’immagine nuda,
ciò che concerne i diversi generi a cui si priva di condizionamenti, e per questo
ispira il romanzo: principalmente poli- folle, di un mondo che è in procinto di
ziesco, storico e sentimentale. Inoltre, deflagrare. La fine del romanzo coincide
sono evidenti anche molte somiglian- con l’imminenza della partenza del pro-
ze con la straordinaria trilogia del folle tagonista, deciso, anzi obbligato, a fare
investigatore protagonista de El mis- ritorno al suo paese di origine.
terio de la cripta embrujada (1979), El La narrazione, interamente eterodie-
laberinto de las aceitunas (1982) e La getica, mano a mano che avanza assume
aventura del tocador de señoras (2001) un andamento sempre più incalzante,
per l’ironia (anche nei nomi dei per- moltiplicando i colpi di scena e le situa-
sonaggi), per lo sfondo metropolitano, zioni inaspettate che, in maniera don-
per una trama brillante e ricca di colpi giovannesca, assorbono totalmente il
di scena e per le situazioni paradossali tempo del protagonista costretto ad un
che ricordano esplicitamente la pocha- andirivieni frenetico tra una molteplici-
de e il vaudeville, oltre a riformulazioni tà di luoghi diversissimi che includono
di strategie narrative cinematografiche il palazzo del duca e i bassi fondi della
e fumettistiche. capitale, la sede della Falange Españo-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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la e l’appartamento di una prostituta, derazioni suggestive e resoconti ricchi
l’ambasciata inglese e la cella di una di passione: una specie di oasi rassere-
prigione, oltre a ristoranti, bar, alberghi nante nel turbinio frenetico e delirante
e altre case sconosciute. Luoghi, questi, dell’intreccio.
nei quali Whitelands rimane implicato in Il protagonista, di trentaquattro anni,
avvenimenti sorprendenti: diatribe e dis- viene descritto fin dall’inizio come una
cussioni sull’arte, coinvolgimenti amoro- persona estremamente distinta, educata,
si con varie donne, faccende diplomati- in grado di adoperare con estrema abili-
che con rappresentanti dell’ambasciata, tà una lingua che non è la sua. Un vero
dispute politiche che vedono coinvolti gentiluomo, dunque, colto e raffinato an-
personaggi storici realmente esistiti, epi- che nel modo di vestire, il cui comporta-
sodi di ordine pubblico e di delinquenza, mento non può che essere, in apparenza,
casi di spionaggio e sparatorie. perfettamente adeguato e pertinente alle
Sono molteplici i riferimenti alla sto- circostanze. Ma questa caratteristica di-
ria della Spagna nei mesi che hanno di viene, soprattutto nella seconda parte del
poco preceduto lo scoppio della guerra testo, fonte di spunti comici e situazioni
civile. José Antonio Primo de Rivera, che paradossali poiché lo stile britannico di
ha un ruolo da comprimario, Manuel Anthony Whitelands contrasta forte-
Azaña, Niceto Alcalá Zamora, lo stesso mente con gli ambienti squallidi che a
Franco e altri generali complottisti come volte è costretto a frequentare. Mentre,
Mola e Queipo de Llano, diventano per- al contrario, egli finisce per trovarsi, in
sonaggi del romanzo e sono coinvolti alcune occasioni, in luoghi eleganti e lus-
in accadimenti e dialoghi fittizi, sovente suosi in condizioni del tutto sconvenien-
gustosissimi, a volte, considerati retros- ti: ebbro, privo di soldi e di documenti o
pettivamente, inquietanti. Il narratore si senza che si sia potuto lavare e cambiare
inserisce negli interstizi irrisolti o igno- d’abito per diversi giorni.
rati e rimasti misteriosi specialmente de- Vi è, quindi, un evidente contrasto
lle biografie di Velázquez e, soprattutto, (che riguarda anche altri personag-
di José Antonio, sfruttando quelle zone gi) tra le modalità del sentire e quelle
d’ombra che offrono discreti margini di dell’apparire, tra le modalità del dire e
speculazione sul gioco delle possibilità, quelle dell’agire. Schizofrenia emble-
creando una serie di episodi non docu- matica, tipica di Mendoza, dai risvolti
mentati e sui quali non vi è alcuna testi- apertamente comici e sottilmente iro-
monianza, ma che sono spesso verosimi- nici, attraverso la quale si rappresenta
li (nonostante, a volte, il tono farsesco). un mondo allo stesso tempo esilarante
Qui, i futuri protagonisti della guerra e drammatico, in cui la logica e la re-
non sono visti solo in quanto rappresen- lazione causale vengono smentite dalle
tanti di ideologie o forze socioeconomi- molteplici incongruenze che appaiono
che, ma anche nella loro dimensione sia sul piano linguistico (dato, per esem-
più intima che nasconde sentimenti pio, l’uso aulico della lingua spagnola a
contrastanti e sfuggenti, a volte meschi- cui è costretto il protagonista anche nei
ni, eppure difficilmente riconducibili a momenti in cui è in pericolo di vita, o
uno stereotipo. Le pagine dedicate a Ve- per i toni giocosi e guasconi con cui i
lázquez, invece, affidate principalmente generali golpisti predispongono le loro
alla voce di Whitelands, offrono consi- losche trame), sia sul piano degli eventi,
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RECENSIONI
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dal momento che molte delle azioni dei forse spia tedesca) Pedro Teacher e del
personaggi risultano inadatte, imprevis- capitano Coscolluela della Dirección
te, controproducenti o non conseguenti General de Seguridad. Non è svelato
alle intenzioni annunciate. l’enigma del fantomatico Kolia: pro-
Il protagonista, sempre più smarrito, babile spia sovietica ma la cui identità
non può far altro che assecondare il flus- potrebbe coincidere con quella dello
so sorprendente ed imprevedibile degli stesso José Antonio (o forse di Pedro
eventi con lo scopo di salvarsi. Gli obiet- Teacher, secondo l’ambasciata britanni-
tivi iniziali, infatti, sfumano a favore del ca), le cui trame occulte, prima del suo
desiderio di ritornare a Londra sano e arresto, rimangono comunque in gran
salvo e quanto prima sia possibile. parte misteriose. È incerto il destino de-
La prima parte del titolo (Riñas de lla prostituta Toñina, ragazza madre, in
gatos) può rappresentare la fase prepa- procinto di partire per Barcellona, dopo
ratoria alla guerra, non ancora la catas- una breve relazione con il protagonista.
trofe generale: una lotta intensa, vio- Infine, nelle ultime pagine, si anticipa
lenta, ma breve e occasionale (come le il destino di alcuni membri della fami-
zuffe tra gatti) che percorre minacciosa glia del duca, in particolare delle due
le strade di Madrid. La seconda parte, figlie Paquita e Lilí, a turno innamorate
invece (Madrid 1936), evocando lo sco- dell’inglese. Ma sono emblematiche, a
ppio della guerra, getta un’ombra scura questo proposito, le rivelazioni di Pa-
sull’intero testo. Possibilità però ines- quita, la figlia maggiore, la quale, nel
pressa, tragedia che rimane latente (il congedarsi da Whitelands, confessa che
tempo del romanzo termina nell’aprile in un solo giorno è passata dalla convin-
del ’36), ma che si percepisce attraverso zione di essere innamorata proprio del
discorsi avvelenati che frequentemente protagonista a quella di amare invece
girano intorno a complotti, trame os- José Antonio per decidere infine di en-
cure ed episodi di violenza: vibrazioni trare in convento, aggiungendo, però,
funeste che scuotono l’aria e turbano maliziosamente, di non volere prende-
l’apparente futilità di alcune vicende re subito i voti per non fare una scelta
narrate. La tragedia è lì, imminente, e avventata.
i personaggi che la evocano sembrano Riña de gatos è pertanto un romanzo
rassegnati o noncuranti (e in alcuni casi di intrighi complessi e bizzarri, prodi-
ignari) dell’orrore che li attende. giosamente elaborati, ma volutamente
Ma in quest’opera tutte le storie ri- incompleti o dal finale incerto. La tra-
mangono in sospeso, non solo quella ma, nelle ultime pagine, sembra disper-
della guerra annunciata. dersi anziché raccogliersi, le rivelazioni
Se viene suggerito che il quadro mis- e le spiegazioni che vengono proposte
terioso, inizialmente attribuito a Veláz- confondono invece di chiarire. Non
quez, forse fu dipinto da un allievo del vi sono soluzioni pacificatrici e viene
grande pittore, crea perplessità il dub- meno anche la possibilità di un punto
bioso racconto prima di Lord Bumble- di vista comprensivo che risulta, inve-
bee e di Paquita poi sull’incendio che ce, estremamente frammentato e con-
ha provocato la distruzione dello stesso traddittorio. Ciò lascia spazio ad una
quadro. Non vengono risolti, inoltre, gli molteplicità di interpretazioni e di pos-
omicidi del losco trafficante d’arte (e sibili soluzioni.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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Il fatto che molti episodi, discorsi e Pombal; la guerra dei Sette anni, che
personaggi della trama romanzesca sia- vede l’ingresso del Portogallo nel 1762.
no referenziali alla storia della Spagna Per la stesura del romanzo l’autrice
prima dello scoppio della guerra, ampli- ha tratto ispirazione da una sua visita
fica l’effetto del caos e dell’impossibilità a Inverness, nel 1999, in occasione delle
di una visione ordinata, progettuale, cerimonie commemorative della batta-
risolutiva. Con l’epilogo del viaggio del glia di Culloden. Attraverso la memoria,
protagonista termina il romanzo, ma ricostruisce la descrizione dei combatti-
rimangono i funesti presagi e il caos menti e instaura un gioco temporale in
esilarante nei quali coincidono storia e cui il passato si confonde con il presente.
finzione. Hélia Correia, fondendo splendidamen-
te prosa e poesia in uno stile reso egre-
Luigi Contadini giamente da Guia Boni, incanta, seduce
e introduce il lettore in un tempo sto-
rico lontano ed ermetico, collocandosi
nella posizione privilegiata di chi ana-
lizza il passato attraverso dati posteriori.
Hélia Correia, Lillias Fraser, traduzione dal «Mi capita di pensare che, nell’oscura
portoghese di Guia Boni, Roma, Cavallo di alba che precedette l’esecuzione, si sa-
Ferro, 2010, 254 pp. ranno visti, sullo spiazzo di Belém, dove
risuonava il martellare del catafalco e il
popolo prendeva posto, sguardi uguali
Vincitore del premio P.E.N. club nel a quelli delle donne che, a Parigi, alcuni
2001, Lillias Fraser è il primo romanzo decenni più tardi, sferruzzavano scialli
di Hélia Correia ad apparire in tradu- con affanno domestico, mentre guarda-
zione italiana. Hélia Correia (Lisbona, vano la ghigliottina all’opera» (p. 196).
1949) è riconosciuta come una delle Ciò nonostante Lillias Fraser non
rivelazioni della narrativa portoghe- va considerato un romanzo storico. La
se della “Geração de 1980”. Laureata in stessa autrice, in un’intervista rilasciata
Filologia romanza, è autrice di una va- nel 2009 a Marisa Torres da Silva, af-
sta opera, di cui ricordiamo i romanzi ferma che «Lillias Fraser não é um ro-
più famosi: O separar das Águas (1981), mance histórico. O romance histórico
Soma (1987), A fenda erótica (1988), A parte da história para o romance e aqui
Casa Eterna (1991). a história veio por arrasto, aliás muito
Il romanzo si snoda nell’arco di sedici violentamente». Se è vero infatti che gli
anni ed è suddiviso in tre parti, scandi- eventi storici citati nel testo sono minu-
te da altrettanti avvenimenti storici che ziosi e puntuali, la lettura che se ne fa si
hanno segnato il XVIII secolo: la batta- allontana però dall’interpretazione con-
glia di Culloden del 1746, in cui il Duca venzionale, privilegiando la sfera priva-
di Cumberland (“il Macellaio”), alla gui- ta e personale. Utilizzando il termine
da dell’esercito inglese, sconfigge defini- coniato dalla canadese Linda Hutcheon,
tivamente gli scozzesi del rivale al trono potremmo definire il romanzo una “me-
Charles Stuart; il terremoto di Lisbona tafinzione storiografica”, dal momento
del 1755 e la conseguente ricostruzio- che, rielaborando la Storia attraverso la
ne della città ad opera del Marquês de finzione, offre una nuova prospettiva di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Il fatto che molti episodi, discorsi e Pombal; la guerra dei Sette anni, che
personaggi della trama romanzesca sia- vede l’ingresso del Portogallo nel 1762.
no referenziali alla storia della Spagna Per la stesura del romanzo l’autrice
prima dello scoppio della guerra, ampli- ha tratto ispirazione da una sua visita
fica l’effetto del caos e dell’impossibilità a Inverness, nel 1999, in occasione delle
di una visione ordinata, progettuale, cerimonie commemorative della batta-
risolutiva. Con l’epilogo del viaggio del glia di Culloden. Attraverso la memoria,
protagonista termina il romanzo, ma ricostruisce la descrizione dei combatti-
rimangono i funesti presagi e il caos menti e instaura un gioco temporale in
esilarante nei quali coincidono storia e cui il passato si confonde con il presente.
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lizza il passato attraverso dati posteriori.
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2001, Lillias Fraser è il primo romanzo decenni più tardi, sferruzzavano scialli
di Hélia Correia ad apparire in tradu- con affanno domestico, mentre guarda-
zione italiana. Hélia Correia (Lisbona, vano la ghigliottina all’opera» (p. 196).
1949) è riconosciuta come una delle Ciò nonostante Lillias Fraser non
rivelazioni della narrativa portoghe- va considerato un romanzo storico. La
se della “Geração de 1980”. Laureata in stessa autrice, in un’intervista rilasciata
Filologia romanza, è autrice di una va- nel 2009 a Marisa Torres da Silva, af-
sta opera, di cui ricordiamo i romanzi ferma che «Lillias Fraser não é um ro-
più famosi: O separar das Águas (1981), mance histórico. O romance histórico
Soma (1987), A fenda erótica (1988), A parte da história para o romance e aqui
Casa Eterna (1991). a história veio por arrasto, aliás muito
Il romanzo si snoda nell’arco di sedici violentamente». Se è vero infatti che gli
anni ed è suddiviso in tre parti, scandi- eventi storici citati nel testo sono minu-
te da altrettanti avvenimenti storici che ziosi e puntuali, la lettura che se ne fa si
hanno segnato il XVIII secolo: la batta- allontana però dall’interpretazione con-
glia di Culloden del 1746, in cui il Duca venzionale, privilegiando la sfera priva-
di Cumberland (“il Macellaio”), alla gui- ta e personale. Utilizzando il termine
da dell’esercito inglese, sconfigge defini- coniato dalla canadese Linda Hutcheon,
tivamente gli scozzesi del rivale al trono potremmo definire il romanzo una “me-
Charles Stuart; il terremoto di Lisbona tafinzione storiografica”, dal momento
del 1755 e la conseguente ricostruzio- che, rielaborando la Storia attraverso la
ne della città ad opera del Marquês de finzione, offre una nuova prospettiva di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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costruzione della memoria collettiva. forme. Sembra che si tramandi da una
A differenza dei romanzi storici tradi- generazione all’altra con fatalità geneti-
zionali, le metafinzioni storiografiche ca. C’è chi, come me, crede che si tratti
postmoderne non muovono dalla storia di saggia resistenza alla frenesia. Ogni
ufficiale, ma scelgono i silenzi del passa- uomo seduto filosofeggia, conversando
to come materia di indagine. Il passato con la zappa che ha poggiato» (p. 167).
può essere conosciuto soltanto attraver- Il Portogallo è visto dunque come una
so nuove riscritture e riletture: «The past frontiera tra l’Europa e l’Africa, Prospe-
really did exist, but we can only know ro nelle colonie ma Calibano in Europa,
that past today through its texts, and secondo la proposta teorica di Boaven-
therein lies its connection to the litera- tura de Sousa Santos, un paese «che gli
ry» (Linda Hutcheon, Metafiction, Lon- stranieri visitavano con la stessa dispo-
dra, Longman, 1995). sizione alla curiosità con cui avrebbero
L’evocazione del passato rende im- osservato i selvaggi» (pp. 192-193).
possibile la certezza di una storia ogget- Hélia Correia evoca il passato ma sen-
tiva e imparziale, quindi la narrazione za la pretesa di una veridicità assoluta: il
è una finzione che si riconosce come tempo storico è il tempo di una bambi-
tale e che si appropria della Storia an- na esiliata, dotata di uno sguardo magi-
che attraverso l’ironia. È da notare, in co e a cui viene proibita la parola in vari
questo senso, lo sguardo ironico con cui momenti della vita. La Storia viene vista
si fa riferimento alla situazione politica attraverso gli occhi di Lillias, vero filo
e sociale del Portogallo di quegli anni. conduttore del romanzo; il suo sguardo
Dalle pagine di Lillias Fraser, emerge dorato suscita timore in chi le sta attor-
l’immagine di un paese «tanto pigro e no e, unito al silenzio, è indice della sua
caldo in cui bastava schioccare le dita marginalità (una marginalità che è du-
perché le arance si ammonticchiassero plice, in quanto donna e in quanto do-
e gli schiavi africani, con i loro collari tata di un dono straordinario). Lillias ha
infetti, servissero grandi pesci d’acqua la capacità di prevedere eventi nefasti e
dolce» (p. 165). I portoghesi vengono le sue visioni, anticipando avvenimenti
rappresentati come un popolo retrogra- futuri, determinano continui salti cro-
do, superstizioso, pigro, ignorante, vani- nologici che spezzano la linearità del-
toso, soffocato dalla tirannia dello Stato la narrazione. Lungi dall’apprezzare il
e della Chiesa: «Riconobbe il Portogallo suo dono, Lillias lo considera una ma-
per il disordine che all’improvviso per- ledizione. «Vedeva morire quelli che la
turbava la vista. Spine e boscaglia pre- circondavano, li vedeva soffrire quando
dominavano, ferendogli lo sguardo, abi- si divertivano e non sospettavano nulla
tuato al tracciato geometrico delle siepi del futuro. Ma aveva imparato a sviare
e alla pulizia dei campi coltivati. […] La lo sguardo. Ormai conosceva la natura
sonnolenza, che lo spagnolo aveva di- delle visioni che anticipavano la disgra-
sciplinato, qui ricopriva tutto come un zia senza che nulla si potesse fare per
olio che impedisce all’ossigeno di passa- impedirlo. Era una grazia da cui comin-
re. Si dice che una debolezza ereditaria, ciava a difendersi come da una maledi-
non soltanto dell’anima, ma del sangue, zione» (p. 185).
dissuada le persone dal combattere la Questo dono premonitore sembra
natura. L’hanno chiamata anemia falci- concentrarsi negli occhi della ragazza
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e il suo aspetto, così come il mutismo, nell’invisibile, ma le due donne cono-
funge da barriera tra lei e il mondo, in scono quello che agli altri uomini non è
particolare il mondo degli uomini, por- permesso vedere. Il loro sguardo magico
tatori di violenza. «Gli uomini le faceva- sottolinea l’impossibilità di una Storia
no cenni, avanzando il basso ventre in unica, oggettiva e imparziale, le visioni
sua direzione. […] Eppure, il modo in donano una nuova dimensione alla re-
cui li guardava, vedendoli tutti morti, li altà. La storia è un prodotto dell’uomo
dissuase. Tornavano al buon senso, rag- e, come tale, è soggetta a interpretazioni
gelati dalla malinconia che si sprigiona- personali e particolari. I limiti tra Storia
va dalle iridi della ragazza» (p. 112). e finzione, tra realtà e immaginazione si
Nelle pagine conclusive del roman- confondono, si moltiplicano le voci e i
zo entra in scena Blimunda Sette-Lune, punti di vista.
il famoso personaggio creato da José Alla fine del romanzo, le due donne
Saramago nel Memoriale del Conven- si incamminano verso sud, attraversano
to. Ecco come ci viene presentata: «La il Tago, in direzione contraria rispetto
donna rise. Aveva un riso così cristalli- al percorso fatto da Lillias sino a quel
no che Lillias, per un attimo, pensò di momento. Blimunda insiste affinché il
essere circondata da bambini. Eppure, bambino che Lillias porta in grembo na-
nonostante i capelli, ancora molto scu- sca «in terra di nessuno, in uno spazio
ri, e il viso, liscio e bruno, dove brillava tra frontiere, che non sia né Portogallo
una leggera suggestione di emulsioni né Spagna» (p. 251). Blimunda appare
orientali, proveniva da lei una splendida inaspettatamente e gode di un ruolo im-
vecchiaia. Aveva attraversato il tempo e portante: è un personaggio eterno, che
lo aveva convinto a separarsi da lei per risveglia la memoria letteraria del letto-
sempre» (p. 251). re. L’autrice ha spiegato di aver inserito la
Anche Blimunda è, come Lillias, una figura di Blimunda per offrire un nuovo
visionaria: vede che la ragazza è incinta destino alla protagonista del romanzo e
e glielo rivela. «Lillias sentì gli occhi di per concludere il suo ciclo di esperien-
Blimunda e si svegliò. Le sorrise un’altra ze. Lillias, che fino a quel momento era
volta. —Il bambino sta bene. D’oggi in destinata a vivere in un mondo ostile
poi mi occuperò io di voi due. —Qua- alla sua condizione di donna, di orfana
le bambino, signora? —Quello che tu, e di visionaria, viene salvata da Blimun-
Lillias Fraser, partorirai. —Come fa a da, che la guarda «con fermezza, come
saperlo? —Vedo dentro il corpo delle chi dà l’ultimo ritocco a un’opera che ha
persone quando sono digiuna — spiegò meritato l’attesa» (p. 251) e la conduce al
Blimunda. —Io vedo la morte — disse di fuori del tempo storico. La narrazio-
Lillias. Blimunda Sette-Lune si chinò e ne si sposta così dal piano della realtà a
le sfiorò con le dita la camicia. —Allora quello della finzione e l’autrice si serve
sono più felice di te. D’oggi in poi vedrò della memoria letteraria per fuggire da
solo questo bambino» (p. 252). quella storica. Il sentimento utopico che
Lillias e Blimunda sono accomunate unisce le due donne confonde passato e
dallo stesso sguardo: in una società so- presente, e il tempo lineare, cronologico
praffatta dalla paura dell’Inquisizione, della storia cessa di essere importante.
solo la Chiesa Cattolica aveva la possi-
bilità di autorizzare o negare la credenza Michela Bennici e Ada milani
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Armando Baptista-Bastos, José Saramago. Un sta e intellettuale, compagna del premio
ritratto appassionato, traduzione di Daniele Nobel e Presidenta della fondazione che
Petruccioli, Roma, L’ Asino d’Oro Edizioni, porta il suo nome.
2011, 162 pp. «Un libro di Baptista-Bastos con Sa-
ramago sullo sfondo» (p. 10), scrive
Pilar del Río, di questo testo denso e
Quando, oltre quindici anni fa, José agile, nel suo passo da reportage nar-
Saramago accolse l’amico, giornalista e rativo, che prende il via come cronaca
scrittore Armando Baptista-Bastos nel- affettuosa di un viaggio d’amicizia, in
la sua casa fatta di libri, nella vulcanica cui riflessioni e poesia accompagnano il
Lanzarote, forse non era ancora imma- viaggio dell’autore verso l’isola ardente.
ginabile il giorno in cui, ormai un anno Lisbona-Madrid-Lanzarote. Un viaggio
fa, avrebbe lasciato per l’ultima volta che, attraverso il primo capitolo, sembra
quell’isola, salutato dagli abitanti che voler accorciare le distanze, quelle fisi-
leggevano ad alta voce brani della sua che e quelle del vissuto, tra il Portogallo,
opera, e forse nemmeno che a Lisbo- la Spagna e le Canarie, l’Oceano. Un pri-
na, a dargli l’ultimo addio sarebbe stata mo capitolo preparatorio, che si soffer-
una folla di libri e garofani rossi alzati ma volutamente sull’incontro di Bapti-
al cielo per lui dalla gente. E se, nell’an- sta-Bastos con l’amico regista Pablo del
niversario della sua scomparsa, in Italia Amo, a Madrid, conversazione che dà il
si traduce, si rivede e si pubblica un suo la, che dà l’intonazione generale al libro:
ritratto appassionato, è senza dubbio un quella dell’intimità data dall’amicizia,
segno dell’affetto, ma anche e special- dalla condivisione di un passato fatto
mente una manifestazione dell’interes- di idee, di persone. Si crea da subito, in
se, della passione, che Saramago conti- modo esemplare, l’atmosfera della con-
nua a suscitare fra i lettori più diversi. versazione tra vecchi amici che prelude
Un’assenza tutt’altro che silenziosa, la a quella che avverrà sull’isola: «Una-
sua, vista la vitalità delle iniziative e del- muno è stato in esilio lì, […] sull’isola
le pubblicazioni che ne ripropongono e di fronte. Vai a trovare Saramago ovvia-
rielaborano il pensiero e l’opera. Come mente» (p. 14). E poi l’arrivo, Lanzarote,
questa edizione, uscita il 12 maggio il mare, i vulcani, la casa, la luce, i libri,
2011, con il titolo José Saramago. Un ri- le conversazioni, la giornata dello scrit-
tratto appassionato, traduzione accurata tore, le emozioni di un paesaggio fisico
del testo originale portoghese che inclu- che riflettono e si riflettono in quelle
de tre capitoli con al centro la trascrizio- del paesaggio interiore: Saramago come
ne dell’intervista registrata a Lanzarote, motore della riflessione, Lanzarote
dell’ apparato critico che comprende le come motore poetico.
testimonianze – tra i vari nomi, Maria Sull’isola cantata da Rafael Alberti si
Alzira Seixo, Luciana Stegagno Picchio, parla innanzitutto di letteratura, come
Eduardo Lourenço, Luis de Sousa Re- rispecchia la grafica scelta nell’edizione
belo – e una cronologia, qui aggiornata, italiana per il secondo capitolo, dedicato
della vita e delle opere. Ad introdurre alla Conversazione a Lanzarote, grafica
la lettura è stata inserita una premessa che lascia bianche le pagine a sinistra
dal titolo L’umanità vista dal cuore della perché al centro spicchi un’unica, breve
terra firmata da Pilar del Río, giornali- citazione tratta dall’opera di Saramago.
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Il reportage del viaggio d’amicizia si tra- all’epoca, né di quanto è successo dopo,
sforma in dialogo, senza interventi del ma di quello che era stato prima. Quin-
narratore: il testo dell’intervista scorre di con sguardo storico» (p. 27). Il suo
sulle pagine a destra in un dialogo rapi- rapporto con la letteratura portoghese
do, intervallato da brevi citazioni inter- del passato, che lo porta ad attraversare
ne, richiami al testo stesso, anticipazioni trasversalmente le epoche e gli stili nel
didascaliche, in corsivo, che catturano i trarre ispirazione, e la sua non-contem-
concetti essenziali e rinviano continua- poraneità con le generazioni che hanno
mente l’attenzione ai contenuti del testo, attraversato la sua vita – modernismo,
ai temi della riflessione. Per Baptista- neorealismo, surrealismo – ne hanno
Bastos, che dedica il terzo capitolo al fatto uno scrittore isolato. Baptista-Ba-
ritratto critico e analitico della figura stos s’interroga anche sulla questione
e dell’opera dell’amico scrittore dalla del romanzo portoghese, e interroga
Mano ardente, i romanzi di Saramago Saramago, che dice: «il romanzo credo
possiedono molte più idee, espongono sia per me oggi il modo di trasmettere
un corpo dottrinario molto più affa- una serie preoccupazioni o […] anche
scinante della stragrande maggioranza ossessioni. Certe volte sono portato a
dei saggi e testi pubblicati in Portogallo. chiedermi se sono davvero un roman-
Baptista-Bastos esamina l’eredità lette- ziere o se i miei libri sono trattati in cui
raria presente in Saramago, il problema ho inserito personaggi» (p. 53). Confer-
della sua posizione nel panorama dei mando così l’eccentricità, la specificità
generi letterari e nel contesto portoghe- del romanzo in Portogallo, genere che
se, cattura in questo libro la sua peculia- Saramago ha interpretato attraverso una
rità di scrittore che vive, sia fisicamente, soluzione personalissima. E forse per la
sia letterariamente, su un’isola. Lo con- sua forte specificità questo autore non
sidera un erede del moderno romantici- ammette per sé neanche il genere più
smo, ma capace di fondere la tradizione classico della biografia: sono decine le
affabulatoria di Camilo Castelo Branco interviste, i dialoghi, le conversazioni, i
(l’uso dei verbi, la soppressione degli ritratti, le critiche, gli articoli, le edizioni
aggettivi) con il naturalismo di Eça de in cui attraverso le sue parole, Saramago
Queirós (i personaggi ben delineati, i si racconta, e meno le biografie, anche
particolari), unendola al barocchismo postume, della sua vita. «Chiuso ma tra-
di António Vieira (costruzione sintatti- sparente, bocca a fil di lama, occhi ad
ca, locuzione avverbiale, allitterazione), angolo acuto, lontano e vicino, parlatore
in una conciliazione di dissonanze, che sarcastico, introverso al limite del muti-
secondo Baptista-Bastos, è possibile smo, secco, dal passo svelto, osservatore
attraverso il rinnovo contrattuale fra a tempo perso delle maschere umane,
eredità non rinnegata e ricerca di ori- viaggiatore attentissimo alla geografia
ginalità. Saramago rivendica le sue ra- delle anime, lettore onnivoro, mani agi-
dici neorealiste, ma spiega come il suo tate ad accentuare emozioni nascoste
atteggiamento verso il neorealismo, suo o rabbia manifesta […] non dimentica,
contemporaneo, si avvalga sempre di un non perdona e la sua risata, quando c’è,
filtro temporale, quello della storia: «è è feconda e cristallina» (p. 108).
come se esaminassi il neorealismo […] Nell’opera dell’amico Baptista-Bastos,
alla luce non di quello che succedeva a tracciare il ritratto è una mano delica-
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ta, che guarda alla persona e alle sue idee, al quale Saramago ha dedicato il suo rin-
capace di quella discrezione, di quella graziamento attraverso le ultime parole
sensibilità spesso misconosciuta fra i scritte sulle pagine del blog. Se, come
biografi che puntano sul pettegolezzo, scrive Pilar del Río, «questo è un libro
per scrivere quelle che qui Saramago de- dell’umanità migliore», è proprio perché,
finisce biografie mancate. A Lanzarote, i per questi due intellettuali che conversa-
due amici degli anni della militanza con- no della vita, della religione, della politi-
tro il regime salazarista, del tempo in cui ca, della letteratura, dell’intimità o della
entrambi, da giornalisti, scrivevano die- felicità, per questi «figli dell’Illuminismo,
tro pseudonimo, registrano un’intervista le parole Libertà, Uguaglianza e Frater-
che, a leggerla oggi, ci ricorda tutto quel nità, hanno ancora un senso», un signi-
che Saramago avrebbe ancora da dire. ficato, che, si potrebbe aggiungere, loro
E dice. Nell’affermare che l’utopia, per stessi continuano a costruire. Tuttavia, i
antonomasia, non sta da nessuna parte, protagonisti di questa chiacchierata san-
afferma, tutt’altro che pessimisticamente, no bene... che non siamo del tutto uma-
che la speranza c’è solo quando noi la ri- ni, ed è per questo che, due anni dopo,
empiamo di contenuti concreti. E senten- nel ’98, alla consegna del premio Nobel,
dosi chiedere se la sua scrittura non abbia di fronte all’accademia di Svezia, José
un pessimismo di fondo più o meno ce- Saramago vorrà per prima cosa denun-
lato dietro un progetto umanistico, inte- ciare, nel giorno del cinquantesimo anni-
so come progetto di trasformazione del- versario della Dichiarazione Universale
la società con il fine di rendere l’umano dei diritti dell’Uomo, il perpetrarsi delle
più umano, Saramago risponde di essere disuguaglianze e delle ingiustizie e i pa-
ormai uscito dall’idea di progetti umani- radossi della nostra «schizofrenica uma-
stici affrontati con l’ottimismo finalistico nità» (José Saramago, Discorso al Nobel,
che è proprio delle religioni salvifiche e Stoccolma, 10 dicembre 1998).
delle ideologie rivoluzionarie. Ma anche «Restiamo umani», riutilizzando pa-
se i progetti politici muoiono, quello che role che in questi anni sono diventate
resta è sempre il terreno fertile: «c’è una in Italia uno slogan, e che invece rap-
fertilizzazione continua. Il terreno dove presentano una costante non solo della
piantiamo il seme perché nasca l’albe- vita di attivista e dell’opera di scrittore
ro è nutrito continuamente dalla storia, di Saramago, ma anche di questo libro
ne è irrigato e a volte persino distrutto; nella sua totalità, in cui l’essere umano
è un tipo di suolo in costante mutamen- è sempre al centro. «Credo che l’opera
to, dove le idee mettono radici» (p. 67). di José Saramago ci restituisca il gusto
Attualità di Saramago. Uno scrittore che dell’avventura e della fantasia, il piacere
all’età di ottantasei anni ha cominciato del sogno, la sensazione di non essere
a tenere un blog, attivista al quale solo soli. Racconta la storia, sempre rinnova-
la salute ha impedito di partecipare alla ta e incompiuta, di un flagrante delitto.
spedizione di solidarietà diretta verso Quel delitto monumentale che è la con-
la striscia di Gaza, la Freedom Flotilla, dizione umana» (p. 115).
colpita da un attacco israeliano che, il 31
maggio 2010, uccise nove dei partecipan- Marianna Scaramucci
ti. A bordo c’era anche l’amico e scrittore
svedese Henning Mankell, sopravvissuto,
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
292
Marcio Veloz Maggiolo, La verdadera histo- sis, que despierta la curiosidad del sultán
ria de Aladino, Santo Domingo, Alfaguara —él también muy joven y aficionado a la
Juvenil y Editora Nacional, 2008, 112 pp.; Las crianza de mariposas gigantes y a la ca-
bodas de Caperucita, Santo Domingo, Funda- cería de luceros— y de su linda hermana
ción Educarte - Mediabyte, 2008, 52 pp. Halima. Además, la coqueta Asisa reco-
bra, gracias al genio que sirve a su hijo,
su impresionante belleza de muchacha,
Son muchos y originales los aciertos que años atrás había hechizado al padre
de la narración de Marcio Veloz Mag- del actual sultán, y éste último concibe
giolo La verdadera historia de Aladino, el deseo de realizar el sueño del difunto
ilustrada por Jovanny Silberberg, que sultán y atraer por fin a Asisa al harén.
la hacen muy merecedora del Premio Tras varias visitas entre los dos pala-
Anual de Literatura Infantil 2007 «Au- cios, el joven sultán, que había fingido
rora Tavárez Belliard» otorgado por el buscar alianza con los acaudalados ve-
Ministerio de Cultura de la República cinos, se encierra con la lámpara para
Dominicana. disfrutar de sus poderes mágicos, pero
No es la primera vez que el autor de- no lo consigue, porque el astuto Aladino
dica fascinantes páginas a los lectores había ordenado al genio que no saliera
más jovenes. Como muestra, basta re- de su escondite durante varios días. En-
cordar De dónde vino la gente, de 1978, tre Aladino y Halima florece el amor,
El jefe iba descalzo, de 1993, y Ladridos pero en su noche más feliz, el trampo-
de luna llena, de 2008. Pero aquí el mae- so mago de la corte, Ibrahim, el mismo
stro dominicano se enfrenta con una de que había robado el secreto de Aladino
las leyendas más poderosas y arraigadas penetrando en sus sueños, le arrebata la
de la imaginación literaria universal, el lámpara y la alfombra voladora. Cuando
amplio mundo que se suele reunir bajo los dos enamorados, tras un largo y di-
el membrete de las Mil y una noches, fícil camino, llegan al lugar donde antes
aun cuando filológicamente no siempre se extendía el palacio de Aladino, sólo
correspondan a la compilación más an- encuentran el desierto. Asisa también
tigua. Y lo hace con gran inventiva, ba- vuelve, a lomos de mula, vieja otra vez.
rajando todos los naipes de las tramas Nada queda del esplendoroso pasado,
tradicionales hasta crear un argumento salvo el amor de Halima, la de los siete
enredado y novedoso, con no pocos gol- velos con los colores del arco iris.
pes de teatro. Ibrahim decapita al sultán y usurpa el
Al veinteañero y apuesto Aladino le trono, devolviendo la juventud a la irre-
da una compleja genealogía, al hacerle sistible Asisa y ofreciendo un puesto de
hijo de un camellero discípulo de Alí escriba a Aladino, para vigilarlo de cerca
Babá y nieto de un sultán derrocado por con la esperanza de que le indique el ca-
beduinos fanáticos. Criado casi en or- mino hacia la inencontrable caverna de
fandad por su madre Asisa, vendedora Alí Babá. Pero los designios de Alá son
de mieles y dátiles, Aladino alcanza una otros. Una tarde en que sopla el simún,
fabulosa riqueza gracias al hallazgo de la el viento caluroso y polvoriento de los
consabida pequeña lámpara de plata co- arenales, el halcón amaestrado de Ha-
briza. Su pobre carpa se transforma en lima quita la lámpara de las manos del
un palacio maravilloso rodeado de oa- malvado mago, que acaba convertido
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RECENSIONI
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en mono saltarín, ejerciendo de paya- Y el viaje de Aladino es en buena medi-
so para la misma Halima, nueva dueña da una búsqueda de la memoria, junto
del genio. Los últimos deseos con que con la felicidad. Y es un itinerario de
éste tiene que cumplir son devolver el la escritura. Porque, como precisa muy
sultanato a Aladino y Halima, y la edad pronto el narrador: «Ésta es una parte
correcta a Asisa, y luego despedirse para de la historia que corre entre los bedui-
siempre de su oficio. nos de hoy. Pero no es la única, porque
Marcio Veloz Maggiolo conduce la las tradiciones surgen y se modifican si
narración con un gran derroche de ima- no son asentadas en los libros» (p. 23).
ginación: caballos alados que se tran- Cuando Ibrahim sube al trono, sor-
sforman en trozos de cristal de roca presivamente (quizás sea aficionado a
para descansar, camellos de tres jorobas cierta literatura de régimen dictatorial),
llamados «trimedarios», piratas con dos brinda a Aladino tinta y papel egipcio
mil esposas, girasoles azules o mejor di- para que escriba su historia y la lea du-
cho «giralunas» nocturnas que buscan rante las fiestas del palacio. Y Aladino
reflejos lunares, elefantes que produ- accede a «escribir una historia que Ibra-
cen colmillos de marfil como frutas... him revisaría cada día para acomodarla
Y tampoco faltan guiños afectuosos a la de manera tal que lo presentara como el
lejana patria chica, por ejemplo cuando mejor de los sultanes y que borrara los
se dice que sobre la cabeza de Aladino hechos negativos que pudieran colar-
«se asentaban palomas verdes y azules, se en la memoria de la gente» (p. 105).
como las que inventara el pintor Cándi- Pero en la última página del libro el nar-
do Bidó cuando reencarnó en la isla de rador revela que la definitiva y auténti-
Santo Domingo luego de sus vidas ante- ca historia escrita por Aladino es la que
riores en Bagdad» (p. 69). acaba de contarnos, luego especifica con
Pero más allá todavía de la sabia y ironía que nadie conoce el texto porque
sabrosa construcción intertextual y del se perdió. Y borra toda pista aseguran-
estado de gracia de la expresividad, lla- do que «es la misma historia que, con
ma la atención en este entrañable libro variaciones, repiten los beduinos» a los
el constante asomar de la inspiración turistas «que atraviesan el desierto en
profunda y característica de Marcio Ve- busca de cuentos, historias, aventuras y
loz Maggiolo, casi un sello de fábrica, agua» (p. 109).
aquí en su dimensión arábiga y juvenil. Es tal vez en la figura del genio donde
Desde la mismísima primera pági- más se concentra la poética del escri-
na, el libro está lleno de referencias a la tor. Cuando rejuvenece a Asisa, el genio
poética de la «memoria fermentada», puntualiza que no puede borrar de su
plural y vicaria, desarrollada lozana y mente el pasado, pero sí «fabricarle una
cabalmente en sus obras mayores. To- falsa memoria que puede usar a su an-
das las historias son variantes relativas. tojo» (p. 26). A él recurre Aladino para
Esta, que jura ser la «verdadera historia» conocer la historia de su padre, porque
de Aladino, empieza con la más terrible «el genio es un archivo de sombras y de
de las prohibiciones: en el cambio de luces, lee en el viento lo que se ha que-
dinastía se prohibe «fabular historias, dado flotando en la bruma de la memo-
escribir y comentar» buscando así «eli- ria» (p. 48). La mayor riqueza del genio,
minar para siempre la memoria» (p. 7). son, al parecer, sus biografías. En su pri-
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mer encuentro con Aladino le cuenta presenta el lobo, llamado cariñosamen-
una, luego añade: «También tengo otras te Don Feroz, en relaciones familiares
[…] y a cada uno de mis dueños les he con la abuela y Caperucita, desde que
dado la oportunidad de oírlas. Tendrás ésta última lo sacó de un barranco don-
que ver con cuál te quedas, señor Ala- de lo había encontrado agonizando,
dino» (p. 77). Y aclara todavía más en malherido por los perdigones. Caperu-
otro pasaje: «Esta biografía que te he cita conoce la historia del lobo de Gu-
narrado, no es la única, a cada dueño le bia, domesticado por San Francisco de
narro una biografía diferente. Todas son Asís, y se propone hacer de Don Feroz
en parte mentira y en parte verdad. Por un lobo bien educado, a través del afec-
lo tanto, ésta, la de mi aventura marina, to y el cambio de dieta. Así, Don Feroz
podría ser cierta o bien falsa. Los genios vive durante varios años con la abuela
no estamos obligados a decir la verdad y su nieta, y los campesinos le toman
y gozamos mucho, como los poetas, in- confianza. Caperucita cumple los veinte
ventando vidas que no hemos vivido» años y es de una belleza radiante. Tiene
(p. 30). El genio, «esclavo de los deseos un puesto de flores en el mercado y pro-
de otro», es a su manera un fabulador. Y duce en su jardín unas preciosas rosas
al final, su vocecita débil sale por última doradas. Don Feroz, su ayudante, se ha
vez de la lámpara para agradecerle a Ha- vuelto casi vegetariano.
lima la liberación: «Me vuelvo al reino Entonces se desarrolla la segunda
de la fantasía de donde vine. Ningún ser parte del plan de Caperucita: el viejo
terrenal puede matar un genio, pero sí Don Feroz, y su joven prosélito Don Lo-
puede al pedirlo, hacerlo desaparecer y bezno, son los misioneros encargados
volver a su lugar de origen, al eterno de- de convencer a los lobos de que pueden
scanso que necesitamos cuando hemos aprender a comer primero piltrafas y
tenido que sufrir por las ambiciones, luego bollos de maíz, así su vida se hará
maldades y angustias de los seres huma- menos riesgosa. Pero los dos, conver-
nos. Les dejo mis varias biografías para tidos en perros perfumados y gordos,
que cuenten a sus nietos las que cuadren no tienen éxito con la manada salvaje.
a sus temperamentos» (p. 107). Y además, se ponen celosos del Conde
Junto con su incursión en los terri- Florete, un apuesto joven señor de tier-
torios fabulísticos orientales, Marcio ras y ganados que visita a Caperucita y
Veloz Maggiolo reelabora también el le promete matrimonio. El enamora-
cuento tradicional de Caperucita Roja, miento y las bodas, clásico happy end de
en la narración Las bodas de Caperucita, los cuentos de hadas, se tornan aquí en
que forma parte de un curioso libro, Ca- un auténtico desastre: Don Feroz y Don
perucita de ida y vuelta, compuesto por Lobezno se alejan y caen en una celada
el texto que acabamos de citar y la larga de los pastores, la abuela muere lloran-
composición en versos cortos Memorias do y el rosal dorado se seca.
de Caperucita, del poeta dominicano Don Florete le regala a Caperucita
Tomás Castro Burdiez, que ocupa otras dos perros finos y aristocráticos, con
88 páginas. Ambos escritos son ilustra- los cuales va al mercado, imaginán-
dos por el grupo universitario Collage. dose que en ellos viven las almas de
Una vez más, el enfoque de Veloz sus dos amigos. A la heroína no le
Maggiolo es singular y atractivo. Nos queda sino recordar «los años de in-
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fancia, cuando con su cesta de frutas Nacional de Inteligencia per indagare su
y su capa roja visitaba a la abuela, y el un probabile colpo di stato ai danni di
Lobo Feroz la amenazaba de muerte» Obiang Nguema, che da oltre trent’anni
(p. 49), aunque «la vida se encarga de governa incontrastato. D’Awal si trova
convertir el pasado en lejanos recuer- pertanto costretto a compiere un lungo
dos, en lágrimas ya distantes» (p. 50). viaggio nel suo passato, tra altri con-
La vivencia de Caperucita es un poco nazionali anch’essi esuli a Madrid o a
la otra cara de la moneda respecto a Barcellona, a New York o in Camerun,
Aladino. Esta vez la memoria exhibe el cercando di ricomporre il puzzle della
aciago papel de consuelo por el fracaso situazione socio-politica guineana at-
de haberse atrevido a salirse del guión. tuale. Ne emerge l’immagine di una ter-
Pero en cambio también aquí Marcio ra poverissima, anche se incredibilmen-
Veloz Maggiolo consigue hábilmente an- te ricca di idrocarburi, che il governo
dar nuevos pasos por antiguos caminos. svende alle multinazionali straniere, in-
tascando tutti i profitti e lasciando mo-
Danilo Manera rire di fame la popolazione. Un dittatore
appoggiato dalla famiglia, ma anche da
forze molto potenti che provengono da
oltre confine, multinazionali, banche e
governi; un capo spietato verso gli op-
Francisco Zamora Loboch, Conspiración en positori politici e talmente terrorizzato
el green (El informe Abayak), Madrid, Sial / dall’eventualità di un golpe da spedire
Casa de África, 2009, 415 pp. in carcere al minimo pretesto chiunque
sia semplicemente di una etnia diver-
sa dalla sua. Poco a poco si scoprono i
Cosa succederebbe se al Centro Na- tasselli e ogni volta che l’immagine pare
cional de Inteligencia spagnolo arrivasse delinearsi, sopraggiunge un incontro
la soffiata che nei circoli di esuli equato- che rimescola di nuovo le carte. D’Awal
guineani si ordiscono trame per tentare viaggia, interroga, ritrova personaggi
un colpo di stato ai danni del dittatore della propria storia personale, scrittori,
Teodoro Obiang Nguema? Come po- giornalisti, oppositori politici, dissiden-
trebbero reagire i servizi di controspio- ti, prostitute e da tutti ottiene nuovi det-
naggio di quella che fu la madrepatria tagli, nuovi punti di vista, nuove rivela-
coloniale del piccolo stato africano? E zioni su quanto è accaduto negli ultimi
che ruolo hanno in questo scenario da cinquant’ anni di storia equatoguine-
romanzo poliziesco e spionistico un li- ana e su quanto continua ad accadere.
banese e un Lord inglese che su un cam- Sono personaggi volatili, che appaiono
po da golf sudafricano progettano a loro e scompaiono nel giro di poche pagine,
volta un colpo di stato? lasciando la testimonianza delle proprie
Ton D’Awal, originario della Guinea ferite. Come Papá Motuda, fuggito dal
Equatoriale, ormai da tempo risiede e carcere di Blay Bich dove era finito per
lavora a Madrid, dopo essere fuggito essere di etnia bubi, o Papá Tío Esono
dal carcere del suo paese natale. Dirige che invece per il carcere ha lavorato a
una piccola agenzia di investigazioni lungo prima di scappare disgustato dal-
privata che viene contattata dal Centro la Guinea di Obiang. O come Rosalía,
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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fancia, cuando con su cesta de frutas Nacional de Inteligencia per indagare su
y su capa roja visitaba a la abuela, y el un probabile colpo di stato ai danni di
Lobo Feroz la amenazaba de muerte» Obiang Nguema, che da oltre trent’anni
(p. 49), aunque «la vida se encarga de governa incontrastato. D’Awal si trova
convertir el pasado en lejanos recuer- pertanto costretto a compiere un lungo
dos, en lágrimas ya distantes» (p. 50). viaggio nel suo passato, tra altri con-
La vivencia de Caperucita es un poco nazionali anch’essi esuli a Madrid o a
la otra cara de la moneda respecto a Barcellona, a New York o in Camerun,
Aladino. Esta vez la memoria exhibe el cercando di ricomporre il puzzle della
aciago papel de consuelo por el fracaso situazione socio-politica guineana at-
de haberse atrevido a salirse del guión. tuale. Ne emerge l’immagine di una ter-
Pero en cambio también aquí Marcio ra poverissima, anche se incredibilmen-
Veloz Maggiolo consigue hábilmente an- te ricca di idrocarburi, che il governo
dar nuevos pasos por antiguos caminos. svende alle multinazionali straniere, in-
tascando tutti i profitti e lasciando mo-
Danilo Manera rire di fame la popolazione. Un dittatore
appoggiato dalla famiglia, ma anche da
forze molto potenti che provengono da
oltre confine, multinazionali, banche e
governi; un capo spietato verso gli op-
Francisco Zamora Loboch, Conspiración en positori politici e talmente terrorizzato
el green (El informe Abayak), Madrid, Sial / dall’eventualità di un golpe da spedire
Casa de África, 2009, 415 pp. in carcere al minimo pretesto chiunque
sia semplicemente di una etnia diver-
sa dalla sua. Poco a poco si scoprono i
Cosa succederebbe se al Centro Na- tasselli e ogni volta che l’immagine pare
cional de Inteligencia spagnolo arrivasse delinearsi, sopraggiunge un incontro
la soffiata che nei circoli di esuli equato- che rimescola di nuovo le carte. D’Awal
guineani si ordiscono trame per tentare viaggia, interroga, ritrova personaggi
un colpo di stato ai danni del dittatore della propria storia personale, scrittori,
Teodoro Obiang Nguema? Come po- giornalisti, oppositori politici, dissiden-
trebbero reagire i servizi di controspio- ti, prostitute e da tutti ottiene nuovi det-
naggio di quella che fu la madrepatria tagli, nuovi punti di vista, nuove rivela-
coloniale del piccolo stato africano? E zioni su quanto è accaduto negli ultimi
che ruolo hanno in questo scenario da cinquant’ anni di storia equatoguine-
romanzo poliziesco e spionistico un li- ana e su quanto continua ad accadere.
banese e un Lord inglese che su un cam- Sono personaggi volatili, che appaiono
po da golf sudafricano progettano a loro e scompaiono nel giro di poche pagine,
volta un colpo di stato? lasciando la testimonianza delle proprie
Ton D’Awal, originario della Guinea ferite. Come Papá Motuda, fuggito dal
Equatoriale, ormai da tempo risiede e carcere di Blay Bich dove era finito per
lavora a Madrid, dopo essere fuggito essere di etnia bubi, o Papá Tío Esono
dal carcere del suo paese natale. Dirige che invece per il carcere ha lavorato a
una piccola agenzia di investigazioni lungo prima di scappare disgustato dal-
privata che viene contattata dal Centro la Guinea di Obiang. O come Rosalía,
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ora parrucchiera in un barrio malfama- Tras la operación de cirugía estética que
to di Madrid, ma un tempo moglie di un extirpará a estos analfabetos sentados
membro del clan al potere che abusava sobre medio millón de barriles diarios,
di lei insieme a buona parte della fami- nuestro negocio va a consistir en obtener
glia. O ancora come Thompson Bohó, del nuevo ejecutivo la exclusiva de la ge-
un creolo africano emigrato in New Jer- stión de los mercados de petróleo y, sobre
sey che già in passato aveva preso par- todo, del gas guineano» (p. 394). Questo
te a un tentativo di golpe, come pure lo l’obiettivo dei giocatori di golf: mande-
stesso D’Awal del resto, e che dagli Stati ranno la pallina in buca al primo colpo?
Uniti sta cercando di riunire altri dissi- Per tutta la durata del romanzo il
denti per sferrare quello che spera sarà lettore attende la svolta, l’azione, il
l’attacco finale. Tutti quanti raccontano momento in cui si chiarirà il mistero
al nostro detective la propria storia, una sull’organizzazione del golpe e la sua
delle tante, molto spesso purtroppo si- messa in pratica, ma l’attesa si rivela
mili, che costellano gli ultimi decenni vana. Il romanzo si conclude lasciando
della Guinea Equatoriale. La doman- un velo d’incertezza sul futuro del pa-
da di fondo è sempre: quante ragioni ese e su quello dei protagonisti, quasi a
esistono per tentare un golpe e quante ricordare ancora una volta che il futuro
sono le possibilità di portarlo effettiva- non solo della Guinea Equatoriale ma di
mente a termine? tanti Paesi africani non dipende in re-
Dall’altra parte del mondo, a Città del altà da chi ci vive, ma da chi dall’ester-
Capo, in Sudafrica, un misterioso Lord e no ne gestisce gli interessi economici.
un libanese disputano una memorabile Ne è ulteriore testimonianza il doppio
partita a golf, che per certi versi cambie- punto di vista presente nel testo: da una
rà la vita del britannico, il quale, tra uno parte D’Awal e le altre decine di voci
swing e un drive, tra un birdie mancato che descrivono la situazione del paese,
e un bogey riuscito, verrà a sapere, per le storie di fuga e di prigionia, di po-
bocca del suo compagno, cosa si cela die- vertà e di violenza, senza però arrivare
tro i rapporti internazionali e nelle stan- alla svolta finale; dall’altra il Lord con
ze di governo della Guinea Equatoriale: il suo compagno libanese che analizza-
interessi petroliferi, conti svizzeri, nar- no dall’esterno la realtà socio-politico-
cotraffici tra un’ambasciata e l’altra, stre- economica, trascurando olimpicamente
goneria, appoggi politici di alto rango, il popolo guineano nel loro progetto di
tradimenti familiari e molto altro ancora. golpe. Ma forse proprio in questa poli-
Con un unico filo conduttore: proteggere fonia anche contraddittoria e in questo
i preziosi giacimenti petroliferi del sotto- punto interrogativo sul futuro sta la
suolo guineano che risvegliano moltepli- chiave profonda del romanzo.
ci interessi. Proprio per questo si rende Con Conspiración en el green (El in-
sempre più necessaria l’organizzazione forme Abayak) è stato scritto un nuovo
di un colpo di stato che metta i profitti capitolo della letteratura equatoguinea-
derivati dal petrolio finalmente al sicuro na in lingua spagnola, grazie a una delle
dalle superstizioni tribali e dall’instabilità sue figure più importanti, Francisco Za-
emotiva dell’attuale presidente della Gui- mora Loboch (1948), scrittore, musicista
nea Equatoriale: «No vamos a Guinea a e giornalista in esilio volontario a Ma-
cavar pozos, eso se lo dejamos a otros. drid da oltre trent’anni.
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Lungo tutto il romanzo le due trame lo scrittore. Ma Zamora Loboch riversa
parallele si intrecciano senza mai arri- anche nelle pagine del romanzo quello
vare veramente a fondersi, così come si che il lavoro come giornalista gli ha in-
alternano i personaggi storici e quelli di segnato: lo stile da reportage d’inchiesta,
finzione. Da una parte c’è lo sguardo di- l’attenzione al dato e alla fonte, la preci-
sincantato e a tratti cinico di D’Awal che sione nel dipingere i luoghi e le persone.
si confronta con i propri connazionali, Si fa fatica a scindere il reale dal fittizio.
che vive l’esilio come qualcosa di inelut- Poco importa tuttavia che siano real-
tabile e irreversibile e proprio per que- mente esistiti Onkulakong o Atanasio
sto si dedica anima e corpo alla ricerca Ndongo Miyone, ciò che importa sono
di informazioni sull’ipotetico colpo di le sensazioni e i patimenti dell’esilio, le
stato, informazioni che vaglia con scru- torture subite e i futili motivi per cui si
polo e assimila lentamente. Dall’altra c’è finiva in carcere. E fa rabbrividire pen-
l’analisi attenta e asettica, giornalistica e sare che buona parte di quanto raccon-
dettagliata, della Guinea Equatoriale del tato dal libanese al misterioso Lord sul
ventesimo secolo, riassumibile forse nel campo da golf possa essere fondato, che
trinomio «dictadura, petróleo y antro- al di là del tacito appoggio a una dittatu-
pofagia» (p. 227). ra per gli interessi petroliferi, i Paesi del
Tornano i temi cari a Zamora Lo- cosiddetto Primo Mondo siano davvero
boch: il Paese natale visto con gli occhi pronti a chiudere gli occhi su tutto.
dell’esiliato, gli echi di antiche leggende In questo romanzo anche lo stile su-
e riti tribali, la nostalgia per i profumi e bisce una trasformazione rispetto alla
i sapori della sua terra che si intrecciano precedente produzione dell’autore. Il
con lo sguardo critico sulla situazione linguaggio semplice e a tratti colloquia-
politica, sugli interessi economici che le, i periodi dalla struttura lineare, il les-
poco o nulla prendono in considera- sico ricco di termini tratti dalla lingua
zione la difficile situazione del popolo orale e di africanismi, si alternano ora a
equatoguineano. Tornano il panafri- una maggiore articolazione stilistica in
canismo, le critiche all’atteggiamento cui entra in gioco tutta l’esperienza for-
della Spagna durante il colonialismo e, mativa e professionale dell’autore. Ne
soprattutto, lungo le dittature di Macías sono un esempio la terminologia spe-
prima e di Obiang poi: «Suárez, su go- cifica legato al mondo del golf, bagaglio
bierno y su partido, la Unión de Cen- culturale acquisito nella sua carriera di
tro Democrático, incluso el Rey, Juan giornalista sportivo, o le immaginose
Carlos de Borbón, y la Reina, Sofía de descrizioni paesaggistiche, eredità della
Grecia se volcaron en cuerpo y alma con poesia.
su ex colonia, mejor dicho, con Teodoro Con Conspiración en el green (El in-
Obiang» (p. 201). Torna la solitudine a forme Abayak), Zamora sembra aver su-
Madrid, già comparsa in racconti e po- perato la fase di ricerca dell’identità, co-
esie, dell’equatoguineano che cerca la mune a molti scrittori equatoguineani
compagnia di chi vive la sua stessa situa- a cavallo tra il XX e il XXI secolo: dopo
zione per scrollarsi di dosso la malinco- la nostalgia e il silenzio, dopo il ricordo
nia e la sensazione di essere fuori luogo. e la rabbia è arrivato per lui il momen-
Nelle parole e nei pensieri di D’Awal to di voltare pagina e pronunciare una
pare di leggere in controluce quelli del- viva, drammatica e minuziosa denuncia
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
RECENSIONI
298
sociopolitica. Il racconto lascia al lettore ratori di microstorie di un Paese che,
l’amaro in bocca e il dubbio che vera- oltre ad aver subito per decenni una co-
mente, con così tanto in gioco, il colpo lonizzazione territoriale e culturale, ha
di stato possa essere l’unica soluzione. assistito alla scrittura della propria sto-
ria per mano dell’«altro», figura che può
Alessia Marmonti coincidere in forma ambivalente con il
dominatore coloniale e il missionario
evangelizzatore. La voce della popola-
zione del Paese occupato continua a ta-
cere, mentre la scrittura del dominatore
Donato Ndongo-Bidyogo, Il metrò, traduzio- incide le pagine della Storia ufficiale con
ne di Valeria Magnani, Siena, Edizioni Gorée, la propria conoscenza e le proprie for-
2010, 432 pp. mule di rappresentazione. Attraverso i
suoi romanzi, Ndongo-Bidyogo tenta di
colmare un vuoto di racconto, un’assen-
«Pero no podía dejar de sorprenderse za di parola mai pronunciata, una sto-
cada vez que viajaba hacia el Metro; le ria che solo l’oralità tramandata, ormai,
parecía que se había transformado en può costruire.
un ser extraño, medio animal y medio Il suo ultimo romanzo, il primo ad
humano, como un gigantesco grombif essere tradotto da noi, eredita dai pre-
que cada anochecida buscara su ma- cedenti l’importanza del recupero delle
driguera bajo los túneles de la ciudad. voci di quelli che Frantz Fanon chiama
Pensaba que no era propio de personas I dannati della terra (Torino, Einaudi,
vivas este descenso irremediable hacia 2007), ma accoglie in sé una fase avan-
las profundidades […]» (Donato Ndon- zata della riflessione postcoloniale. Se
go-Bidyogo, El metro, Madrid, El cobre, infatti le sue prime opere si fanno inter-
2007, p. 13). Lo scenario conradiano preti della critica al discorso coloniale
che si apre attraverso le prime righe del in una prospettiva cronologicamente
romanzo di Donato Ndongo-Bidyogo successiva alle colonie, Il Metrò funge
(1950) getta una nuova luce sulla produ- da trait d’union tra un passato di do-
zione letteraria dell’autore della Guinea minazione coloniale europeo e un pre-
Equatoriale, finora contraddistinta da sente caratterizzato da nuove forme di
un particolare interesse nel tracciare il colonialismo, ora di natura finanziaria
profilo della memoria storica collettiva e politica, supportate da una divisione
del suo Paese, ex colonia spagnola in se- sempre più netta tra Nord e Sud.
guito retta da regimi autocratici. Il suo protagonista, Lambert Obama
Le opere fondamentali dell’autore, Ondo, emigra dal Camerun nella spe-
Las tinieblas de tu memoria negra (Ma- ranza di raggiungere l’Europa seguen-
drid, Fundamentos, 1987) e Los poderes do le rotte clandestine. Il miraggio del
de la tempestad (Madrid, Moranti, 1997) Nord comincia a costruirsi nel suo im-
costituiscono le prime due parti di una maginario fin dalle prime tappe di viag-
trilogia che si è conclusa proprio con El gio: dal Camerun al Senegal, da Dakar
metro, pubblicato in Spagna nel 2007. I a Casablanca, e poi ancora da El Aaiun
primi due romanzi si presentano come fino alle Canarie. L’arrivo nell’arcipela-
un baule della memoria rimossa, gene- go spagnolo è una tappa fondamentale
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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l’amaro in bocca e il dubbio che vera- oltre ad aver subito per decenni una co-
mente, con così tanto in gioco, il colpo lonizzazione territoriale e culturale, ha
di stato possa essere l’unica soluzione. assistito alla scrittura della propria sto-
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Alessia Marmonti coincidere in forma ambivalente con il
dominatore coloniale e il missionario
evangelizzatore. La voce della popola-
zione del Paese occupato continua a ta-
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Donato Ndongo-Bidyogo, Il metrò, traduzio- incide le pagine della Storia ufficiale con
ne di Valeria Magnani, Siena, Edizioni Gorée, la propria conoscenza e le proprie for-
2010, 432 pp. mule di rappresentazione. Attraverso i
suoi romanzi, Ndongo-Bidyogo tenta di
colmare un vuoto di racconto, un’assen-
«Pero no podía dejar de sorprenderse za di parola mai pronunciata, una sto-
cada vez que viajaba hacia el Metro; le ria che solo l’oralità tramandata, ormai,
parecía que se había transformado en può costruire.
un ser extraño, medio animal y medio Il suo ultimo romanzo, il primo ad
humano, como un gigantesco grombif essere tradotto da noi, eredita dai pre-
que cada anochecida buscara su ma- cedenti l’importanza del recupero delle
driguera bajo los túneles de la ciudad. voci di quelli che Frantz Fanon chiama
Pensaba que no era propio de personas I dannati della terra (Torino, Einaudi,
vivas este descenso irremediable hacia 2007), ma accoglie in sé una fase avan-
las profundidades […]» (Donato Ndon- zata della riflessione postcoloniale. Se
go-Bidyogo, El metro, Madrid, El cobre, infatti le sue prime opere si fanno inter-
2007, p. 13). Lo scenario conradiano preti della critica al discorso coloniale
che si apre attraverso le prime righe del in una prospettiva cronologicamente
romanzo di Donato Ndongo-Bidyogo successiva alle colonie, Il Metrò funge
(1950) getta una nuova luce sulla produ- da trait d’union tra un passato di do-
zione letteraria dell’autore della Guinea minazione coloniale europeo e un pre-
Equatoriale, finora contraddistinta da sente caratterizzato da nuove forme di
un particolare interesse nel tracciare il colonialismo, ora di natura finanziaria
profilo della memoria storica collettiva e politica, supportate da una divisione
del suo Paese, ex colonia spagnola in se- sempre più netta tra Nord e Sud.
guito retta da regimi autocratici. Il suo protagonista, Lambert Obama
Le opere fondamentali dell’autore, Ondo, emigra dal Camerun nella spe-
Las tinieblas de tu memoria negra (Ma- ranza di raggiungere l’Europa seguen-
drid, Fundamentos, 1987) e Los poderes do le rotte clandestine. Il miraggio del
de la tempestad (Madrid, Moranti, 1997) Nord comincia a costruirsi nel suo im-
costituiscono le prime due parti di una maginario fin dalle prime tappe di viag-
trilogia che si è conclusa proprio con El gio: dal Camerun al Senegal, da Dakar
metro, pubblicato in Spagna nel 2007. I a Casablanca, e poi ancora da El Aaiun
primi due romanzi si presentano come fino alle Canarie. L’arrivo nell’arcipela-
un baule della memoria rimossa, gene- go spagnolo è una tappa fondamentale
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RECENSIONI
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del suo viaggio, ma si tramuta imme- gli resta ancora da percorrere. Le viscere
diatamente nell’inizio di una nuova suc- della capitale rappresentano uno spa-
cessione di prove intermedie, necessarie zio di esistenza in itinere. Il movimento
per la realizzazione del suo progetto: circolare del mezzo di trasporto evoca
ottenere un lavoro e il un relativo benes- l’idea di un viaggio non-finito, un pe-
sere economico. Il viaggio verso il sogno regrinare inconcluso che potrebbe non
si tramuta in una discesa nella profon- volgere mai al suo termine, elemento
dità del sé, un percorso parallelo sotter- che caratterizza la natura umana, ma
raneo o sottomarino durante il quale il che contraddistingue per antonoma-
protagonista entra in contatto con l’im- sia colui che “migra”. Il migrante so-
magine della morte o della non-vita. Il gna la partenza, ma la realizzazione di
primo itinerario, verso il Senegal, avvie- quest’ultima cede il passo a nuovi oriz-
ne a bordo di una nave mercantile; Oba- zonti sempre differenti che, spesso, con-
ma Ondo, nascosto nella stiva tra cata- templano la via del ritorno. La Madrid
ste di legname, percepisce la debolezza presentata nell’incipit del romanzo an-
del proprio corpo e la tragicità della sua nuncia una lettura esistenziale dell’espe-
condizione di “invisibile”. Il suo lamento rienza migrante, integrata da una pro-
per la sofferenza fisica si perde nell’oscu- spettiva neo-coloniale. Parafrasando
rità dell’ambiente e nella solitudine della Salman Rushdie in Patrie immaginarie
clandestinità, tuttavia ciò che più lo af- (Milano, Mondadori, 1992), si può dire
fligge è la perdita della consapevolezza che l’immigrato contemporaneo che
e della coscienza. Il sacrificio corporale oggi abita la metropoli occidentale è
porta con sé un imbarbarimento dell’es- ormai una presenza immanente alla so-
sere umano, condizione ancor più tra- cietà del cosiddetto Primo Mondo. La
gica poiché percepita appieno dal pro- sua comparsa entro i confini del mondo
tagonista. industrializzato denuncia non solo l’esi-
Dopo numerose peripezie, Obama stenza di un legame storico pregresso,
Ondo riesce a raggiungere la capita- individuato nelle diverse esperienze di
le spagnola. Si tratta, tuttavia, di una colonizzazione del XIX e del XX seco-
Madrid non convenzionale. In effetti il lo, bensì la persistenza di un intreccio
primo contatto con essa si realizza nei economico che è andato mantenendo-
suoi antri sotterranei, la metropolita- si pur con la risoluzione dei successivi
na, spazio che incarna il simbolo della processi di decolonizzazione. Il richia-
modernità occidentale in opposizione mo di forza lavoro a basso costo dei Pa-
al mondo tradizionale africano e che esi occidentali ne è un evidente segnale,
rappresenta l’intreccio della dimensione ben esemplificato da Ndongo-Bidyogo
sociale collettiva della folla e dell’indi- nel fondamentale episodio ambientato
vidualità del singolo (cfr. Ilaria Rossi- nelle campagne di Murcia. Torre Pache-
ni, «Modernità migranti e interstizi di co, località di campagna in provincia
potere: “El Metro” di Donato Ndongo», di Albacete, attira ogni anno numerosi
Confluenze, 3, 1 (2011), pp. 126-138). Il lavoratori stranieri per attività agricole.
metrò, nell’esperienza del personaggio Obama Ondo riesce a partecipare come
di Ndongo-Bidyogo, diviene anche una bracciante rurale, ma fin dal suo arrivo
metafora del viaggio, a metà strada tra percepisce le condizioni disumanizzan-
quello che ha già realizzato e quello che ti del suo prossimo futuro. L’oscurità
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ricorre con frequenza nelle descrizioni sua natura eccedente, l’equatoguineano
della sua esperienza: il buio della notte esprime il proprio potere eversivo pro-
favorisce l’uscita dei migranti clande- ponendo una rappresentazione alterna-
stini dalle baracche nelle quali abitano, tiva del mondo.
ai margini dei centri abitati, spesso in
prossimità degli stessi campi coltiva- Sara chiodaroli
ti. La notte avvolge come un manto le
esistenze silenziose e silenziate dei la-
voratori irregolari, la cui presenza è le-
gittimata dalla comunità locale solo se
connessa all’incontestabile lavoro diur- Elena Landone, Los marcadores del discurso
no. Il giorno e la notte decidono delle y la cortesía verbal en español, Berna, Peter
loro vite, metabolizzate nella coscienza Lang, 2009, 390 pp.
dei locali solo attraverso l’utilità dei loro
corpi operosi.
Il luogo sotterraneo della metropo- De los numerosos campos que se han
litana si ripropone sul finire della nar- desarrollado en los últimos tiempos en
razione, offrendo un’ultima preziosa el ámbito de la lingüística pragmática, el
opportunità di riflessione intorno al de los marcadores del discurso y el de la
legame tra la condizione della clandesti- cortesía verbal son sin duda dos de los
nità e le possibilità di esistenza ai margi- más fecundos y dinámicos: por el núme-
ni dei circuiti urbani principali. Obama ro de estudios realizados en torno a es-
Ondo, ormai insediatosi stabilmente tos temas, en constante aumento, por el
a Madrid, propone una topografia ur- nivel de especialización que han alcan-
bana alternativa a quella normalmente zado y por su difusión en toda la comu-
conosciuta da un abitante della capita- nidad científica del hispanismo. Pocos
le o da un turista. Il suo lavoro di top son, en cambio, los trabajos que enfren-
manta, ovvero di venditore ambulante, tan un estudio sobre las relaciones entre
richiede un’attenta e meticolosa ricerca marcación discursiva y cortesía verbal,
di spazi entro i quali sia possibile espor- a pesar de que en sendas investigaciones
re la propria merce, nonché la capacità, fuera evidente que existen vínculos en-
in caso di controlli della Guardia Civil, tre los dos campos. ¿Qué posibilidades
di trovare una via di fuga. I corridoi la- tienen los marcadores del discurso de
birintici del metrò di Madrid non rap- actuar como índices de regulación inte-
presentano solo un luogo di passaggio raccional y social para conseguir el éxito
funzionale agli utenti della metropoli- de la acción comunicativa?
tana, ma acquistano un valore aggiunto El poderoso estudio de Elena Lan-
nella prospettiva di Obama Ondo, per done, Los marcadores del discurso y la
il quale l’unica possibilità di mantenere cortesía verbal en español, intenta col-
vivo il proprio sogno passa attraverso la mar este vacío mostrándonos, ya desde
necessità di nascondere il proprio lavo- las premisas, las principales dificultades
ro e il proprio corpo. La forza narrativa que entraña dicha tarea. La abundante
del protagonista si situa nel suo essere literatura que se ha venido ocupando
clam-intestinus: parte integrante di un de la marcación del discurso aún carece
sistema che non può accettarlo per la de una definición compartida sobre sus
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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funciones pragmáticas, lo que represen- clase semántico-pragmatica y se presen-
ta un escollo para el análisis en cuanto a ta una síntesis de los diferentes enfoques
su valor de cortesía verbal. Y de manera de investigación que han sido adoptados
paralela en el campo de la cortesía ver- por los especialistas en lengua española.
bal, todavía se manejan nociones poco Se descubre así, que prevalecen los en-
precisas, externas a la lingüística y defi- foques basados en el análisis de las par-
niciones con confines borrosos. Es por tículas que prototípicamente abundan
ello que, antes de dar una respuesta a en situaciones enunciativas monológi-
la pregunta de fondo, la autora hace un cas. Esto se debe a que los trabajos cien-
largo y exhaustivo recorrido sobre el tíficos en ámbito hispánico se han cen-
estado de las investigaciones de los dos trado en textos escritos y han focalizado
campos que se toman en consideración. la conexión lógico-semántica entre las
En el primer capítulo se discute so- partes del texto, prevalentemente en su
bre la noción de cortesía verbal con dimensión conectiva y argumentativa,
relación a las necesidades personales e lo que constituye un evidente límite. La
interpersonales, a las normas grupales y misma denominación terminológica de
sociales y a los procesos cognitivos. El marcadores del discurso parece ligada
trasfondo teórico es la concepción del a esta tradición de estudios y no siem-
lenguaje como acción e interacción, en pre resulta suficientemente precisa para
el sentido de que su existencia se funda- unidades que cumplen funciones como
menta en las funciones de sociabilidad. las de ser indicadores de modalidad y
Tras examinar los modelos de cortesía actitud, señales de intención y relación
verbal dominantes en el mundo hispá- entre interlocutores o instrucciones de
nico, Landone propone el que postula procesamiento. Por esto, la autora con-
la cortesía como un fenómeno con una sidera oportunas otras denominaciones
base cognitiva y con parámetros social- como partículas discursivas, marcado-
mente formados, que se manifiesta lin- res pragmáticos o partículas pragmáti-
güísticamente en un contexto situacio- cas que utiliza en su estudio como sinó-
nal complejo, con recursos más o menos nimos de la denominación más usual.
convencionales. En el capítulo tres se pasa a la dimen-
Siguiendo esta perspectiva de análi- sión dialógica del discurso y se plantea
sis, surge la necesidad de encuadrar un una organización de la materia según
número amplio de variables, pasando prototipos —con funciones nucleares y
del monopolio de la imagen pública o funciones contextuales— y planos del
de las relaciones sociales, a otros aspec- discurso que se pueden activar de for-
tos como el tenor de la comunicación, la ma sinérgica y simultánea. La situación
rutinariedad del acto de habla, el género enunciativa dialógica toma en conside-
textual, el tema y la retórica, la comuni- ración las condiciones psico-físicas de
cación emotiva, el registro, la dinámica la verbalización oral y escrita, junto al
interna del discurso, etc. nivel de la interactividad cara a cara y a
El segundo capítulo se ocupa de los la relación que éste conlleva. Se aborda
marcadores del discurso a los que se el hecho de que la situación enunciativa
asocia la definición de Wierzbicka: ac- dialógica, tanto oral como escrita, im-
ciones de la mente. Ante todo se aborda plica participantes que cumplen actos
el problema de su delimitación como comunicativos en una dimensión rela-
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cional y que ésta influye manifiestamen- Tras haber despejado el campo teó-
te sobre la frecuencia y la tipología de la rico y haber puntualizado el marco ter-
marcación discursiva. La autora destaca minológico y conceptual en el cual se
la dialogicidad como centro de interés mueve, la autora analiza los marcadores
para radicar en ella una propuesta nue- pragmáticos asociados a las dinámicas
va de integración de perpectivas sobre de cortesía verbal. Recoge y describe
los marcadores, ya que si las relaciones todos los marcadores que, según la li-
sociales se despliegan en la interacción, teratura especializada, pueden codificar
ésta parece ser el lugar privilegiado de de forma metalingüística una señal de
la cortesía verbal y de sus dinámicas. regulación cortés en la relación dialó-
De ahí que la dialogicidad se convierta gica. Las categorías adoptadas para su
en un punto de observación privilegia- descripción son las de modulación de
do y permita integrar una tradición de la proximidad, negociación del acuer-
estudios de base textual con una más do y desacuerdo, modulación de la in-
conversacional y añadir la dimensión tensidad y la especificidad, los mismos
menos estudiada acerca de la relación principios organizadores que se han
socio-afectiva, y por ende cortés, entre propuesto a lo largo del libro. Además
los interlocutores. se anotan algunos casos de repetición,
Antes de pasar al estudio empírico combinación y acumulación de marca-
de esta dimensión, Landone considera dores del discurso.
necesario profundizar en las nociones Siendo este un estudio de carácter
psicológicas y en las categorías lingüís- descriptivo la primera conclusión que se
ticas que se han reelaborado a propó- puede apreciar es de tipo cuantitativo: el
sito de la relación entre interlocutores, número de partículas pragmáticas anali-
ya que con frecuencia son nociones zadas resulta ser significativamente alto,
muy similares a las que los estudios de dejando salva la anotación de que éstas,
la cortesía verbal suelen evocar. En el como todo recurso lingüístico, no son
terreno relacional, la dimensión psi- inherentemente corteses o descorteses.
cológica es importante y a ella remiten La segunda conclusión es una consi-
unas cuantas categorías emotivas como: deración de tipo más general; Landone
afiliación, solidaridad, poder, control, observa que la relacionalidad, con su
distancia, responsabilidad, asertividad, extenso dominio psicológico, puede in-
involvement, etc. A éstas se correspon- fluir de forma relevante en las elecciones
den ciertas manifestaciones lingüísticas: lingüísticas que cumplen los hablantes,
intensificar, mitigar, enfatizar, modular, ejercitando una presión que se concreta
etc. Se analizan de manera detenida las en información pragmática. Los mar-
nociones psicológicas de proximidad y cadores del discurso son, en este sen-
negociación del acuerdo así como las tido, señales lingüísticas que vehiculan
categorías pragmalingüísticas de inten- tal presión. Por ello, añade, es relevante
sidad y especificidad, sin olvidar que un la vertiente social de la comunicación;
recurso lingüístico no es propiamente quienes comunican (el tú y el yo ) no son
cortés o descortés por su naturaleza, ya individuos aislados sino miembros
sino porque un hablante lo asocia, más de un grupo social, cultural, étnico, re-
o menos convencionalmente, a inten- ligioso, político, profesional, que hacen
ciones de cortesía verbal. parte de complejas redes de relaciones
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
RECENSIONI
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y configuran las estructuras sociales. De sistemática. Por ello mismo, la biblio-
ahí que la perspectiva para el estudio de grafía que presenta es otro instrumen-
la lengua una la pragmalingüística y la to precioso y de gran utilidad: extensa
sociopragmática. Esto significa entrar y completa, está convenientemente se-
a considerar de manera sistemática los leccionada y actualizada, además de ser
factores contextuales y no solamente precisa y bien recopilada.
el código lingüístico, por una parte, y A esta primera consideración co-
por otra, concebir el contexto como un rresponde un gran rigor investigativo.
verdadero lugar social en el que interac- Landone no descuida ningún aspec-
túan identidades, relaciones, comporta- to durante su indagación, no desvía su
mientos, pulsiones, conflictos, etc. atención ante cuestiones cuyo trata-
Para mostrar las implicaciones de miento hubiera sido fácil dejar de lado.
estas últimas reflexiones, la autora las Por el contrario, las enfrenta dejando
proyecta en un horizonte pedagógico hablar y debatir a los autores mismos
y nos recuerda la relevancia de la edu- cuyas constantes citas demuestran el
cación comunicativa entre los varios paciente trabajo que hay detrás de esta
‘saberes’ de la competencia comunica- obra. Todo lo anterior le da la autoridad
tiva. En este ámbito, la cortesía verbal para formular propuestas originales,
ocupa un papel determinante siendo como en el caso de las taxonomías de los
clave en la cooperación conversacional marcadores discursivos o de los cuadros
y relacional. Habiendo demostrado que sintéticos de las relaciones entre fun-
un número significativo de marcadores ciones prototípicas de los marcadores
pueden ser herramientas de la cortesía y su participación en la cortesía verbal.
verbal, resulta claro que su enseñan- En suma, una importante contribución
za deba ocupar un lugar prioritario: para la investigación y la didáctica de la
son indispensables para desarrollar la lengua española.
nexualidad por ser formas sintéticas
que tienen una alta operatividad y ren- María del Rosario
tabilidad a la hora de expresar e inter- Uribe mallarino
pretar los enunciados. En este sentido
el presente estudio constituye un exce-
lente instrumento en el panorama de la
didáctica del español.
Antes de concluir es preciso aña- Nuria Pérez Vicente, Traducción y contexto.
dir que esta obra es el resultado de una Aproximación a un análisis crítico de traduc-
búsqueda exhaustiva en la que los dos ciones con fines didácticos, Urbino, Quattro-
campos de investigación y sus rela- Venti, 2010, 262 pp.
ciones han sido indagados a fondo sin
descuidar ningún aspecto. A lo largo
de la lectura resulta claro que la autora Era da tempo che nel campo degli
está manejando conceptos que ha hecho studi sulla traduzione dallo spagnolo
suyos considerando todas las opciones all’italiano si attendeva un testo come
que la literatura especializada le ofrece. quello scritto da Nuria Pérez, ricercatrice
No era tarea fácil, visto que tales campos dell’università di Macerata che si occupa
no han encontrado aún una definición principalmente di traduzione e ricezione
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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y configuran las estructuras sociales. De sistemática. Por ello mismo, la biblio-
ahí que la perspectiva para el estudio de grafía que presenta es otro instrumen-
la lengua una la pragmalingüística y la to precioso y de gran utilidad: extensa
sociopragmática. Esto significa entrar y completa, está convenientemente se-
a considerar de manera sistemática los leccionada y actualizada, además de ser
factores contextuales y no solamente precisa y bien recopilada.
el código lingüístico, por una parte, y A esta primera consideración co-
por otra, concebir el contexto como un rresponde un gran rigor investigativo.
verdadero lugar social en el que interac- Landone no descuida ningún aspec-
túan identidades, relaciones, comporta- to durante su indagación, no desvía su
mientos, pulsiones, conflictos, etc. atención ante cuestiones cuyo trata-
Para mostrar las implicaciones de miento hubiera sido fácil dejar de lado.
estas últimas reflexiones, la autora las Por el contrario, las enfrenta dejando
proyecta en un horizonte pedagógico hablar y debatir a los autores mismos
y nos recuerda la relevancia de la edu- cuyas constantes citas demuestran el
cación comunicativa entre los varios paciente trabajo que hay detrás de esta
‘saberes’ de la competencia comunica- obra. Todo lo anterior le da la autoridad
tiva. En este ámbito, la cortesía verbal para formular propuestas originales,
ocupa un papel determinante siendo como en el caso de las taxonomías de los
clave en la cooperación conversacional marcadores discursivos o de los cuadros
y relacional. Habiendo demostrado que sintéticos de las relaciones entre fun-
un número significativo de marcadores ciones prototípicas de los marcadores
pueden ser herramientas de la cortesía y su participación en la cortesía verbal.
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za deba ocupar un lugar prioritario: para la investigación y la didáctica de la
son indispensables para desarrollar la lengua española.
nexualidad por ser formas sintéticas
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tabilidad a la hora de expresar e inter- Uribe mallarino
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Antes de concluir es preciso aña- Nuria Pérez Vicente, Traducción y contexto.
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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della letteratura spagnola in Italia, come di operare criticamente su due fronti:
testimonia il precedente La narrativa quello testuale, scandagliato soprattutto
española del siglo XX en Italia: traduc- in base ai parametri plasmati da Beau-
ción e interculturalidad (Pesaro, edizioni grande e Dressler quali la coesione, la
studio alf@, 2006), di cui questo può es- coerenza, l’intenzionalità, l’accettabilità,
sere considerato il complemento ideale. l’informatività, la situazionalità e l’in-
Traducción y contexto parte infatti da tertestualità, dei quali il traduttore deve
un approccio di tipo testuale alla tradu- tenere conto per trasferirli correttamen-
zione per offrire un ampio inventario di te dal prototesto al metatesto; e quello
casi di studio, in un’ottica che guarda in- contestuale, inteso in senso linguistico
sieme alla ricerca scientifica e all’appli- (cioè con riferimento alla relazione fra
cazione didattica, coniugando il solido le componenti testuali del discorso), si-
impianto teorico sviluppato nella prima tuazionale (a seconda delle circostanze
parte del lavoro con l’analisi pratica di concrete in cui viene emesso un certo
testi spagnoli contemporanei tradotti in messaggio) e socio-culturale.
italiano. Un elemento che secondo la Pérez
Il risultato è un manuale rivolto sia bisogna tenere in particolare conside-
a docenti che a studenti di traduzione razione, specie per quel che concer-
spagnola, nel quale si segue un artico- ne la didattica della traduzione, è una
lato percorso attraverso strategie e im- pertinente classificazione delle varie
postazioni traduttive diverse, catalogate tipologie testuali, una questione su cui
soprattutto in base al modello di conte- esistono gli approcci teorici più svariati
sto proposto da Hatim e Mason, e quin- e rispetto ai quali nel saggio si predili-
di a partire dalle tre dimensioni fonda- ge sempre la linea di Hatim e Mason,
mentali che configurano un testo, quella imperniata sul concetto di multifun-
comunicativa (che spiega la variazione zionalità, volto ad ammettere che un
linguistica in base all’uso e al tipo di testo possa denotare simultaneamente
parlante), pragmatica (che si riferisce funzioni diverse, riassunte in un model-
all’intenzionalità del discorso e degli lo che a livello macroscopico distingue
atti linguistici) e semiotica (che tratta il semplicemente tra quella espositiva,
testo come un insieme di segni funzio- quella argomentativa e quella esortativa.
nante in un certo sistema culturale). A dispetto di questo, appare molto ap-
E proprio la nozione di contesto che, propriata la prescrizione da parte della
com’è noto, condiziona più di ogni al- studiosa a non incorrere in un utilizzo
tra cosa qualsiasi processo traduttivo, è rigido e aprioristico di tali categorie ti-
il filo conduttore dello studio, anche se pologiche nella prassi didattica, giacché,
nei primi capitoli viene concesso ampio in particolare per quanto riguarda i testi
spazio ai principali esiti della lingui- letterari, possono risultare di scarsa ef-
stica testuale applicata alla traduzione, ficacia, data la natura eterogenea e, ap-
che tuttavia, come precisa da subito punto, multifunzionale degli stessi.
l’autrice, non basterebbero ad analizza- Alla specificità del discorso letterario
re e spiegare la prassi della traduzione è dedicato il terzo capitolo della sezione
senza il riferimento al quadro socio- teorica, nel quale si delineano le impli-
culturale in cui si compie il passaggio da cazioni traduttive inerenti la “letterarie-
una lingua all’altra. Di qui la necessità tà” e la “finzionalità” di un dato testo,
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concedendo un ruolo di rilievo all’idio- do attenzione al genere, all’autore, alla
letto che lo caratterizza e alla tradizione tecnica narrativa e al contesto storico e
intertestuale a cui si rifà, per concludere culturale dell’uno e dell’altro. Si passerà
che la funzione del traduttore in questi poi allo studio dettagliato del metatesto,
casi è molto simile a quella del critico indagando il tipo di edizione realizza-
letterario, dal momento che ha il compi- ta, la casa editrice, l’eventuale apparato
to di identificare i meccanismi di produ- paratestuale nonché le condizioni della
zione e le strategie comunicative adotta- ricezione e la posizione dell’autore nel
te da un certo autore per poi riprodurle sistema letterario della cultura d’arrivo.
nel testo d’arrivo. In virtù di questo, vie- Infine si realizzerà l’analisi contrastiva
ne sottolineata l’importanza della tradu- dei due testi, osservando gli elementi
zione nel processo della comunicazione più salienti per la valutazione tradutto-
letteraria, a partire dalla premessa che la logica come la resa dei culturemi, delle
letteratura è una «interpretación transi- unità fraseologiche, delle figure retori-
tiva» (p. 32), che non termina in chi la che e dei giochi di parole, al fine di de-
realizza, ma che apre costantemente al terminare il tipo di strategia traduttiva
prolungamento dell’asse comunicativo impiegata, che si orienterà più nel senso
da parte di chi traduce. dello straniamento o della familiarizza-
Per quanto riguarda la didattica della zione (categorie proposte da Lawrence
traduzione, il quarto capitolo offre una Venuti alle quali si affiancano quelle di
serie di spunti utili sia per chi insegna traduzione semantica e comunicativa,
sia per chi studia le tecniche della tradu- rispettivamente, introdotte da Peter
zione. In primo luogo, partendo soprat- Newmark).
tutto dalle riflessioni di Hurtado Albir, Le parti del capitolo che sembrano
si insiste sullo sviluppo della competen- più utili per gli studenti di traduzione
za traduttiva – che è insieme comuni- sono, da un lato, quelle inerenti alle di-
cativa e contrastiva – attraverso un tipo verse tecniche traduttive, che contem-
di pedagogia «activa y heurística» (p. plano i procedimenti indicati sempre da
37), che a livello pratico si articolerà in Hurtado Albir sulla scorta delle teorie
due attività fondamentali: la traduzione di Newmark e che spaziano dalla com-
diretta e l’analisi di traduzioni preesi- pensazione alla generalizzazione pas-
stenti. Nella prima si privilegerà l’ac- sando per i cosiddetti equivalenti cultu-
quisizione della metodologia basilare, il rali, funzionali o descrittivi, e, dall’altro
dominio degli elementi della linguistica quelle dedicate alle fonti di documenta-
contrastiva, la conoscenza degli aspetti zione lessicografica ed enciclopedica, di
più significativi del mestiere nel merca- grande utilità per gli aspiranti traduttori.
to editoriale e delle fonti di documen- L’ultima sezione dell’introduzione
tazione disponibili per il traduttore e, teorica è quella che rimanda più diret-
infine, la padronanza delle strategie ne- tamente alla seconda parte del lavoro,
cessarie ad affrontare la traduzione delle basata, come già accennato, su un cor-
diverse tipologie testuali. Nella seconda, pus di testi narrativi suddivisi in base
si partirà da un approccio descrittivo, alle difficoltà di traduzione che sorgono
comunicativo e funzionale per indivi- a seconda di problemi determinati dal
duare innanzi tutto gli aspetti extra-te- contesto comunicativo, da quello prag-
stuali di prototesto e metatesto, prestan- matico o da quello semiotico. Per quanto
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concerne il primo, gli ostacoli traduttivi base alle esigenze (di solito commer-
analizzati riguardano la resa dell’idiolet- ciali) della cultura ricevente e che qua-
to dei diversi autori affrontati (da Cela si mai, come non manca di sottolineare
a Sánchez Ferlosio passando per Luis l’autrice, dipendono dalla volontà di chi
Martín-Santos), quella del registro col- traduce. Si tratta di quei casi in cui nel
loquiale e dell’argot (dove appaiono di processo traduttivo intervengono con-
grande interesse i casi di Pérez Reverte e dizionamenti dovuti alle convenzioni di
Lucía Etxebarria) e quella degli elementi un certo filone letterario, come succede
appartenenti ad altre varietà geografiche ad esempio con alcuni romanzi di Anto-
(ad esempio, gli indigenismi presenti in nio Muñoz Molina di cui parla la Pérez,
Tirano Banderas di Valle-Inclán o i cul- la cui versione italiana mostra una serie
turemi di origine galega in alcune opere di aggiustamenti che ne accentuano l’ap-
di Cela). partenenza al genere del noir, incidendo
Passando ai problemi che hanno a che sul ritmo della narrazione ma anche sulla
vedere con il secondo tipo di contesto, la completezza nella riproduzione dei testi
studiosa si rifà ai meccanismi di coope- originali, che vengono spesso ridotti. Un
razione testuale introdotti dalla pragma- altro esempio è quello di un romanzo di
tica per soffermarsi sulla resa dell’ironia Llamazares, caratterizzato da una prosa
(usando testi molto diversi fra loro, lirica e da una cadenza lenta che nella
dall’Albero della scienza di Baroja fino a traduzione italiana vengono attenuate
Il meglio che possa capitare a una brio- e semplificate per rendere il testo più
che di Pablo Tusset) e sulla riproduzio- fruibile per qualsiasi tipo di lettore. Un
ne delle metafore (in autori come Juan secondo tipo di manipolazione è quella
Ramón Jiménez, Blasco Ibáñez e Rosa che, secondo la studiosa (che si rifà per
Chacel) e del malinteso (Machado e Pé- tutta questa parte alla linea teorica che
rez de Ayala). Riprende invece la teoria fa capo a Lefevere), dipende dalle con-
della rilevanza di Sperber e Wilson per suetudini ideologiche e morali dell’epo-
esaminare le scelte traduttive riguardan- ca in cui viene tradotto un determinato
ti alcune metafore in un testo in prosa testo. Due casi significativi analizzati nel
di García Lorca o i giochi di parole nelle saggio sono quello del già citato Tira-
greguerías di Gómez de la Serna. Infine no Banderas, tradotto nel 1964 con una
approfondisce il discorso osservando la strategia volta a mitigare la carica vio-
riformulazione di neologismi o giochi lenta di alcuni passi, e Senos di Ramón
metalinguistici in un testo di Millás e Gómez de la Serna, del quale esistono
in un libro scritto da Pedro Almodóvar. due traduzioni, del 1960 e del 1991, che
Le difficoltà traduttive legate al con- denotano, l’una, un approccio che segue
testo semiotico riguardano innanzi tutto da vicino, rimarcandola soprattutto nel-
la resa dell’intertestualità e degli elemen- le scelte lessicale, la visione apertamente
ti culturali (con esempi basati su testi di patriarcale e talvolta maschilista sottesa
David Trueba, Julio Llamazares e altri al testo, e l’altra, un orientamento più
già citati) che in molti casi implicano, neutro e pacato, che non intende fo-
com’è noto, un adattamento al sistema mentare in alcun modo la concezione di
d’arrivo. D’altro canto, hanno a che fare stampo tradizionalista proposta.
con adattamenti meno innocenti, quelli Il tono generale con cui viene portata
che può presupporre una traduzione in a termine l’analisi non fa che accrescere
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la qualità del manuale, giacché l’autrice Sin embargo, la aplicación de estos
ha il merito, fra gli altri, di non cedere estudios a la enseñanza del español a ex-
un solo istante alla tentazione di emet- tranjeros es todavía bastante reducida y
tere giudizi di valore sulle impostazioni sigue viva la creencia de que el orden de
traduttive esaminate, ma anzi le scom- las palabras en español es bastante libre
pone in modo rigorosamente scienti- y por lo tanto no se necesita una pro-
fico lasciando a chi legge le inevitabili fundización en el ámbito de la lingüís-
valutazioni del caso. Si tratta pertanto tica aplicada y de la didáctica, creencia
di uno strumento fondamentale per lo que deja de lado los problemas que pue-
studio e l’insegnamento della traduzio- den surgir por transferencia a causa de
ne dallo spagnolo all’italiano, che, in las grandes desigualdades que existen
base all’ampiezza dell’impianto critico al respecto entre los diversos idiomas,
e alla varietà degli esempi pratici de- incluso de la misma familia lingüística.
scritti, possono essere affrontati secon- El estudio de Villalba se divide en tres
do molteplici punti di vista, attingendo macrocapítulos: conceptos fundamen-
in modo equilibrato ai diversi ambiti tales, construcciones con orden marca-
– linguistico, letterario e culturale – che do de base gramatical y construcciones
formano il crocevia in cui si colloca la con orden de base informativa (este úl-
pratica traduttiva, terra di frontiera per timo se divide en dos apartados: el foco
eccellenza. y el tema). En el cuarto capítulo (apén-
dices) encontramos las abreviaturas y
Natalia Cancellieri una útil bibliografía comentada.
A lo largo de todo el texto se puede
apreciar un patrón de explicación a tres
niveles:
1. Siempre se empieza por la gramáti-
Xavier Villalba, El orden de las palabras en ca, según un enfoque descriptivo, don-
español, Madrid, Castalia ELE, 2010, Madrid, de se proporcionan normas de uso de la
96 pp. lengua enriquecidas por ejemplos.
2. Sigue una parte de gramática con-
trastiva, en la que se dan breves expli-
El tema de estudio de esta monogra- caciones del funcionamiento de otras
fía de Villalba de 2010 es, como el títu- lenguas. Se ponen ejemplos de frases en
lo sugiere, el orden de las palabras en otros idiomas, con la traducción literal y
la lengua española. Parece ser que este el equivalente italiano.
tema sea de especial interés en los últi- 3. Al final, se pasa a la aplicación di-
mos años: los trabajos clásicos sobre este dáctica de la norma, con sugerencias
asunto se remontan a los años ochenta, para el profesor y ejercicios para practi-
pero es a partir del nuevo milenio que car lo aprendido.
se desarrollan con más frecuencia en el Después de estos tres pasos, para cada
ámbito académico. El orden de las pala- explicación suele haber un recuadro, ti-
bras se convierte en un tema de investi- tulado “conclusión”, que resume en pocos
gación fundamental y se relaciona cada puntos los contenidos recién expuestos.
vez más con los rasgos suprasegmenta- En el primer capítulo se tratan los
les y los factores pragmáticos. conceptos fundamentales relativos al
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307
la qualità del manuale, giacché l’autrice Sin embargo, la aplicación de estos
ha il merito, fra gli altri, di non cedere estudios a la enseñanza del español a ex-
un solo istante alla tentazione di emet- tranjeros es todavía bastante reducida y
tere giudizi di valore sulle impostazioni sigue viva la creencia de que el orden de
traduttive esaminate, ma anzi le scom- las palabras en español es bastante libre
pone in modo rigorosamente scienti- y por lo tanto no se necesita una pro-
fico lasciando a chi legge le inevitabili fundización en el ámbito de la lingüís-
valutazioni del caso. Si tratta pertanto tica aplicada y de la didáctica, creencia
di uno strumento fondamentale per lo que deja de lado los problemas que pue-
studio e l’insegnamento della traduzio- den surgir por transferencia a causa de
ne dallo spagnolo all’italiano, che, in las grandes desigualdades que existen
base all’ampiezza dell’impianto critico al respecto entre los diversos idiomas,
e alla varietà degli esempi pratici de- incluso de la misma familia lingüística.
scritti, possono essere affrontati secon- El estudio de Villalba se divide en tres
do molteplici punti di vista, attingendo macrocapítulos: conceptos fundamen-
in modo equilibrato ai diversi ambiti tales, construcciones con orden marca-
– linguistico, letterario e culturale – che do de base gramatical y construcciones
formano il crocevia in cui si colloca la con orden de base informativa (este úl-
pratica traduttiva, terra di frontiera per timo se divide en dos apartados: el foco
eccellenza. y el tema). En el cuarto capítulo (apén-
dices) encontramos las abreviaturas y
Natalia Cancellieri una útil bibliografía comentada.
A lo largo de todo el texto se puede
apreciar un patrón de explicación a tres
niveles:
1. Siempre se empieza por la gramáti-
Xavier Villalba, El orden de las palabras en ca, según un enfoque descriptivo, don-
español, Madrid, Castalia ELE, 2010, Madrid, de se proporcionan normas de uso de la
96 pp. lengua enriquecidas por ejemplos.
2. Sigue una parte de gramática con-
trastiva, en la que se dan breves expli-
El tema de estudio de esta monogra- caciones del funcionamiento de otras
fía de Villalba de 2010 es, como el títu- lenguas. Se ponen ejemplos de frases en
lo sugiere, el orden de las palabras en otros idiomas, con la traducción literal y
la lengua española. Parece ser que este el equivalente italiano.
tema sea de especial interés en los últi- 3. Al final, se pasa a la aplicación di-
mos años: los trabajos clásicos sobre este dáctica de la norma, con sugerencias
asunto se remontan a los años ochenta, para el profesor y ejercicios para practi-
pero es a partir del nuevo milenio que car lo aprendido.
se desarrollan con más frecuencia en el Después de estos tres pasos, para cada
ámbito académico. El orden de las pala- explicación suele haber un recuadro, ti-
bras se convierte en un tema de investi- tulado “conclusión”, que resume en pocos
gación fundamental y se relaciona cada puntos los contenidos recién expuestos.
vez más con los rasgos suprasegmenta- En el primer capítulo se tratan los
les y los factores pragmáticos. conceptos fundamentales relativos al
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RECENSIONI
308
orden de las palabras en español. Como ascendente de la entonación (ej: «¿tu
sabemos, el castellano es una lengua hermano ha llegado?») y esto es común
SVO (es decir que su orden básico es: a todas las lenguas indoeuropeas. Sin
sujeto, verbo, objeto). Además, hay un embargo, además de este patrón (que
orden marcado, OVS, que queda restrin- normalmente conlleva un matiz de sor-
gido a algunos contextos y que resulta, presa o incredulidad) en español el tipo
por lo tanto, menos común. Por lo que de pregunta más frecuente utiliza la in-
se refiere a los complementos circuns- versión sujeto-verbo (ej. «¿ha llegado tu
tanciales, según el autor éstos suelen hermano?»).
aparecer en este orden: lugar, tiempo y El mecanismo gramatical de la inver-
modo. Los adverbios de referencia y los sión también se encuentra en las otras
valorativos ocupan la primera posición, lenguas románicas, aunque el francés
aunque éstos últimos también pueden es un caso ligeramente distinto por dos
aparecer al final de la oración. razones: por un lado por la presencia de
En la parte contrastiva descubrimos un pronombre átono en la inversión y
que el orden SVO es común a todas por otro lado por la presencia de otra es-
las lenguas románicas y es habitual en trategia para la formación de la interro-
las lenguas eslavas. Lo mismo pasa en gativa (est-ce que, literalmente ‘es-esto
otros idiomas indoeuropeos (el griego, que’). En lenguas como el chino o el ja-
el letón, el lituano) y no indoeuropeos, ponés, en cambio, se utilizan partículas
como el chino o el indonesio. Son len- interrogativas al final de las oraciones
guas SOV, en cambio, el coreano, el tur- para convertir las afermativas en inte-
co, el vasco y el japonés. rrogativas, mientras que en las lenguas
El inglés es una lengua SVO, pero eslavas existen tanto la inversión como
otras lenguas germánicas llamadas len- unas partículas especializadas.
guas de verbo segundo (como el alemán Las oraciones interrogativas parcia-
o el holandés), no lo son tan claramente, les, al contrario, exigen una respuesta
ya que en las oraciones principales al- abierta y se forman con partículas inte-
ternan este tipo de construcción con el rrogativas. Éstas se sitúan al principio de
orden SOV en presencia de un auxiliar. la oración y normalmente el verbo apa-
En el segundo capítulo se habla de las rece justo después, produciendo como
construcciones con orden marcado de consecuencia una inversión obligatoria
base gramatical, o sea de construcciones con el sujeto (excepto en los dialectos
que alteran el orden habitual SVO del es- caribeños). Según Villalba, después de
pañol para satisfacer los requisitos gra- las partículas por qué, cómo y cuándo se
maticales de ciertas palabras. Este fenó- puede evitar la inversión, aunque, como
meno se da normalmente en oraciones suele pasar, la elección entre utilización
interrogativas. o no de la inversión se debe a una dife-
Las oraciones interrogativas totales rencia de matices pragmáticos.
son las que permiten una respuesta que Otras lenguas románicas, como el
sea simplemente una afirmación o una francés y el portugués, suelen construir
negación (en inglés se habla de yes or las oraciones interrogativas parciales
no questions). En principio, una ora- con una perífrasis de relativo (ej: «¿quién
ción de este tipo se puede diferenciar de es que ha llegado?»), mientras que las
una oración afirmativa solo por el tono lenguas germánicas y eslavas reprodu-
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309
cen a grandes rasgos el sistema del espa- sición preverbal. Asimismo hay lenguas,
ñol. En alemán y en holandés el auxiliar como el tagalo, que lo marcan mediante
ocupa la segunda posición y el verbo se una partícula especial.
coloca en posición final; lo mismo pasa La focalización es el desplazamiento
con verbo modal (en segunda posición) del foco a la primera posición, puede
e infinitivo (al final). En inglés el sujeto afectar a un sintagma de cualquier ca-
se suele interponer entre el auxiliar do tegoría, aunque normalmente se trata
(literalmente: ‘hacer’) y el verbo en in- de cuantificadores. Las construcciones
finitivo. Finalmente, hay casos como el hendidas destacan el foco mediante la
del chino, donde la partícula interroga- utilización de frases relativas y son muy
tiva no se encuentra al principio de la frecuentes en todas las lenguas románi-
oración sino en la misma posición en la cas, menos en las germánicas. Lenguas
que se encontraría una palabra no inte- como el chino y el árabe también tienen
rrogativa con la misma función. construcciones hendidas, si bien se for-
El tercer capítulo, que es sin duda man de forma ligeramente distinta (en
el más complejo, trata de las construc- chino se recurre al uso de la partícula
ciones con orden marcado de base in- “de”, intraducible).
formativa y se divide en dos grandes El tema en la mayoría de los casos co-
apartados: el foco y el tema. El tema es incide con el sujeto de la oración (ten-
aquello de lo que hablamos o afirmamos dencia común a muchísimas lenguas),
algo, mientras que el foco es la parte de pero aun así se puede dar el caso de que
la oración que aporta información nue- el tema sea un constituyente distinto y
va. Naturalmente, cuando se habla de en estos casos las diversas lenguas recu-
estos temas, la entonación y la pragmá- rren a mecanismos distintos, los princi-
tica tienen un papel fundamental y a ve- pales son los siguientes.
ces para llegar a la correcta interpreta- 1. la dislocación: desplazamiento de
ción de un enunciado no nos podemos un constituyente al principio de la ora-
basar solo en el orden de las palabras. ción, que no provoca inversión y deja
El foco puede ser contrastivo o infor- una copia pronominal en su lugar. El
mativo. El foco contrastivo se da cuando español (a diferencia del italiano, el
se quiere transmitir un valor de contras- francés y el catalán) carece de copia pro-
te con otro elemento, suele aparecer al nominal en los sintagmas nominales in-
principio de una oración y normalmen- definidos y los sintagmas preposiciona-
te se expresa mediante entonación mar- les, situación del todo habitual en chino
cada. El foco informativo, en cambio, es y en japonés.
el constituyente que aporta información 2. el tema vinculante: parecido a la
nueva y se posiciona al final de la frase, dislocación, pero en este caso la copia
que es el punto donde se asigna el acento pronominal puede ser también un pro-
prominente en español. Lo mismo pasa nombre tónico o incluso un epíteto y
en las otras lenguas románicas excepto puede haber falta de concordancia entre
el francés, que no cambia el orden de el dislocado y la copia. Existe también
las palabras y desplaza el acento tónico, en muchas otras lenguas de distintas fa-
como ocurre en las lenguas germánicas. milias.
En general, las lenguas de orden SOV 3. el tema preposicional: se introdu-
suelen situar el foco informativo en po- ce mediante una locución preposicional
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especializada y no tiene necesariamen- los idiomas europeos. Sin embargo, la
te un correlato en la oración. También intención del autor se cumple solo en
existe en otras lenguas, como inglés y parte, ya que las propuestas didácticas
francés. se basan en un enfoque muy estructu-
En conclusión, podemos afirmar que ralista, mientras que se podría haber
El orden de las palabras en español es dedicado más espacio a técnicas más
una obra innovadora por su intención modernas que estimularan en mayor
de llevar temas muy complejos de la medida la reflexión metalingüística y la
gramática al mundo de ELE, ofreciendo interacción entre los alumnos.
una perspectiva contrastiva que muchas
veces es olvidada o restringida solo a Marco Morretta
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Clar a
Ja nés
Venga la luz
y diga el árbol
que es falaz su no ser
y lo demuestre
con la función clorífica,
y el cristal
transforme su intangibilidad
en fuego,
y el agua suspendida
la divida en arco de colores
que se filtre
en la mente del que duerme
e intensifique el sueño.
a Antonio Gamoneda
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 313-314. issn: 2240-5437.
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] | ana
hatherly
O DIÁLOGO PENSADO
I
Quem
Neste século
Se atreve a dizer
Que a poesia é útil?
O diálogo pensado
Entre o poeta e o que seja o que for
Simultaneamente existe e não existe.
Por exemplo:
O diálogo com a natureza
É simplesmente impossível
Porque é
Simultaneamente eloquente e mudo:
A natureza é inefável
Reage
Mas só ao que lhe fizermos.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 315-316. issn: 2240-5437.
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II
Alguns poetas falam do diálogo com o mar.
É mentira.
A natureza não dialoga com ninguém
Embora possa ser eloquente na sua mudez.
Só que
Para o poeta
Existe um diálogo pensado.
Assim
Se o poeta pode pensar
Tudo pode ser.
2009/2011
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 315-316. issn: 2240-5437.
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] | ángela
hernández
núñez
Sudado potro por mente fría
Su música sangra sol
Bajo mi lengua triste y sabia
Bajo mi lengua de carne erótica
Bajo mi lengua, retentiva fruta
Bajo la amorosa arcilla
de mi lengua
Indiferente a la nostalgia
Mi acalorada lengua de biblioteca
(sabores del saber)
Mi lugar de invencible presente
donde dormita mi cosmonauta
y su nave pintada de fresco
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 317-320. issn: 2240-5437.
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Epitafio de Lucrecia Sinsky
Fui bella nunca lo supe
Fui profunda me ocupé de nimiedades
Fui espiritual me entregué a una religión
Fui desgraciada sonreía todo el tiempo
Fui curiosa no crucé ninguna frontera
Poseí lumbres me resigné a que las apagaran
Fui apasionada postergué amigos y amantes
Fui lúcida soslayé mis ideas y mis gustos
Fui cauta morí joven
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 317-320. issn: 2240-5437.
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"Description": "El presente artículo, sin desestimar el valor de los testimonios literarios, aprovecha prioritariamente los documentos que nos proporcionan informaciones de primera mano sobre las circunstancias en que Cervantes o bien tuvo que defender su libertad cuando fue amenazada, o bien se empeñó en recobrarla cada vez que la perdió. Estas circunstancias abarcan un amplio período de su vida: treinta y seis años, en total, desde su repentina partida a Italia, en septiembre de 1569, hasta su breve encarcelamiento en Valladolid, en junio de 1605.\r\n\r\nThis article, without denying the value of literary testimonies, makes use of documents that give us first-hand information on the circumstances in which Cervantes either had to defend his freedom when it was threatened, or insisted on recovering it when it was lost. These circumstances cover an extensive period of his life: thirty six years, in all, from his sudden departure to Italy, in September of 1569, to his brief incarceration in Valladolid, in June of 1605.",
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Las prisiones de Cervantes
J EAN C ANAVAGGIO
Université Paris Ouest Nanterre La Défense
[email protected]
Cualquier intento para reconstruir la vida de Cervantes en sus momentos suce-
sivos nos enfrenta con un escollo: el que se debe a las lagunas y oscuridades de una
biografía que, para decirlo con frase de Américo Castro, sigue siendo «tan escasa de
noticias como llena de sinuosidades»1. Por lo que se refiere a los datos que se suelen
entresacar de sus obras, nos importa usarlos con mucha precaución. En efecto, el
autor del Quijote se complace, más de una vez, en delegar sus poderes no sólo en
sus personajes, sino en narradores ficticios al estilo de Cide Hamete Benengeli; y en
cuanto a los prólogos y dedicatorias en que asume su identidad, el valor meramente
informativo de estos textos se supedita al modo como el que los escribe se saca a
escena. En tales condiciones ¿sobre qué bases establecer la realidad de las prisiones
del autor del Quijote? Sin desestimar el valor de los testimonios literarios, como ve-
remos en adelante, nos conviene acudir en prioridad a los documentos conservados
en los archivos, ya que nos proporcionan, en más de una ocasión, informaciones de
primera mano sobre las circunstancias en que Cervantes o bien tuvo que defender
su libertad cuando fue amenazada, o bien se empeñó en recobrarla cada vez que
la perdió. Estas circunstancias abarcan un amplio período de su vida: treinta y seis
años, en total, desde su repentina partida a Italia, en septiembre de 1569, hasta su
breve encarcelamiento en Valladolid, en junio de 1605. Entre esta dos fechas, tene-
mos, además, los cinco años del cautiverio argelino, entre septiembre de 1575 y sep-
1
Americo Castro, Cervantes y los casticismos españoles, Barcelona, Alfaguara, 1967, p. 169 n.
Jean Canavaggio
Las prisiones de Cervantes
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tiembre de 1580, y las dos detenciones ocurridas en Andalucía, la una en Castro del
Río, en septiembre de 1592, la otra en Sevilla, en septiembre de 1597. Vamos, pues, a
examinarlas una tras otra, para tratar de aclarar su sentido y alcance.
El primero de estos acontecimientos ha hecho correr mucha tinta, desde que
Jerónimo Morán hallara en Simancas, a mediados del siglo XIX, una provisión real
del 15 de septiembre de 1569, por la cual se ordenaba al alguacil Juan de Medina la
prisión de un «Miguel de Zerbantes, estudiante». Se acusaba al dicho, en este docu-
mento, de haber herido en duelo en Madrid a un maestre de obras llamado Antonio
de Sigura y, por haber huido a Sevilla, era condenado en rebeldía a que le cortaran
públicamente la mano derecha y a ser desterrado por diez años del reino2. Para ex-
plicar la severidad de la sentencia, se ha supuesto que el encuentro tuvo lugar en las
inmediaciones del Palacio Real. Así pues, el que Cervantes, «caro y amado discípu-
lo» del maestro López de Hoyos, se encontrara tres meses después en Roma puede
interpretarse como consecuencia de esta huida. Ahora bien, a pocas semanas de su
llegada a la Ciudad Eterna, ¿cómo conseguió el puesto de camarero del cardenal
Aquaviva? ¿Cómo no dudaron en recomendarlo, al final de sus campañas militares,
el duque de Sessa y don Juan de Austria? ¿Cómo, al regresar del cautiverio, llegó a
ser comisionado a Orán por orden del rey Felipe II? A estas objeciones que no care-
cen de peso, se puede contestar que no sólo la distancia y el tiempo, sino unas pro-
tecciones debidas a su conducta en Lepanto y en Argel hubieron de allanar muchos
obstáculos: así pudo el condenado recobrar el honor perdido, una vez transcurridos
los diez años de un destierro pasado en parte al servicio de Su Majestad y concluido,
en los baños argelinos, con cuatro intentos frustrados de evasión. De hecho, en el es-
tado actual de nuestros conocimientos, el caso Sigura constituye la explicación más
plausible de la repentina partida de Miguel a Italia. Por cierto, no deja de sorprender
que en diciembre de 1569, a tres meses de una busca con fuerte penalización, Ro-
drigo de Cervantes solicitara para su hijo una detallada información ante el teniente
corregidor de la Villa de Madrid3. Pero la posible huida del interesado bien podría
iluminar una particularidad del documento, el cual no habla para nada, contraria-
mente a la norma, de su situación con respecto a la justicia. Además, dicha infor-
mación arroja cierta luz sobre otro hecho: en su hoja de servicios, Cervantes declara
haberse alistado como soldado desde 1568, afirmación que, sin lugar a dudas, con-
traviene a la verdad4. Así y todo, otra cosa es fantasear sobre el itinerario seguido
por él, apelando a narraciones de casos similares que aparecen en El gallardo español
y el Persiles y adjudicándoles un valor autobiográfico. Tras haber intentado embar-
carse para las Indias, el fugitivo habría abandonado Sevilla para dirigirse a Valencia
2
Krzysztof Sliwa, Documentos de Miguel de Cervantes Saavedra, Pamplona, Eunsa, 1999, p. 38.
3
Ibíd., pp. 40-42. Punto recalcado por José Manuel Bailón Blancas, «Pasos perdidos de Cervantes
en Italia (1568-1570)», en Alicia Villar Lecumberri (ed.), Cervantes en Italia, X Coloquio Internacional
de la Asociación de Cervantistas, Palma de Mallorca, 2001, pp. 35-41.
4
En la Información dirigida por él al Consejo de Indias, el 6 de junio de 1590. Véase Krzysztof
Sliwa, op. cit., p. 225.
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y subir hasta Barcelona, llegando a Génova por mar antes de bajar hacia Roma. A
falta de testimonios concretos, semejante hipótesis no puede confirmarse y no cabe
excluir que eligiera otro camino, embarcándose en Cartagena para ponerse a salvo.
El segundo acontecimiento, de mucho mayor trascendencia, desde luego, es la
captura de Cervantes por los corsarios argelinos. Ocurrida en el momento en que
estaba a punto de volver a España, tuvo lugar el 26 de septiembre de 1575 en las
costas catalanas, cerca de Cadaqués. La galera Sol, en la que había embarcado en
Nápoles el 6 o 7 del mismo mes, había sido dispersada por la tempestad a la altura
de Port-de-Bouc, no lejos de Marsella, tras haber costeado las riberas de Italia y de
Provenza. Sorprendidos por el corsario Arnaut Mami, marineros y pasajeros resis-
tieron durante varias horas, pereciendo el capitán entre los defensores5. Lo que pudo
experimentar Cervantes al llegar a la vista de Argel, tres días más tarde, es algo que
podemos imaginar a través del relato de Saavedra, uno de los personajes de la come-
dia de El trato de Argel, compuesta poco después de su regreso a la patria:
Cuando llegué cautivo y vi esta tierra
tan nombrada en el mundo, que en su seno
tantos piratas cubre, acoge y cierra,
no pude al llanto detener el freno
que, a pesar mío, sin saber lo que era,
me vi el marchito rostro de agua llena6.
Este primer entronque entre vida y literatura, mediante la aparición en el es-
cenario de un alter ego del autor, se vuelve muchísimo más llamativo en uno de los
cuentos intercalados del Quijote: la historia de Ruy Pérez de Viedma, inserta en la
primera parte de la novela. Nutrido de la rememoración del cautiverio, este relato
evidencia un autobiografismo compacto; pero no por eso deja de mantener una re-
lación ambigua con las experiencias del autor7. Los sucesos que nos refiere el capitán
hasta su captura ofrecen, eso sí, un notable parecido con las aventuras del propio
Cervantes; pero no menos significativos son los constantes desajustes, reveladores
de una minuciosa reelaboración del material aprovechado. Las mocedades de Ruy
Pérez de Viedma son tan azarosas como las de su modelo; pero quien nos las cuenta
no es hijo de un cirujano alcalaíno, sino primogénito de un hidalgo leonés. Su parti-
da a Italia corre pareja con la de Miguel, salvo que no es huida y le lleva, en una serie
5
Véase Juan Bautista Avalle-Arce, «La captura de Cervantes», Boletín de la Real Academia Espa-
ñola, 48 (1968), pp. 237-280, reimpr. en Nuevos deslindes cervantinos, Madrid, Ariel, 1975, pp. 277-334.
6
El trato de Argel, jornada 1ª, vv. 396-401.
7
Entre los numerosos trabajos dedicados a este episodio, v. sobre su trasfondo histórico el artícu-
lo pionero (aunque en varios aspectos discutible) de Jaime Oliver Asín, «La hija de Agi Morato en la
obra de Cervantes», Boletín de la Real Academia Española, 27 (1947-1948), pp. 245-339. Desde un en-
foque más específicamente literario, Francisco Márquez Villanueva, «Leandra, Zoraida y sus fuentes
francoitalianas», en Personajes y temas del «Quijote», Madrid, Taurus, 1975, pp. 92-146.
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de rodeos, a alistarse en los tercios de Flandes. Luego, tras embarcarse en las galeras
de la Santa Liga, a las órdenes del mismo Diego de Urbina, el narrador llega a com-
batir en Lepanto con tanta valentía como el famoso manco; pero no lo hace como
soldado raso, sino en calidad de capitán de infantería y, en vez de quedar herido, es
capturado por los Turcos, víctima de su temeridad. Una vez en Argel en tanto que
cautivo de rescate, ve su destino coincidir de nuevo con el de su creador. Igual que
él, aunque en distintas circunstancias, queda en poder del rey Hazán; y la visión que
nos ofrece de los baños se nos aparece henchida de los recuerdos del escritor.
[Yo estaba] encerrado en una prisión o casa que los turcos llaman baño,
donde encierran los cautivos cristianos, así los que son del rey como de
algunos particulares [...] Yo, pues, era uno de los de rescate; que como se
supo que era capitán, puesto que dije mi poca posibilidad y falta de ha-
cienda, no aprovechó nada para que no me pusiesen en el número de los
caballeros y gente de rescate. Pusiéronme una cadena, más por señal de
rescate que por guardarme con ella, y así pasaba la vida en aquel baño, con
otros muchos caballeros y gente principal, señalados y tenidos por resca-
te. Y aunque el hambre y desnudez pudieran fatigarnos a veces, y aun casi
siempre, ninguna cosa nos fatigaba tanto como oír y ver a cada paso las
jamás vistas ni oídas crueldades que mi amo usaba contra los cristianos8.
Cervantes, como queda dicho, no era capitán; pero llevaba cartas de recomen-
dación de don Juan de Austria y del duque de Sessa, las cuales hicieron que los
turcos lo considerasen como «persona principal»; de ahí los 500 escudos de oro que,
a pesar de su «falta de hacienda», su amo reclamó como precio de su rescate. Con
todo, como para desmentir esta identificación, el narrador, en una manera de des-
doblamiento, concluye su evocación de las crueldades del rey incorporando la figura
emblemática de un compañero:
Sólo libró bien con él un soldado español llamado tal de Saavedra, el
cual, con haber hecho cosas que quedarán en la memoria de aquellas
gentes por muchos años, y todas para alcanzar libertad, jamás le dio
palo, ni se lo mandó dar, ni le dijo mala palabra; y por la menor cosa de
muchas que hizo, temíamos todos que había de ser empalado, y así lo
temió él más de una vez; y si no fuera porque el tiempo no da lugar, yo
dijera ahora algo de lo que este soldado hizo, que fuera parte para en-
tretenernos y admirarnos harto mejor que con el cuento de mi historia9.
En este deslinde entre historia y poesía, surge, pues, por segunda vez, aquel
soldado llamado Saavedra. Este nombre, como se sabe, es el segundo apellido que
8
Don Quijote de la Mancha, I, 40, ed. del Instituto Cervantes dirigida por Francisco Rico, Barce-
lona, Galaxia Gutenberg / Círculo de Lectores / Centro para la Edición de Clásicos españoles, I, p. 506.
9
Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, I, 40, I, p. 507.
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Cervantes, al iniciar sus comisiones andaluzas, añade a su patronímico: lo usa por
primera vez en el memorial de 1590, dirigido al Consejo de Indias. Pero no lo llevó
ninguno de sus antepasados directos, sino que lo tomó, probablemente, de uno de
sus parientes lejanos, Gonzalo de Cervantes Saavedra10. Este segundo nombre, que
se da a tres de los personajes que pueblan las ficciones cervantinas, ha sido inter-
pretado como una conducta de compensación: si hemos de creer a Louis Combet,
a falta de poder deshacerse, por razones desconocidas, del patronímico paterno,
Miguel lo habría doblado, en el plano social y simbólico11. Sea lo que fuere, la pos-
teridad ha consagrado, definitivamente, el doble apellido de Cervantes Saavedra, en
un desquite de todos los fracasos experimentados por el que lo forjó.
Lo que sí la odisea del capitán viene a compensar, es la frustración nacida de las
cuatro evasiones fallidas del escritor. En enero de 1576, Cervantes trata en vano de
huir por tierra al presidio español de Orán. En septiembre del año siguiente, espera
un barco mallorquín que no acude a la cita prevista. Seis meses después, en marzo
de 1578, manda unas cartas al gobernador de Orán, por medio de un moro cómplice
al que sorprenden a la entrada de dicha ciudad y empalan por orden del rey. Por fin,
en octubre de 1579, proyecta armar una fragata de doce bancos y ganar España con
sesenta pasajeros, pero es denunciado por un renegado florentino, manipulado por
otro cautivo, el doctor Juan Blanco de Paz. El mismo anhelo de libertad anima, en el
Quijote, a Ruy Pérez de Viedma:
Pensaba en Argel buscar otros medios de alcanzar lo que tanto deseaba,
porque jamás me desamparó la esperanza de tener libertad; y cuando en
lo que fabricaba, pensaba y ponía por obra no correspondía el suceso a
la intención, luego, sin abandonarme, fingía y buscaba otra esperanza
que me sustentase, aunque fuese débil y flaca12.
Pero, al contrario de Cervantes, su primera tentativa va a ser un éxito: quien le
permite salir del baño, facilitándole los medios de su rescate y compartiendo su desti-
no, es la hermosa Zoraida, hija de un rico renegado esclavón. A partir de este momen-
to, la odisea del capitán se separa definitivamente de la de su modelo. Como ha mos-
trado Maxime Chevalier, se ciñe a una leyenda que desarrolla un motivo tradicional a
través de múltiples versiones, entre las cuales destaca el cuento de La hija del diablo13.
Dentro de la remodelación cervantina resalta, sin la menor duda, el papel concedido
al padre de Zoraida, cuando, tras haber sido informado por su hija de su conversión,
10
Gonzalo de Cervantes Saavedra tuvo que huir de Córdoba en 1568, tras un asunto de sangre, y
se embarcó en las galeras de don Juan, llegando, tal vez, a combatir en Lepanto.
11
Louis Combet, Cervantès ou les incertitudes du désir, Presses Universitaires de Lyon, 1980, pp.
553-558. El segundo Saavedra es el que aparece entre los cautivos de El trato de Argel; el tercero es el
protagonista de El gallardo español.
12
Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, I, 40, I, p. 506.
13
Maxime Chevalier, «“El Cautivo” entre cuento y novela», Nueva Revista de Filología Hispánica,
32 (1983), pp. 403-411.
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ve alejarse al barco que lleva a la pareja desde la playa desértica en que ha sido aban-
donado por sus raptores. Pero, al dar a esta figura patética el nombre de Agi Morato,
Cervantes la ha dotado de una identidad sacada de su propia experiencia, sin dejar,
por supuesto, de acomodar a su relato la cronología de los hechos históricos. Agi Mo-
rato se llamaba, en efecto, aquel suegro del rey de Fez del que nos habla la Topographía
e historia general de Argel. Alcaide de La Pata, era tenido «por hombre de buen juicio y
de muy buena manera»14. Parece que Cervantes llegó a conocerle, lo cual debe tenerse
en cuenta frente a los interrogantes que plantean sus cuatro intentos frustrados de eva-
sión. Sorprende, en efecto, que Hazán Bajá, a quien todos los testimonios describen
como un hombre cruel y al que el Cautivo muestra distribuyendo golpes, torturas y
suplicios, se conformara con que Cervantes no recibiera, después de su última tentati-
va, los dos mil palos que le había mandado dar. Si hemos de dar fe al testimonio de uno
de sus compañeros de cautiverio, «si no le dieron, fue porque hubo buenos terceros»15.
Pero, ¿de qué apoyos pudo disponer? Se puede pensar, entonces, en la intervención de
Agi Morato. Renegado procedente de Ragusa, debía su prestigio no sólo a su riqueza
y a su cargo, sino al hecho de que había peregrinado a La Meca y a su crédito ante el
Gran Turco, de quien era uno de los enviados o chauces. Su hija había sido casada con
Abd-el-Malek, sultán de Marruecos, muerto en 1578 en la batalla de Alcázarquivir,
donde murió también el rey Sebastián de Portugal, y volvería a casarse, dos años más
tarde, con Hazán Bajá en persona. Resulta que en dos ocasiones, en marzo de 1573
y agosto de 1577, Agi Morato hizo unas aperturas en dirección de España, las cuales
fueron el primer paso hacia las negociaciones de Constantinopla cuyo resultado serán
las grandes treguas hispano-turcas de 1579-1581. Durante estos primeros contactos
intervinieron, en nombre de Felipe II, diversos intermediarios: varios comerciantes y
un religioso conocidos de Miguel, así como el virrey de Valencia y el gobernador de
Orán, implicados en sus anteriores intentos de evasión. No cabe descartar, pues, que el
propio Cervantes haya sido introducido en la intimidad del chauz como informador
oficioso, y así se comprendería que haya sido perdonado por el bajá16.
Tenemos que dar un nuevo salto, esta vez hasta 1592, para llegar a la tercera cir-
cunstancia en la que Cervantes se vio privado de libertad. A decir verdad, no pasó
de ser un breve episodio. Había sido comisionado para requisar el trigo y el aceite
destinados a la nueva armada proyectada por Felipe II después del desastre de la
Invencible. Con este cometido, el 19 de septiembre, se encuentra en Castro del Río.
14
«Respuestas de Juan Pezón, mercader de Valencia, a lo preguntado por el Duque de Gandía»
(abril mayo de 1573), Simancas Eº 487, citado en Jean Canavaggio, «Agi Morato entre historia y fic-
ción», Cervantes entre vida y creación, Alcalá de Henares, Centro de Estudios Cervantinos, pp. 39-44.
15
Testimonio de Alonso Aragonés, en Krzysztof Sliwa, op. cit., p. 75.
16
Véase al respecto nuestro estudio «Agi Morato entre historia y ficción», citado supra, n. 14.
Sobre el cautiverio de Cervantes en Argel, importa tener en cuenta las nuevas perspectivas abiertas
por el libro recién publicado de Francisco Márquez Villanueva, Moros, moriscos y turcos de Cervantes.
Ensayos críticos, Barcelona, Bellaterra, 2010, pp. 16-120.
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Ahí le llega una orden de arresto por una supuesta venta ilegal de trigo, orden emi-
tida por Francisco Moscoso, corregidor de Écija donde Miguel había hecho etapa.
Moscoso no tenía autoridad para proceder de esta forma; pero la coyuntura le era
favorable, ya que los superiores de Cervantes lo estaban pasando muy mal: el comi-
sario general encargado de la operación, Antonio de Guevara, había sido acusado
de fraude y detenido en Madrid, donde morirá el 27 de diciembre; y en cuanto a
Benito de Meno, su ayudante, estaba sufriendo juicio y no tardará en ser colgado en
el Puerto de Santa María. Así se explica el efecto inmediato de la orden dictada por
el corregidor. Encarcelado en el acto, Cervantes será liberado bajo fianza al cabo de
pocos días, tras una intervención de Pedro de Isunza, el nuevo comisario general
nombrado en sustitución de Guevara17.
Dos años más tarde, en agosto de 1594, Miguel recibe otra comisión: se trata
para él de recorrer el reino de Granada con el fin de recaudar dos millones de mara-
vedís de atrasos de tasas. Cumple su cometido, pero, poco después de volver a Sevi-
lla, descubre que Simón Freire, el negociante en cuya casa había depositado el saldo
del dinero cobrado, ha desaparecido a consecuencia de una bancarrota, llevándose
sesenta mil ducados. A precio de un contencioso de varios meses, consigue resolver
el asunto18. Pero parece que se le olvidó, entonces, irse a Madrid a presentar a los
agentes del Tesoro el balance detallado de su comisión. Al cabo de varios meses,
temiendo su defección, su fiador, un tal Suárez Gasco, solicita una orden que haga
su comparencia ejecutiva en un plazo de veinte días. El 6 de septiembre de 1597, el
juez Vallejo, uno de los magistrados de la Audiencia de Sevilla, recibe el encargo de
notificar a Miguel esta orden. Pero, en vez de imputarle el saldo efectivo que recla-
maba el Tesoro —ochenta mil maravedís— le reclama los dos millones y medio cuya
recolecta había sido confiada al comisario y que éste había entregado en su mayor
parte al Estado. Viendo que ningún valedor podía garantizar tal cantidad, Vallejo, en
vez de mandarlo a Madrid, lo hace encarcelar en la Cárcel Real de Sevilla19.
Al franquear el umbral de esta prisión, situada a la boca de la calle de la Sierpe,
por la parte de la plaza de san Francisco, Cervantes penetraba en uno de los edificios
más notables de la capital andaluza, según la relación del procurador Cristóbal de
Chaves, uno de sus contemporáneos:
Campea más que otra casa y se deja bien conocer aun de los más ex-
tranjeros, así por el concurso de gente innumerable que sin cesar entra
y sale por su principal puerta a todas las horas del día y que la noche da
lugar, como también por los letreros que tiene en su gran portada, con
las armas reales y de Sevilla20.
17
Krzysztof Sliwa, op. cit., p. 257.
18
Ibíd., pp. 277-279 y 298-300.
19
Ibíd., p. 301.
20
Cristóbal de Chaves, Relación de la càrcel de Sevilla, ed. de José Esteban, Madrid, Clásicos El
Arbol, 1983.
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Casi dos mil detenidos residían allí de forma permanente, lo que supone una ca-
pacidad de acogida superior a la que ofrecía el conjunto de los demás establecimientos
penales de la Península, Madrid incluido. Sobre esta detención, cuya duración exacta
desconocemos, pero que se prolongó durante varios meses, el autor del Quijote no
prodiga confidencias, a pesar de trazar, en algunas de sus Novelas ejemplares, el cuadro
más variado del hampa sevillana. El Entremés de la cárcel de Sevilla, que en otro tiem-
po se le atribuyó, pertenece de modo irrefutable a otra pluma, de modo que lo que fue
su estancia sólo se puede deducir del testimonio de Chaves. De su Relación de la cárcel
de Sevilla se infiere, entre otras cosas, que los encarcelados por deudas formaban un
mundo aparte. Sin embargo, aunque su condición no fuera de las más rigurosas, su
vida cotidiana no era muy envidiable, salvo en caso de que sus recursos económicos
les permitieran ganarse la benevolencia de los jueces y el favor de los carceleros. No
parece que fuera el caso de Cervantes. Así y todo, a diferencia de lo que le pasó en los
baños argelinos, no pretendía ser rescatado para recobrar su libertad, sino conseguir
que se le hiciera justicia. Nada más encarcelado, escribe al rey Felipe II para denunciar
el procedimiento arbitrario de que había sido víctima. Aunque hemos perdido el texto
de su demanda, conservamos la respuesta del monarca, fechada el 1 de diciembre, por
la que se conmina a Vallejo a soltar al prisionero, a fin de que se presente en Madrid
en un plazo de treinta días21. En caso de incomparecencia ante el Tesoro, precisaba el
documento, no por ello dejaría de estar en libertad, a poco que sus fiadores pagasen su
deuda efectiva, pues ningún motivo justificaba que estuviera detenido por más tiem-
po. Como se ve, entre su encarcelamiento y la provisión real habían transcurrido ya
varios meses. ¿En qué momento Vallejo se decidió a obedecer? Si es que lo hizo sin
tardar demasiado, podemos pensar que Miguel fue liberado en enero, a no ser que la
fianza que se le impuso le obligara a permanecer encarcelado más tiempo. De todos
modos, estamos seguros de que nunca fue a Madrid a dar las aclaraciones esperadas,
como se deduce de dos nuevos intentos hechos por los agentes del Tesoso, con poca
convicción y sin éxito alguno22.
Al cabo de varios meses pasados en Sevilla y, luego, en Esquivias, durante los
cuales no sabemos prácticamente nada de él, Cervantes se encuentra en Valladolid.
A consecuencia del traslado de la Corte a esta ciudad en 1601, decidido por el duque
de Lerma tras el advenimiento de Felipe III, las hermanas del escritor habían com-
partido el éxodo de cuantos vivían en Madrid a la sombra de Palacio. Pero no fue
una decisión precipitada. La partida de Andrea, la mayor, cuyas labores de punto
gozaban del favor de la buena sociedad, se produjo probablemente en 1604, al volver
la primavera. Se marchó en compañía de Magdalena, su hermana, de Constanza,
su hija, y de Isabel, la hija natural de Miguel. En cuanto a éste, no parece haberse
reunido con sus hermanas hasta comienzos del verano23. En esa misma fecha había
21
En 1598 y 1603. Véase Krzysztof. Sliwa, op. cit., pp. 302 y 309.
22
Krzysztof Sliwa, op. cit., p. 301.
23
Javier Salazar Rincón, El escritor y su entorno. Cervantes y la Corte de Valladolid en 1605, Junta
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encontrado para el Quijote un editor en la persona de Francisco de Robles, el hijo
y sucesor de Blas de Robles que, veinte años antes, había publicado La Galatea. El
éxito inmediato que conoció el libro, cuya primera edición fue publicada al final del
mismo año, se trasluce en varios indicios: la segunda edición madrileña, iniciada en
marzo de 1605 y que verá la luz antes del verano, así como el nuevo privilegio, con-
seguido en febrero por el autor, y que ampliaba a Portugal y Aragón el que se había
concedido únicamente para Castilla. También las cabalgatas, los bailes, las masca-
radas que dieron a conocer a los que no sabían leer las figuras del caballero y de su
escudero. Precisamente, el 10 de julio del mismo año, se les vio desfilar en Valladolid
durante las fiestas celebradas el día del Corpus. El motivo de estas fiestas era el bau-
tismo del futuro Felipe IV, y gozaron de la presencia de lord Howard, el embajador
inglés venido para ratificar las paces firmadas un año antes con el rey Jacobo I24. El
cronista Pinheiro da Veiga, por las mismas fechas, nos cuenta que un intermedio
burlesco fue ofrecido en sainete a los espectadores de la corrida de toros celebrada
en la Plaza Mayor. Apareció en él «un don Quijote que iba en primer término como
aventurero [...] y Sancho Panza, su escudero, delante. Llevaba unos anteojos para
mayor autoridad y bien puestos, y la barba levantada»25.
Dicha corrida fue marcada por un hecho que dio que reír: uno de los caballeros
que se habían lanzado en la plaza fue derribado por un toro bravo. Esta caída, que
no valió más que contusiones a su víctima, inspiró a un poeta que se ha identificado
a veces con Góngora, unas décimas que no carecen de gracia y cuyo comienzo es
como sigue:
Cantemos a la gineta
y lloremos a la brida
la vergonzosa caída
de don Gazpar de Ezpeleta26.
Pocos días después, el 27 del mismo mes, Gaspar de Ezpeleta era herido de
muerte en duelo junto al Rastro de los carneros, delante de la casa donde vivía Cer-
vantes con los suyos. Nacido en 1567 en Pamplona, este caballero santiaguista lle-
vaba en la corte una vida disipada. Las dos heridas profundas que recibió fueron
dadas, con toda probabilidad, por un tal Melchor Galván, un escribano real que
vivía muy cerca y cuya esposa, Inés Hernández, era amante, con notoriedad públi-
ca, del tal don Gaspar. Recogido por el escritor, pero llevado luego al apartamento
de Castilla y León, Consejería de Turismo, 2006, p. 159.
24
Tomé Pinheiro da Veiga, Fastiginia, citado por Francisco Rodríguez Marín, «Don Quijote en
América», Estudios cervantinos, Madrid, Atlas, 1947, p. 110.
25
Francisco Rodríguez Marín, ibíd. Esta intervención correspondió a la entrada del 10 de junio.
26
Luis de Góngora y Argote, Obras completas, ed. Millé Giménez, Madrid, Aguilar, 1961, «Letri-
llas atribuibles», nº XXIII, p. 418.
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Las prisiones de Cervantes
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que ocupaba Juana de Gaytán, vecina y amiga de Cervantes, donde fue curado por
Magdalena, su hermana, murió a los dos días sin haber aclarado las circunstancias
del duelo. El alcalde Villarroel, que se hizo cargo del caso, orientó en seguida sus
investigaciones hacia los moradores de la casa, como para mantener a salvo al escri-
bano con el cual mantenía relaciones y al que Francisco de Camporredondo, criado
de Galván, había acusado en su deposición. Al parecer, este procedimiento se be-
nefició de las insinuaciones de una beata, Isabel de Ayala, que moraba en el desván
de la misma casa. Implicado a pesar suyo en este asunto, Miguel, en compañía de
otras diez personas, dio con sus huesos en la cárcel de corte. Pero la injusticia co-
metida era demasiado flagrante para que los presuntos sospechosos permanecieran
encarcelados, y las nuevas declaraciones recogidas por el alcalde, empezando por la
de la dueña del mesón donde se alojaba Ezpeleta, bastaron para que se les pusiera
en libertad provisional el 5 de julio, al cabo de 48 horas. Solicitaron que se pusiese
témino a esta residencia vigilada y, el 18 del mismo mes, su demanda fue admitida,
dándose carpetazo al caso27.
Ofrecen singular interés las cinco series de declaraciones sucesivamente con-
signadas en el sumario del proceso. Además de la luz que arrojan tanto sobre el
lugar del encuentro, próximo al Rastro nuevo, al sur de la ciudad, como sobre la
casa donde vivía Cervantes, nos muestran el énfasis con que las mujeres declarantes
destacan el recato que solían guardar. Semejante insistencia no sólo se explica por la
hora nocturna del duelo, sino, con toda probabilidad, como respuesta a las declara-
ciones de la beata acerca de las «libertades», supuestas o efectivas, de las moradoras
de la casa, inferidas de las visitas masculinas que recibían las «Cervantas» de varios
conocidos del escritor. Mención especial se merece, entre estos visitantes, Simón
Méndez, tesorero general y recaudador mayor de los diezmos de la mar de Castilla y
de Galicia. Había regalado a Isabel de Saavedra, hija natural de Miguel, un faldellín
que «le había costado más de ducientos ducados»28. Pero, más que el estilo de vida
de Isabel y de su prima Constanza, interesan las informaciones que nos da el docu-
mento sobre los contactos del escritor con varios hombres de negocios: no sólo el
ya mencionado Méndez, sino el genovés Agustín Raggio. La dificultad está en saber
qué asuntos pudo tratar con ellos un ex-recaudador de impuestos cuyas complica-
ciones con el Erario público, además de valerle varios meses de encarcelamiento en
Sevilla, no habían terminado por aquellas fechas29.
27
Los documentos del proceso fueron incluidos por Cristóbal Pérez Pastor en sus Documentos
cervantinos, Madrid, Imp. de Fortanet, t. I, 1897, pp. 455-537. Los reproduce Krzysztof Sliwa, op. cit.,
pp. 315-333. El primer documento reproducido (p. 315) comporta un error en el titulo. En vez de
«Declaración del alcalde Gaspar de Ezpeleta», hay que leer: «Declaración al alcalde [Villarroel] de
Gaspar de Ezpeleta». En fecha más reciente, el texto ha vuelto a ser editado por Carlos Martín Aires
(Burgos, Instituto Castellano y Leonés de la Lengua, 2005).
28
Cristóbal Pérez Pastor, op. cit., t. I, p. 506.
29
Véase Narciso Alonso Cortés. «Tres amigos de Cervantes», Boletín de la Real Academia Españo-
la, 28 (1947-1948), pp. 142-175. Sobre el episodio en conjunto, véase Jean Canavaggio, «Aproximación
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Las prisiones de Cervantes
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¿Qué balance podemos sacar, a fin de cuentas, de estos episodios? Descontando
la prisión de Castro del Río, que no parece haber tenido mucha trascendencia, to-
dos nos proyectan más allá de la mera trama del vivir cervantino para conectar, de
un modo u otro, con el quehacer del escritor y su labor creadora. ¿Se puede incluir
entre ellos la orden de arresto fulminada en 1569 contra el estudiante que hirió en
duelo a Antonio de Sigura? Claro que sí. Caso de que aquel «Miguel de Zervantes»
fuera el futuro autor del Quijote, esta provisión real hizo que tuviera que irse a otras
tierras durante varios años, ampliando así el marco de sus observaciones. Además, si
bien perdió el uso de la mano izquierda, combatiendo contra los turcos en Lepanto,
más le valió recibir esta herida que padecer el castigo previsto: de ser privado de
la mano derecha, hubiera sido apartado sin remisión del campo de las letras. Por
lo que se refiere al cautiverio argelino, las fuentes documentales que nos informan
sobre el particular deben cruzarse, no sólo con su teatralización en El trato de Argel
y Los baños de Argel, sino, como ya vimos, con la reelaboración que nos ofrece la
historia del Cautivo. No conviene, desde luego, tomar al pie de la letra el relato de
Ruy Pérez de Viedma. Pero otro error sería negarle, en un exceso de hipercriticismo,
cualquier valor testimonial. Los documentos que suelen aprovechar los biógrafos de
Cervantes reordenan, deforman u ocultan, a veces, los hechos ocurridos, y conviene
manejarlos con precaución. Así, por ejemplo, en la Topographía e historia de Argel,
firmada por Diego de Haedo, pero obra probable del Doctor Antonio de Sosa, la
relación de los intentos de fuga de Miguel no puede separarse de la requisitoria del
autor contra la ciudad y sus piratas, lanzada con el fin de sacar la opinión española
de su indiferencia y estimular la obra de las órdenes redentoras30. Las escrituras
notariales referentes al caso se centran en las gestiones emprendidas por la familia
del escritor para conseguir su rescate; y en cuanto a las deposiciones de amigos y
compañeros, fueron reunidas a petición del ex-cautivo en las dos informaciones de
1578 y 1580, como respuesta a los alegatos infamantes de sus enemigos. A diferencia
de estos testimonios, el cuento del Cautivo nos restituye de modo insustituible, en-
vuelta en el ropaje de una «fábula mentirosa», la forma en que Cervantes interiorizó
una experiencia excepcional31. Finalmente, más allá de las obras que llevan la huella
al proceso Ezpeleta», op. cit., pp. 45-63, así como el detallado capítulo que le dedica Javier Salazar
Rincón, op. cit., pp. 315-358.
30
Véase George Camamis, Estudios sobre el cautiverio en el Siglo de Oro, Madrid, Gredos, 1977, pp.
124-150. En la Topographía se nos dice que «del cautiverio y hazañas de Miguel de Cervantes pudiera
hacerse particular historia» (fol. 185 de la ed. original y p. 165 del tomo III de la reed. de la Sociedad
de Bibliófilos españoles, Madrid, 1929). Anteriormente a esta atribución, se había sugerido que, entre
las fuentes utilizadas en la elaboración de esta obra tal vez figurasen informes debidos a Cervantes,
cuyo segundo intento de evasión se relata aquí con todo detalle. De ahí el que otro especialista lle-
gara a defender —sin ganar nuestra convicción— la paternidad cervantina de la Topographía. Véase
Daniel Eisenberg, «Cervantes autor de la Topografía e Historia general de Argel publicada por Diego
de Haedo», Cervantes, 16 (1996), pp. 32-53.
31
El cautiverio cervantino en Argel es el tema del libro de María Antonia Garcés, Cervantes in
Algiers. A Captive’s Tale, Nashville, Vanderbilt University Press, 2002. Desde un enfoque más amplio,
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Las prisiones de Cervantes
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del cautiverio, ¿cómo no recordar que, a los pocos años de volver a España, iba a
hacer representar en los corrales madrileños El cerco de Numancia? Si esta tragedia
pervive todavía entre nuestros contemporáneos, es, entre otras razones, porque el
sacrificio de los defensores de la ciudad celtibérica se les aparece como un himno a
la libertad.
Otro tanto puede decirse del encarcelamiento de 1597. Si hemos de dar fe a lo
que nos dice el narrador en el prólogo a la Primera parte del Quijote, «el estéril y
mal cultivado ingenio» suyo engendró «la historia de un hijo seco, avellanado, an-
tojadizo [...], bien como quien se engendró en una cárcel donde toda incomodidad
tiene su asiento y donde todo triste ruido hace su habitación»32. Puede ser que dicha
cárcel sea la de Sevilla; pero no es que Cervantes, forzado a la inacción, tomara la
pluma durante su estancia para dar a luz esta historia, sino que vio surgir en él la
idea del libro que saldría, seis años más tarde, de la imprenta de Juan de la Cuesta.
Sólo que a falta de indicaciones sobre lo que hizo al recobrar su libertad, no estamos
en condiciones de decir si aquel engendro se concibió como mera novela corta o,
más bien como primer esbozo de una obra de mayores proporciones. Queda final-
mente la breve detención en Valladolid, consecutiva a la muerte violenta de Gaspar
de Ezpeleta. Entre los datos recogidos en la información del juez Villarroel, figura
una frase consignada en la declaración de Andrea de Cervantes. A la pregunta que
se le hace, contesta describiendo a su hermano como «hombre que escribe e trata
negocios, y que por su buena habilidad tiene amigos»33. Por mucha habilidad que
tuviera Miguel en estos negocios, vemos que a su hermana se le apareció, antes que
nada, como «un hombre que escribe», siendo este verbo un intransitivo, en el senti-
do que registra el Diccionario de Autoridades, de «componer libros […] y otras obras
y dexarlas escritas e impresas». ¿Qué obras ? Por supuesto, la que se llamaría más
tarde Primera parte del Quijote, recién publicada y reeditada, pero también, con
toda probabilidad, algunas de las novelas todavía en el telar, entre las cuales tres,
al menos, sitúan parte de la acción a orillas del Pisuerga: El licenciado Vidriera, El
casamiento engañoso y El coloquio de los perros34.
A los pocos meses de liberado, Cervantes va a abandonar definitivamente Va-
lladolid para volver a Madrid, otra vez sede de la Corte. Durante los diez años que
le quedan de vida, ya no tendrá que defenderse contra jueces y carceleros. De ahí el
cambio que se observa en su manera de presentarse. En 1590, en el memorial dirigi-
do al Consejo de Indias, empezaba recordando sus «jornadas de mar y tierra» y su
cautiverio argelino35. En 1613, en el conocido autorretrato del prólogo a las Novelas
véase Francisco Márquez Villanueva, Moros, moriscos y turcos, pp. 16-120.
32
Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, I, Prólogo, t. I, p. 9.
33
Cristóbal Pérez Pastor, op. cit., I, p. 518; Krzysztof Sliwa, op. cit., p. 327.
34
Al comentar esta declaración, Javier Salazar Rincón (op. cit., pp. 192-202) se centra únicamente
en los negocios que hubo de tratar el hermano de Andrea de Cervantes.
35
Krzysztof Sliwa, op. cit., p. 225.
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Las prisiones de Cervantes
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ejemplares, se nos aparece primero como «autor de La Galatea y de Don Quijote de
la Mancha», y sólo después como quien fue «soldado muchos años y cinco y medio
cautivo»36. Así pues, al reivindicar ante los lectores su nombre y su fama, Cervantes
invierte, por decirlo así, el paso de las armas a las letras. Es que, ahora, sus libros
prevalecen sobre sus hojas de servicios, en esta reivindicación marcada no sólo por
el legítimo orgullo de un escritor reconocido, sino por el gozo de una libertad defi-
nitivamente recobrada.
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Huellas y nostalgias:
la presencia elíptica de Andalucía
en el segundo Quijote y en el Persiles
I SABEL L OZANO- R ENIEBLAS
Darmouth College (USA)
[email protected]
Tras cubrir la sepultura de Crisóstomo con flores y dar el obligado pésame a
Ambrosio, don Quijote se despide de sus «huéspedes y de los caminantes, los cua-
les le rogaron se viniese con ellos a Sevilla, por ser lugar tan acomodado a hallar
aventuras, que en cada calle y tras cada esquina se ofrecen más que en otro alguno»
(Quijote I, 14, p. 157)1. Poco sabían los pastores de aventuras o terciaba en el consejo
la sombra de la ironía cervantina, como ya sospecharan Clemencín y Rodríguez
Marín2. En vano buscaremos aventuras de amor protagonizadas por bellas labra-
doras andaluzas o referencias al saqueo de Cádiz en la segunda parte del Quijote.
Tampoco el Persiles es pródigo en referencias directas a Andalucía. Los dos primeros
libros transcurren entre brumas septentrionales más prontas a acomodar panotis,
licántropos o náufragos que pícaros de cocina graduados de las almadrabas de Za-
hara. En los dos últimos, Cervantes prefirió guiar a sus peregrinos por tierras de
conquistadores hacia Roma, atraído sin duda por la dualidad que la ciudad santa
representaba en el Renacimiento. La Roma de finales del XVI combinaba dos ca-
racterísticas contradictorias. Constituía la cabeza de la cristiandad pero también
1
Cito por Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, ed. de Francisco Rico, Barcelona,
Instituto Cervantes-Crítica, 1998, 2 vols.
2
Tomo la referencia de Francisco Rico, op. cit., II, p. 313.
Isabel Lozano-Renieblas
Huellas y nostalgias: la presencia elíptica de Andalucía en el segundo Quijote y en el Persiles
26
el centro de la prostitución3. Era la cara bifronte que había hecho de Roma, junto
con Sevilla, a la que el mismo Cervantes llamó «Roma triunfante», una de las ciu-
dades más atractivas de su época4. Aunque el Compás de la Mancebía, nada tenía
que envidiar al Hortacho (recinto asignado a las cortesanas romanas, construido
por Alejandro VI y amurallado por Pío V), ni el fervor religioso sevillano le iba a
la zaga al romano, sin embargo, la balanza se inclinó hacia Roma, acaso para mejor
justificar una peregrinación que tenía más de amorosa que de cristiana5. Y es que la
presencia de Andalucía tanto en el segundo Quijote como en el Persiles sigue otros
derroteros. Andalucía no había sido para Cervantes una atracción pasajera. Moraba
en lo más profundo de su alma y ni siquiera la ausencia de un escenario geográfico
pudo borrarla del mapa de sus dos últimas novelas. No andaba tan desencaminado
Américo Castro cuando, ante la ausencia de caracterizaciones generales de andalu-
ces y castellanos en la obra cervantina, sugería que Cervantes poetizaba las regiones
de España que menos había frecuentado6.
En efecto, aunque Cervantes no situó las andanzas del hidalgo manchego ni las
de los devotos peregrinos en escenario andaluz, Andalucía aflora en ambas obras a
través de una concepción del espacio que consiste en crear vínculos entre el conte-
nido temático y el espacio en el que acaece una historia dada. La construcción del
espacio ficcional en géneros que operan con el mundo conocido tiene una mayor
dependencia del referente real que en aquellos que prefieren el espacio ajeno, como
la novela de aventuras, género al que pertenece el Persiles. Esto se debe a que las
leyes de la verosimilitud son mucho más severas y estrictas en el primero que en el
segundo. Y es precisamente en el ámbito de lo conocido donde se desarrollan tanto
el Quijote como el libro III del Persiles. En ambas obras las peripecias de sus prota-
gonistas se van forjando a lo largo del camino, donde se dan cita una variada gama
3
Véase Paul Larivaille, Le vie quotidienne des courtisanes en Italie au temps de le Renaissance
(Rome et Venise, XVe et XVIe siècles), París, Hachette, 1975.
4
En el soneto «Al túmulo del Rey que se hizo en Sevilla» había escrito: «¡Por Jesucristo vivo,
cada pieza / vale más que un millón, y que es mancilla / que esto no dure un siglo, ¡oh gran Sevilla,
/ Roma triunfante en ánimo y riqueza!». Para el soneto completo, véase Miguel de Cervantes, Obra
completa III, ed. de Florencio Sevilla y Antonio Rey Hazas, Alcalá de Henares, Centro de Estudios
Cervantinos, 1995, pp. 1408-1409.
5
En verdad el Persiles es la historia de una pareja de beatos procedentes de Tule (gens beatisima
llamaba a sus habitantes Adam de Bremen) que emprende el camino hacia Roma huyendo de Magsi-
mino, «a quien darían por disculpa, cuando no la hallase [a Auristela], que había hecho voto de venir a
Roma, a enterarse en ella de la fe católica, que en aquellas partes setentrionales andaba algo de quiebra»
(Persiles, IV, 12, p. 717, cito por Miguel de Cervantes, Los trabajos de Persiles y Sigismunda, ed. de Carlos
Romero Muñoz, Madrid, Cátedra, 1997). La fama de las cortesanas romanas era uno de los reclamos de
la ciudad o, al menos, así se lo pareció a Montaigne, que se ruborizaba ante la pericia de las cortesanas
romanas en mostrar su belleza, según dejó constancia en su Diario de viaje, escrito durante su viaje a
Italia entre 1580-1581, pero inédito hasta el siglo XVIII. Sobre la Sevilla del XVI, puede verse José Ma-
nuel Caballero Bonald, Sevilla en tiempos de Cervantes, Sevilla, Andalucía Abierta, 2003, pp. 176-187.
En Américo Castro, El pensamiento de Cervantes, ed. de Julio Rodríguez-Puértolas, Barcelona,
6
Noguer, 1972, p. 228.
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Huellas y nostalgias: la presencia elíptica de Andalucía en el segundo Quijote y en el Persiles
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de personajes de todo rango y condición social, en torno a los cuales se va tejiendo
la trama novelística.
En los géneros que operan con esta modalidad espacial la trabazón entre conte-
nido temático y espacio adquiere un profundo sentido orgánico alcanzando un alto
grado de especialización, hasta tal punto que la libertad del autor, en principio ili-
mitada, se ve afectada por el conocimiento del lugar donde acaece lo que se cuenta,
porque el imperativo de la verosimilitud impone su severidad. El espacio se subordi-
na en buena medida al contenido elegido por el autor. Los relatos de corte picaresco,
por ejemplo, exigen la aparición del territorio andaluz, finibusterrae de la picaresca,
como lo llama Cervantes. Del matadero de Sevilla es hijo Berganza; y a decir de un
hombre discreto «tres cosas tenía el rey por ganar en Sevilla: la calle de la Caza, la
Costanilla y el Matadero»7. Los Percheles de Málaga, las Islas de Riarán, el Compás
de Sevilla, la Rondilla de Granada, la Playa de Sanlúcar o el Potro de Córdoba no
eran andurriales desconocidos para el socarrón del ventero que arma caballero a
don Quijote (Quijote I, 3). A la picaresca sevillana, en fin, dedicó Cervantes su Rin-
conete y Cortadillo, por donde campean a su antojo aprendices de pícaros y aspiran-
tes al patio de Monipodio. Esta implicación historia-espacio funciona igualmente
en sentido inverso y no se agota en el género picaresco. La evocación de Andalucía
en las obras que nos ocupan se produce, pues, de manera oblicua, a través de temas
íntimamente vinculados a la identidad que la región andaluza se había ido forjando
a lo largo de su historia. Ni que decirse tiene que uno de estos temas está ligado a
sus raíces árabes. El otro tiene un perfil más coyuntural, derivado de la prosperidad
económica de que gozó la región durante el Siglo de Oro.
Puede, desde luego, matizarse, pues el vínculo con lo árabe no es privativo de la
región andaluza, pero no cuestionarse el hecho en sí, como indica el mismo nom-
bre de Andalucía. La literatura nos presta suficientes ejemplos que dan cuenta de
esta relación, empezando por los romances fronterizos, que constituyeron el primer
eslabón de una maurofilia literaria a la que se adheriría Cervantes en toda su pro-
ducción literaria. Ahí está para confirmarlo esa metamorfosis quijotesca en el moro
Abindarráez bajo la mirada perpleja de Pedro Alonso, oportunamente trocado en el
alcalde de Antequera (Quijote I, 5) o, si se prefiere, el siempre verdadero y puntual
historiador Cide Hamete Benengeli. De este vínculo entre lo árabe y lo andalusí
también son deudores el segundo Quijote y el Persiles. Para Cervantes el atractivo
del mundo musulmán no radicaba en aquellos géneros que, con un fuerte anclaje
en el mundo medieval, lo habían idealizado sino en el presente, precisamente, por-
que los conflictos de su época le brindaban una infinidad posibilidades artísticas
con múltiples aristas, que iban desde las siempre difíciles relaciones con el mun-
do otomano hasta los desgarradores dramas familiares de aquellos que sufrieron la
severidad del decreto de expulsión en carne propia. Acaso se haya hecho excesivo
7
Véase El coloquio de los perros, en Novelas ejemplares III, ed. de Juan Bautista Avalle-Arce, Ma-
drid, Castalia, 1985, p. 247.
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Huellas y nostalgias: la presencia elíptica de Andalucía en el segundo Quijote y en el Persiles
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hincapié en explicar la posición ideológica del propio Cervantes sobre las relaciones
cristiano-musulmanas del momento, sin reparar demasiado en que el interés del
autor bien pudiera fondear en otras aguas. No dejan de llamar la atención los múlti-
ples escollos que hay que sortear para aproximarnos, con un grado de fiabilidad muy
incierto, al pensamiento de Cervantes en lo que al tema morisco se refiere. Me pre-
gunto si no será que al autor le interesaba más mostrar la magnitud de un problema
de extraordinarias y complejas consecuencias, capaz de reflejar las contradicciones
de toda una época. Y si en la primera parte del Quijote, la presencia de lo musulmán
se articula sobre el quicio de las relaciones cristiano-otomanas, ahí están las tribu-
laciones de un cautivo para confirmarlo; en la segunda parte y en el Persiles, está
representada a través del tema morisco, uno de los problemas más serios que debió
afrontar la política interior de Felipe II y Felipe III. El cambio de perspectiva no es
arbitrario; tampoco, producto de la casualidad. Entre la publicación de la primera
y la segunda parte del Quijote mediaba la expulsión de los moriscos, hecho sobre el
que nuestro autor debió de meditar en profundidad, a juzgar por la importancia que
adquiere en las obras posteriores al decreto de expulsión, sobre todo, en las Novelas
ejemplares, en la segunda parte del Quijote y en el Persiles. En estas obras Cervantes
se aproxima a él desde una pluralidad de ángulos convencido de que su complejidad
no cabe ni debe expresarse en los límites de una sola conciencia. Aragón, Valencia
pero, sobre todas, Andalucía, como comunidades más afectadas por el problema
morisco, laten en el fondo de las historias moriscas cervantinas.
De la mano del tema morisco, los ecos de Andalucía alcanzan las espesas brumas
del norte de Europa por las que transitan los peregrinos del Persiles. En el libro II,
la comitiva que acompaña a Periandro y Auristela llega a la corte del rey Policarpo,
situada en el imaginario cervantino en alguna de las islas próximas al archipiélago
británico. Importa la referencia al lugar en el que transcurre la acción, porque Cer-
vantes tiene en cuenta, a la hora de idear la historia de Policarpo, las leyendas sobre
Hibernia y sus inmediaciones. Allí cuentan los historiadores de la geografía humana
—a saber, Solino, Támara y Santa Cruz, en tiempos más recientes— había un rey
que regía los asuntos públicos con leyes justas y actuaba guiado por principios de
equidad y virtud8. En la corte de Policarpo, Periandro y Auristela pero también el
bárbaro Antonio serán objeto de múltiples acosos amorosos. Auristela tendrá que
sortear, además de los apetitos sexuales del virtuoso Policarpo, los atropellos y atre-
vimientos epistolares del malediciente Clodio; Periandro, aunque conteniéndose en
8
Francisco de Támara cuenta que las Hébridas: «tenían un rey porque todas están juntas y con
muy angosta corriente se apartan. El rey de éstas ninguna cosa tenía suya, todo era común y de todos
y tenía ciertas leyes con que se gobernaba y seguía lo justo: y porque por causa de la avaricia no se
apartase de la verdad y mediante la pobreza aprendiese la justicia, pues ninguna cosa tenía, todo lo
necesario le daban de los bienes públicos. Ninguna mujer tenía propia más aquélla que quería esa
tomaba». Cito por El libro de las costumbres de todas las gentes del mundo, y de las Indias, Amberes,
Martín Nucio, 1556, p. 43. Lo mismo puede leerse en el Islario general de todas las islas del mundo de
Alonso de Santa Cruz, ed. y prólogo de Antonio Blázquez, Madrid, 1918, p. 70.
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Huellas y nostalgias: la presencia elíptica de Andalucía en el segundo Quijote y en el Persiles
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los límites de la honestidad, coqueteará con la bella Sinforosa; y Antonio tendrá que
vérselas con los envites de una morisca granadina.
El episodio responde a una de las pruebas más importantes a las que han de so-
meterse los protagonistas de la novela de aventuras: la prueba de castidad, un motivo
obligado en su configuración argumental. A la llegada de los amantes a una corte
extranjera el rey, la reina o ambos se enamoran de la pareja protagonista, que deberá
defender su castidad ante el acoso permanente y los reiterados intentos de seducción
de los anfitriones. Esta prueba adquiere múltiples matices en los novelistas de la Anti-
güedad, es decir, la defensa a ultranza en Heliodoro, con ciertas concesiones en Aqui-
les Tacio, o transigiendo en el matrimonio en Caritón de Afrodisias9. El rey Policarpo,
como sus homólogos de la novela griega, recurre a los consejos de una maga o adivina
para resolver tanto los asuntos de estado como los de índole personal10. Cervantes
ajusta el motivo aventurero al contexto histórico y decide asignarle el papel, no ya a
una autóctona de Tesalia, como sería de esperar en una novela de aventuras griega,
sino a su equivalente para un lector peninsular del siglo XVII (no hay que olvidar, por
otra parte, que el septentrión, incluida Inglaterra, era considerada, al decir de Olao
Magno, tierra de aquelarres). Siguiendo los consejos de Cascales en sus Tablas poéticas,
reemplaza a las Cibeles, Eritos, Circes y Medeas de turno por una morisca granadina
tránsfuga de la Inquisición: Cenotia, «nacida y criada en Alhama, ciudad del reino de
Granada», no muy agraciada, según confiesa ella misma, y de unos cuarenta años de
edad «que, con el brío y donaire, debía de encubrir otros diez» (Persiles, II, 8, p. 326)11.
La elección de la tierra natal de Cenotia no es casual pues representa la encru-
cijada entre las vicisitudes de la historia y la biografía del escritor. Poco importa que
Cervantes se refiera a Alhama de Granada o de Almería. Todo dependerá del sen-
tido que le atribuyamos al sintagma «reino de Granada», pues, en verdad, ambas
9
En las Etiópicas de Heliodoro, la llegada de Teágenes y Cariclea a la corte de Menfis provoca
que Arsace se enamore de Teágenes, y su marido, el sátrapa Oroódantes, de Cariclea. En Leucipa y
Clitofonte de Aquiles Tacio, Mélite, la dama de Éfeso, y su marido, Tersandro, pretenden a Clitofonte
y a Leucipa, respectivamente. El nudo argumental de Quéreas y Calírroe de Caritón de Afrodisias se
desarrolla en Mileto, donde reside Dionisio, que aspira a casarse con Calírroe. Y en las Efesíacas de
Jenofonte de Éfeso, Habrócomes y Antía sufren innumerables desgracias por los caprichos de Manto,
hija del pirata Apsirto.
10
Según Julio Caro Baroja, la hechicería pública o política es un rasgo característico de la hechice-
ría del norte de Europa, aunque luego se generalizará. Véase Las brujas y su mundo, Madrid, Alianza
Editorial, 1973, cap. 3.
11
Francisco Cascales recomienda ajustar los motivos de la tradición clásica a la era cristiana
cuando, a propósito de la situación de la poesía moderna, Castalio le replica a Pierio: «No tenéis
porqué quexaros tanto desso; que si la antigua poesía tenía dioses celestiales, infernales y terrenos, la
moderna tiene ángeles, sanctos del cielo y a Dios; y en la tierra, religiosos y ermitaños. Tenía aqué-
lla oráculos y sibilas, ésta, negrománticos y hechiceras; aquélla, encantadoras, quales fueron Circe,
Medea y Calipso» («Las cinco tablas de la poesía in specie»). Tablas poéticas, ed. de B. Brancaforte,
Madrid, Espasa Calpe, 1975, tabla I, p. 156. En las Etiópicas (VII y VIII) de Heliodoro el papel de maga
está encomendado a Cíbele y en la novela de Aquiles Tacio la propia Leucipa se hace pasar por tesalia
(Leucipa y Clitofonte V, 22).
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pertenecían al mismo en época nazarí. Pero la ubicación exacta del topónimo tiene
una importancia menor, en este caso. Lo relevante es la imagen que proyecta y su
conexión con el mundo, apoyada, en parte, en sus posibilidades combinatorias. Al-
hama supuso un punto de inflexión en las relaciones castellano-musulmanas. Evoca
un lugar emblemático de la recuperación del reino nazarí, tantas veces cantada en el
romancero, como pone de manifiesto, entre otros, el romance «Paseábase el rey moro
— por la ciudad de Granada». En efecto, la campaña de la recuperación de Granada,
concebida por los Reyes Católicos como una guerra de desgaste (1480-1492), se inició
con la toma de Alhama en respuesta a la conquista nazarí de Zahara (1482). Pero al
mismo tiempo el topónimo tenía fuertes connotaciones con el conflicto morisco12.
No se explicitan las razones por las cuales Cenotia tuvo que abandonar Alhama ni en
qué momento hay que situar su exilio: «Salí de mi patria, [—le dice a Antonio el bár-
baro—] hará cuatro años, huyendo de la vigilancia que tienen los mastines veladores
que en aquel reino tienen del católico rebaño; mi estirpe es agarena; mis ejercicios, los
de Zoroastes, y en ellos soy única» (Persiles II, 8, p. 327). Cervantes es deliberadamen-
te ambiguo, como tantas veces, cuando nos enfrentamos al problema morisco. Esta
falta de concreción era inevitable, por lo demás, si quería que su relato trascendiera
los límites de la anécdota. Con él, Cervantes se proponía traer a la mente del lector
uno de tantos dramas moriscos. Y da igual que se refiera a la rebelión granadina o al
decreto de expulsión de 1609, pues no sería argumento de peso esgrimir que la fecha
en la que transcurre la novela es más cercana a la rebelión granadina, porque la narra-
tiva anterior al XIX no se rige por el imperativo del tiempo histórico. Conviven en el
Persiles tiempos y espacios dispares sin que ello suponga quiebra novelística alguna13.
La historia de Cenotia, como también la de Ricote, es la de aquellos moriscos que
12
Era bien conocida su población morisca como todavía puede verse en el grabado de Jorge
Hoefnagle que reproduce Luis Astrana Marín en su Vida ejemplar y heroica de Miguel de Cervantes
Saavedra, Madrid, Instituto Editorial Reus, 1948-1958, 5, p. 132. Además, sus aguas termales consti-
tuían un enorme atractivo para caminantes y viajeros, como lo indica su nombre. Francisco Bertaut
en su Diario del viaje de España describe así la ciudad: «Esta ciudad es aquella que Fernando e Isabel
tomaron la primera. Está situada sobre una grupa de roca, en torno a la cual rueda entre precipicios
un arroyo o un torrente que llaman, si no recuerdo mal, Motril. En lo alto hay mucha agua, que los
moros habían llevado al castillo, que está al presente arruinado, por un acueducto que aún está ente-
ro, y por bajo de cuyas arcadas pasamos. Sirve todavía actualmente para conducir el agua a la ciudad.
El jueves 14 fuimos a pie a un cuarto de legua de allí, hacia el camino de Granada para ver la fuente
de los baños termales. Son tres grandes bóvedas todas llenas de un agua hirviente, donde había en-
tonces señoras pero salía de allí un aire tan asfixiante y tan lleno de humo, que habiendo entrado en
la primera habitación no pude permanecer allí largo tiempo, y me fué imposible entrar en la segunda,
y mucho menos en la tercera, donde está el manantial y donde no se bañan, a causa de que el agua
está allí demasiado caliente» (Diario del viaje de España, 592). Cito por José García Mercadal, Viajes
de Extranjeros por España y Portugal. Siglo XVII, Madrid, Aguilar, 1959, II.
13
Sobre la expulsión de los moriscos del reino de Ganada véase el ya clásico estudio de Julio Caro
Baroja, Los moriscos del reino de Granada (ensayo de historia social), Madrid, 1957. Sobre el decreto
de expulsión puede verse también Antonio Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, Historia de los mo-
riscos. Vida y tragedia de una minoría, Madrid, Alianza, 1984, cap. 9.
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salieron antes de que se decretara el bando expulsión, conscientes de la inminente
tragedia que se avecinaba. No obstante, no parece que haya habido un significativo
número de moriscos que se asentaran en tierras septentrionales, aunque sí se tiene
constancia, según Cabrera de Córdoba, de sus contactos con Inglaterra14. Cenotia
practica la hechicería erótica, como la vieja Celestina y su larga descendencia, las
Montielas, Cañizares y Camachas de El Coloquio, o la morisca que aconseja a la dama
«de todo rumbo y manejo» que enloquece a Vidriera15. En verdad la literatura hacía
a los moriscos acreedores de prácticas de magia y hechicería desde muy temprano y
son numerosas las obras que atestiguan la imagen del morisco como hechicero. Aca-
so haya contribuido a potenciar esta imagen sus vínculos con la medicina tradicional,
que había entrado en una profunda crisis desde que, a finales de la Edad Media, se
convirtiera una disciplina universitaria en la que ya no tenían cabida magos, nigro-
mantes ni curanderos16. En La pícara Justina (III, cap. 3) se describe una vieja morisca
«hechicera, experta, bisagüela de Celestina». Y la hechicera de El diablo cojuelo (tran-
co octavo) es de Triana, hábil en echar las habas y andar en cedazo mejor que cuantas
hay de su tamaño, en palabras de la propia Rufina María, por mencionar solo un par
de ejemplos. El personaje de Cenotia sintetiza los tópicos sobre los moriscos sancio-
nados por la tradición literaria pero también los peores prejuicios de una sociedad
intransigente con las minorías religiosas. En él confluyen la inclinación del morisco
a la práctica de supersticiones y hechicerías y el típico caso de magia amatoria, tan
frecuente en los relatos de aventuras de la Antigüedad, protagonizado por mujeres
con una marcada hipertrofia de la personalidad. Pero si comparamos a Cenotia con
otras compañeras de oficio no podemos menos de sonreír ante el corto alcance de
sus poderes, que se reducen a unos pocos conocimientos médicos. Cenotia es una
14
A la muerte de Isabel I, Jacobo I inauguró su nueva política amistosa con España revelando y
enviando a Madrid la documentación que probaba los tratos de Inglaterra con los moriscos valen-
cianos. Así lo describe Cabrera de Córdoba: «En Valencia se ha hecho prisión de muchos moriscos,
y por ciertas cartas que el rey de Inglaterra ha enviado, las cuales se habían hallado entre los papeles
de la reina pasada que le habían escrito los moriscos pidiéndoles favor para levantarse, y que ellos
daría orden de que pudiese saquear aquella ciudad, viniendo con su armada. Hase dado tormento
a muchos de ellos para averiguar lo que pasaba en este negocio, y no dejaran de castigarse algunos
para ejemplo de los demás» (Relaciones de la corte de España, 240). Tomo la referencia de Antonio
Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., 173.
15
Sobre la hechicería en el Persiles, remito a José-Ignacio Díez Fernández y Luisa-Fernanda Agui-
rre de Cárcer, «Contexto histórico y tratamiento literario de la hechicería morisca y judía en el “Per-
siles”», Cervantes. Bulletin of the Cervantes Society of America, 12, 2 (1992), pp. 33-62. Aquí el lector
podrá encontrar, además, una excelente bibliografía. Véase la anotación de Juan Bautista Avalle-Arce
a su edición de Los trabajos de Persiles y Sigismunda, Madrid, Castalia, 1970, p. 201.
16
Remito a Luis García Ballester, Los moriscos y la medicina. Un capítulo de la medicina y la
ciencia marginadas en la España del siglo XVI, Barcelona, Labor, 1984. En Antonio Domínguez Ortiz
y Bernard Vincent, «Profesiones y nivel de vida», en op. cit., cap. 6, encontrará el lector suficientes
ejemplos del vínculo entre medicina y hechicería aplicado a los moriscos. Información sobre el tra-
tamiento de los moriscos en la literatura del siglo XVII, puede consultarse en Miguel Herrero García,
Ideas de los españoles en el siglo XVII, Madrid, Editorial Voluntad, 1928, cap. XX.
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herbolera con un limitado dominio de la palabra, a juzgar por su incapacidad para
seducir a Antonio17. Junto a la hechicería nos presenta Cervantes otro lugar común
que marcó negativamente el carácter de los moriscos. Cenotia, una mujer entrada en
años movida por un intenso erotismo ante la amenaza de la edad, pretende seducir a
un joven adolescente y reacciona airada cuando se siente desdeñada. Esta inclinación
al erotismo enlaza directamente con otro tema que había ocupado un lugar preferen-
te en el debate sobre la expulsión: la fecundidad, también presente en el episodio del
Jadraque18. Domínguez Ortiz ha estudiado con precisión el origen de este mito. La
población morisca aumentaba en mayor proporción que la cristiana debido a que en
el cómputo entraban factores, como la movilidad social, que no afectaban a ésta últi-
ma19. El hecho es que el tema de la fecundidad llegó a convertirse en un lugar común
aplicado a los moriscos. Pero, mientras para los cristianos constituía un ideal y un
deber conyugal para con la familia y el estado, aplicada a los moriscos se veía como
resultado de una incontenible lujuria. Este prejuicio antimorisco llegó a tales extre-
mos que Aznar Cardona sostenía que la multiplicación de los moriscos respondía a
una conspiración auspiciada por Alá, cuyo objetivo era recuperar la península para
el Islam20. No le debían de resultar ajenos a Cervantes todos estos tópicos con los que
caracterizó a Cenotia. Él mismo había conocido de primera mano la situación de los
moriscos granadinos. En el verano de 1594 viajó por el reino nazarí como comisiona-
do, nombrado a recomendación de Agustín de Cetina, para recaudar varios atrasos
de tercias y alcabalas21. A finales de este mismo verano visitó Guadix, Baza, Motril,
Alhama, Loja y Vélez Málaga, entre otras ciudades andaluzas, con éxito desigual en
sus responsabilidades fiscales. En algunas ciudades encontró cierta resistencia en el
pago, aunque cobró en su totalidad la partida correspondiente a Alhama y Loja.
Pero si Cenotia pertenece al grupo de aquellos moriscos que rechazaron un am-
biente opresor que les resultaba insoportable, Ricote es su contrapunto, el prototipo
17
Desde el punto de vista ético, escribe Caro Baroja, la hechicería se diferencia de otras posturas
mágico-religiosas en que «es contraria a los intereses generales de la sociedad, desenfrenada cuanto
se trata de negocios en los que interviene el Amor. Porque la hechicera conoce el Amor-pasión,
pero ignora el amor al prójimo. Si trabaja para alguien es torcidamente o por lucro» (Las brujas y su
mundo, p. 74).
18
Según el jadraque, «No los esquilman las religiones, no los entresacan las Indias, no los quintan
las guerras, todos se casan, todos, o los más engendran, de do se sigue y se infiere que su multiplica-
ción y aumento ha de ser innumerable» (Persiles, III, 11, p. 559).
19
Véase Antonio Domínguez Ortiz, y Bernard Vincent, op. cit., pp. 83-90.
20
Escribe en su Expulsión justificada de los moriscos españoles, publicada en Huesca en 1612, «Su
intento era crecer y multiplicarse en número como las malas yerbas, y verdaderamente que se auían
dado tan buena maña en España que ya no cabían en sus barrios ni lugares, antes ocupauan lo res-
tante y lo contaminauan todo, deseosos de ver cumplido un romance suyo que les oy cantar en que
pedían su multiplicación a Mahoma, que les diesse, “Tanto del Moro y Morica / Como mimbres en
mimbrera / Y juncos en la junquera”». Tomo la referencia de Julio Caro Baroja, Los moriscos del reino
de Granada, p. 220.
21
Véase Luis Astrana Marín, op. cit., 5, cap. LIX.
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de morisco granadino desarraigado que en una actitud suplicante vuelve a España
tras haber buscado acomodo en tierras alemanas. También en este caso la aparición
de un morisco se vincula a Andalucía mediante un conocimiento tácito de la pro-
cedencia de los moriscos manchegos. Tras finalizar los episodios de la Barataria,
Sancho se encuentra, si no en tierras aragonesas sí en sus inmediaciones, con su
paisano Ricote, que ha regresado a España en compañía de unos falsos peregrinos.
El lugar en que se produce el encuentro también está elegido con tino y acierto. Ara-
gón contó siempre con una importante población morisca y los señores aragoneses,
firmes defensores de los moriscos, como ha mostrado Soledad Carrasco Urgoiti,
lucharon por defender los derechos de sus vasallos22. Ricote, como Cenotia, había
abandonado España antes de la publicación del decreto de expulsión. Hacia 1608,
cuando todavía no estaba dicha la última palabra, algunos moriscos de familias aco-
modadas, que podían costearse los gastos del viaje, comenzaron su exilio siguiendo
la ruta francesa, cuya elección venía dada porque el viaje a países mahometanos
estaba prohibido23. Este es el caso de Ricote: «ordené, digo, de salir yo solo, sin mi
familia, de mi pueblo e ir a buscar donde llevarla con comodidad y sin la priesa
con que los demás salieron, porque bien vi, y vieron todos nuestros ancianos, que
aquellos pregones no eran solo amenazas…» (Quijote II, 54, p. 1071). Y tras recorrer
Francia e Italia, llegó a Alemania, donde se asentó «porque allí se podía vivir con
más libertad de conciencia». Tras buscar acomodo en Augsburgo, Ricote vuelve a su
tierra para desenterrar el tesoro que dejó escondido y para rescatar a su mujer y a
su hija, que habían sido conducidas a Argel. El personaje evoca, una vez más, todo
un abanico de posibilidades combinatorias que principian, desde luego, por el au-
mentativo de Rico. Según Domínguez Ortiz, la ocultación de los ahorros, la división
familiar y la tragedia de verlos partir eran rasgos aplicables a los moriscos manche-
gos, pero en modo alguno a los valencianos mucho más combativos y cohesionados
ideológicamente. Así lo percibió el propio Cervantes pues nos mostró la otra ver-
sión de la historia en el episodio del jadraque, en el Persiles. En tierras valencianas
las relaciones entre moriscos y cristianos eran tan encarnizadas que no hubo lugar
para manifestaciones de piedad. Ricote remite, además, como ya estudiara Márquez
Vllanueva, a los seis pueblos de la Vega del Segura conocidos por este nombre, cuya
expulsión revistió un carácter especial por la insensibilidad del monarca hacia una
población que había dado sobradas muestras de lealtad al rey y a la religión que éste
profesaba24. A estas evocaciones se suma el nombre de una familia acaso no del todo
22
Véase Soledad Carrasco Urgoiti, El problema morisco en Aragón al comienzo del reinado de
Felipe II, Chapel Hill, NC, Department of Romance Languages-University of Norh Carolina, 1969 (en
particular el cap. IV).
23
Véase Antonio Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., cap. 9.
24
Sobre los moriscos del valle de Ricote, remito al ya clásico artículo de Francisco Márquez Villa-
nueva, «El morisco Ricote o la hispana razón de estado», en Personajes y temas del «Quijote», Madrid,
Taurus, 1975, p. 255 y sigs.; véase asimismo Antonio Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., p.
198 y sigs.
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desconocida para Cervantes. Antes de la sublevación de Granada, los moriscos de
la corona castellana eran muy pocos y en su mayoría mudéjares. A partir de 1570 los
moriscos granadinos expulsados fueron conducidos a diferentes lugares de Castilla.
El contingente más numeroso salió en noviembre de 1570. A éste le siguieron otros
en los años sucesivos, llegando a un total, según el cómputo de Domínguez Ortiz,
de unos 8000025. En Esquivias, lugar de nacimiento de Catalina de Salazar, famoso
por sus linajes, escribe Cervantes con cierta sorna en el prólogo del Persiles, Astrana
Marín ha documentado la existencia de moriscos procedentes del reino de Granada.
En torno a 1570 llegaron a esta población manchega doce familias y entre ellas la de
los Ricote, una de las más adineradas, que se asentó en la zona hasta que tuvieron
que exiliarse definitivamente en 161026. También a Quintanar de la Orden, tierra
natal de Antonio el bárbaro, habían llegado moriscos procedentes del marquesado
de los Vélez27. Recuérdese que los pueblos manchegos fueron uno de los destinos
principales de los moriscos granadinos expulsados tras la rebelión de las Alpujarras.
Todos estos factores hacen del expatriado Ricote un personaje que inspira una
profunda simpatía, pues responde al caso de aquellos moriscos granadinos desarrai-
gados que vivían pacíficamente entre cristianos y descendientes de mudéjares en
los pueblos manchegos. Es más, yo diría que inspira hasta ternura, porque le brinda
al lector la posibilidad de conmiseración, de la que carece la historia de Cenotia.
Ricote ha vuelto por amor a la patria y, por si esto no bastase, el desdichado es leal,
no sólo a esa patria que con tanto rigor lo rechazaba, sino también al monarca que
sometió al pueblo morisco a la más vergonzosa de las humillaciones: «me parece
[dice Ricote] que fue inspiración divina la que movió a su Majestad a poner en efec-
to tan gallarda resolución» (Quijote II, 54, p. 1072). El personaje de Cenotia, en cam-
bio, no hace concesiones al patetismo. Se ha buscado la vida, como suele decirse, y
ha encontrado acomodo en las lejanas tierras del septentrión, poniendo tierra por
medio ante una situación represiva que había hecho insufrible la vida granadina.
No mendiga el perdón ni mucho menos se postra ante quienes le eran hostiles, sino
que abiertamente se enorgullece de su estirpe agarena28. Y si Cenotia está modelada
25
Antonio Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., p. 80. Según los datos que obraban en
poder del primado de España en la consulta del consejo de Estado del 20 de enero de 1608, los moris-
cos procedentes de tierras alpujarreñas llegados al reino de Toledo tras la rebelión eran unos mil qui-
nientos, que se habían multiplicado hasta convertirse en 13 000 en el momento en que se elaboraba el
informe. Tomo la referencia de Julio Caro Baroja, La expulsión de los moriscos del reino de Granada,
p. 214 y sigs. Para el documento, véase Pascual Boronat y Barrachina, Los moriscos españoles y su
expulsión. Estudio histórico-crítico, Valencia, Francisco Vives y Mora, 1901, II, p. 469.
26
En Luis Astrana Marín, «Apéndice XI. Los Ricote y demás moriscos de Esquivias», op. cit., pp.
692-697.
27
Véase Antonio Domínguez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., pp. 53-54.
28
Carlos Romero ve en las palabras de Cenotia una posible alusión «formalmente correctísima y
aun elogiosa a la orden de los primeros Inquisidores, los dominicos o dominicanos, conocidos tam-
bién como Domine canes», Los trabajos de Persiles y Sigismunda, p. 327, nota 4.
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sobre el doblete hechicería-lujuria, Ricote no escapa al tópico de la avaricia. Pero lo
que interesa señalar, más allá de las convicciones ideológicas del propio Cervantes
que, a decir verdad, se nos escapan porque se nos muestran contradictorias, es la
actitud del autor hacia sus personajes. Junto a esta imagen tópica de la morisca, que
le acomoda al autor para llenar el lugar que el género de la aventura tenía reservado
para las magas tesalias, podemos entrever una profunda relación solidaria del autor
con su personaje. Cervantes, como decía Thomas Mann lleva dentro de sí su propio
tiempo «en toda su complejidad y toda su contradicción, pues el futuro prefigura
una diversidad, no sólo unidad»29. Más allá del tópico, en el discurso percibimos una
segunda voz sensible a los sufrimientos de todo un pueblo a través de frases senten-
ciosas, como las palabras que Cenotia le dirige a Antonio, a propósito de su salida de
Granada: «que, cuando se sale por fuerza della, antes se puede llamar arrancada que
salida» (Persiles III, 8, p. 329). En el caso de Ricote, la solidaridad viene de la mano
de la generosidad del autor al cederle la palabra al personaje para que nos conmueva
con su historia. Y ni siquiera en el discurso del jadraque, donde se pronuncian las
palabras más severas contra los moriscos, se olvida el autor de mostrarnos su empa-
tía: «piensan estos desventurados que en Berbería está el gusto de sus cuerpos y la
salvación de sus almas, sin advertir que, de muchos pueblos que allá se han pasado
casi enteros, ninguno hay que dé otras nuevas sino de arrepentimiento, el cual les
viene juntamente con las quejas de su daño» (Persiles, III, 11, p. 551). Otras veces,
esta empatía se pone de manifiesto en el discurso del propio autor-narrador: «Desde
la lengua del agua, como dicen, comenzaron a sentir la pobreza que les amenazaba
su mudanza y la deshonra en que ponían a sus mujeres y a sus hijos» (Persiles III,
11, p. 556). Se trata, como ha dicho Márquez Villanueva, de una voz de protesta
que consiste en traer ante nuestros ojos la problemática de un personaje de carne y
hueso.
El último personaje de ascendencia andalusí que encontramos en el Quijote es
don Álvaro Tarfe. Aunque procendente del Quijote de Avellaneda, Cervantes lo trata
con exquisita delicadeza. El personaje entra en acción en el apócrifo cuando cua-
tro caballeros adinerados de Granada, que se dirigen a Zaragoza para participar en
unas justas, llegan a la plaza de Argamasilla. En el Quijote cervantino el encuentro
con el personaje de Avellaneda se produce en el capítulo LXXII de la segunda parte.
Don Quijote le pregunta adónde se encamina, a lo que el caballero granadino le
responde: «Yo, señor […], voy a Granada, que es mi patria» (p. 1205). La tarea que
le encomienda Cervantes es declarar ante el alcalde del pueblo la autenticidad de
los verdaderos protagonistas de su novela. Acto seguido el propio autor parece no
concederle mayor importancia pues afirma que:
la declaración se hizo con todas las fuerzas que en tales casos debían
29
Thomas Mann «Viaje por mar con don Quijote», en Ensayos sobre música, teatro y literatura,
selección y traducción de Genoveva Dieterich, Barcelona, Alba Editorial, 2002, p. 97.
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hacerse, con lo que quedaron don Quijote y Sancho muy alegres, como
si les importara mucho semejante declaración y no mostrara claro la
diferencia de los dos don Quijotes y la de los dos Sanchos sus obras y
sus palabras (p. 1208).
Esta falta de relevancia en el papel asignado a don Álvaro Tarfe podría sugerir
que, aunque el personaje arranca del apócrifo, su presencia en la obra cervantina
responde a un propósito más profundo. Soledad Carrasco Urgoiti ha explicado, en
un trabajo todavía inédito, el aire de misterio que envuelve a Álvaro Tarfe y los si-
lencios sobre los que está construido el personaje. Así se explica la fascinación que
sintieron por él escritores como Azorín o Francisco Ayala. El primero, en Al margen
de los clásicos, llegó incluso a imaginarse la suerte de este granadino acomodado
más allá de las páginas del Quijote. Puede que la explicación de todo lo que envuelve
a este personaje misterioso esté, como señala Carrasco Urgoiti, en que Cervantes
quiso solidarizarse también mediante un pacto de silencio con aquellos moriscos
ahidalgados, que ocultos o haciéndose pasar por cristianos viejos habían consegui-
do sustraerse al bando de expulsión y sobrevivían con discreción en la Granada del
siglo XVII30. Amigos tenía Cervantes en tierras granadinas que respondían a este
perfil, como Pedro de Padilla, de posible pertenencia a la sociedad burguesa grana-
dina de origen nazarí31.
Sin tener el atractivo del tema morisco, los vínculos con Andalucía aparecen
también en aquellos personajes de perfil apicarado e impreciso que engrosan la nó-
mina de lo marginal. No hace falta reiterar que el vínculo de lo marginal con Anda-
lucía emerge de la prosperidad socioeconómica de que gozó durante la época áurea,
como he mencionado al comienzo de este escrito. Deslumbrante por la riqueza y el
poderío de sus principales ciudades, el mundo urbano andaluz tenía como centro la
capital hispalense, auténtico paradigma urbano del imperio y corazón del capitalis-
mo europeo de la época. Sin embargo, esta dimensión cosmopolita llevaba en sí el
germen de lo marginal, precisamente por la atracción que suponía la ostentación de
su riqueza, bien con los ojos puestos en una vida mejor, bien al abrigo de las institu-
ciones asistenciales. Las grandes ciudades andaluzas ofrecían un enorme atractivo
para todo tipo de aventureros y buscavidas, y constituían un reclamo para gentes de
la más diversa procedencia. Junto a las minorías étnicas desfilaban por su geografía
todo tipo de personajes marginales. Sin embargo, a diferencia de lo que sucede en
30
Tomo los datos de Soledad Carrasco Urgoiti, «Don Álvaro Tarfe (Quijote, II, cap. 72) morisco
ahidalgado», Cervantes: Bulletin of the Cervantes Society of America, 27, 2 (fall 2007 [2008]), pp. 43-57.
Para los moriscos que permanecieron en Granada después de la expulsión remito a Antonio Domín-
guez Ortiz y Bernard Vincent, op. cit., cap. 12, especialmente p. 261 y sigs.
31
Remito a Soledad Carrasco Urgoiti, «Pedro de Padilla en el entorno de la Granada morisca» en
Homenaje a Elena Catena, ed. de Antonio Lara Pozuelo, Madrid, Castalia, 2001, pp. 115-123. Sobre las
relaciones de Cervantes con los poetas andaluces, puede verse, asimismo, «Cervantes y los ingenios
andaluces (notas de poética)» en Pedro Ruiz Pérez (ed), Cervantes y Andalucía. Actas del coloquio
internacional, Estepa, diciembre de 1998, Estepa, Ayuntamiento de Estepa, 1998, pp. 84-111.
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las Novelas ejemplares, no encontramos en el Persiles o el segundo Quijote retratos de
la picaresca sevillana a la manera de Rinconete y Cortadillo, con sus organizaciones y
lugares característicos, amparo de murcios, hampones y demás rateros de ocasión32.
El vínculo con lo marginal está mucho más atemperado, como corresponde a un gé-
nero, como el de la aventura, tan poco proclive a la tipificación. Aun con todo cuan-
do los peregrinos del Persiles se adentran en territorio conocido, me refiero al libro
III, la novela adquiere un nuevo sesgo y entonces abre sus páginas a falsos cautivos,
peregrinos y estudiantes errantes que vinculan su existencia a tierras andaluzas.
Los peregrinos del Persiles llegan a un lugar «no muy pequeño ni muy grande,
de cuyo nombre» no quiere acordarse el autor (Persiles III, 10, p. 532). Allí escuchan
el relato de dos estudiantes de Salamanca que tienen desplegado un lienzo en el que
está pintada la ciudad de Argel. Fingiendo ser cautivos recién rescatados les cuentan
a los que los rodean la historia de su falso cautiverio. Entre los que presencian la es-
cena, se halla el alcalde del pueblo, que había estado cautivo en Argel y había bogado
en la galeota que describen los estudiantes. Y aunque en un primer momento los fal-
sos cautivos consiguen despistar al alcalde, pronto levantan sus sospechas algunos
detalles de la historia. El alcalde se sorprende de que uno de ellos fuera el espalder de
la galeota, siendo que el verdadero, a quien había conocido durante su cautiverio, se
llamaba «Alonso Moclín, natural de Vélez-Málaga» (Persiles, III, 10, p. 536)33. Del in-
terrogatorio de los mendaces cautivos se desprende que uno de ellos fue capturado
en los Percheles de Málaga (p. 538), donde era aficionado a la pesca, y ambos habían
aportado a Málaga tras su liberación. Avalle-Arce ya relacionó el episodio con la
captura de Cervantes, nunca narrada en su totalidad pero sí dispersa a lo largo de
la obra cervantina desde la temprana Epístola a Mateo Vázquez, hasta el Persiles34.
El recuerdo de Vélez Málaga, ciudad situada en el centro de los avatares contables
de Cervantes, pues no consiguió recaudar la totalidad de las alcabalas asignadas,
planea en todo el episodio. Cuando estalló la crisis financiera, la Contaduría Mayor
de Hacienda le reclamará, según Canavaggio, «80.000 maravedís que había condo-
32
Para la relación de la obra de Cervantes con la picaresca sevillana, véase Ángel Estévez Mo-
linero, «Cronotopos andaluces y metapicaresca cervantina», en Pedro Ruiz Pérez (ed), op. cit., pp.
210-223.
33
Los ecos autobiográficos de este relato así como su relación con el cautiverio de Cervantes han
sido estudiados por Juan Bautista Avalle-Arce en «La captura (Cervantes y la autobiografía)», en
Nuevos deslindes cervantinos, Barcelona, Ariel, 1975, pp. 279-333. Alonso Moclín, aunque parece ser
nombre ficticio, no deja de ser apropiado para un cautivo. El castillo de Moclín, escribe Jerónimo
Munzer en su Relación de viaje, estaba saliendo de Granada a tres leguas al oeste «Todas las noches
los cristianos encendían una luz en su castillo para que por ella pudieran guiarse los cautivos que,
logrando escapar, buscasen refugio entre los suyos. El rey don Fernando, antes de tomar a Granada,
atacó el castillo de Moclín con gran copia de gente y de ingenios de guerra…». Cito por José García
Mercadal, op. cit., 1952, I, p. 368.
34
Juan Bautista Avalle-Arce, op. cit., pp. 277-333, pasa revista a los textos en los que aparece el tema
de la captura. Son los siguientes: Epístola a Mateo Vázquez, el libro V de La Galatea, El trato de Argel,
Los baños de Argel, la historia del cautivo en el Quijote I, La española inglesa y, por último, El Persiles.
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nado a los agentes de Vélez Málaga»35. De este viaje por tierras granadinas también
hay alguna alusión en el segundo Quijote. En el capítulo LVII de la segunda parte,
Altisidora le espeta a don Quijote en un romance paródico: «seas tenido por falso /
desde Sevilla a Marchena, / desde Granada hasta Loja» (p. 1092). Y si de estudiantes
apicarados se trata, ninguno hay más autorizado que el médico mandón e imperti-
nente Pedro Recio de Mal Agüero, como lo llama Sancho, natural de Tirteafuera y
graduado en medicina por la Universidad de Osuna36.
A la misma cofradía que los estudiantes vagabundos pertenece la falsa peregrina
del Persiles que Periandro y Auristela encuentran en el camino de Talavera. En su
ociosa peregrinación, tras visitar la imagen del Sagrario y el Niño de la Guardia tiene
pensado entretenerse viendo la Verónica de Jaén:
hasta hacer tiempo de que llegue el último domingo de abril, en cuyo
día se celebra en las entrañas de Sierra Morena, tres leguas de la ciudad
de Andújar, la fiesta de Nuestra Señora de la Cabeza, que es una de las
fiestas que en todo lo descubierto de la tierra se celebra. (Persiles III, 6,
pp. 488-489)
El tono elogioso con el que se refiere a la romería de Nuestra Señora de la Ca-
beza la lleva a compararla con las fiestas de la Monda de Talavera de la Reina. No
parece exagerado en absoluto el encomio pues, con la llegada del siglo XVII, la rome-
ría alcanzó su máximo esplendor, convirtiéndose en una de las solemnidades maria-
nas más importantes de la península. Del siglo XVII, datan las primeras cofradías,
siendo la de Andújar una de las pioneras, a juzgar por el relato que en 1677 hiciera
Manuel de Salcedo Olid en su Panegírico Historial de Nuestra Señora de la Cabeza de
Sierra Morena, donde da cumplida cuenta de los pormenores de la romería, sus ca-
minos, enseres y cofradías. La falsa peregrina la describe sirviéndose de los recursos
propios de la écfrasis: «bien quisiera yo, si fuera posible, sacarla de la imaginación
donde la tengo fija, y pintárosla con palabras, y ponérosla, delante de la vista, para
que, comprehendiéndola, viérades la mucha razón que tengo de alabárosla», anu-
dando su relato con una oportuna descripción pictórica del cuadro del Palacio Real
de Madrid. No hay por qué desestimar la posibilidad de un conocimiento directo
35
Véase Jean Canavaggio, Cervantes, Madrid, Espasa Calpe, 1987, pp. 146-147. Según Astrana Ma-
rín la deuda de las recaudaciones de Vélez-Málaga ascendía a 277 040 maravedís: «no cabía proceder
con rigor; y así aceptó del recaudador de alcabalas Francisco López de Vitoria, mediante fianzas, una
letra de 4000 reales, que luego giró a Málaga el 21 de Noviembre, para pagarla en Sevilla, quedando
sin abonar los restantes 141.140 maravedís» (op. cit., 5, p. 137).
36
Sobre la fundación de la Universidad de Osuna consúltese Francisco Rodríguez Marín, «Cer-
vantes y la universidad de Osuna» en Estudios cervantinos, Madrid, 1947, pp. 15-49. Entre los diversos
alumnos que cita Rodríguez Marín, algunos de ellos se graduaron en medicina en dicha universidad.
En cambio, según Alberto Sánchez la Universidad de Osuna carecía de facultad de Medicina. Véase
su edición de El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Barcelona, Noguer, 1976, p. 855.
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39
de tan vistosa celebración mariana, pues allá por la primavera de 1592 encontramos
a Cervantes reanudando sus actividades como recaudador de provisiones en tierras
andujareñas37.
Pilotando esta nave de marginados ocasionales vinculados con lo andaluz no
podían faltar los locos que abren las páginas del segundo Quijote, en un libro y
una época que sentían fascinación por el tema de la locura. En el prólogo y primer
capítulo de la segunda parte, Cervantes incluye tres cuentos de locos para replicar
a Avellaneda. El que cuenta el barbero se refiere a un loco de Sevilla, graduado por
la Universidad de Osuna, que, creyéndose Neptuno, intentó salir del hospital de
los inocentes, disfrazado de cuerdo. Fue Monique Joly quien puso de manifiesto la
relación entre este cuento y el Quijote de 161438. Avellaneda en el último capítulo
del apócrifo se sirve de citas textuales del prólogo de la primera parte del Quijote
para motejar y zaherir a Cervantes, sugiriendo que autor y personaje compartían
una misma locura. Para replicarle, Cervantes recurre a un cuento popular de tono
jocoso retomando las mismas palabras del autor apócrifo. El inexplicable enfado de
don Quijote al oír el cuento del rapista puede explicarse como un rechazo al destino
que Avellaneda le había reservado, condenándolo al encierro en el hospital toledano
del Nuncio, llamado así en honor a su fundador39. Los otros dos cuentos aparecen
en el prólogo. En el primero, el loco, de Sevilla, dio en la mayor locura que pueda
imaginarse. Tras hinchar perros con un canutillo puntiagudo los despedía con unas
palmaditas en la barriga diciendo a los que presenciaban la escena: «¿Pensarán vues-
tras mercedes ahora que es poco trabajo hinchar un perro?» (p. 619). El loco del
segundo cuento es de Córdoba, y tenía por afición aplastar perros con una losa40. Un
día descargó el cantazo sobre la cabeza de un podenco, cuyo dueño, viendo las ma-
las artes del loco, le tomó la medida de las espaldas con una vara. Desde entonces, el
loco cada vez que veía un perro y se le renovaban las pasadas intenciones exclamaba:
«Este es podenco: ¡Guarda!» (p. 620). Mauricio Molho ha adelantado la hipótesis de
que con el loco cordobés aplastaperros Cervantes se refiere a Avellaneda, quien con
libros más duros que las peñas pretendió quitarle la ganancia. Y en verdad, no es
descabellado pensar que si el loco cordobés es el del apócrifo, el sevillano no puede
37
Véase Luis Astrana Marín, op. cit., 5, cap. LV.
38
Remito a Monique Joly, «Historias de locos», RILCE. Revista del Instituto de Lengua y Cultura
Españolas, 2, 2 (1986), pp. 177-183. Sobre los cuentos de locos véase además, la edición de Francisco
Rodríguez Marín de El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Madrid, Atlas, 1947, IX, pp. 296-
299.
39
En 1483, don Francisco Ortiz, nuncio y apostólico canónigo de Toledo, fundó el hospital de
la Visitación en Toledo pero muy pronto se conoció con el nombre de hospital del Nuncio. Véase
Carmen Viqueira, «Los hospitales para locos e inocentes en Hispanoamérica y sus antecedentes es-
pañoles», Revista de Medicina y Ciencias Afines, 12, 270 (1965), pp. 1-33.
40
Para la relación de la familia de Cervantes con Córdoba, remito a Francisco Rodríguez Marín,
Cervantes y la ciudad de Córdoba, Madrid, Tipografía de la Revista de Archivos, 1914.
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ser otro que el autor de El ingenioso caballero don Quijote de la Mancha41. Acepte-
mos por un momento la hipótesis de Molho y hagamos del autor del Quijote un hijo
de Sevilla. Al fin y al cabo supo como ningún otro escritor del siglo de oro sentir,
amar, y, por qué no decirlo, padecer las grandezas y miserias de la Sevilla imperial,
sembrando su obra de un profuso inventario de experiencias vividas en tierras an-
daluzas.
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"Description": "Estudio hipertextual de las ediciones infantiles y juveniles del Quijote del siglo XIX con especial atención a su iconografía y con referencia a las ediciones que son parte de la Colección Cervantes Urbina de la Cushing Memorial Library, Texas A&M University, utilizando enlaces dináminos a sus contenidos e ilustraciones anotadas.\r\n\r\nHypertextual study of 19th-century editions for children and young readers of the Quijote with special emphasis in their iconography and with reference to those in the Urbina Cervantes Collection at the Cushing Memorial Library, Texas A&M University, using dynamic links to their illustrations and annotated content.",
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Historia y prácticas iconográficas
del Quijote juvenil ilustrado
en el siglo diecinueve
E DUARDO U RBINA F ERNANDO G ONZÁLEZ M ORENO
Texas A&M University Universidad de Castilla-La Mancha
[email protected] [email protected]
Al comienzo de la segunda parte del Quijote, y con ocasión del diálogo entabla-
do entre Sansón Carrasco y don Quijote sobre la reciente publicación de las aven-
turas del ingenioso hidalgo y su sin par escudero, sobre sus méritos y veracidad, el
socarrón bachiller declara lo siguiente:
es tan clara, que no hay cosa que dificultar en ella: los niños la manosean,
los mozos la leen, los hombres las entienden y los viejos la celebran….
Finalmente, la tal historia es del más gustoso y menos perjudicial entre-
tenimiento que hasta agora se haya visto (II.3)
En efecto, entre burlas y veras, así ha sido, es y será la historia de la recepción del
Quijote a través de los siglos. Ironías aparte, la popularidad del personaje y su histo-
ria ha llegado a tales extremos que ya ni siquiera hacen falta tal «manoseo» o lectura
sino que transcendiendo los límites de la palabra el texto vive canonizado, tan po-
pular como clásico, en múltiples imitaciones y representaciones, y sobre todo en sus
miles de ilustraciones. Me refiero en particular aquí a las numerosas adaptaciones y
versiones juveniles e infantiles ilustradas del Quijote que comienzan a aparecer en la
primera mitad del siglo XIX y que desde entonces han continuado publicándose en
Eduardo Urbina – Fernando Gozález Moreno
Historia y prácticas iconográficas del Quijote juvenil ilustrado en el siglo diecinueve
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acelerado número y mayor variedad hasta nuestros días. Con ello se ha hecho rea-
lidad la profecía sobre el emperador de la China y el Quijote como libro de lectura
para enseñar el español —aún en su propia patria— como lo demuestran las muchas
ediciones para las escuelas, Quijotes para la niñez y para la juventud, publicadas en
colecciones especiales durante casi dos siglos1.
Como marco histórico de los comienzos de la literatura para niños y juvenil,
quisiéramos empezar por citar las palabras de Thomas Jefferson, gran coleccionista
de libros y hombre ilustrado, dirigidas en 1787 a su yerno Thomas Mann Randolph
Jr., ya que precisamente hacen referencia conjunta tanto a la lectura educativa del
Quijote como al provecho de aprender español2. Jefferson leía español, era admira-
dor del Cervantes, y llegó a poseer durante su vida en sus colecciones varios ejem-
plares del Quijote, en inglés, francés y español, y de hecho el Quijote fue la única
novela en su biblioteca. En 1787 Jefferson escribe:
Apply yourself to the study of the Spanish language with all the assiduity
you can. It and the English covering nearly the whole face of America,
they should be well known to every inhabitant who means to look be-
yond the limits of his farm3.
Poco después, en 1790, pregunta a su hija Mary —de doce años— en otra carta que
le informe regularmente cuántas páginas del Quijote, obra por él recomendada, lee
cada día: «Tell me . . . how many pages you read every day of Don Quixote». Desafor-
tunadamente deja de mencionar qué texto o edición ha puesto en sus manos, aun-
que sabemos que para esas fechas poseía al menos un ejemplar de la tercera edición
de la Real Academia (Madrid, 1787). Con ello, cabe especular qué hubiera pensado
Jefferson de los clásicos para la juventud, o de las ediciones abreviadas para niños,
y si hubiera elegido para Mary una edición de tal tipo; me atrevo a pensar que no4.
Aunque la consulta de la crítica cervantina5 pone de manifiesto que el estudio de
la historia editorial del Quijote, y más aun de las ediciones para niños y jóvenes lec-
1
Una versión preliminar de este trabajo fue presentada en la Semana Cervantina III, Aula Cultu-
ral, Universidad de Castilla-La Mancha, Ciudad Real, 23 de abril del 2009.
2
Debo esta información al excelente ensayo de Alison Weber, «Thomas Jefferson’s Quixotes», en
Tom Lathrop (ed.), Studies in Spanish Literature in Honor of Daniel Eisenberg, Newark, Juan de la
Cuesta, 2009, pp. 387-408. Véase asimismo http://www.monticello.org/site/research-and-collections/
don-quixote-novel (fecha de consulta: 06/06/2011).
3
«Dedícate al estudio del español con la mayor asiduidad posible. El español y el inglés compren-
den casi toda América y deberían ser bien conocidos por todo habitante que desee vivir más allá de
los límites de su granja» (mi traducción).
4
Es tradicional en el mundo de habla inglesa asociar los comienzos de la literatura infantil con la
publicación en 1744 de A Little Pretty Pocket-Book por John Newbery.
5
Anuario Bibliográfico Cervantino, vols. 1-5 (1996-2005), «Bibliografía cervantina», Anuario de
Estudios Cervantinos, vols. 1-7 (2005-2011), y Jaime Fernández, Bibliografía del «Quijote» por unidades
narrativas y materiales de la novela, 2a edición, Alcalá de Henares, Centro de Estudios Cervantinos,
2008.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 43-55. issn: 2240-5437.
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Historia y prácticas iconográficas del Quijote juvenil ilustrado en el siglo diecinueve
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tores, ha sido asunto de menor interés, en los últimos años han aparecido estudios y
catálogos que no solo facilitan tal estudio sino que avanzan de manera considerable
nuestro conocimiento tanto de su lectura y recepción como de su contribución a la
difusión del Quijote como libro ilustrado. Me refiero particularmente al catálogo de
la exposición realizada en Bolonia a cargo de María Victoria Sotomayor y Ana Ma-
ría Navarrete, «Don Quijote» para niños, ayer y hoy6, así como a la obra conjunta co-
ordinada asimismo por María Victoria Sotomayor, «El Quijote» para niños y jóvenes,
1905-20087. En la primera se describen, con reproducción de sus portadas, 90 edicio-
nes juveniles de diverso tipo; mientras que en la segunda un grupo de especialistas
se ocupan de diversos aspectos relacionados con el tema de analizar y documentar
la historia, tipos, ilustración y publicación de las ediciones juveniles e infantiles del
Quijote, principalmente en el siglo XX8.
Complementariamente resulta de gran utilidad y valor el nuevo Catálogo de la
Biblioteca Nacional de ediciones en castellano del «Quijote», en el que se da cuenta de
más de 320 adaptaciones infantiles y ediciones juveniles y escolares aparecidas entre
1856 y 1981, en la sección dedicada a las «Adaptaciones infantiles y ediciones esco-
lares» (números 760 a 1079), además de otras 98 obras incluidas en el apartado de
«Compendios, resúmenes, selecciones y ediciones de capítulos sueltos»9. Aunque un
gran número de estas ediciones son simplemente reediciones y reimpresiones —un
60%—, se puede apreciar no obstante el creciente interés por la representación visual
y lecturas abreviadas del Quijote según avanza el desarrollo de la literatura infantil
y juvenil durante el último tercio del siglo XIX, al tiempo que resulta apreciable por
otro lado el dominio del mercado por un puñado de editores en el siglo XX, tales
como Calleja, Hernando, Sopena y Bruguera, con la consiguiente disminución de
su variedad y calidad. Es notable que en el siglo XIX tan solo se publican en caste-
llano doce ediciones singulares especialmente ideadas para niños o para lectores
juveniles. Por otro lado, según Palau, en España, entre 1820 y 1840 aproximadamente
aparecen de manera esporádica algunas colecciones de estampas y aleluyas que más
bien parecen ofrecer testimonio de la popularidad de Quijote y sus personajes que
6
Madrid, Ministerio de Cultura, 2005.
7
María Victoria Sotomayor Sáenz, (coord.), El «Quijote» para niños y jóvenes, 1905-2008, Historia,
análisis y documentación, Cuenca, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 2009. Dado el
énfasis de los estudios en ediciones españolas del siglo XX, mi enfoque aquí es en ediciones del siglo
XIX, españolas y en traducción.
8
Dada su importancia para nuestro estudio y en general para el estudio de las ediciones infan-
tiles/juveniles del Quijote, detallo a continuación los ensayos incluidos en El «Quijote» para niños y
jóvenes: María Victoria Sotomayor Sáenz, «Cien años de Quijotes para niños, Panorama histórico»,
pp. 29-78; Amelia Fernández Rodríguez, Nieves Martín Rogero y Alicia Muñoz Álvarez, «Tipología
de ediciones», pp. 81-335; Alberto Urdiales Valiente, «La ilustración en los Quijotes para niños», pp.
341-465; María Victoria Sotomayor Sáenz, «Documentación e índices», pp. 471-505. Incluye además
una catálogo bibliográfico en CD relatando 450 ediciones.
9
Pilar Egoscozábal Carrasco, (coord.), Catálogo de la colección cervantina de la Biblioteca Nacio-
nal. Ediciones del «Quijote» en castellano, Madrid, Biblioteca Nacional, 2006. Se detallan 1177 edicio-
nes de la Sala Cervantes y de la Colección Sedó, publicadas antes del 1987.
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Historia y prácticas iconográficas del Quijote juvenil ilustrado en el siglo diecinueve
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de la necesidad o intención de producir un texto adaptando la historia para niños o
a un público juvenil, cosa que no ocurrriría sino hasta ya bien entrado el siglo XIX10.
De lo anterior se desprende la necesidad de situar la historia de las ediciones
escolares, juveniles y para niños del Quijote dentro de la corriente de la llamada
«children´s literature» que se desarrolla en Europa y América a partir del primer
tercio del siglo diecinueve11. Asimismo, importa estudiar este tipo de ediciones, casi
siempre ilustradas, en un contexto comparativo y transnacional como parte de la
iconografía textual del Quijote a fin de poder valorar con mayor amplitud crítica las
aportaciones de las ediciones en castellano publicadas en España, más allá de con-
diciones sociales y políticas, y apreciando justamente sus contribuciones artísticas
y literarias12.
Al estudiar los Quijotes publicados para niños y jóvenes utilizo en lo que sigue
ilustrativamente las ediciones abreviadas o adaptadas del Quijote del siglo XIX que
forman parte de la Colección Cervantes en la Biblioteca Cushing de Texas A&M
University, cuyas ilustraciones estamos en el proceso de digitalizar, anotar y docu-
mentar como parte de nuestro proyecto general de recuperación y documentación
de la iconografía textual del Quijote13. Hasta la fecha la colección incluye unas 170
ediciones infantiles/juveniles en 9 lenguas (español, inglés, francés, alemán, holan-
dés, hebreo, italiano, húngaro y ruso), y datan de 1778 al presente. Entre ellas se en-
cuentran no sólo ejemplares de las más representativas, sino también varias raras y
10
Antonio Palau y Dulcet, Bibliografía de don Miguel de Cervantes Saavedra, Barcelona, Palau /
Madrid: Asociación de Libreros, 1950; también hemos consultado: Leopoldo Rius, Bibliografía crí-
tica de las obras de Miguel de Cervantes Saavedra, Barcelona, Fidel Giró y J. Oliva, 1895-1899, 3 vols.;
Juan Suñé Benages y Juan Suñé Fonbuena. Bibliografía crítica de ediciones del «Quijote» 1605-1917,
Barcelona, Editorial Perelló, 1917; Juan Givanel y Mas y ´Gaziel´, Historia gráfica de Cervantes y del
«Quijote», Madrid, Plus Ultra, 1946; Works by Miguel de Cervantes in the Library of Congress, (comp.)
Reynaldo Aguirre, (ed.) Georgette Magassy Dorn, Washington DC, Library of Congress, 1994; y El
«Quijote». Biografía de un libro: 1605-2005, introducción y comisaría, Mercedes Dexeus. Madrid, Bi-
blioteca Nacional, 2005.
11
Children's Literature: an Illustrated History, Peter Hunt, (ed.), Oxford University Press, 1995;
Peter Hunt, An Introduction to Children's Literature, Oxford University Press, 1994; Ellen Decker y
Ruffin Priest, History of Children´s Literature: A Pathfinder, http://www.ils.unc.edu/~prier/KidLit/
(fecha de consulta: 02/06/2011); Carmen Bravo-Villasante, Historia de la literatura infantil española.
Madrid, Biblioteca de Literatura infantil y juvenil, 1959; Biblioteca Virtual Cervantes, http://bib.cer-
vantesvirtual.com/seccion/bibinfantil/ (fecha de consulta: 03/06/2011).
12
Eduardo Urbina, «Prácticas iconográficas en la historia editorial del Quijote», Anuario de Estu-
dios Cervantinos, 6 (2010), pp. 171-185; Eduardo Urbina, «Iconografía textual e historia visual del Qui-
jote», USA Cervantes. 39 Cervantistas en Estados Unidos, G. Dopico Black y Francisco Layna, (eds.),
Madrid, C.S.I.C. / Ediciones Polifemo, 2009, pp. 1091-1130; Eduardo Urbina et ál., «Visual Knowledge:
Textual Iconography of the Quixote, a Hypertextual Archive», Literary and Linguistic Computing, 21,
2 (2006), pp. 247-258; Don Quixote Illustrated: Textual Images and Visual Readings / Iconografía del
«Quijote», Eduardo Urbina y Jesús G. Maestro, (eds.), Biblioteca Cátedra Cervantes 2, Pontevedra,
Mirabel Editorial, 2005.
13
Eduardo Urbina y Fernando González Moreno, (eds.), The Eduardo Urbina Cervantes Collec-
tion in the Cushing Memorial Library, Texas A&M University Libraries, Vigo, Editorial Academia del
Hispanismo, 2010.
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curiosas que nos ofrecen la oportunidad de trazar su historia desde el punto de vista
de su forma, público e ilustraciones.
El catálogo de las adaptaciones del Quijote para niños, como es de esperar, se
extiende a las publicadas en otras lenguas, en particular en francés y en inglés, don-
de aparecen ediciones anteriores incluso a las españolas dada la temprana difusión
de la literatura para niños en Francia y Estados Unidos. Así, las primeras ediciones
en inglés que podrían considerarse ediciones dirigidas específicamente a un públi-
co juvenil resultan en realidad ediciones abreviadas que preceden el desarrollo de
la literatura para niños a principios del siglo XIX pero que enfatizan en su formato
y descripción aquellos aspectos cómicos del texto que más podrían atraer quizás a
los jóvenes lectores. Antecedente de todo ello es el caso de la edición abreviada e
ilustrada del Quijote publicada en Londres en 1695 que comprende tan solo 24 pá-
ginas y que subraya en su título la inclusión de las acciones más maravillosas y los
episodios más humorísticos: The History of the ever-renowned knight Don Quixote
de la Mancha, containing his many wonderful and admirable achievements and ad-
ventures. With the pleasant humours of his trusty squire, Sancho Panza; being very
comical and diverting.
Algo similar ocurre en el caso de otra edición abreviada publicada también en
Londres, en 1704, cuyo título menciona expresamente, sin duda para el beneficio de
sus jóvenes lectores, que contiene aventuras «very pleasant and diverting», resaltan-
do de nuevo la figura de Sancho y sus «comical humours». La edición abreviada del
Quijote publicada por F. Newbery (Londres, 1778) continúa esta predilección por
los aspectos cómicos y más divertidos de la historia aportados por el escudero al
incluir en su título una vez más referencia específica a los «humorous conceits of his
facetious squire». Esta edición, presente en la Cushing, y editaba por el padre de la
literatura infantil, incluye sin embargo, por conveniencia editorial, seis ilustraciones
nada infantiles de Francis Hayman.
Tal énfasis e interés se repite en una de las primeras ediciones americanas del
Quijote publicada en Nueva York en 1821 por S. King, en la que se incluyen, «the
particulars of his numerous challenges, battles, wounds, courtships, enchantments,
feats of chivalry, etc.», todo ello en apenas 24 páginas. El mismo título lleva la edi-
ción abreviada de Nueva York, W. Borradaile, 1823, que se conserva en la Cushing
Library, y que aparece incluida también en Paul and Virginia...To which is added
Adventures of Don Quixote, and his humorous squire, Sancho Pancha [sic] (Philadel-
phia, 1827).
Consideramos en este estudio dos factores principales, el tipo/origen de las ilus-
traciones: derivativas u originales; y la utilización del texto cervantino: abreviaciones,
adaptaciones, traducciones. Desde el principio, se manifiesta el deseo por parte de edi-
tores y autores de hacer el Quijote, más asequible, es decir, de más fácil lectura, y con
ello cumplir el propósito de hacer la historia, esencialmente, más relevante e inmediata
para un cierto tipo de lector, no siempre identificado como juvenil. De ahí la aparición
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temprana de textos abreviados que resaltan dos aspectos fundamentales de la obra, su
idealismo y su comicidad. Así lo revela el título de una de las primeras ediciones de
este tipo, adornada además como corresponde a tal intención, con ilustraciones en co-
lor. Me refiero a la edición más temprana en nuestra colección, The Spirit of Cervantes;
or, Don Quixote abridged. Being a selection of the episodes and incidents, with a sum-
mary sketch of the story of that popular romance. En este caso, además de ser notable la
inclusión de imágenes color, o en este caso, coloreadas, tres de las cuatro ilustraciones,
de grabador anónimo, provienen de las realizadas por Francis Hayman (London, A.
Millar, 1755). Tres pertenecen a incidentes de la primera parte y una a un episodio de
la segunda parte. Son ilustrativas en sí del proceso de selección y abreviación pero
ninguna de ellas se refiere a las aventuras más conocidas o a momentos que podríamos
denominar cómicos. He aquí sus títulos: «Don Quixote knighted by the innkeeper»,
«Dispute between Sancho and the barber», «Examination of Don Quixote´s library»
and «Sancho as governor of Barataria». Además de la presencia en todas ellas de San-
cho (don Quijote solo aparece en dos), no resulta evidente determinar el por qué de
esta selección destinada a poner de manifiesto ante todo el «espíritu de Cervantes»
de entre las 28 ilustraciones ideadas por Hayman en 1755. Ni tampoco parece que
fuera criterio su adecuación para un público juvenil o más interesado en los aspectos
cómico-burlescos de la historia, cuestión que sí parece haber sido un factor deter-
minante en previos casos de selección/abreviación del Quijote en inglés, tales como
el raro compendio, The Delightful History of Don Quixot, the Most Renowned Baron
of Manche (London, 1689), o el popular resumen en 13 capítulos publicado en 1784,
The Much Steemed History of the ever-famous Knight Don Quixote. Containing many
Wonderful Adventures and Atchievements, very Pleasant and Diverting…. en la que ya
sí se hace explícito hiperbólicamente el interés y énfasis en lo divertido, en lo gracioso,
y por lo tanto su especial apropiación para lectores jóvenes. En cualquier caso hay que
recalcar que este tipo de obras son escasas, excepcionales, si se considera el número y
variedad de ediciones ilustradas en inglés publicadas en los siglos XVII y XVIII.
La primera edición castellana del Quijote expresamente para «niños y para el
pueblo» es la adaptación de Fernando de Castro de 1856, sin ilustraciones, denomi-
nada en posteriores ediciones —ilustradas a partir de la segunda— El Quijote de los
niños, y que continuaría siendo reimpreso hasta finales del siglo XIX, y luego en más
de 30 ocasiones por diversos editores en el XX. En la Cushing se halla un ejemplar
de la quinta edición (1873) que indica en su portada además ser obra realizada por
«un entusiasta de su autor…y declarado de texto para las escuelas, por el Consejo
de Instrucción Pública», cuestión clave ésta en años futuros desde una perspectiva
económico-editorial. El Quijote de Castro encuentra difusión en América al ser pu-
blicado en Valparaíso en 1863, siendo ésta, entonces, la primera edición sudameri-
cana de la obra de Cervantes, y no la de Montevideo de 1880 como se suele señalar.
En 1867, habiendo ya aparecido 3 ediciones del Quijote de Castro, se publica la
primera edición denominada para «la juventud». Se trata de un extracto llevado a
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cabo por Domingo López Sarmiento, pero publicado en París por Garnier, mientras
que en 1875 aparece en Madrid el primer Quijote escolar, «para que sirva de lectura
en las escuelas de instrucción primaria por la propaganda católica», el cual inclu-
ye también un retrato y tres láminas. La Librería de José G. Fernández publica en
Sevilla (1877) un Quijote abreviado para niños en dos volúmenes, con 17 cromolito-
grafías anónimas originales, y un retrato de Cervantes, de cuyo segundo volumen
hay ejemplar en la Cushing. Una vez más, es curioso señalar que ninguna de las seis
ilustraciones incluidas en nuestro volumen se ocupa de representar las aventuras
más conocidas o presentan al personaje en momentos que pudieran considerarse
apropiados para atraer la atención de un público juvenil.
En Valladolid se publica en 1883 un breve y raro compendio de 39 páginas, His-
toria en compendio de la vida y hechos…, del que carece la Biblioteca Nacional, y
un año más tarde, en 1884, aparece en Sevilla la primera adaptación ilustrada con
cromos, en dos pequeños volúmenes. En Sevilla también aparece en 1885 un nuevo
Quijote abreviado para los niños, esta vez en adaptación de Juan Manuel Villén,
«para que sirva de lectura en las escuelas de Instrucción Primaria», asimismo edi-
tado por la Librería de José G. Fernández, pero con seis ilustraciones anónimas,
distintas de las incluidas en la edición de 1877.
Igualmente en 1885 la casa Bouret publica en París una edición «arreglada para la
juventud» que tendrá amplia difusión, volviéndose a imprimir en repetidas ocasio-
nes, mientras que el extracto de Sarmiento (1867) volvería reeditarse en 1887 y 1888,
de nuevo en París por Garnier, pero ahora ofreciendo las ilustraciones de David y
G. Staal. De la tercera reimpresión de ésta edición (1891) se encuentra un ejemplar
en la Cushing con las 36 viñetas de Staal gravadas por Eugene Mouard y otros, que
vieron la luz primero en 1863 en una edición similar en francés también de Garnier.
La última edición juvenil del siglo XIX es la realizada por Domingo Abeja, la
cual se publica en Sarriá en tres volúmenes en 1896-1897 para su uso en los colegios.
Se trata no ya de una edición abreviada sino de una edición con ciertas pretensiones
académicas y en la que se declara que para la misma «se han tenido presentes las
mejores publicadas hasta ahora, con notas de los comentadores más insignes», pero
sin ilustraciones. Finalmente a raíz de 1900 van a publicarse las primeras ediciones
de Calleja, ilustradas profusamente por Manuel Ángel, que si bien no declaran al
principio estar dedicadas a un público juvenil sí estaban concebidas claramente para
la divulgación del texto y su uso en las escuelas, como ponen de manifiesto su for-
mato, calidad y portadas en sucesivas versiones.
De especial interés son las ediciones en castellano dedicadas a la enseñanza o
para jóvenes lectores publicadas fuera de España, a veces con notas en la lengua del
país de la editorial, y entre las que hay que destacar: El Quijote de la juventud (Pa-
ris, Garnier Frères, 1887) en adaptación de Domingo López Sarmiento, y luego de
Louis Dubois, y el primer Quijote educativo publicado en Estados Unidos (Boston,
Perkins y Marvin, 1836), con notas «históricas, gramaticales y críticas» de Francisco
Sales, «instructor de francés y español en la Universidad de Harvard». Similar es la
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edición popular americana editada por Jorge Ticknor, utilizando el texto de la de
Eugenio Ochoa (1853), publicada por primera vez por Appleton en Nueva York en
1860, de la que la Cushing posee un ejemplar de 188514.
Como se puede apreciar el número de ediciones en castellano destinadas a los
niños, a la juventud o para su uso en las escuelas publicadas en el siglo XIX es rela-
tivamente pequeño comparado, como veremos, con el mismo tipo de ediciones en
traducciones inglesas, francesas o incluso rusas.
A juzgar por los ejemplares en nuestra colección, así como por el testimonio
que ofrecen bibliografías especializadas y catálogos de otras bibliotecas, es en Fran-
cia donde aparecieron las primeras ediciones infantiles y adaptaciones juveniles /
escolares, en Francia se conciben asimismo los primeros álbumes con estampas del
Quijote, y en donde se publica el mayor número de ediciones para niños o para la
juventud15.
De 1830 es Le Don Quichotte de la jeunesse de A. J. Sanson, obra de particular
rareza, no mencionada por Rius o Palau, e ilustrada haciendo uso de los grabados
de Louis Choquet, aparecidos previamente en la edición de Delongchamps (Paris,
1824), en cuya portada se indica que el texto ha sido «réduite aux seuls faits ou ils ont
véritablement figure». Otros Quijotes tempranos franceses concebidos y denomina-
dos específicamente «pour la jeunesse» en nuestra colección son los de Martial Ar-
dant Frères (París, 1852), con cuatro ilustraciones anónimas tomadas de la edición de
Paris: Ch. Warée, 1844; Le Don Quichotte de la jeunesse (Paris, Garnier Frères, 1863),
donde primero aparecen las ilustraciones de G. Staal, luego utilizadas en múltiples
ediciones, y en la adaptación juvenil en castellano de Sarmiento (1887), y la edición
«pour la jeunesse, d´après la traduction de Florian» (Paris, H. Laurens, 1900) en 12
capitulos editada por M. L. Tarsot, enriquecida éstas con las ilustraciones en color y
viñetas de Henri Morin, ahora sí concebidas para un público lector juvenil16.
Igualmente raro es el Don Quichotte, en estampes, mis à la portée des enfants par
Mme. Wetzell, (Paris: Langlumé et Peltier, 1845). Tampoco figura en Rius, Palau, o
en OCLC y consta simplemente de 9 ilustraciones anónimas coloreadas a mano, y
con el cual se adelanta otra especie de edición, los álbumes de estampas para niños.
Sin duda, este tipo de edición es el antecedente de las ediciones gráficas en cromos,
tebeos e historietas tan comunes en el siglo veinte. De similar naturaleza es el Don
Quichotte con las estampas de Edmond Morin de 1850, del que la Cushing posee una
rara reedición de 1866 con cromolitografías de Ricard (Paris: Arnauld de Vresee).
14
Notable hispanista, profesor de español en Harvard University, autor de la famosa History of
Spanish Literature (New York, 1849) y gran coleccionista de libros, hoy en la Boston Public Library.
15
Palau incluye más de 30 ediciones en francés en el siglo XIX de este tipo, y esta abundancia
también se refleja comparativamente en las 19 presentes en nuestra colección.
16
Palau menciona otras ediciones «pour la jeunesse»: Histoire de Don Quichotte raconté a la jeu-
nesse par D. Fournier (Paris: Warée, 1844); Le Don Quichotte de jeune áge (Paris: Amadée Bedelat,
1853); Don Quichotte a l´usage de la jeunesse (Paris, J. Hetzel, 1877); Don Quichotte de la Manche…
abregée a l´usage de la jeunesse (Paris, Th, Lefèvre-E. Guerin, 1888).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 43-55. issn: 2240-5437.
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Más comunes y abundantes son las ediciones abreviadas sin indicación en el
título pero publicadas en colecciones para la juventud o para niños, tales como la de
Paris, E. Ducrocq, 1847, Aventures de Don Quichotte de la Manche, que aparece en su
«Librairie de l'enfance et de la jeunesse» pero que aprovecha e incluye ilustraciones
anteriores (1845) de Célestin François Nanteuil-Leboeuf, Louis-Pierre-René Demo-
raine y Frederic Bouchot, las cuales no tienen nada particularmente de infantiles o
juveniles en su diseño u orientación. Lo mismo sucede con la edición abreviada de
L. Hachette (Paris, 1859), con las ilustraciones de Bertall y Forest, o en el caso de la
estupenda edición de Maison Quantin (Paris, 1883), publicada en su «Encyclopédie
enfantine», con magníficas cromolitografías de Felician de Myrbach-Rheinfeld, así
como en el Don Quichotte de la Manche publicado por Charavay, Mantoux, Martin
(Paris, 1893) en la «Librairie d'Education de la Jeunesse» con 55 muy serenas viñetas
de Charles Henri Pille. Caso particular es Le Petit don Quichotte de Henriette Daux
(Paris: Librairies-imprimeries réunies, 1896), tratándose ya de una adaptación para
niños basada en la obra de Cervantes, y publicada en la «Bibliothèque de l'éducation
maternelle», en la que se incluyen más de 90 ilustraciones de Cécile Chalus.
Dentro del ámbito inglés, y limitándonos a las ediciones que forman parte de
nuestra colección, la primera explícitamente dirigida a un público juvenil es la adap-
tación de C. L. Matéaux publicada en Londres por Cassell, Petter & Galpin en 1870,
pero en la que se incluyen ya algunas de las ilustraciones realizadas por Doré (1863),
con el indicativo título The Story of the Don, rewritten for our young folks. La siguien-
te edición de este tipo en la Cushing es The Wonderful Adventures of Don Quixo-
te de la Mancha, and Sancho Panza, his Esquire (Londres, Dean and Son, 1872), y
como anuncia su magnífica portada, es obra «Abridged, and adapted to youthful
capacities by Sir Marvellous Crackjoke». Esta edición tiene de singular la calidad y
variedad de las ilustraciones de Joseph Kenny Meadows que contiene, pero además
el incluir algunas otras anteriores de Adolf Schrödter (1863), y aún de Tony Johannot
(1836). Igualmente importante y atractiva es la siguiente edición juvenil en nuestro
itinerario, The Story of Don Quixote and His Squire Sancho Panza adaptada por M.
Jones y publicada primero en 1866 por G. Routledge and Sons en Londres, siendo
frecuentemente reeditada con diferentes ilustraciones. La edición en nuestra colec-
ción es de 1871 e incluye un frontispicio en color de John Gilbert.
En cuanto al área de las obras inspiradas por el Quijote, en 1896 se publica en
Boston una curiosa adaptación para niños que lleva por título Don Quixote, Jr.:
knight of the doorstep and champion of the front yard, en la que de la adaptación pa-
samos a la imitación creativa por parte de su autor John Brownjohn. Pero sin duda la
edición juvenil más notable de este periodo es la adaptación de Edward Abbot Parry
con las populares ilustraciones cromolitográficas de Walter Crane, publicada al filo
del siglo en 1900 por Blackie and Son en Londres, aunque fue impresa en Edimburgo
por Constable. Tuvo un éxito inmediato repitiéndose su publicación en 1901, y en
1909 en Nueva York, hasta convertirse en un estándar de la literatura juvenil al in-
corporarse a la Everyman´s Library de la editorial Alfred A. Knopf a partir de 1999.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 43-55. issn: 2240-5437.
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De finales de siglo también son las ediciones publicadas por T. Y. Crowell en
Nueva York con el título The Child's Don Quixote: Being the Adventures of Don
Quixote Retold for Young People, en adaptación de Calvin Dill Wilson, que incluye
algunas de las ya famosas ilustraciones de Adolphe Lalauze (Edinburgh: W. Pat-
terson, 1879), así como la de Macmillan & Co. (1899) editada por Clifton Jonson a
partir de la traducción de J. Ormsby y con ilustraciones de George Cruikshank. Muy
diferente en forma y formato es la edición juvenil que sale en fascículos alrededor
de 1900 en la serie de Books for the Bairns Office publicada en Londres, la cual va
adornada con 89 excelentes dibujos de Brinsley Le Fanu.
Como sucede en el caso de las traduciones italianas del Quijote en general, éstas
son pocas y revelan el escaso interés que tuvieron hasta al siglo XIX. Cuatro son al
parecer las ediciones para niños o juveniles publicadas en Italia en el siglo XIX, por
lo que han de considerarse como raras. A modo de rápida referencia tomo de Palau
los siguientes datos: Don Chisciotte della Mancia. Milano: Francesco Pagnoni, 1860
(selección para la juventud; reimp. 1864); Storia dell'ammirabile Don Chisciotte de-
lla Mancia, Milano: Fratelli Treves, 1876 (adaptación para la juventud; reimp. 1886;
ejemplar en la Cushing de 1924); Il Don Chisciotte della juventu, Milano, 1887; Il D.
Chisciotte pei fanciulli de M. Giovanna Pignocco, Torino, Tip. Editrice G. Tarizzo
e Figlio, 1889. La más temprana de este tipo en nuestra colección data ya del 1912
(Vita e Gesta dell'ingegnoso Cavaliere Don Quischiotte della Mancia,Torino, G. B.
Paravia).
Y para concluir, quisiéramos mencionar la publicación de ediciones juveniles e
infantiles del XIX del Quijote en alemán y en ruso, las otras dos lenguas donde han
tenido mayor presencia tales ediciones17.
La primera edición en alemán expresamente publicada para la juventud es la rea-
lizada por el Dr. Lauckhard la cual aparece en 1869 (Neu-Ruppin, Verlag von Alfred
Dehmigke) bajo el título, Der sinnreiche Junker Don Quixote von la Mancha, Für die
Jugend, si bien con anterioridad se habían producido numerosas otras abreviadas e
ilustradas para un público general. Del mismo año, editor y contenido es la que se ha-
lla en la Cushing, si bien aparece en Leipzig con otro título, Leben und Thaten Junker
Don Quixote von La Mancha, y que contiene nueve atractivas cromolitografías dise-
ñadas por Ludwig Löffler, de indudable mérito y calidad. También es parte de nues-
tra colección otra edición alemana similar de entre 1870-1896, Don Quichotte von La
Mancha: Eine Erzählung für die Jugend (Stuttgart, Thienemanns) adornada con los
estupendos acuarelas de Adolf Wald de gran vivacidad, así como una segunda edición
de la adaptación para jóvenes lectores de P. Moritz (1910), publicada primero en 1882,
y que contiene las ilustraciones y viñetas de Fritz Bergen, muy apropiadas a las accio-
nes que representan y de gran calidad pictórica.
17
Aunque existen ediciones para niños y jóvenes lectores en otras lenguas en el siglo XIX, son
mucho más raras. En italiano, por ejemplo, Palau menciona 4 y tan solo una en holandés. Las edi-
ciones abreviadas sin especificar público son más frecuentes en lenguas donde el Quijote es menos
traducido.
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Según Roberto Monforte, el número de ediciones infantiles y juveniles abre-
viadas publicadas en ruso durante el siglo XIX llega a 27, superando así no sólo las
de todos los otros países, con excepción de Francia e Inglaterra, sino incluso las
ediciones rusas para el público general18. La más temprana data del 1846 y lleva por
título Don Quijote de la Mancha, cuento para niños. Esta obra se volvió a reeditar en
múltiples ocasiones, con ilustraciones de Doré a partir de 1889. La primera para la
juventud es una adaptación de O. I. Schmidt-Moskvitinova (San Petersburgo, 1883)
titulada Don Quijote de la Mancha, el caballero de la triste figura y el caballero de los
leones. Son ediciones de poca presencia en el mercado y de difícil adquisición en las
librerías, pero no descartamos la esperanza de dar con algunas de ellas en un futuro
próximo a fin de completar nuestra colección en ese ámbito.
Apéndice
Ediciones infantiles y juveniles, 1778-2009
Ofrecemos hipertextualmente en orden cronológico, a manera de exhibición vir-
tual, las ediciones mencionadas en este estudio, así como de algunas otras notables
y de interés histórico que dan testimonio de las prácticas editoriales e iconográficas
del Quijote juvenil entre 1778 y 2009, utilizando para ello los recursos de la Colección
Urbina (Cushing Memorial Library, Texas A&M University) y del archivo digital so-
bre la iconografía textual del Quijote desarrollado por el Proyecto Cervantes, http://
dqi.tamu.edu (2003-2011).
18
Roberto Monforte Dupret, Las andanzas del «Quijote» por la litertura rusa, Madrid, Huerga &
Fierro, 2007. Véase asimismo, Fernando González Moreno, «Primera salida del Ingenioso hidalgo
don Quijote a Rusia: ediciones ilustradas del siglo XIX», en De Toledo a Moscú; viajes alrededor del
«Quijote», (ed.), Miguel Cortés Arrese et al, Ciudad Real, Almud, 2010, pp. 39-62; Ana Pano Alamán
y Enrique Javier Vercher García, Avatares del «Quijote» en Europa, Madrid, Cátedra, 2010.
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Acerca del soneto de Góngora
«De una dama que, quitándose una sortija,
se picó con un alfiler»
L UIS B ELTRÁN A LMERÍA
Universidad de Zaragoza
[email protected]
Prisión del nácar era articulado,
de mi firmeza un émulo luciente,
un diamante, ingenïosamente
en oro también él aprisionado.
Clori, pues, que su dedo apremïado
de metal aun precioso no consiente,
gallarda un día, sobre impacïente,
le redimió del vínculo dorado.
Mas, ¡ay!, que insidïoso latón breve
en los cristales de su bella mano,
sacrílego, divina sangre bebe.
Púrpura ilustró menos indïano
marfil; invidïosa, sobre nieve
claveles deshojó la Aurora en vano.
Luis Beltrán Almería
Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
58
Este soneto ha recibido comentarios, entre otros, de Dámaso Alonso1, José Ma-
nuel Blecua2, Wolfram Nitsch3 y Jordi Llovet4. Está fechado en 1620 por el manuscri-
to Chacón. Blecua ve confirmada la fecha en recursos estilísticos, como el recurso al
hiato y a la diéresis, comunes en la etapa que va de 1612 a 1627, en la que Góngora
«extremó toda su inteligencia y su sabiduría poéticas»5. En general, la crítica ha
resaltado la dimensión artificiosa del poema. En efecto, el discurso poético gongo-
rino alcanza sus más altos niveles de dificultad. El comentario de García de Salcedo
Coronel, en 1644, se agota en traducir al castellano el contenido del poema, aunque
ya señalara el problema de la diéresis. Hay muchas diéresis en el poema y, como dice
Salcedo Coronel, «nunca el exceso es loable»6.
Pero el esfuerzo por captar el sentido literal del poema no se agota en la traduc-
ción a un castellano comprensible por el lector común. Jammes supuso que fue escrito
por encargo de algún galán, porque no es verosímil pensar que un Góngora «sesentón,
melancólico y endeudado» tuviera mucho interés en el galanteo de una joven dama.
Blecua, en cambio, se inclina a pensar que pudo servirle de «distracción», pues ob-
serva «un tema tan poco subjetivo, tan de ejercicio virtuoso»7. En efecto, el poema no
tiene un perfil sentimental. Es frío. Tiene un lenguaje muy rebuscado. Las imágenes
son tópicas. Carece del colorido que parece reclamar la pasión sentimental. En general
y para el conjunto de la obra de Góngora, los críticos han apuntado en dos direcciones:
bien, el lenguaje artificioso; bien, la lectura sociológica. Los primeros han seguido las
líneas trazadas por la estilística: la descripción de los hipérbatos, de las aliteraciones,
de las metáforas, de las recurrencias y de los campos semánticos. Esta línea, que tiene
por antecedente natural a Dámaso Alonso, es la que cultivan Blecua y Nitsch. Los se-
gundos se han fijado en lo que podríamos llamar la lectura política de la poética gon-
gorina. Beverley en Aspects of Góngora’s Soledades, de 1980, ve en Góngora a un repre-
sentante de la ideología de las primeras burguesías gremiales/artesanales, para quien
el poema es el resultado de un trabajo manual. No era en esto totalmente original,
pues ya Dámaso Alonso había señalado el carácter orfebre de Góngora. Nitsch partici-
pa también de esta tendencia al equiparar la artificiosidad discursiva con la violencia
sexual. El mismo Blecua califica el poema de «distracción» y de «ejercicio virtuoso», lo
cual supone una categoría más cercana a la artesanía del orfebre o, tal vez, a la maestría
del intérprete musical que al gran arte, el arte de los grandes compositores o autores.
1
Dámaso Alonso, Góngora y el «Polifemo», 3 vols., Madrid, Gredos, 1985, 7ª ed.
2
José Manuel Blecua, «Un soneto de Góngora», en AA.VV., El comentario de textos. Madrid,
Castalia, 1973, 2ª ed., pp. 52-61.
3
Wolfram Nitsch, «Prisiones textuales. Artificio y violencia en la poesía española del Barroco»,
Olivar, 5 (2005), pp. 1-14.
4
Jordi Llovet et ál., Teoría de la literatura y literatura comparada, Barcelona, Ariel, 2005, pp. 121-
124.
5
José Manuel Blecua, op. cit., p. 53.
6
Ibíd., p. 55.
7
Robert Jammes, La obra poética de don Luis de Góngora y Argote, Madrid, Castalia, 1987, p. 53.
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Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
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La crítica moderna de Góngora ha tropezado, como no podía ser de otro modo,
con la doble tendencia de la crítica del siglo XX: o el lenguaje o lo social. Los que
han tenido una sensibilidad lingüística han ido a parar al «estilo oscuro» del poeta
cordobés y, a menudo, han naufragado en sus misterios. Los que han priorizado
la sensibilidad social han hurgado en las contradicciones ideológicas del discurso
gongorino, despreciando los problemas del «estilo oscuro» como un estorbo para
sus lecturas o bien aduciéndolo como una contradicción más del poeta8.
Góngora repristinado
Para explicar este soneto de Góngora vamos a partir de dos supuestos. El her-
metismo de Góngora es el primero. El matiz burlesco del poema es el segundo. A
favor del hermetismo del soneto juega el «estilo oscuro». Pero hermetismo es algo
más que oscuridad estilística. La oscuridad es un indicio de hermetismo, pues esta
estética recurre, en efecto, a la oscuridad. El hermetismo es una estética didáctica.
La conciencia hermética busca la salvación, pero se ve inmersa en un entorno hostil.
El universo es el escenario de una lucha eterna entre el bien y el mal. Su arma es el
misterio9. El propio Góngora defiende en respuesta a la carta anónima de 1613 su
«lengua oscura y peregrina» porque «aviva el ingenio, y eso nació de la oscuridad del
poeta» y le ayuda a «descubrir lo misterioso que encubren»10. El mito de Babel ilus-
tra la visión hermética del universo gongorino. En la gran confusión sólo el trabajo
«llegado a la perfección» puede alcanzar la altura de lo clásico, la poesía latina. Éste
es nuestro punto de partida para comprender este soneto.
El punto de partida habitual es muy distinto. Reza así: estamos en presencia de
una bella dama, luego es un poema sentimental. Su estética es el sentimentalismo,
lo que exige, sobre todo, elevación de la dama. Como dice Nitsch: «Góngora man-
tiene la tradición del ensalzamiento [de la dama] hasta sus últimos poemas»11. Algo
más precavidos resultan Jammes y Blecua. El primero había postulado un poema
de encargo12. El segundo, un entretenimiento. Ambos eruditos ven un anacronismo
suponer a un Góngora galán. Pero no rompen con el punto de vista de un senti-
mentalismo de corte más o menos petrarquista. Nitsch, en cambio, ve violencia,
8
John Beverley ve esas contradicciones de Góngora en su intento de fundir la épica y lo pastoril,
la ciudad y el campo en las Soledades. Y tales contradicciones parecen proceder de que «el ejercicio
de la literatura ha reemplazado una praxis política y militar a la que ya no tienen acceso» [Góngora y
el autor del Quijote] (John Beverley, op. cit., p. 36).
9
Véase, de Luis Beltrán Almería, La imaginación literaria. La seriedad y la risa en la literatura
occidental, Barcelona, Montesinos, 2002, pp. 180-188, y «Simbolismo, modernismo y hermetismo», en
Luis Beltrán Almería - José Luis Rodríguez García (coords.), Simbolismo y hermetismo. Aproximación
a la modernidad estética, Zaragoza, PUZ, 2007, pp. 93-110.
10
Antonio Carreira, Gongoremas. Barcelona, Península, 1998, p. 256.
11
Wolfram Nitsch, op. cit., p. 9.
12
Robert Jammes, op. cit., p. 265.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 57-64. issn: 2240-5437.
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Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
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pasión violenta, a pesar de advertir que «si el poema antes parecía una prisión, ahora
parece una puñalada que el galán da a su dama»13. Al menos, hay que reconocerle
que vacila. También Blecua participa del entusiasmo ensalzador. «El lector puede
—dice— destacar los cultismos embellecedores, brillantes, luminosos, tan típicos de
la poesía de Góngora, como nácar, émulo, luciente, y el sabio encabalgamiento de
endecasílabos. Un mundo de materiales preciosos, de joyería, acorde con el tema,
oro, diamante, nácar, cosa muy lógica»14. Y más adelante insiste en la misma idea:
«El último terceto redobla el embellecimiento, al comparar la sangre en la mano de
Clori que luce más que la púrpura sobre el marfil de la India y la envidia de la Aurora
deshojando claveles sobre la nieve para obtener un matiz semejante»15. Esta tarea
la califica Blecua como «repristinar los efectos del rojo sobre el blanco, cerrando el
soneto de un modo perfecto»16. Me permito subrayar el verbo repristinar porque es
todo un síntoma de lo que Blecua está haciendo. Repristinar es un neologismo del
erudito Blecua, arrebatado de entusiasmo por la retórica gongorina. Quien esto
escribe sólo conoce el adjetivo prístino, sinónimo cultísimo de «antiguo, primero,
primitivo, original» (DRAE). No recuerda haber encontrado nunca el verbo pristi-
nar y menos la reduplicación repristinar. Dado que los diccionarios (el DRAE, el de
doña María Moliner) no nos ayudan (desconocen tal término), habrá que tirar de
suposición. Si prístino significa original, primitivo, pristinar sería originar, volver a
los orígenes o quizá primitivizar. Y repristinar … en fin ¡basta de desvaríos! Lo que
hace Blecua tiene un nombre muy simple: justificar los tópicos e insistir voluntario-
samente en su belleza. Pero esta tarea es inútil. Don Luis de Góngora no precisa que
ningún erudito le rebautice sus tópicos.
Afortunadamente Blecua tiene otra dimensión más allá de la de neologista. A
renglón seguido de su elogio del tópico rojiblanco (púrpura – marfil) añade: «Pero lo
que realmente singulariza el soneto […] es el uso reiterado del hiato, en primer lugar,
y después la frecuencia de palabras que llevan una i acentuada, lo que plantea uno de
los más apasionantes problemas de fonología y poesía»17. Y, en esto, he de darle toda
la razón18. Claro que, antes que un problema entre fonología y poesía (en todo caso,
entre poesía y fonética), lo que plantea es un problema al comentarista del soneto
13
Ibíd.
14
José Manuel Blecua, op. cit., p. 55.
15
José Manuel Blecua, op. cit., p. 57.
16
Ibíd.
17
Ibíd. La observación de la relevancia de las diéresis fue formulada ya en el siglo XVII por Salce-
do Coronel. Dámaso Alonso la comenta «se diría que Góngora ha querido resaltar una virtud o una
violencia latentes en el designado […] (violencia, asechanza o protesta contra un orden, un tiempo o
un mérito)» (Dámaso Alonso, op. cit., vol. II, p. 452). En el mismo comentario añade que «Góngora
resalta así el carácter de joyita, de pequeña y preciosa galantería de este soneto que parece labor de
orfebre» (ibíd.).
18
Blecua enumera las siguientes palabras del poema con hiato o i tónica: dïamante, ingenïosa-
mente, apremïado, impacïente, insidïoso, indïano, invidïosa, día, vínculo, sacrílego, divina y marfil
(José Manuel Blecua, op. cit., p. 58).
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Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
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que debe armonizar la excelsa belleza rojiblanca con la cacofonía de las ies tónicas.
Nitsch lo soluciona con la violencia, ¡a palos! Blecua vuelve a sentirse artista y nos
ofrece, en todo dubitativo ciertamente, una explicación repristinada. Comienza por
abrazar la falacia intencional («Góngora ha tenido una intención muy clara»19). La
hermenéutica sabe bien que las intenciones de los autores son indemostrables y la
alusión de los intérpretes a tales intenciones falaces. Pero sigamos. «Y con todas las
reservas —sigue Blecua—, porque éste es siempre un terreno muy resbaladizo, creo
que procede de la pura grafía de la i y de su hiriente y penetrante sonido»20. Que las
íes tónicas son cacofónicas parece fuera de duda. Que la clave esté en «la pura gra-
fía» me parece otro desvarío. Blecua insiste concluyendo: «en uno de los ejemplos
más felices y perfectos de toda la poesía española […] cuya finalidad es poner en
concordancia magistral los fenómenos visuales y auditivos de las íes y el pinchazo
de la aguja. Aunque bien puedo estar equivocado»21. Aunque en la poesía alemana
del siglo XVII exista una corriente de poesía visual, suponer que la explicación del
fenómeno de las íes es visual —el alfiler y la gota de sangre— me parece un abuso.
La dimensión gráfica del lenguaje permite ciertas bromas infantiles, pero bromas
gráficas, y no añade significación al poema. Más bien, esta explicación gráfica le sir-
ve a Blecua para desviarse del nudo de la cuestión: la cacofonía. Como dice Salcedo
Coronel «nunca el exceso es loable» y aquí hay exceso. La cuestión es por qué.
En mi opinión la explicación a este problema está en la burla. El poema se burla
de Clori. La sintaxis imposible, el cúmulo de tópicos sobre la belleza y la vacuidad
irrisoria del contenido (una dama se pincha con un alfiler al tratar de quitarse un
anillo: un motivo de risa por la doble torpeza, porque utilice un alfiler y porque,
lógicamente, se pinche)22. El arte de Góngora consiste en irritar las leyes de la poesía
culta: las irrita forzando la sintaxis hasta hacer necesaria una traducción para enten-
der el poema, acumulando imágenes tópicas (han pasado más de dos siglos desde
la muerte de Petrarca y en España el petrarquismo lleva ya un siglo triunfando),
banalizando el contenido (una torpeza) y acumulando chirriantes sonidos (diéresis
e íes). Casi dos siglos después Friedrich Schlegel llamaba a este fenómeno ironía y lo
entendía como un tipo de parodia que ataca al género parodiado sin destruirlo. Es
justo lo que hace Góngora. Dámaso Alonso describe un poema primerizo de Gón-
gora en los siguientes términos:
19
Ibíd.
20
Ibíd.
21
Ibíd., p. 59. Jordi Llovet califica esta explicación de «cratilismo», por el diálogo de Platón Crátilo,
en que el mismo Platón sostiene que existe una relación de orden natural entre la palabra y aquello
a lo que designa. Llovet recuerda que la lingüística actual ha desechado dicha creencia. Benveniste
sostiene que la relación del lenguaje con su referente es convencional. Y Saussure había tratado de
arbitraria esa relación (Jordi Llovet, op. cit., 122 n.)
22
Jordi Llovet llama la atención sobre el hecho de que Góngora dedique el soneto «a la circuns-
tancia absolutamente menor de que una dama se pinche con un alfiler» (Jordi Llovet, ibíd., 122). En
la página siguiente lo califica de «tema absolutamente trivial».
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Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
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una enorme abundancia de léxico culto, extravagante ya por su acumu-
lación, y a veces por la rareza de su uso; un amontonamiento de citas y
alusiones mitológicas, expresadas en ocasiones perifrásticamente; tres
distintos tipos de dislocación de los diptongos castellanos (cada tipo re-
petido varias veces); varias clases de violento hipérbaton, que llega a
producir en la mente del lector sintagmas aparentes, erróneos23.
Esto es lo que Schlegel llamará ironía, concepto que casa muy bien con lo que
viene llamándose manierismo y que no es otra cosa que la etapa de agotamiento e
irritación de la poesía elevada.
Hermetismo y risa en Góngora
El mismo Góngora explicó este método defendiendo su estética, como ya he-
mos señalado. Lo oscuro y peregrino deberían «aviva[r] el ingenio del lector» y
ayudarle a «descubrir lo misterioso. » Por lo visto, no siempre lo consigue. La lectura
de la obra de Góngora que ha hecho el siglo XX se ha quedado en el estilo. Incluso,
la lectura sociológica (Beverley) se funda en el estilo aunque aparente buscar otras
metas24. El reto de la crítica es descubrir lo misterioso: la dimensión hermética de
Góngora. Ya hemos descrito el hermetismo como la búsqueda de la salvación por
una conciencia amenazada que se ve inmersa en un entorno hostil. El universo es
el escenario de una lucha eterna entre el bien y el mal, entre la luz y las tinieblas.
Su arma es el misterio. Cascales ya atacó a su coetáneo diciendo que de «príncipe
de la luz» había pasado a «príncipe de las tinieblas», fórmula que Menéndez Pelayo
trastocó en «ángel de luz» y «ángel de tinieblas»25. El mismo Alonso, que rechaza
ese dualismo, describía en términos similares el Polifemo: «bajo una atmósfera ilu-
minada por un sol radiante, en lugares ya terribles, duros y tenebrosos, ya llenos de
deliciosa verdura, arden el amor y el aborrecimiento…»26. En efecto, en el Polifemo
Góngora traslada el núcleo de un relato pastoril al gran escenario hermético. La
pasión, el odio y la venganza trascienden un planteamiento pastoril en un universo
en el que luchan el bien y el mal y en el que se acumulan los símbolos. Ahora bien,
si comparamos el Polifemo con el «Romance de Angélica y Medoro» salta a la vista
que el dramatismo que emana del hermetismo ha quedado difuminado, borrado
incluso. La guerra y la locura del conde Orlando quedan fuera del «Romance» o, al
23
Dámaso Alonso, op. cit., vol. I, p. 100.
24
A una conclusión similar a ésta llegó Robert Jammes. Para Jammes el gran error es «el carácter
demasiado exclusivamente formalista de la crítica, tal como la practica la generación del tricentena-
rio» (Robert Jammes, op. cit., p. 510). El legado de esta generación es «un retórico hábil y minucioso
que pule sus metáforas y las ensarta, obstinadamente, en la misma tradición bimilenaria, inmutable
desde Homero» (ibíd.).
25
Dámaso Alonso, op. cit., vol. I, p. 97.
26
Dámaso Alonso, op. cit., vol. III, p. 529.
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menos, en los márgenes. Aquí vemos el otro polo de la poética gongorina: el lado
alegre de la tragicomedia. El «Romance» es una composición idilico-sentimental.
En un escenario idílico pastoril, el poeta ha sustraído el núcleo idílico-pastoril, con
la negativa al amor de la heroína por la pasión gozosa. La crítica de los siglos XVI y
XVII vio, a partir de Guarini, que el idilio pastoril tenía una naturaleza tragicómica
o, si lo preferimos, joco-seria. La misma fórmula, el trascender el mundo pastoril
con su utopía de la edad de oro, es el fundamento de las Soledades. Sin duda, las
Soledades iban a ser el centro de la visión universal gongorina. Pero es un proyecto
truncado. Quizá la razón del abandono de las Soledades sea una cierta conciencia
de la imposibilidad de la edad de oro. Cervantes abandona el proyecto de la conti-
nuación de la Galatea por eso mismo. Pero supo encontrar una salida a la crítica
de la utopía de los orígenes, explícita en varios momentos del Quijote. Góngora no
encontró una solución al problema que planteaba la reivindicación de la edad de
oro. El resultado es un hermetismo convencional. En cuanto hermético, Góngora es
capaz de una producción de símbolos incomparable. No se conforma con producir
un lenguaje de metáforas naturales, como hacen los autores coetáneos que indagan
el idilio pastoril. Su lenguaje alcanza una intensa producción de símbolos. Pero, tras
esos símbolos, falta un discurso trascendente. La alabanza de aldea y el repudio de
la sociedad cortesana no son suficientes. Resultan ya tópicos. Por eso no es casual
que los poetas españoles, sobre todo en el siglo XX, hayan reivindicado a Góngora
(desde Juan Ramón Jiménez a los del 27 y más allá). En cambio, los pensadores han
ignorado a Góngora27. Hermetismo sin renovación es hermetismo sin salvación. La
caracterización del culteranismo podrá estar mal concebida (y lo está) pero alude
a una realidad: la ausencia de un contenido renovado equiparable con el nivel de
simbolización que presenta la poesía de Góngora.
Góngora es el poeta de la tragicomedia inconclusa. Dámaso Alonso, y con él la
crítica del siglo XX, han cometido el error de separar el Góngora serio del Góngora
humorístico. Esta separación entre las dos vertientes de la obra gongorina la desna-
turaliza. No permite comprender que lo culto y lo popular se funden en esta obra
en su dimensión natural: la jocoseria. El soneto que ha suscitado este comentario
es una muestra más de esa fusión: una anécdota torpe y trivial envuelta en lenguaje
heroico.
27
Entre los poetas hay una ausencia significativa: José Bergamín. Bergamín no solo es poeta. Es
uno de los más penetrantes ensayistas españoles modernos. Sus estudios literarios son ejemplares y
aun proféticos. Pues bien, en su magistral estudio «El disparate en la literatura española» Bergamín se
pasea por la literatura áurea: Cervantes, Lope, Teresa de Jesús, Gracián, Calderón, pero de Góngora
no dice ni una palabra. También me parece significativo el desinterés de Unamuno por la obra de
Góngora.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 57-64. issn: 2240-5437.
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Luis Beltrán Almería
Acerca del soneto de Góngora «De una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler»
64
R e f e r e n c ia s b i b l io gr á f ic a s
Alonso, Dámaso, Góngora y el «Polifemo», 3 vols., Madrid, Gredos, 1985, 7ª ed.
Beltrán Almería, Luis, La imaginación literaria. La seriedad y la risa en la literatura occidental,
Barcelona, Montesinos, 2002.
—, «Simbolismo, modernismo y hermetismo», en Luis Beltrán Almería - José Luis Rodríguez
García (coords.), Simbolismo y hermetismo. Aproximación a la modernidad estética, Zarago-
za, PUZ, 2007, pp. 93-110.
Beverly, John, «Introducción», Luis de Góngora, Soledades, Madrid, Cátedra, 1979, pp. 9-68.
Blecua, José Manuel, «Un soneto de Góngora», en AA.VV., El comentario de textos. Madrid,
Castalia, 1973, 2ª ed., pp. 52-61.
Carreira, Antonio, Gongoremas. Barcelona, Península, 1998.
Jammes, Robert, La obra poética de don Luis de Góngora y Argote, Madrid, Castalia, 1987.
Llovet, Jordi et ál., Teoría de la literatura y literatura comparada, Barcelona, Ariel, 2005.
Nitsch, Wolfram, «Prisiones textuales. Artificio y violencia en la poesía española del Barroco»,
Olivar, 5, 2005, pp. 1-14.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 57-64. issn: 2240-5437.
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"Description": "Diego e José de Figueroa y Córdoba furono due fratelli drammaturghi, attivi nella seconda metà del XVII secolo, che praticarono assiduamente la scrittura in collaborazione. Nel tentativo di rivalutare questi autori ingiustamente dimenticati dalla critica odierna, il presente lavoro si propone di offrire uno studio introduttivo alle figure e al teatro dei due fratelli. \r\nSi danno inizialmente alcuni cenni biografici riunendo le seppur scarse notizie che possediamo sulla vita dei Figueroa, in modo da inquadrarne le personalità all’interno degli ambienti letterari dell’epoca. \r\nCi si concentra, poi, sul corpus, proponendo una panoramica delle commedie scritte da Diego e José, dando di ciascuna una breve sinossi e un rapido inquadramento all’interno dei generi tipici del teatro aureo, e segnalando gli eventuali problemi di attribuzione. La produzione dei Figueroa, pur non essendo particolarmente originale, rivela in molti casi una certa abilità dei drammatughi nella creazione di commedie de enredo, costruite ricorrendo ai tipici clichés di questo genere teatrale, il più praticato dagli autori. \r\nSi accenna, infine, alla collaborazione dei fratelli nella scrittura di molte delle loro commedie, avanzando alcune ipotesi sulla tecnica compositiva, che fu probabilmente di tipo diacronico.\r\nQuesto primo avvicinamento ai fratelli Figueroa mostra come lo scarso interesse a essi dedicato sia ingiustificato, in quanto la loro produzione drammatica si dimostra, se non nella sua totalità, degna di nota e meritevole, in molti casi, di una maggiore attenzione.\r\n\r\nDiego and José de Figueroa y Córdoba were two brothers, active in the second half of the XVII century, who assiduously collaborated in the writing of their plays. In an attempt to re-evaluate these authors, unjustly forgotten by today's critics, this work aims to offer an introductory study to the brother’s figures and theatre.\r\nInitially, some biographical notes will be given, bringing together the little information we have about the life of the Figueroas, in order to frame their personalities within the literary circles of the time.\r\nWe will then concentrate on the theatrical corpus, offering an overview of the plays written by Diego and José, giving for each one a brief synopsis and a quick framing within the typical genres of Golden Age theatre, and pointing out possible problems of attribution. The production of the Figueroas, though not particularly original, reveals in many cases a certain ability of the dramatists in creating comedias de enredo, constructed using the typical clichés of this kind of plays, which the authors practiced most of all.\r\nFinally, we will refer to the collaboration of the brothers in the writing of many of their works, putting forward some hypotheses about the composition technique, which was probably diachronic.\r\nThis first approach to the Figueroa brothers shows how the lack of interest devoted to them is unjustified, since their dramatic production seems, if not in its entirety, worthy of note and, in many cases, should deserve greater attention.",
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La produzione drammatica
dei fratelli Figueroa y Córdoba
E MILY F AUSCIANA
Università degli Studi di Milano
[email protected]
Diego e José de Figueroa y Córdoba rappresentano un caso peculiare nel teatro
del Siglo de Oro: furono, infatti, due fratelli che sebbene abbiano lavorato anche in-
dividualmente, scrissero la maggior parte delle commedie collaborando tra di loro.
Questi due drammaturghi, che fanno parte di una folta schiera di autori di secondo
ordine, attivi essenzialmente nella seconda metà del XVII secolo e pressoché scono-
sciuti ai giorni nostri, raramente hanno meritato il giusto interesse da parte della
critica. Nel presente lavoro si cercherà di offrire un primo approccio alle figure e alla
produzione dei due fratelli, fornendo alcuni dati essenziali sulle loro vite e concen-
trandosi sull’analisi del loro corpus, facendo poi un breve accenno alla loro tecnica
di composizione in collaborazione.
1. Cenni biografici
Le notizie che possediamo sulla vita dei fratelli Figueroa sono piuttosto scarse
ed è significativo che la più completa fonte di informazioni a riguardo sia tutt’ora un
articolo di Emilio Cotarelo y Mori degli inizi del ‘9001.
1
Emilio Cotarelo y Mori, «Dramáticos españoles del siglo XVII: los hermanos Figueroa y Cór-
doba», Boletín de la Real Academia Española, IV (1919), pp. 149-191.
Emily Fausciana
La produzione drammatica dei fratelli Figueroa y Córdoba
66
Discendente dalla illustre famiglia dei Lasso della Vega, figlio del malagueño
Gómez de Figueroa – cavaliere di Calatrava – e della sivigliana Ana de Francia,
Diego nacque a Siviglia probabilmente nel 16192. La famiglia dovette poi trasferirsi a
Madrid dove nacque José, intorno al 16293.
Diego si sposò due volte, «ambas con señora ya viuda», secondo quanto segnala
Cotarelo4. Sulla prima moglie non c’è accordo tra le fonti. Méndez Bejarano sostiene
che «estuvo casado con doña Francisca de Salazar, de quien vivió separado, según
consta en el protocolo, año 1623, del escribano Diego Ruiz Tapia»5. Secondo Cotare-
lo, invece, si sposò in prime nozze nel 1644 con Luisa Osorio, contessa di Villalba, da
cui non ebbe figli. La seconda volta, nel 1655, con doña Agustina de Aponte y Men-
doza, señora de los Salmeroncillos. Da questo matrimonio nacquero Ana Francisca
de Córdoba e Juan de Figueroa y Lasso de la Vega6.
Entrambi i fratelli ottennero il titolo di cavaliere: Diego entrò a far parte dell’Or-
dine di Alcántara nel 1640, mentre José ricevette l’Abito di Calatrava nel 1649.
Non abbiamo notizie dei loro studi, anche se certamente «los habrán tenido,
supuesto el rumbo que dieron a su vida y por ser ambos segundones de su casa»7.
Cotarelo suppone, infatti, che probabilmente studiarono a Salamanca, adducendo
come prova alcuni passaggi di commedie come Todo es enredos amor, La hija del
mesonero e A cada paso un peligro, in cui i drammaturghi mostrano una conoscenza
particolare della città e della sua vita universitaria.
I fratelli Figueroa furono molto presenti nella vita letteraria dell’epoca. Nel 1652
José partecipa con un sonetto alla corona funebre ordinata in memoria di Martín
Suárez de Alarcón8, giovane ufficiale morto durante un’assalto della città di Barcello-
na contro i francesi. Nel 1654 entrambi i fratelli prendono parte all’Accademia poe-
tica presieduta da Melchor de Fonseca y Almeida, il quale pubblicò successivamente
un estratto dei componimenti presentati in un volume dal titolo Jardín de Apolo9.
José partecipò con delle cedulillas e alcune coplas de pie quebrado, mentre Diego con
delle décimas.
2
Cotarelo sostiene di aver trovato il certificato di battesimo nella parrocchia di San Lorenzo a
Siviglia; Cfr. ibidem, p. 152.
3
In una nota genealogica, presentata per la richiesta dell’abito di Calatrava nel 1649, risulta che
«nació en Madrid y fue bautizado en la parroquia de San Martín». Dato che tutti i testimoni delle
pruebas affermano che José aveva allora vent’anni, possiamo dedurre così la data di nascita. Cfr. Ex-
pedientillo 10426, conservato nell’Archivo Histórico Nacional di Madrid.
4
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 157.
5
Mario Méndez Bejarano, Diccionario de escritores, maestros, oradores naturales de Sevilla y su
actual provincia, Sevilla, 1922-1925, vol. I, p. 210.
6
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., pp. 157-159.
7
Ibidem, pp. 153.
8
Corona sepulcral. Elogios en la muerte de Don Martín Suarez de Alarcón [...] Matriti, 1652.
All’elogio funebre parteciparono in tutto centodue poeti tra i quali figurano anche Calderón, Dia-
mante, Zabaleta e Avellaneda.
9
Jardín de Apolo, Academia celebrada por diferentes ingenios. Recogida por don Melchor de Fonseca
y Almeida […], Madrid, Julián de Paredes, 1655.
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Emily Fausciana
La produzione drammatica dei fratelli Figueroa y Córdoba
67
José doveva essere più incline rispetto al fratello maggiore a comporre versi di
circostanza, poiché lo troviamo citato con maggior frequenza nei certami dell’epo-
ca. Nel 1658 partecipa alla justa poetica organizzata dall’Università di Alcalá de He-
nares in onore della nascita del principe Felipe Próspero, concorrendo con «unas
endebles quintillas, glosa de una perversa redondilla dada como pie forzado para
todos»10.
Troviamo ancora i due fratelli in un altro certame convocato nel 1660 dal con-
vento della Victoria di Madrid per festeggiare la collocazione della famosa immagi-
ne de Nuestra Señora de la Soledad, opera di Gaspar Becerra, nella nuova cappella.
Diego ottenne il primo premio con una glosa, raccolta dal segretario Tomás de Oña
nel volume Fenix de los ingenios11. Sebbene non sia stato pubblicato nel volume alcun
componimento di José, sappiamo che partecipò alla competizione poiché il fiscale,
Francisco de Avellaneda, lo incluse nel suo vejamen in cui si legge: «Don José de Fi-
gueroa es el más florido de España […] ¿quién le puede negar la gracia de las flores?
Sus sainetes son de Santa Cruz y sus comedias de Aranjuez, por ser todas de placer».
Nel 1672, in occasione dei festeggiamenti per la canonizzazione di San Fran-
cisco de Borja, il Colegio Imperial de la Compañía de Jesús di Madrid organiz-
za un certame poetico12 a cui prende parte José con alcune quintillas «premiadas
supernumerariamente»13 di stile «verdaderamente jocoso y aun familiar»14.
Non si conosce la data di morte dei due fratelli. Segnaliamo in ultimo che l’edi-
tore Domingo de Palacio y Villegas dedicó a Diego Figueroa, in qualità di patrono,
le due parti di Rasgos del ocio, collezione di entremeses pubblicata a Madrid nel 1661
e 166415.
2. Il corpus drammatico
In questa parte del presente studio, cercheremo di offrire un panorama delle
opere scritte dai fratelli Figueroa, dando di ciascuna una breve sinossi e un rapido
inquadramento all’interno dei generi tipici del teatro aureo, e segnalando gli even-
tuali problemi di attribuzione.
La prima commedia che sembra essere stata scritta dai Figueroa è A cada paso
un peligro. Viene generalmente considerata opera dei due fratelli, sebbene le uniche
10
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 164.
11
Fenix de los ingenios […], Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1664.
12
I componimenti presentati nell’Accademia vennero pubblicati nel volume: Días sagrados, y
geniales celebrados en la canonización de San Francisco de Borja […], Madrid, Francisco Nieto, 1672.
13
Ibidem, f. 205r.
14
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 168.
15
Rasgos del ocio, en diferentes bailes, entremeses y loas. De diversos autores […]. Il volume contiene
una breve loa di Diego Figueroa, senza titolo, che venne rappresentata nel Buen Retiro in una delle
funzioni reali dalla compagnia di Antonio Escamilla.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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due sueltas16 che si conoscono la attribuiscano a un ingenio. Sulla collaborazione
concordano tutti i cataloghi antichi, ovvero Fajardo, Medel, García de la Huerta,
Durán, La Barrera; tuttavia Cotarelo crede che sia effettivamente di un solo autore,
in particolare di Diego, poiché nel testo si fa allusione come fatto recente alla bat-
taglia di Fuenterrabía, avvenuta nel 1638, quando José aveva solo nove anni ed era
quindi troppo giovane per poter collaborare con il fratello17. La pieza è stata attribu-
ita anche a Zárate nel 1660, anno della prima rappresenzazione conosciuta18.
È una tipica commedia de enredo che si svolge a Salamanca, principalmente in
una parte disabitata della casa adiacente a quella in cui vivono la protagonista doña
Ana e la cugina María. Qui le due dame, all’insaputa l’una dell’altra, nascondono i
rispettivi galanes, don Gaspar e don Francisco, in fuga dalla giustiza, sfruttando una
porta interna che collega le due abitazioni. Attraverso questo espediente della casa
con dos puertas, tipico delle commedie del genere, gli autori realizzano l’intrigo basa-
to essenzialmente su una serie di equivoci che nascono dal fatto che Gaspar e Fran-
cisco ignorano la presenza l’uno dell’altro nella stanza in cui si nascondono, che è
opportunamente tenuta nell’oscurità in modo da impedire che possano vedersi e ri-
conoscersi. Allo stesso modo, quando Ana e María entrano a turno per parlare con il
rispettivo galán, finiscono inevitabilmente per sbagliare interlocutore e, rivolgendo-
si di volta in volta all’uomo sbagliato, creano una confusione generale che fa sorgere
la gelosia di Gaspar e Francisco, entrambi convinti dell’infedeltà della propria dama.
I pericoli che corrono le due ragazze aumentano quando don Lope, il padre di Ana,
scopre il segreto dell’abitazione disoccupata, e tenta in tutti i modi di difendere l’onore
della casa cercando di riconocere gli intrusi che entrano ed escono in continuazione,
eludendo la sua sorveglianza. Nell’ultima scena tutti gli equivoci vengono sciolti e le
reali identità dei personaggi svelate, con la consueta felice unione delle due coppie.
La hija del mesonero – pubblicata per la prima volta nella Parte 14 delle Esco-
gidas (1660)19 – è una pieza ispirata a La ilustre fregona di Cervantes, opera del solo
Diego. È un’altra caratteristica commedia de enredo in cui si intrecciano gli amori di
tre galanes e due dame. Don Diego e don Juan decidono di abbandonare gli studi e
di lasciare Salamanca, mettendosi in viaggio sotto falsa identità. Nel loro peregrina-
re arrivano a Toledo, dove don Lope cerca di conquistare la ricca doña Leonor solo
per interesse, mentre è realmente innamorato di Costanza, figlia di un locandiere, la
16
Le edizioni sueltas che tramandano il testo della commedia, piuttosto tarde, vennero pubblicate
a Madrid (Antonio Sanz, 1754) e a Valencia (Orga, 1776).
17
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 176.
18
Cfr. Varey, John – Shergold, John, Comedias en Madrid: 1603-1709. Repertorio y studio bibliográ-
fico. Fuentes para la historia del teatro en España, IX, London, Tamesis, 1989, p. 48.
19
Data la difficoltà di stabilire la possibile datazione delle opere, forniremo, a titolo informativo,
i dati relativi all’edizione princeps. Con la sola eccezione di A cada paso un peligro, tutte le commedie
dei fratelli Figueroa sono state pubblicate nella collezione delle Escogidas; ci limiteremo pertanto,
d’ora in avanti, a indicare tra parentesi il numero del volume in cui appare la commedia e l’anno di
pubblicazione.
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quale, tuttavia, rifiuta la sua corte. Giunti in città, don Diego e don Juan alloggiano al
Mesón del Sevillano dove vive Costanza, presentandosi rispettivamente con i nomi
di Tomás e Lope. Don Juan si innamora di Costanza non appena la vede e sembra
essere ricambiato, mentre Don Diego rimane colpito dalla bellezza di Leonor e si
prefigge di conquistarla; entrambi perciò saranno rivali in amore di don Lope. Si
verificano i consueti fraintendimenti tipici del genere: Costanza si ingelosisce mal
interpretando una conversazione in cui don Juan sembrerebbe corteggiare la cria-
da di Leonor, quando in realtà sta solo cercando di aiutare l’amico nella conquista
della sua dama; a sua volta don Juan accusa Costanza di essergli infedele, avendola
sorpresa mentre stringeva la mano al padre di don Lope, e non sapendo che la ra-
gazza stava semplicemente promettendogli di ignorare le avances del figlio, le cui
intenzioni non sono onorevoli. Non mancano, poi, scene notturne con confusione
di personaggi, confessioni d’ amore a dame alla reja, duelli d’onore interrotti più
volte dall’arrivo della giustizia che mantengono vivo l’ interesse del pubblico fino
al desenlace: le identità dei due galán vengono svelate e si scopre che Costanza è in
realtà la sorella di don Diego. L’agnizione finale a sorpresa rende possibile l’unione
tra don Juan e la ragazza, Diego sposerà Leonor, mentre il povero don Lope, rimasto
solo, paga le conseguenze del proprio doppio gioco amoroso.
È questa, certamente, una delle migliori commedie del corpus dei Figueroa, che
risalta per l’ottima tecnica drammatica con cui è composta. Gli equivoci che si veri-
ficano nel corso dell’opera sono verosimili, le scene sono sapientemente costruite e
ben concatenate e i personaggi credibili e delineati con abilità. Non è un caso che sia
una della piezas generalmente più lodate dalla critica.
Tipica commedia di capa y espada è Mentir y mudarse a un tiempo (Parte 14,
1661), una tra le piezas meglio riuscite dei fratelli Figueroa che venne rappresentata
nel 1658 per la famiglia reale nel Buen Retiro20.
Don Diego, presentandosi sotto il falso nome di don Benito Pérez, corteggia
contemporaneamente una misteriosa dama tapada e doña Isabel, ignorando che si
tratti in realtà della stessa persona. A questo particolare triangolo amoroso si ag-
giunge doña Juana, amica e vicina di Isabel, da tempo innamorata del giovane. Il
padre di Diego, don Pedro, ha organizzato il matrimonio tra il figlio e Isabel, ma
poiché Diego non sa che la sua promessa sposa è proprio la dama di cui si è innamo-
rato, per evitare le nozze, finge di essersi già sposato all’insaputa del padre, costrin-
20
Da un documento dell’epoca risulta che la compagnia di Francisco García non poté rappre-
sentare La Adúltera Penitente il 28 febbraio 1658, poiché dovette recarsi al Retiro per provare la com-
media Afectos de odio y amor, da mettere in scena per i reali il martedì di Carnestolendas. Nello
stesso documento si legge inoltre che «así mismo llevaron para ensayar otra comedia a Su Majestad
a Isabel Gálvez y a María de Escamilla y Manuela de Escamilla, y que la comedia a que las llevaron a
las susodichas se intitula El embustero, que es de los Córdobas». El embustero è uno dei titoli con cui
circolava la commedia Mentir y mudarse; cfr. Varey, John – Shergold, John, Teatros y Comedias en
Madrid: 1651-1665. Estudio y documentos. Fuentes para la historia del teatro en España, IV, London,
Tamesis, 1973, p. 228.
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gendo quest’ultimo ad annullare il fidanzamento. Isabel, dal canto suo, contribuisce
alla confusione generale presentandosi a volte come tapada e altre come se stessa,
facendo credere al galán che la dama misteriosa sia in realtà Juana, rimproverando-
gli la scarsa fedeltà e cercando di mettere alla prova la veridicità del suo amore. Da
qui si intreccia una fitta rete di equivoci che sostiene la trama sino al finale, quando
cadono tutte le maschere e Diego e Isabel possono finalmente unirsi in matrimo-
nio. L’enredo viene abilmente costruito sulle false identità assunte dai protagonisti e
sulle ripetute menzogne inventate da don Diego per trarsi d’impaccio nelle diverse
situazioni. Come in A cada paso un peligro, due case comunicanti attraverso una
porta interna – quelle in cui vivono Isabel e l’amica – fanno da sfondo alla vicenda
e facilitano la creazione dell’intrigo, grazie a entrate e uscite ad effetto, spegnimento
di luci e confusione dei personaggi.
Come Isabel, un’altra dama tapada tesse le fila della trama di una colaborada tra
le più note dei fratelli Figueroa: Pobreza, amor y fortuna (Parte 13, 1660). Don Diego,
pur appartenendo ad una ricca famiglia, vive in estrema povertà poiché, essendo
il secondogenito, non ha ereditato nulla della fortuna familiare. Tutte le ricchezze
sono andate, invece, al fratello maggiore Enrique che, nonostante l’agiatezza, si ri-
fiuta di concedergli qualsiasi tipo di aiuto. Diego è confuso tra l’amore per la bella
Leonarda e la riconoscenza per una misteriosa dama velada la quale, essendo al
corrente della sua condizione, gli invia gioielli e denaro in dono. Leonarda, che è in
realtà la misteriosa dama, è innamorata di Diego, ma essendo stata corteggiata come
tapada, si trova nella paradossale situazione di essere gelosa di stessa. Nel tentativo
di scoprire i veri sentimenti di Diego, Leonarda organizza un incontro tra il galán e
la dama tapada a casa della cugina Clara. Qui la confusione raggiunge il suo apice,
al punto che Diego si convince che la dama misteriosa sia Clara, a cui dichiara il
suo amore, mentre Leonarda, la quale è rimasta tutto il tempo in ascolto al paño,
si scopre beffata dalle sue stesse astuzie. Uscendo allo scoperto, Leonarda decide di
sorvolare sul fatto che Diego abbia corteggiato una sconosciuta e, svelando la sua
vera identità, gli concede la propria mano rendendolo un uomo ricco. Enrique, ca-
duto nel frattempo in disgrazia per debiti di gioco, si pente del trattamento riservato
al fratello e, sposandosi con Clara, trova l’amore, riacquista la sua ricchezza e l’af-
fetto del fratello minore disposto a perdonarlo. Leonarda, dunque, si rivela il perno
attorno cui ruota tutta la struttura drammatica, la vera artefice non solo del proprio
destino ma anche di quello degli altri personaggi.
Anche in Todo es enredos amor (Parte 37, 1672) – scritta dal solo Diego – ri-
troviamo una personaggio femminile centrale che determina, con le sue azioni, lo
svolgimento dell’intera commedia. Doña Elena, per conquistare don Félix, di cui è
segretamente innamorata da tempo, decide di seguirlo fino a Salamanca dove, vesti-
ta da studente e sotto il falso dome di don Lope, affitta una stanza nella casa in cui
alloggia il giovane. Vivendo nello stesso edificio diventano immediatamente buoni
amici, al punto che Félix arriva a confidare a Elena-Lope di essere innamorato di
doña Manuela e che il padre della ragazza sta organizzando il matrimonio tra i due.
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Ingegnandosi per ostacolare in ogni modo tale unione, Elena si presenta a casa di
Manuela con il nome di Damiana e, facendosi assumere come donna di servizio,
si adopera nel minare la reputazione del galán con continue insinuazioni sulla sua
presunta fama di donnaiolo. Elena riesce a gestire rapidamente i cambi di ruolo da
cameriera a studente, e viceversa, utilizzando come una sorta di vestuario una abita-
zione vuota, adiacente sia alla stanza dove alloggia Félix che a quella di Manuela. Fa-
cendo avanti e indietro tra i due appartamenti, l’infaticabile eroina, nelle vesti di don
Lope, riesce a diventare confidente di Félix e, contemporaneamente, a conquistarlo
come Damiana, tanto che il giovane si ritrova diviso tra la bellezza dell’umile serva e
il matrimonio vantaggioso con Manuela. Dopo aver architettato un complesso gio-
co di travestimenti e imbrogli, Elena si prepara per l’ultimo atto della sua comme-
dia presentandosi in scena in abiti da dama e interpretando un nuovo personaggio:
questa volta è doña Elena, una cugina di don Lope, che riesce immediatamente a
catturare l’interesse di don Félix con la sua bellezza. La conquista dell’obiettivo della
dama decreta la fine della commedia: la giovane viene smascherata e tutti gli ingan-
ni da lei costruiti si sciolgono; Félix chiede la mano della vera Elena, la quale può
finalmente godersi l’amore che con tanto ingegno e fatica ha cercato di conquistare.
Todo es enredos amor presenta alcuni problemi di attribuzione. Nel volume delle
Escogidas viene indicato come autore della commedia Diego Figueroa, tuttavia le
varie edizioni sueltas successive, che risalgono al Settecento, non concordano sulla
paternità della pieza, attribuendola in alcuni casi a Diego, in altri ad Agustín More-
to. Segnaliamo inoltre che un libraio di Madrid pubblicò, intorno agli anni settan-
ta del XVIII secolo, una nuova edizione delle tre parti delle commedie di Moreto,
utilizzando varie sueltas di diversa provenienza. In particolare ci interessa il terzo
volume che, uscito con il titolo di «Verdadera tercera parte de las comedias de don
Agustín Moreto», non contiene neppure le stesse commedie presenti nella Terce-
ra Parte autentica, probabilmente perché il libraio, non essendo in possesso degli
esemplari necessari ad approntare il volume, ne incluse altri differenti che aveva a
sua disposizione; tra questi figura una delle sueltas di Todo es enredos amor attribuita
a Moreto. La questione, come si può vedere, è complessa e non abbiamo qui modo
di analizzarla in dettaglio. Ci limitiamo a sottolineare che la critica si è generalmente
orientata a considerare più probabile l’attribuzione di Todo es enredos amor a Diego
Figueroa21.
Ancora una donna vestida de hombre è la protagonista di La dama capitán (Par-
te 24, 1666). Doña Elvira, per evitare di essere rinchiusa in convento, fugge in abiti da
soldato, assumendo il nome di don Lope, per unirsi all’esercito del conte de Fuen-
tes in partenza per le Fiandre. Sotto le armi rincontra il fratello Fernando che non
vedeva da anni, il quale tuttavia non la riconosce. L’eroina prova tutto il suo valore
nell’assalto della città di Cambray, ottenendo la stima e l’ammirazione del Conte che
21
Cotarelo tratta estesamente dei problemi di attribuzione della commedia nel già citato saggio
sui fratelli Figueroa. Cfr. Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., pp. 183-185.
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le concede addirittura il prestigioso titolo di cavaliere dell’Ordine di Santiago. In
questo modo provoca l’invidia di Fernando, invidia che si trasforma in aspra com-
petizione quando si innamora del giovane soldato madama Blanca, la dama corteg-
giata proprio da Fernando. Nel corso della commedia Lope-Elvira riesce nell’ intento ∑
di dimostrare che una donna non è in nulla inferiore ad un uomo, né in coraggio
militare né, tanto meno, in virtù amorose. Alla fine, scoperto il travestimento, Elvira
cede al fratello l’abito di Santiago e la mano di Blanca. La protagonista rappresenta
una donna sicura del proprio valore, del proprio ingegno e delle proprie capacità
fisiche, capace di lanciarsi in corteggiamenti amorosi come un vero galán e di agire
sempre seguendo il suo alto concetto di onore.
La más heroica fineza y fortunas de Isabela (Parte 33, 1670), unica commedia in
cui i fratelli collaborano con un altro autore, Matos Fragoso, presenta un altro per-
sonaggio femminile che non si lascia sopraffare dagli eventi avversi, ma lotta risolu-
tamente per creare la propria fortuna. La commedia si apre con la disperazione della
protagonista Isabela che, dopo essere stata sedotta da Carlos con una vana promessa
di matrimonio, viene abbandonata dal suo amato, il quale si rifiuta di mantenere la
parola data. Per aver ucciso un uomo in duello, Carlos viene incarcerato; successiva-
mente, durante un tentativo di fuga per mare, la nave su cui viaggia viene assaltata
dai mori e, catturato, viene portato ad Algeri come prigioniero. Qui Celima, la
figlia del re e amata da Fatimán, si innamora del giovane al quale, paradossalmente,
il nobile moro chiede aiuto nella conquista della donna, promettendogli in cambio
la libertà. Nel frattempo Carlos appare pentito del suo comportamento e realmente
innamorato di Isabela, la quale, determinata nonostante tutto a riprendersi l’amato,
cerca con ogni mezzo di recuperare il denaro necessario per il riscatto di Carlos: pri-
ma riducendosi a chiedere l’elemosina, poi intraprendendo la «más heroica fineza»
e arrivando addirittura a vendersi come schiava a don Fernando, di lei segretamen-
te innamorato. Quando Fernando viene a conoscenza dell’ intera vicenda di Carlos
e Isabela, decide di prestare aiuto alla ragazza e insieme partono per Algeri dove,
grazie al suo intervento, Carlos viene strappato dalla vendetta di Fatimán, geloso
dell’amore di Celima per il prigioniero spagnolo, e imbarcato su una nave pronta
per riportarlo in patria.
Cotarelo dubita che i Figueroa abbiano effettivamente contribuito alla scrittura
dell’opera dato che esiste un manoscritto della commedia autografo di Matos Fra-
goso e firmato dallo stesso alla fine di ogni giornata22. In ogni caso la tradizione a
stampa è unanime nell’attribuire la commedia ai tre autori.
Di scarso interesse è Rendirse a la obligación (Parte 34, 1670), commedia cola-
borada di tipo palatino ambientata in Bretagna, e che vede intrecciarsi le vicende
di due coppie. Federico, duca di Calabria, innamoratosi della duchessa di Bretagna
Margarita, uccide il futuro sposo della dama il giorno stesso delle nozze, riuscendo a
fuggire senza essere riconosciuto. La donna giura vendetta e promette che concede-
22
Ibidem, pp. 188-189.
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rà la sua mano a chiunque vendicherà la morte del marito, catturando il misterioso
assassino. Travestito da giardiniere con il nome di Celio e lavorando nei giardini
del palazzo dove si è ritirata Margarita, Federico fa tutto quanto gli è possibile per
divertire e allietare il dolore della dama amata, ottenendo gradualmente non solo la
sua confidenza, ma anche il suo cuore, nonostante la donna non lo ammetta neppu-
re a se stessa. Federico salva la vita di Margarita in due occasioni: prima accorrendo
in suo aiuto durante un tentativo di aggressione; successivamente intervenendo in
suo favore con l’ausilio dell’armata inviata dal padre, e ottenendo così la vittoria
sulle truppe del duca di Borgogna, il quale muove guerra alla dama perché adirato
in seguito a un rifiuto amoroso. Perciò, quando Federico svela la sua reale identità,
confessando di aver ucciso suo marito, Margarita non può far altro che «rendirse a
la obligación» e concedere la mano non al vendicatore, bensì proprio all’assasino
del suo sposo. Parallelamente si svolge la vicenda di Fernando, un giovane spagnolo
fuggito da Madrid a causa di una disputa notturna in cui ha accidentalmente ucci-
so un uomo. Giunto in Bretagna, incontra casualmente Federico del quale diventa
amico e, successivamente, si introduce con lui nel palazzo fingendosi anch’egli un
giardiniere. Doña Juana, la sorella dell’uomo assassinato, è da tempo innamorata
di Fernando e, nel tentativo di salvare la sua reputazione, in pericolo a causa della
vicenda accaduta, segue l’amato fino in Bretagna. Indossando abiti maschili e as-
sumendo il nome di don Juan, la ragazza ottiene prima la fiducia di Fernando e in
seguito, scoperto il travestimento, anche il suo amore, riuscendo così a recuperare l’
onore con il matrimonio.
Due commedie presentano, seppur in maniera diversa, la figura del salvaje.
In Leoncio y Montano (Parte 14, 1661), scritta in collaborazione dai due fratelli,
il conte Ricardo, insidia la duchessa Margarita durante l’assenza del suo sposo, il
duca di Albania; vedendosi rifiutato, decide di vendicarsi insinuando nel marito
il sospetto che la donna gli sia stata infedele. Il duca ordina pertanto che la moglie
venga uccisa, ma Margarita si salva dalla condanna a morte grazie all’aiuto del fede-
le Laurencio. Rifugiatasi in un villaggio la duchessa dà alla luce due figli di cui uno
viene subito rapito da una leonessa. Trascorrono gli anni e i due fratelli vivono sepa-
rati senza conoscere l’esistenza l’uno dell’altro, e ignorando la loro origine: Leoncio,
allevato dalla leonessa lontano dalla civiltà, cresce come un selvaggio e terrorizza
gli abitanti dei monti che lo definiscono il «monstruo»; Montano vive nel villaggio
con la madre che ora si fa chiamare Silvia. I due fratelli si incontrano casualmente
e lottano per l’amore della villana Clavela, finché una sorta di istinto naturale li fa
desistere e si giurano amicizia. Intanto il duca giunge al villaggio con la sua corte
per cacciare la famosa fiera. La vista di Silvia-Margarita risveglia nell’uomo il ricor-
do dell’amore perduto, pur non riconoscendo in lei la sua sposa. A sua volta, anche
Ricardo è attratto da Silvia e cerca di sedurla nuovamente; tramite l’aiuto del villano
Gilote, riesce a introdursi nella sua stanza, dove però viene sorpreso da Leoncio e
Montano, e successivamente dal Duca che, accorsi in soccorso della donna, lo af-
frontano e colpiscono a morte. Prima di morire il conte confessa il suo tradimento;
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si scoprono, quindi, le identità e la commedia termina felicemente con l’agnizione
finale di Leoncio, a cui Montano cede l’amore di Clavela. La commedia richiama
alcune piezas precedenti appartenenti al filone tematico del salvaje. Sebbene non si
possa dire che i Figueroa copino servilmente, in quanto apportano cambiamenti e
sequenze di propria invenzione, sono certamente ravvisabili nell’opera echi di altri
testi teatrali, tra i quali, come evidenzia Fausta Antonucci, sono sicuramente da cita-
re El nacimiento de Ursón y Valentín e El hijo de los leones di Lope de Vega23.
Una mujer salvaje è invece la protagonista di La sirena de Tinacria (Parte 44, 1678),
commedia scritta dal solo Diego. Ismenia è la figlia legittima del duca di Tinacria (si
tratta in realtà della Trinacria, quindi Sicilia). Morti i genitori quando è ancora una
bambina, lo zio ne usurpa il trono e la condanna a morte. Salvata dal leale servo Arne-
sto, Ismenia cresce su un’isola deserta in totale libertà, priva di regole e costrizioni, di-
venendo una giovane donna selvaggia. Quando Federico approda sull’isola in seguito
a un naufragio, la ragazza, proprio come Segismundo nella Vida es sueño, si innamora
immediatamente del giovane, il primo uomo che abbia visto nella sua vita oltre ad Ar-
nesto, e Federico sembra provare gli stessi sentimenti. Sull’isola giunge anche Ludovi-
co, un giovane generale di Tinacria, il quale, rapito dalla bellezza di Ismenia, conduce
con la forza la ragazza e Federico sulla sua nave che li riporterà in Sicilia. Qui, morto
lo zio usurpatore, regna ora la figlia Matilde, la quale si innamora di Federico non
appena lo vede. Il giovane è quindi combattuto fra l’attrazione istintiva verso Ismenia
e il matrimonio di convenienza con la duchessa. Da questo momento la pieza assume
tutti i tratti tipici della commedia palatina, per cui la trama si costruisce intorno alle
vicende amorose dei personaggi principali, costantemente in balia di fraintendimenti
e reciproca gelosia. Il maggiore interesse dell’opera risiede, sicuramente, nella figura
di Ismenia. La ragazza trova difficile adattarsi al nuovo modo di vivere: è troppo orgo-
gliosa per obbedire alla duchessa Matilde come questa desidererebbe, non è abituata
ai vestiti raffinati e agli usi della corte, e rivela continuamente la sua natura selvaggia
con atteggiamenti violenti e ribelli poco consoni a una dama, ricordandoci ancora una
volta Segismundo. Ciò nonostante, gradualmente acquisisce modi gentili ed educati,
mostrando una certa nobiltà naturale. L’agnizione finale di Ismenia e la restituzione
del trono alla legittima erede rende possibile il matrimonio tra la giovane e Federico,
che riesce così a conciliare amore e interesse.
Completano il corpus tre commedie molto simili tra loro, in quanto vedono l’
amore della coppia protagonista osteggiato da un potente e da altri personaggi.
In Vencerse es mayor valor (Parte 11, 1659), commedia palatina scritta in colla-
borazione dai due fratelli, Carlos e Blanca, due nobili calabresi, devono sposarsi, ma
vengono catturati da Ludovico, generale del duca di Firenze in guerra con il duca
23
Si veda a tal proposito il lavoro di Fausta Antonucci, El salvaje en la Comedia del Siglo de Oro.
Historia de un tema de Lope a Calderón, Pamplona - Toulouse, Anejos de RILCE - L.E.S.O., 1995, in
particolare le pagine 299-303, in cui Antonucci analizza in dettaglio la commedia dei Figueroa con-
frontandola con gli altri testi.
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di Calabria. Condotti in città, il Duca si innamora di Blanca e così anche il giovane
generale, aggiungendosi all’intrigo amoroso Blanca, la sorella di Ludovico, da tempo
innamorata di Carlos. La trama si regge essenzialmente su una serie di fraintendi-
menti che si creano e aumentano ogni volta che il Duca, Ludovico o Laura ascoltano,
senza essere visti, quanto gli basta per convincersi di essere ricambiati da Carlos e
Blanca, mentre la coppia protagonista, in balia degli equivoci, arriva a credere ciò
che sembra provare che la loro gelosia sia ben fondata. Nel finale il Duca sorprende
Carlos mentre cerca di fuggire con Blanca, ma dato che il giovane gli aveva salvato
la vita poco prima, deve perdonarlo e rinunciare all’amore di Blanca, dimostrando
che «vencerse es el mayor valor».
La lealtad en las injurias (Parte 19, 1663), opera del solo Diego, è una comme-
dia di capa y espada di scarsa originalità ambientata a Firenze, dove don Diego e
Blanca devono tenere nascosti i propri sentimenti poiché il Duca è innamorato del-
la ragazza. Alla vicenda della coppia principale si intrecciano le sorti degli amanti
Celia e Carlos, fratello di Blanca che difende costantemente a spada tratta l’ onore
della dama. Ritroviamo tutti i recursos tipici del genere: dame tapadas, galanes em-
bozados, confusione dei personaggi, equivoci, gelosie generali e duelli conducono al
classico finale felice con la rassegnazione del Duca e il matrimonio delle due coppie.
Infine Muchos aciertos de un yerro (Parte 22, 1655), l’unica commedia scritta
individualmente da José, apporta ben poche novità rispetto alle piezas precedenti.
Ancora un’ambientazione palatina, questa volta siamo a Barcellona, e ancora una
coppia di giovani amanti Leonor e Ricardo, la cui serenità è ostacolata dal Conte
– intenzionato a sedurre la protagonista – e da un’altra coppia di personaggi, Diana
e Marcelo a loro volta innamorati della dama e del galán principali. La commedia
segue essenzialmente lo stesso schema di La lealtad en las injurias e Vencerse es
mayor valor. Secondo Cotarelo «es comedia de mucho enredo, pero no por eso más
original ni de acción más movida»24. Gli episodi sono in genere mal costruiti e la
trama in alcuni punti si complica a tal punto che si perde il filo della vicenda. È,
a mio avviso, la commedia meno riuscita e di più scarso interesse all’interno della
produzione dei Figueroa.
3. La collaborazione dei fratelli
Come si è visto, Diego e José Figueroa praticarono in maniera assidua la scrit-
tura de consuno. Di tutto il corpus, che consta di un totale di tredici commedie, ben
nove sono colaboradas dai due fratelli.
La collaborazione tra più drammaturghi nella stesura di piezas è un fenomeno
peculiare del teatro spagnolo del Siglo de Oro e ascrivibile soprattutto alla seconda
24
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 179.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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La produzione drammatica dei fratelli Figueroa y Córdoba
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metà del secolo XVII. Come segnala Roberta Alviti25, il soggetto delle commedie
scritte in collaborazione generalmente non è originale. Si tratta, nella maggior parte
dei casi di riscritture di opere teatrali precedenti, o di piezas che trattano di fatti o
personaggi storici e contemporanei conosciuti, di ispirazione biblica, o ancora – ed è
forse questo il caso più diffuso – di tema agiografico. In ogni caso, sottolinea ancora
Alviti, i drammaturghi partivano generalmente da una materia narrativa già cono-
sciuta che, in quanto tale, facilitava notevolmente il lavoro di progettazione della
commedia da produrre in collaborazione.
La comedia de capa y espada, invece, è un genere ben poco presente all’interno
del corpus delle colaboradas, proprio perché le caratteristiche intrinseche di questo
tipo di opera, basato su meccanismi ripetuti e tuttavia organizzati in maniera diffe-
rente di volta in volta, e quindi priva di uno schema prefissato da seguire, fanno della
commedia di enredo un genere difficilmente applicabile alla scrittura in collabora-
zione. Mi pare perciò interessante rilevare come il caso dei fratelli Figueroa si disco-
sti sensibilmente dalla norma generale, in quanto, come si è potuto vedere, il loro
corpus rientra nella sua totalità proprio in questo genere, o nelle sue varianti, mentre
non praticarono mai la tanto diffusa comedia de santos, o altri sottogeneri più ricor-
renti tra i drammaturghi collaboratori. Inoltre è da sottolineare che, seppur appli-
cando i classici clichés reiterati e ormai consolidati nel teatro aureo, riescono tuttavia
a creare opere certamente non innovative, ma ben strutturate e coerenti dal punto di
vista drammatico. Già Cotarelo evidenziava che i due fratelli «sólo elogios merecen
en cuanto a la regularidad y acierto en disponer la trama y conducirla lógicamente a
su fin; en lo oportuno de los episodios y lo rápido y feliz de los desenlaces»26.
Tale coesione strutturale induce, a mio avviso, a pensare che la composizione
in collaborazione delle commedie dovesse avvenire in maniera diacronica e che,
pertanto, i due drammaturghi, lavorando a stretto contatto, si avvicendassero nella
stesura dei frammenti di rispettiva competenza. Questa ipotesi sembra essere con-
fermata dallo studio che Roberta Alviti conduce sul manoscritto di Mentir y mudar-
se a un tiempo27, probabilmente autografo, sebbene manchino documenti olografi
degli autori che ne possano dare una prova certa. L’analisi del manoscritto basata
sull’alternarsi delle grafie testimonierebbe, secondo la studiosa, che l’opera venne
composta in successione: «la fisionomia del testo e una concatenazione così cali-
brata delle parti dimostra inequivocabilmente che la redazione di Mentir y mudarse
avvenne in fasi successive e che la collaborazione tra i due autori […] fu continua»28.
Alviti segnala, inoltre, che gli emendamenti presenti nel manoscritto sono scritti
con la grafia degli autori delle rispettive sezioni di testo, pertanto è da ipotizzare che
25
Alviti, Roberta, I manoscritti autografi delle commedie del Siglo de Oro scritte in collaborazione.
Catalogo e studio, intr. Fausta Antonucci, Firenze, Alinea Editrice, 2006, pp. 18-19.
26
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 190.
27
Roberta Alviti, op. cit., p. 104.
28
Ibidem.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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nessuno dei collaboratori rivedesse le parti scritte dagli altri drammaturghi. Questa
considerazione sarebbe un’ulteriore prova del metodo compositivo in successione:
«evidentemente il testo, scritto di volta in volta da un autore diverso, veniva progres-
sivamente discusso e riletto con i collaboratori; pertanto non vi era necessità, per chi
subentrava nella scrittura, di leggere le parti precedenti»29.
L’impossibilità di riconoscere le grafie dei due drammaturghi non permette, tut-
tavia, di stabilire quali parti della commedia siano da attribuire a Diego o a José e,
evidentemente, questa considerazione è da estendere a tutte le piezas in cui i fratelli
collaborarono. Pur con tali premesse, è forse possibile condurre alcune riflessioni
a questo proposito, prendendo in esame le commedie composte individualmente.
La hija del mesonero e Todo es enredos amor, scritte da Diego, sono sicuramente
tra le migliori piezas del corpus, come spesso è stato evidenziato dalla critica; en-
trambe presentano una struttura teatrale impeccabile e personaggi ben costruiti, e
sono prova dell’abilità drammatica del suo autore, capace di costruire con agilità l’
enredo sostenendolo fino al desenlace. Ancora di Diego è La Sirena de Tinacria, caso
peculiare all’interno della produzione dei Figueroa, in quanto presenta la figura del-
la dama cresciuta come un selvaggio e che deve gradualmente abituarsi al mondo
civile e alla vita di corte, nonché numerosi frammenti musicali che corrispondono
a varie canzoni intonate da Ismenia e dal coro; entrambi elementi, questi, che non
ritroviamo in nessun’altra commedia. Forse la meno interessante tra le piezas di
Diego è La lealtad de las injurias, ben poco originale anche se regolarmente pianifi-
cata e sviluppata. È, in ogni caso, certamente superiore rispetto a Muchos aciertos de
un yerro, l’unica commedia scritta dal solo José e che, come si è visto, ricorda molto
quella del fratello, oltre che la colaborada Vencerse es mayor valor. Dell’opera di José
dice Cotarelo: «el desarrollo del asunto está medianamente conducido; abundan los
monólogos y relaciones difusas; hay situaciones dramáticas, pero mal preparadas y
mal resueltas»30.
Da questo seppur superficiale confronto, possiamo dedurre che Diego fosse il
drammaturgo più talentuoso tra i due fratelli. Visti i risultati ottenuti nelle com-
medie composte singolarmente, forse non è azzardato ipotizzare che fosse proprio
lui a occuparsi dell’ideazione del soggetto e della progettazione generale dell’opera,
alternandosi poi al fratello minore nella vera e propria stesura delle singole scene.
In effetti mi pare significativo il fatto che José si sia cimentato una sola volta nella
scrittura individuale, con risultati mediocri e probabilmente traendo spunto dalla
commedia di Diego, o dalla collaborazione con lo stesso fratello.
29
Ibidem.
30
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 179.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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Conclusioni
Se dovessimo valutare nell’ insieme la produzione drammatica dei fratelli Fi-
gueroa y Córdoba dovremmo ammettere che uno dei difetti più evidenti è forse la
scarsa originalità. È questa, peraltro, una considerazione da estendere a gran parte
del teatro della seconda metà del XVII secolo, ormai entrato in un progressivo pro-
cesso di declino.
Come si è potuto vedere nella breve analisi del corpus fornita, Diego e José, sia
nella collaborazione che nella scrittura individuale, fecero un uso reiterato di tutti
quei recursos tipici del genere della commedia de enredo o di capa y espada: casas
con dos puertas, dame tapadas, mujeres vestidas de hombre, duelli, equivoci, confu-
sione di personaggi e identità finte si ripropongono costantemente nelle loro piezas,
elementi combinati di volta in volta per creare una formula che doveva assicurare il
successo ai nostri drammaturghi. Purtroppo, a parte sporadiche notizie desunte da
documenti dell’epoca, non possediamo molte informazioni sulle rappresentazioni
secentesche di commedie dei Figueroa che ci permettano di conoscere quanto i due
fratelli fossero apprezzati tra i contemporanei. Sappiamo, tuttavia, che nel corso del
Settecento alcune delle loro piezas, come Todo es enredos amor e Mentir y mudarse a
un tiempo venivano messe in scena con una certa frequenza31.
Ancora nel XIX secolo, Diego e José godevano di una buona considerazione
critica. Pobreza, amor y fortuna, venne scelta da Eugenio de Ochoa per entrare a
far parte del suo Tesoro del teatro español32. La stessa commedia, insieme a Mentir y
mudarse a un tiempo, appare in uno dei volumi della Biblioteca de Autores Españoles
diretta da Mesonero Romanos. Delle due piezas selezionate dice lo studioso: «cier-
tamente notables y merecen el honor de ocupar un puesto distinguido en el teatro
de segundo órden […]; en ambas brilla una ingeniosa intriga, unos caracteres de-
licados y un estilo fácil y ameno, esmaltado a veces con chistes muy oportunos»33.
Nello studio sui Figueroa più volte citato, Cotarelo valuta molto positivamente il
lavoro dei due autori, lodandone ripetutamente la tecnica drammatica, il linguaggio
e l’abilità poetica, e aggiungendo infine:
Tienen, además, una cualidad que pocos de los autores de su tiempo, si
se exceptúa Moreto, poseen en grado tan eminente, y es un buen humor
sano, una alegría discreta y fina que subyugan dulcemente el ánimo del
lector, obligándole a dejar con pena la compañía de tan simpáticos au-
tores al acabarse la obra34.
31
Cfr. René Andioc – Mireille Coulon, Cartelera teatral madrileña del siglo XVIII (1708-1808),
Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 1996.
32
Eugenio de Ochoa, Tesoro del teatro español, desde su origen hasta nuestros días, Parigi, Baudry,
1838, V, p. 194-224.
33
Ramón de Mesonero Romanos, Dramáticos posteriores a Lope de Vega, tomo I, Biblioteca de
Autores Españoles, vol. 47, Madrid, Rivadeneyra, 1858, p. XXX.
34
Emilio Cotarelo y Mori, op. cit., p. 191.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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La produzione drammatica dei fratelli Figueroa y Córdoba
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Alla luce di queste considerazioni, mi pare ingiustificato lo scarso interesse de-
dicato a questi due drammaturghi dalla critica moderna, che li ha condannati a un
quasi totale oblio. Il presente lavoro, che non pretende essere esaustivo, vuole essere
un primo avvicinamento alla produzione drammatica dei fratelli Figueroa, una pro-
duzione che si rivela, sebbene non nella sua totalità, degna di nota e meritevole, in
molti casi, di una maggiore attenzione. Segnaliamo, a tal proposito, che il direttore
della Compañía Nacional de Teatro Clásico Eduardo Vasco ha scelto, per la stagione
teatrale 2011-2012, proprio un testo di Diego Figueroa, Todo es enredos amor, per un
allestimento messo in scena dalla Joven Compañía, riscuotendo un ottimo successo
di critica e pubblico. Un passo significativo verso una auspicabile rivalutazione dei
nostri drammaturghi.
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Catalogo e studio, intr. Fausta Antonucci, Firenze, Alinea Editrice, 2006.
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costa de Domingo Palacio y Villegas, 1661, ff. 161-182.
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ingenios de España, Madrid, por Pablo de Val, a costa de Domingo Palacio y Villegas, 1663,
ff. 137-153.
—, La Sirena de Tinacria, in Parte cuarenta y cuatro de comedias nuevas, nunca impresas, escogi-
das de los mejores ingenios de España, Madrid, por Roque Rico de Miranda, a costa de Juan
Martín Merinero, 1678, pp. 369-412.
—, Todo es enredos amor, in Parte treinta y siete de comedias nuevas escritas por los mejores inge-
nios de España, Madrid, por Melchor Alegre, a costa de Domingo Palacio, 1671, pp. 246-285.
Figueroa y Córdoba, José de, Muchos aciertos de un yerro, in Parte veinte y dos de comedias nue-
vas, escogidas de los mejores ingenios de España, Madrid, por Andrés Gracía de la Iglesia, a
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Figueroa y Córdoba, Diego e José de, A cada paso un peligro, Madrid, Antonio Sanz, 1754.
—, La dama capitán, in Parte veinte y cuatro de comedias nuevas y escogidas de los mejores inge-
nios de España, Madrid, por Mateo Fernández de Espinosa Arteaga, a costa de Juan de San
Vicente, 1666, ff. 61-84.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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La produzione drammatica dei fratelli Figueroa y Córdoba
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—, Leoncio y Montano, in Pensil de Apolo, en doce comedias nuevas de los mejores ingenios de
España. Parte catorce, Madrid, por Domingo García y Morrás, a costa de Domingo Palacio
y Villegas, 1661, ff. 23-44.
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genios de España. Parte catorce, Madrid, por Domingo García y Morrás, a costa de Domingo
Palacio y Villegas, 1661, ff. 67-87.
—, Pobreza amor y fortuna, in De los mejores el mejor libro nuevo de comedias varias, nunca
impresas, compuestas por los mejores ingenios de España. Parte trece, Madrid, por Mateo
Fernández, a costa de Francisco Serrano de Figueroa, 1660, ff. 1-41.
—, Rendirse a la obligación, in Parte treinta y cuatro de comedias nuevas, escritas por los mejores
ingenios de España, Madrid, por José Fernández de Buendía, a costa de Manuel Meléndez,
1670, pp. 36-77.
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cena parte, Madrid, por Gregorio Rodríguez, a costa de Juan de San Vicente, 1659, ff. 115-137.
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 65-80. issn: 2240-5437.
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Mito e le visione musicali
di Antonio Buero Vallejo
G IADA F ERRANTE
Università degli Studi di Milano
[email protected]
Mito
Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Antonio Buero Vallejo dichiarava:
En enero 1967, un prestigioso músico español me propuso crear juntos
una ópera. Hablóme de cierta posibilidad de estrenarla en el extranjero
y me sugerió, porque así se lo habían sugerido a él fuera de España, que
buscase el asunto entre los más universales temas españoles: Celestina,
Don Quijote, Don Juan…1
Tale proposta giunse da Cristóbal Halffter, il quale si era impegnato con la
Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf per la rappresentazione di un’opera basata
sul Don Quijote cervantino.
La collaborazione tra Buero e Halffter iniziò nell’ottobre del 19672, ma dopo vari
interscambi di opinioni, il progetto si arenò a causa della mancanza di intesa fra i due:
1
Antonio Buero Vallejo, «Del Quijotismo al “mito” de los platillos volantes», Primer Acto, 100-101
(1968), p. 73.
2
A proposito del rapporto di Cristóbal Halffter con l’ opera di Buero, ricordo che il compositore
∑
scrisse le musiche per la versione cinematografica della Madrugada diretta da Antonio Román, pro-
iettato per la prima volta al cinema Lope de Vega di Madrid nel luglio 1957, e la musica per la versione
bueriana del shakespeariano Hamlet, rappresentato al Teatro Español il 15 dicembre del 1961.
Giada Ferrante
Mito e le visione musicali di Antonio Buero Vallejo
82
Hace 30 años intenté hacerlo con Antonio Buero Vallejo; fue imposible
porque no me dejó quitar ni una coma3.
Vent’anni dopo, nel 1987, Cristóbal Halffter darà alle scene il suo Don Quijote,
su incarico del Teatro Real di Madrid. In quest’occasione cercherà la collaborazione
del professore Andrés Amorós4.
Una volta naufragato il progetto con Halffter, Buero non abbandonerà la scrittu-
ra del libretto e lo pubblicherà autonomamente nel 1968, con il titolo di Mito (Libreto
para una ópera)5.
Per quanto concerne l’idea orginaria del citato libretto operistico, uno degli
effetti principali della mancata collaborazione tra drammaturgo e compositore è
l’impossibile rappresentazione dello stesso. Fin da una prima lettura, infatti, appare
chiaro che la versione di Mito pubblicata nel 1968 con il consenso del drammaturgo
risulta difficilmente rappresentabile nella sua interezza; non avendo mai raggiunto
la sua forma finale e definitiva di libretto operistico, Mito rimane sostanzialmente
ancorato al modello drammatico testuale non musicato.
Lo stesso drammaturgo è consapevole di questo limite:
Sé que al libreto le sobran palabras y que mucha de ellas no son
afortunadas. Si algún día llegase al escenario envuelto en música
procuraría suprimir parte de ese lastre. Algunas cosas quedarían mejor
sólo insinuadas, o expresadas simplemente por la atmósfera sonora y
gestual6.
L’affermazione dell’autore è senz’altro condivisibile; tuttavia, questo libretto è
ricco di suggestioni sonore e idee musicali che il drammaturgo dissemina in tutto il
testo, grazie alle quali è possibile ipotizzare una precisa concezione musicale bueria-
na soggiacente alla scrittura di Mito, come si spiegherà in seguito7.
3
Si rimanda alle dichiarazioni rilasciate da Cristóbal Halffter alla vigilia del debutto madrileno
della sua opera Don Quijote. Elsa Fernández-Santos, «Halffter pide que se vaya al estreno de su “Qui-
jote” “duchado de perjuicios”. El Real estrena mañana la ópera escenificada por Herbert Wernicke»,
El País, 22-II-2000.
4
La prima dell’opera in un atto, si terrà il 23 febbraio 2000 al Teatro Real, diretta dal figlio del
compositore, Pedro Halffter, con le suggestive scene di Herbert Wernicke, fotografate da José An-
tonio Robés e raccolte nel libro Don Quijote. Así se hace una ópera (2004). Nel 2003 si effettuerà una
registrazione dell’opera all’Auditorio Nacional de Música, poi pubblicata in due cd. Si rimanda a Ger-
mán Gan Quesada, Variaciones sobre el tema cervantino en la música de la familia Halffter, in Begoña
Lolo (ed.), Cervantes y el Quijote en la música. Estudios sobre la recepción de un mito, Ministerio de
Educación y Ciencia – Centro de Estudios Cervantinos, 2007, pp. 373-398.
5
Antonio Buero Vallejo, «Mito (Libro para una ópera)», Primer Acto, 100-101 (1968), pp. 75-106.
6
Ibidem.
7
Mito è l’unico libretto operistico pubblicato da Buero, ma non è la sola incursione del dram-
maturgo nella scrittura musicale. Si pensi, ad esempio, al Texto para el monodrama musical de Tilo
Medek intitolato Pinturas negras.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 81-101. issn: 2240-5437.
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Giada Ferrante
Mito e le visione musicali di Antonio Buero Vallejo
83
Mito: un «Libreto para una ópera»
Mito fu composto nel corso di alcuni mesi tra il 1966 e il luglio 1967. Come detto,
alla base del libretto incontriamo il Don Quijote di Cervantes, ma, sebbene Mito sia
l’opera bueriana che si addentra più apertamente nel romanzo cervantino, l’utilizzo
del mito chisciottesco non rappresenta l’aspetto più insolito di questo lavoro tea-
trale. L’influenza del Quijote, com’è noto, attraversa tutta la produzione teatrale del
drammaturgo spagnolo:
El [asunto] de Don Quijote me atraía espontaneamente. Bajo otras
formas, se había deslizado más de una vez en obras mías anteriores y
era, en cierto modo, un tema mío8.
Advierto otras influencias, que creo básicas, a lo largo de toda mi obra.
Una es nada menos que la del propio Cervantes. Concretamente, la de
El Quijote. La otra es la de Calderón. [...] Así que es de estas dos grandes
fuentes, y sobre todo de la de Cervantes, de donde creo que realmente
procedan las impregnaciones principales de mi teatro, desde En la
ardiente oscuridad hasta ese sueño en vida de La Fundación9.
Fra le altre opere dell’autore nelle quali è possibile rintracciare l’interesse per il
Quijote, «el gran libro del cual dependemos todos»10, ricordo almeno Las Palabras
en la arena, La tejedora de sueños, Casi un cuento de hadas, Un soñador para un pue-
blo, Las Meninas, El sueño de la razón, La detonación, El concierto de San Ovidio o
La llegada de los Dioses11.
La singolarità di Mito, dunque, non risiede nel trattamento del mito lettera-
rio e chisciottesco, quanto piuttosto nella scelta del drammaturgo di confrontarsi
con la scrittura di un genere estraneo alla sua produzione, qual è quello del libretto
operistico. Nonostante ciò, è utile sottolineare il fascino esercitato sull’autore dalla
possibilità di riferirsi ancora una volta al capolavoro cervantino per riproporlo sotto
una nuova veste12:
8
Ibidem.
9
Antonio Buero Vallejo, «Mi teatro», in AA. VV., Teatro español actual, Madrid, Cátedra, 1977,
pp. 76-77.
10
Antonio Buero Vallejo, Obra completa II (poesía, narrativa, ensayos y artículos) a cura di Luis
Iglesias Feijoo, Madrid, Espasa-Calpe, 1994, p. 963.
11
Carmen Caro Dugo, The importance of the Don Quixote myth in the works of Antonio Buero
Vallejo, Lewiston, Mellen University Press, 1995; Luis Iglesias Feijoo, op. cit., p. 97; Maria Luisa Tobar,
«Aspectos teatrales y metateatrales en “Mito” de Buero Vallejo», in AA. VV., Metalinguaggi e metatesti.
Lingua, letteratura e traduzione, Atti del XXIV Congresso dell’Associazione Ispanisti Italiani -AISPI,
(Padova, 23-26 maggio 2007), in corso di stampa; Kenneth Brown, «The significance of insanity in
four plays by Antonio Buero Vallejo», Revista de estudios hispánicos, VIII (1974), pp. 247-260.
12
Antonio Buero Vallejo, La doble historia del Doctor Valmy; Mito, prologo di Francisco García
Pavón, Madrid, Espasa-Calpe, 1976, pp. 21-22.
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Esta condición debió de decidirlo a tan desusada expresión en su
bibliografía teatral... Pues el tema más universal de la literatura española,
el de Don Quijote, de la casualidad que es una de las grandes debilidades
de Buero, glosado, recreado o sugerido en buena parte de sus obras
(Un soñador para un pueblo; el Ignacio de En la ardiente oscuridad; el
David del Concierto de San Ovidio; el Loco de El tragaluz, el personaje
femenino de Irene y el tesoro, etc...). De modo que escribió el libreto
que le pedían, volviendo, y ahora de manera mucho más completa, a su
amada fábula cervatina13.
L’ argomento del libretto propone un’ azione contemporanea e novecentesca,
incorniciata da un quadro musicale che, come si vedrà, subisce in parte l’influsso
dell’opera settecentesca e romantica. Fin dalle prime pagine siamo immersi nell’im-
pianto metateatrale del libretto:
La embocadura de la escena [...] suscita la sospecha de que no nos
encontramos en la sala de un teatro, sino en las vastas dependencias
posteriores de su escenario (p. 136)14.
Il sipario si apre sul retroscena di un palco teatrale, durante la rappresentazione
delle avventure di Don Quijote e di Sancho Panza: nello specifico, la prima scena
ritrae il momento delle morte dell’hidalgo.
L’azione teatrale pensata da Buero si svolge interamente dietro le quinte di que-
sto teatro fittizio. Il pubblico di Mito, di conseguenza, vedrà una parte degli attori
di spalle – quelli che stanno recitando in scena nell’opera tratta dal Quijote – e
un’altra parte frontalmente – quelli che attendono nel retro del palco il loro turno
per entrare in scena –; quindi lo spettatore percepirà tutto ciò che avviene durante la
rappresentazione delle avventure di Don Quijote solo tramite i suoni e i rumori che
si udranno al di là delle quinte in primo piano.
Una volta terminata l’azione teatrale, al di là delle scenografie si odono gli ap-
plausi del pubblico, fra i quali si trova il Presidente del Paese. Dopo le sortite di fine
spettacolo dei vari attori-cantanti, questi si riuniscono nel retroscena del teatro (ov-
vero, nell’azione pensata da Buero, “in scena”) e commentano la felice riuscita della
loro rappresentazione. Del gruppo di attori fa parte anche il baritono Eloy, che sarà
il personaggio principale del testo bueriano.
Attraverso i dialoghi degli attori lo spettatore viene poi informato che la com-
pagnia rimarrà in sala per tutta la notte, a causa del coprifuoco dovuto a un’esercita-
zione per la difesa atomica organizzata dal governo.
13
Antonio Buero Vallejo, La doble historia del Doctor Valmy; Mito, cit., p. 22.
14
L’edizione di riferimento da cui saranno tratte tutte le citazioni di questo breve studio è Antonio
Buero Vallejo, La doble historia del doctor Valmy; Mito, prologo di Francisco García Pavón, Madrid,
Espasa-Calpe, 1976.
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Comincia quindi la messinscena di ciò che succede alla compagnia e allo stesso
Eloy durante questa notte di permanenza forzata nel teatro: questa narrazione sarà
l’azione principale dell’opera, e occuperà la scena di Mito fino alla fine, quando sarà
trascorsa la notte e gli attori si appresteranno a riproporre nuovamente la loro ver-
sione delle avventure chisciottesche nella recita del giorno successivo.
Nell’idea teatrale di Buero, dunque, il pubblico assiste a una doppia rappresen-
tazione: quella in corso realmente, ossia la messinscena di Mito, e quella fittizia, re-
citata dagli attori dell’opera bueriana, che metateatralmente mettono in scena il Don
Quijote cervantino. Ci confrontiamo, quindi, con un duplice piano della finzione.
La scelta più interessante del drammaturgo è quella di non limitarsi a proporre
uno spettacolo nello spettacolo15, ma di mettere il pubblico di Mito nella condizione
di vedere la rappresentazione chisciottesca dal lato opposto rispetto agli spettatori
immaginari della stessa. Di conseguenza, il pubblico è messo nella condizione di
osservare ciò che avviene dietro le quinte di un allestimento teatrale una volta ter-
minato lo spettacolo, presenziando alle dinamiche comportamentali del gruppo di
attori-cantanti, in quella che dovrebbe essere la loro vita “reale” e non “scenica”. Ci
misuriamo, pertanto, con un triplice piano di lettura.
A un primo livello, infatti, lo spettatore di Mito si confronta con la percezione
chiara e cosciente della finzione rappresentata dalla messinscena chisciottesca; a un
secondo livello viene posto di fronte alle relazioni che i membri della compagnia
teatrale instaurano fra loro, una volta smessi i panni di attori – misurandosi con la
loro vita “reale”– , mentre è solo a un terzo livello che lo spettatore sarà in grado di
prendere coscienza di questi due piani e, grazie al processo di distanziamento, com-
prendere appieno il processo di ri-creazione teatrale che soggiace all’opera.
A questo proposito, si ricorderanno le molteplici riflessioni dell’autore, alle quali
si rimanda16, in cui si dichiara a favore del processo di distanziamento del pubblico,
a patto però che questo sia relativo; secondo la sua personale teoria teatrale, occorre
che lo spettatore sia razionalmente consapevole del fatto che ciò che si rappresenta è
fittizio, ma allo stesso tempo si senta coinvolto sul piano emotivo, così da provocare
una reazione emozionale che risvegli la sua coscienza critica rispetto a ciò che viene
rappresentato.
In accordo con quanto detto, l’utilizzo dell’espediente metateatrale in apertura
del libretto riesce a creare un effetto di distanziamento, per l’appunto, mentre le
dinamiche socio-comportamentali che si originano all’interno della compagnia di
attori nel corso della notte e, soprattutto, alcuni netti parallelismi con la situazione
sociale del tempo hanno l’effetto di colmare la distanza fra scena e pubblico, otte-
∑
nendo il coinvolgimento emotivo auspicato dal drammaturgo.
15
Per quanto concerne gli aspetti metateatrali del testo si rimanda a Maria Luisa Tobar, op. cit.
16
Antonio Buero Vallejo, Sobre teatro, in Obra Completa II, op. cit., p. 692; Antonio Buero Vallejo,
El público de los teatros, in Antonio Buero Vallejo, El futuro del teatro y otros ensayos, Valencia, Dipu-
tació de Valencia, 1999, pp. 7-14; A propósito de Brecht, in Antonio Buero Vallejo, El futuro del teatro
y otros ensayos, pp. 67-76.
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Scrive Iglesias Feijoo, riguardo a Mito:
Los espectadores reales se ven implicados en la acción y, en exacta
correspondencia, ésta se proyecta sobre sus vidas. Así, los problemas
de la obra les afectan directamente y se ven obligados a compartir sus
supuestos: el estado policíaco que se vislumbra pasa a ser el suyo y, a
partir de ahí, es posibilidad (y responsabilidad) de cada uno verificar si
esa analogía existe o no, es decir, si viven en condiciones semejantes a
los seres de ficción17.
Dal punto di vista della forma, Buero sceglie di inscrivere la propria narrazione
all’interno delle tre unità aristoteliche. L’azione si delinea attorno a un unico tema
∑
portante e si svolge tutta all’interno del teatro nell’arco di una sola giornata; più pre-
∑
cisamente dalla mezzanotte alle otto di sera del giorno dopo, ossia dalla fine della
rappresentazione dell’opera sul Quijote all’inizio della sua rappresentazione la sera
∑
successiva.
Nel testo, i riferimenti temporali sono svariati18. Il primo si incontra poco oltre
la fine dell’opera sul Quijote, quando gli attori sono già tutti riuniti dietro le quinte
∑
del teatro. Buero appunta: «Suenan las doce en una torre lejana» (p. 151).
L’azione prosegue, la compagnia si trasferisce in un’altra sala del teatro per ce-
∑ ∑
nare e sulla scena restano Eloy e Simón.
Simón si allontana ed Eloy, rimasto solo, riceve la visita di sei visitantes, i quali
gli rivelano che Marta, una ragazza che lavora nel guardaroba del teatro, in realtà
non è umana, bensì una di loro. Poi se ne vanno, seguiti dalla ragazza, che nel frat-
tempo era entrata in scena.
Eloy è nuovamente solo quando entra in scena Ismael, suo amico di vecchia
data. L’uomo chiede a Eloy protezione in quanto, essendo uno dei capi dello sciopero
in corso per le strade della città, è ricercato e inseguito dalla polizia. Eloy lo nascon-
de nel suo camerino e a questo punto «Suenan las seis en la torre lejana» (p. 173).
La successiva annotazione temporale si incontra nella seconda parte del testo,
al termine dello scherzo ideato da Rodolfo e Pedro, i quali inscenano un finto rapi-
mento di Eloy e Simón da parte degli extraterrestri con la complicità di tutta la com-
pagnia teatrale. Alla fine della scena Eloy scopre l’inganno e uno scambio di battute
fra il Duque e la Duquesa ci informa che sono «las nueve de la mañana» (p. 217).
Infine, tutti gli attori escono a turno dalla scena, tranne Eloy, Simón e Marta;
poco dopo questi ultimi si allontanano a loro volta, lasciando Eloy solo.
A questo punto del testo si assiste a un forte salto temporale: Eloy cade in un
lungo sonno allucinatorio, scandito da una grande immagine di un orologio sul
telone di fondo le cui lancette si muovono a ritmo accelerato, fino a quando, giun-
te alle sette e mezzo di sera, si bloccano. La narrazione riprende precisamente da
17
Luis Iglesias Feijoo, op. cit., p. 378.
18
Ibidem.
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quest’ora, con l’annuncio della fine del coprifuoco e l’imminente inizio dello spetta-
∑ ∑
colo teatrale a soggetto chisciottesco:
En el telón del fondo se proyecta la esfera de un gran reloj con las
manecillas en acelerado movimiento. Las diez, las once, las doce… Las
agujas siguen marcando la sucesión de las horas vacías. Espaciadas, se
oyen las VOCES DE LOS VISITANTES, que despiertan ecos en la gran
bóveda del sueño, ELOY no despierta (p. 224).
El reloj marcó horas silenciosas. Al llegar a las siete y media, las
manecillas se detienen y se oye una campanada lejana. La imagen de la
esfera se esfuma (p. 225).
In queste annotazioni didascaliche Buero inserisce l’ultimo riferimento tempo-
rale del testo, che si concluderà poco oltre.
Per quanto riguarda l’azione, questa si svolge interamente nel retro del teatro
immaginato dall’autore senza soluzione di continuità. I salti temporali inseriti nella
∑
messinscena, infatti, sostanzialmente non interrompono lo svolgimento della storia,
in quanto sono resi possibili dall’espediente delle allucinazioni e del sogno di Eloy,
che dilatano il tempo dell’azione teatrale senza però frammentarlo.
Le indicazioni musicali di Buero
In apertura di Mito, Buero specifica che l’azione si svolge «en el Teatro de la
∑
Ópera de una ciudad de nuestro tiempo».
La prima scena è introdotta da una lunga e dettagliata didascalia descrittiva;
come spiegato, nella finzione metateatrale suggerita dal testo, oltre le quinte alcuni
attori stanno rappresentando gli ultimi momenti di vita dell’hidalgo; di questi attori-
cantanti, «de ambos sexos», udiamo solo le voci, quattro, che si alternano con frasi
secche e brevi:
VOZ 1°. ¡El loco va a morir!
VOZ 2°. ¡Se muere el loco!
VOZ 3°. ¡Triste es nuestro vivir!
VOZ 4°. !Somos bien poco! (p. 136)
A queste quattro voci se ne aggiungerà immediatamente una quinta. La dida-
scalia introduttiva propone le prime indicazioni esplicite del drammaturgo, che af-
fida la quinta linea del canto a una voce femminile e decide di farle intonare «una
vieja copla castellana» (p. 136). La scelta di utilizzare un tema musicale tradizionale
spagnolo risulta chiaramente funzionale all’introduzione di un tema letterario tradi-
zionale, qual è quello chisciottesco. Inoltre, attraverso queste cinque voci si fornisco-
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no allo spettatore essenziali e importanti riferimenti che introducono l’argomento ∑
chisciottesco della rappresentazione in atto, ancora celata dalle quinte – «¡El loco va
a morir!»; «Deja tu espada y tu pena»; «¡Cuerdo se halla al morir!»; «¡Ya no está cie-
go!» (p. 136) –. In seguito, «Izado el telar o sumido en los laterales» (p. 136), lo spet-
tatore può finalmente scorgere ciò che sta avvenendo sulla scena, ossia la rappre-
sentazione della morte di Don Quijote, il quale sarà poi nominato esplicitamente:
«¡Don Quijote agoniza!» (p. 137). Buero non trascura di esplicitare anche l’intensità
dell’effetto sonoro che deve risultare dal canto delle cinque voci: «desde una remota
∑
lejanía hasta muy cerca» (p. 136).
L’azione continua, con scambi di battute perlopiù in rima baciata. La quinta
∑
voce intona un’altra strofa della sua canzone, questa volta in rima ABBA. Al termine
del dialogo fra Don Quijote e Sancho, Don Quijote muore e la quinta voce riprende
e termina il suo pezzo musicale, seguendo lo stesso schema metrico.
Una volta terminata la messinscena, si conclude la parte più esplicitamente me-
tateatrale del libretto e Buero sottolinea questo passaggio suggerendo un cambio
musicale: «la música inicia un nuevo motivo» (p. 141).
Proseguendo nella lettura del testo incontriamo una serie di puntualizzazioni
che il drammaturgo inserisce nelle varie didascalie, indice di vere e proprie scelte
musicali finalizzate a sottolineare di volta in volta un cambio scenico o uno scarto
tematico.
In alcuni casi, come visto, l’autore si limita a inserire una semplice variazione
musicale: «la música inicia un nuevo motivo» (p. 141; p. 151); «Nuevo tema musical»
(p. 152); «La música cambia de tema» (p. 153); «La música cambia su tema» (p. 168);
«un nuevo tema musical» (p. 204); «repentino contraste musical» (p. 218); «la lejana
orquesta ataca un nuevo motivo» (p. 243).
Altre volte, Buero si spinge oltre e dà delle direttive precise riguardo al tono e
alle modalità esecutive del tema musicale; ad esempio, quando alla fine della prima
scena cala il sipario, Buero informa che quest’azione dovrà essere accompagnata da
∑
una vivace musica orchestrale – «la orquesta del fondo lanza su brillante final» (p.
141) –, mentre in chiusura della scena, i ringraziamenti degli attori al pubblico, fra il
quale si trova anche il Presidente, dovranno essere completati da «un breve himno
nacional que es muy, muy alegre» (p. 141).
Poco oltre ci imbattiamo in un dialogo fra Eloy e Rodolfo, baritono che ha rico-
perto il ruolo principale di Don Quijote nella rappresentazione appena terminata.
Fra i personaggi di Eloy e Rodolfo esiste un profondo antagonismo, che si pa-
lesa proprio in questo primo confronto dialogico. La prima parte del dialogo vede,
intercalato al canto dei due baritoni, l’intervento corale di più voci («MUCHOS»),
che interpongono al dialogo principale frasi molto brevi di commento, a sostegno di
quanto dice Rodolfo. Queste si interrompono quando Eloy, così come da didascalia,
«se levanta» (p. 147): l’atto di alzarsi di Eloy introduce un cambio di tono e comincia
∑
il confronto vero e proprio fra i due personaggi. Questa parte del dialogo inizia con
frasi abbastanza lunghe e morbide, per poi farsi più stretto, ma non serrato, nella
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parte centrale, nel momento in cui traspare più esplicitamente la rivalità fra i due
cantanti:
ELOY Dando el «la» natural.
RODOLFO ¿Qué es lo que has dicho?
ELOY Dando el «la» natural. ¿Sabes qué es eso?
RODOLFO (Rojo.)
¡Naturalmente!
ELOY Por si lo has olvidado,
déjeme recordarlo. Es esta nota.
(Lanza un limpido «la» natural.)
RODOLFO ¡Eres un solemnísimo payaso! (p. 148)
In seguito, si introduce un nuovo cambio musicale, inserito immediatamente
dopo aver presentato la figura dell’Electricista: «La música inicia un nuevo motivo»
(p. 151). A questo personaggio, che si dichiara fermo sostenitore della ragione e della
scienza, l’autore dedica quella che appare in tutto e per tutto una vera e propria aria
∑
di sortita, che ha la funzione di presentare il personaggio al pubblico, sia vocalmen-
te che psicologicamente, e di permettere allo spettatore di capire il ruolo che avrà
all’interno dell’opera.
Successivamente, con l’irrompere in scena dell’impresario teatrale, il Señor Pal-
ma, si ha un «Nuevo tema musical» (p. 152). Segue un breve dialogo fra questi e
l’Electricista, e poi nuove indicazioni musicali:
En medio de un silencio que la música subraya sordamente, los seis
TRAMOYISTAS desfilan hacia el escotillón. Música de explosiones. Los
TRAMOYISTAS se detienen. Los cantantes los miran entre sí y miran a
ELOY. Crepitar disparos. La música cambia de tema. (p. 153)
Le scene successive si caratterizzano per una grande mobilità degli attori, che
escono di scena l’uno dopo l’altro. Questo movimento è ancora una volta scandito
∑
dal variare della musica; prima che il Señor Palma dica a tutti di ritrovarsi in una
saletta «Cambia el ritmo musical» (p.153), e dopo che i cantanti si sono allontanati
dalla scena «La música se amansa y ahora es casi un susurro» (p. 154).
Quando Eloy resta solo e riceve la visita, nella sua allucinazione, dei sei visitan-
tes: «La música se vuelve sigilosa y extraña; entre sus acordes se reiteran, con otros
metales, las frescas melodías que la bacía emitió momentos antes.» (p. 162). Nel
dialogo che segue, fra i visitantes ed Eloy, Vallejo considera perlopiù i sei personaggi
come entità unica e li fa cantare all’unisono, coralmente.
Marta ed Eloy rimangono soli; Buero inserisce quindi un breve ma intenso
duetto amoroso fra i due personaggi, che culmina con un bacio appassionato sotto-
lineato da un «gran estadillo orquestal»:
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ELOY Marta, perdona mis cinquenta años.
MARTA Eloy, ya nunca más te sientas solo.
ELOY Mírame: como un niño estoy temblando
y temo para ti ser solo un viejo.
MARTA Mírame, Eloy. También mis manos
tiemblan
y anhelo para ti ser una niña.
(Se miran. ELOY la besa de pronto apasionadamente, sobre
un gran estadillo orquestal.)
LOS DOS ¡Que la luz del futuro nos devore! (p. 167)
A termine del duetto «La música se amansa» (p. 167) e Marta se ne va. Eloy è
nuovamente solo sul palco, quando una voce lo chiama dal fondo della sala. È la
voce di un nuovo personaggio, Ismael: l’ingresso in scena di questo personaggio se-
gna un passaggio scenico e tematico che Buero evidenzia con un’ulteriore variazione
del tema musicale, segnalata in didascalia: «La música cambia su tema» (p. 168).
Segue un lunghissimo dialogo fra i due, che si dispiega per circa sei pagine.
Anche in questo caso, l’autore opta per un’alternanza tra frasi brevi e movimenti più
∑ ∑
ampi, ma senza arrivare a uno sviluppo che possa far pensare a un vero e proprio
brano musicale.
Anche nella seconda parte, quando la polizia irrompe nel teatro e interrompe i
preparativi per la recita imminente, il drammaturgo ipotizza un cambio ritmico in
accordo con la concitazione della scena: «el ritmo musical se torna rápido, sincopa-
do y nervioso» (p. 228). Per il drammaturgo, l’accompagnamento musicale è sempre
∑
funzionale all’azione, e ciò appare evidente nel dialogo tra Apolinar e Rodolfo. I due
∑
stanno ordendo uno scherzo alle spalle di Eloy. Questo dialogo, in tono burlone,
ricorda molto gli scambi di battute fra i personaggi delle opere buffe settecentesche.
L’autore vi introduce sia il tema dell’attrazione fisica per una giovane ragazza (Mar-
∑ ∑
ta, guardarobiera del teatro, richiama la figura della serva o della contadinella in
Mozart19, spesso oggetto di attenzioni sessuali da parte di personaggi più anziani)20,
sia quello dell’ideazione e organizzazione di uno scherzo da parte dei due personag-
gi in scena a scapito di un terzo, generalmente credulone (Eloy crede fermamente
all’esistenza dei visitantes, ed è proprio questa sua fede nella loro reale esistenza il
∑
presupposto che dà origine all’idea di Rodolfo e Apolinar di macchinare uno scher-
zo spietato alle sue spalle). Ad evidenziare l’atmosfera giocosa del momento, Bue-
∑
ro suggerisce che la musica si faccia «repentinamente libera y juguetona» (p. 178).
19
Si pensi al personaggio di Zerlina, o a quello della cameriera di Elvira, nel Don Giovanni, o alla
serva Susanna, che nelle Nozze di Figaro riceve le profferte amorose del Conte d’Almaviva.
20
Marta è una dipendente del teatro, e non una cantante. Non fa parte della cerchia “privilegiata”
degli artisti.
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Mito e le visione musicali di Antonio Buero Vallejo
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Anche la parte che segue, con l’ingresso di Vicky e la schermaglia amorosa fra
Apolinar e Rodolfo per la conquista della ragazza, ha un chiaro tono farsesco.
Con la successiva entrata in scena di Teresina, fra questa e Rodolfo si apre il
secondo duetto amoroso dell’opera. Il tema è quello della gelosia e del tradimento e
l’accompagnamento musicale si fa «tonal y romántico» (p. 180), per poi interrom-
∑
persi al suono delle esplosioni esterne:
Explosiones. La música se interrumpe al tiempo. La expresión de ambos
cambia: se torna reflexiva, desencantada. Se miran perplejos, extraños.
Pero la música tonal se reanuda y sus caras vuelven a sonreír (p. 180).
Il duetto può quindi proseguire e concludersi con i due personaggi che cantano
all’unisono, come nella migliore tradizione operistica romantica:
LOS DOS La noche nos reserva su dulzor
He (has) de librar tus (mis) labios de princesa
y comulgar tu (mi) cuerpo con fervor.
(Tenía ya RODOLFO la mano en el pestillo durante las últimas
notas. La música tonal se extingue....) (p. 180).
Questo tipo di atmosfera e richiamo all’opera buffa settecentesca si percepisce
ancora, con l’avvicinarsi di Teresina e Rodolfo al camerino di Simón; mentre i due si
∑
accingono a entrare, la porta si apre e ne escono Pedro e Micky, che vi si erano prece-
dentemente appartati. Segue una serie di scambi di battute fra i quattro personaggi,
accompagnati da risatine e doppi sensi21.
Proseguendo, si odono nuovamente delle esplosioni e con l’apparire dell’Elec- ∑
tricista si ritorna al presente più oscuro del coprifuoco; viene quindi reintrodotto il
tema dei visitantes, attraverso Simón ed Eloy, ora nuovamente in scena.
Le pagine successive vedono sul palco quasi tutti i cantanti, e si concludono con
l’annuncio di Eloy alla compagnia dell’imminente arrivo degli extraterresti.
∑
A questo punto del libretto Buero ricorre ad artifici acustici per ricreare voci
multiple e metalliche, che si inseriscono nel silenzio dell’orchestra: «La orquesta ∑
calla de repente. Se oyen cantos tras el telón del fondo, emitidos por DOS VOCES de
raro timbre metálico» (p. 195).
Si crea così un effetto di grande confusione sonora, rinforzata dal fuggire e dalle
grida degli attori sul palco che scappano spaventati all’apparire di due strane figure.
∑
La musica «lanza sobrecogedores acordes, el telón empieza a levantarse» e «los gri-
tos de la Compañía estallan sobre la música» (p. 196).
Così, mentre ancora le due spaventose figure avanzano sulla scena, cala il sipa-
rio e termina la prima parte dell’opera. ∑
21
Il richiamo non è solamente all’opera buffa, ma, come si sarà notato, anche alla zarzuela.
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La seconda parte di Mito inizia esattamente dove è terminata la prima, con le
due figure misteriose che avanzano sul palcoscenico. Prima che si apra il sipario, si
percepiscono le stesse grida di spavento che si erano udite in chiusura dell’ultima
scena del primo tempo; così facendo, lo spettatore si ritrova immerso nella scena
di chiusura precedente, ancora prima dell’inizio vero e proprio dell’azione teatrale,
senza avvertire la cesura tra i due tempi:
Música. Gritos de espanto, antes de que descorran las cortinas, que
culminan en un estridente acorde coral. Las cortinas se descorren. El
télon del fondo está terminando de alzarse. Arrodillados ELOY y SIMÓN
aguardan la llegada de los nuevos visitantes. Las dos FIGURAS terminan
de subir al escenario, empunando desconocidas armas de mano. Una leve
vacilación se desliga en sus metálicas voces al articular las palabras (p. 197).
Assistiamo a uno scambio di battute tra Eloy e le due figure, che si dichiarano
provenienti da Giove e decise a sconfiggere tanto gli umani quanto i visitantes di
Marte, che avevano precedentemente fatto visita a Eloy. A questo dialogo si affianca-
no voci corali di donne e uomini, in gruppi distinti (MUJERES, HOMBRES). Infine, le
due figure decidono di bendare Simón ed Eloy e di trasferirli sulla loro immaginaria
navicella spaziale.
Nella scena che segue, in cui i due vengono accompagnati sull’improbabile na-
vicella, è possibile scorgere nel personaggio di Simón echi sia della figura del servo
dell’opera settecentesca, sia di quella del Sancho cervantino22.
Si ricorderà che in queste opere musicali il servo, così come Sancho nel Quijo-
te, quando è coinvolto suo malgrado nelle disavventure del padrone, non dimostra
affatto il suo stesso coraggio di fronte al pericolo, ma, al contrario, si mostra ben
disposto a darsela a gambe di sottecchi, ad abbandonare o tradire il proprio padrone
pur di salvare la pelle, nonché a dichiararsi del tutto estraneo ai fatti incriminanti.
Questo è proprio l’atteggiamento di Simón:
FIGURA 1° Probarás tu valentía viniendote con nosotros.
ELOY ¿Adónde?
FIGURA 1° Ya lo sabrás.
ELOY Pues vamos.
FIGURA 2° (A SIMÓN.) También tú vienes.
SIMÓN ¡Yo, de ninguna manera!
(Escapa, pero sus mismos compañeros lo sujetan hasta que la
FIGURA 2° lo aferra.)
FIGURA 2° ¿Abandonas a este otro?
SIMÓN En nada puedo ayudarle
y me encuentro muy cansado.
22
Si pensi nuovamente a Mozart, per esempio, e al personaggio di Leporello nel Don Giovanni.
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FIGURA 1° ¿No eres su amigo?
SIMÓN No mucho (p. 199-200).
E quando la situazione precipita e si fa pericolosa per la sua incolumità, Simón è
disposto a passare senza batter ciglio dalla parte del più forte, assecondandolo:
(Los vendan, SIMÓN cae de rodillas.)
SIMÓN ¡Piedad!
FIGURA 2° Palabra cobarde
que detestamos. ¡Levanta!
(SIMÓN lo hace en el acto) (p. 200).
Alla fine di questo immaginario viaggio, i quattro personaggi risalgono sul
palcoscenico e l’autore fornisce nuove indicazioni musicali, suggerendo «un nuevo
tema musical» (p. 204).
La scena prosegue per alcune pagine, e poco oltre si incontra un brano di Eloy,
più lungo e corposo dei precedenti. Nelle didascalie si legge che Eloy dovrà cantarlo
con voce «pura y conmovida» (p. 209).
Al termine dello scherzo, una volta scoperto l’inganno, le due figure si tolgono la
maschera e si scopre che sotto le sembianze aliene si celano in realtà gli umanissimi
Pedro e Rodolfo. A questo punto la tensione cresce e la grande amarezza di Eloy
viene sottolineata dalla musica in sottofondo, che diventa «muy leve y prosaica, casi
inesistente» (p. 212).
Poi una lunga didascalia introduce un nuovo pezzo di Eloy, che esprime tutto il
suo disinganno:
ELOY comienza su imprecación. Una imprecación nada enfática, de
tono sencillo y triste, hijo de su duro desengaño. Sorda y funeral, la
música evita asimismo el énfasis y, en su monotona simplicidad, resulta
aún más sobrecogedora... (p. 213).
Il brano è composto interamente da endecasillabi non rimati. Eloy rimane in
scena per un lasso di tempo abbastanza lungo e canta con frasi molto brevi, inter-
rotto solo da Rodolfo, per ben due volte. Al termine di questo pezzo musicale, che
rappresenta una parentesi di denuncia e disillusione nel contesto della gioia spensie-
rata e superficiale che ha caratterizzato lo scherzo, l’attenzione si concentra sul resto
∑
del gruppo, che, indifferente alle pene e alle parole di Eloy, comincia piano piano ad
abbandonare la scena, annoiato.
L’interruzione del canto di Eloy e della carica emotiva di cui è portatore porta a
un «repentino contraste musical» (p. 218).
Eloy riprende il suo brano, tra la confusione generale degli attori che se ne van-
no di scena, per essere nuovamente interrotto da una serie di nuovi e improvvisi
contrasti musicali, fino a rimanere solo in scena con Marta e Simón.
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Marta se ne va, e viene introdotta una canzone per Simón composta tutta da
ottonari, precisamente da dodici ottonari non rimati.
Il libretto prosegue con il lungo sonno di Eloy e l’inizio dei frenetici preparativi
per la recita dell’opera sul Quijote, che sta per essere nuovamente rappresentata. Gli
∑
andirivieni dei tecnici, di Marta e delle donne delle pulizie vengono bruscamente in-
terrotti dall’arrivo della polizia che irrompe nel teatro gridando. Buero accompagna
∑
e sottolinea questa irruzione con un ritmo musicale «rápido, sincopado y nervioso»
(p. 228).
Nelle successive pagine i suggerimenti musicali da parte del drammaturgo si
fanno più radi. Il libretto si sviluppa in frasi brevi e concitate, e si inserisce l’in-
seguimento della polizia di un presunto scioperante molto pericoloso, Ismael. Nel
subbuglio generale, Buero suggerisce più volte l’inserimento di «gritos musicales»,
«musicales exclamaciones» e «risas musicales» (pp. 232-236), fino ad arrivare a una
nuova indicazione musicale:
Un disparo desde el escenario efectuado casi al mismo tiempo alcanza
al perseguido, que se tambalea. Se levantan en la sala musicales gritos
femeninos. La música describe un efecto descendente y las miradas de
los congregados en el escenario siguen la imaginaria caída de un cuerpo
desde el palco al centro del proscenio, donde, con un enome golpe que
el timbal subraya, aparece súbitamente el perseguido... (p. 236).
Tutti accorrono verso il corpo del fuggiasco, agonizzante, e scoprono che l’uomo
a terra è Eloy con indosso i vestiti di Ismael. Nel frattempo Ismael, che Eloy aveva
nascosto e protetto nel suo camerino, esce allo scoperto e confessa di essere lui il
vero ricercato; svelato l’equivoco, la musica «se torna suave y triste» (p. 237). Il regi-
∑
sta entra in scena e tutti i cantanti escono, tranne Rodolfo.
Simón e Marta rimangono a fianco di Eloy morente. È ormai sera e la replica
dell’opera sul Quijote è imminente: dal fondo della scena si ode infatti «el comienzo
∑
de una obertura española donde se entreverán sones de guitarras», che ne annuncia
l’inizio (p. 240). I tecnici portano via il corpo esanime di Eloy, per adagiarlo nel suo
camerino, accompagnati dalla musica dell’ouverture chisciottesca – «Diríase que la
obertura del fondo subraya, melancónica, esta muda marcha fúnebre» (p. 240) –,
mentre la bacinella da barbiere, caduta a terra, sprigiona le stesse note che ne scatu-
rivano ogni qualvolta Eloy se la poneva in testa:
La luz que ilumina la bacía caída parece brillar más; repentinamente,
comienza a sonar la extraña sucesión de notas que Eloy oía en ella y que
pronto gana intensidad (p. 241).
I vari personaggi cominciano a disporsi dietro le quinte, passando incuranti di
fianco alla bacinella, che continua a suonare; Marta la raccoglie e la porta nel came-
rino dove giace Eloy, mentre «la obertura concluye y, al tiempo que la lejana orque-
sta ataca un nuevo motivo, el telón del fondo comienza a subir» (p. 243).
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Il sipario si alza, ma la bacinella non cessa di suonare: «las notas de la bacía, tro-
cadas ya en invasora catarata, siguen mezclándose curiosamente con las mesuradas
tonalidades del fondo. El telón sube del todo» (p. 243).
La rappresentazione dell’opera chisciottesca è cominciata; in sottofondo si ri-
∑
conoscono le stesse note della melodia cantata dalla voce femminile in apertura del
libretto; melodia che concludeva, nella finzione metateatrale, l’opera sul Quijote e ∑
alla quale ora si mescolano quelle della bacinella da barbiere:
Entre tanto se oye la segunda estrofa de la copla castellana, que alguna
moza de la venta canta fuera, y su melodía también se entrama raramente
con las notas incontables que parecen salir del camerino cerrado.
VOZ 5° El caballero llegaba
a la fontecita fría
para aliviar su agonía
y el agua no le saciaba... (p. 243)
Si aprono le quinte e Rodolfo si accinge a cantare, mentre «la música se va amor-
tiguando y es ya un hilillo sonoro cuando terminan de cerrarse las cortinas» (p. 244).
È questo l’ultimo accenno musicale di Buero, che chiude l’ultima, lunghissima
didascalia e segna la fine del libretto.
Le proposte musicali di Buero
Come si è cercato di evidenziare nel precedente paragrafo, gli interventi musica-
li di Buero, inseriti prevalentemente nelle didascalie, riguardano vari ambiti.
Buona parte di queste indicazioni dà istruzioni riguardo la modalità di esecu-
zione della musica, in simbiosi con l’azione scenica o con l’emotività dei personag-
∑ ∑
gi: «la música se amansa y ahora es casi un susurro» (p. 154); «la música se vuelve
sigilosa y extraña; gran estadillo orquestal» (p. 167); «la música se amansa» (p. 167);
Rodolfo dovrà cantare «en sigilosas melodias» (p. 175), la voce di Eloy dovrà essere
«pura y conmovida» (p. 209), mentre la scoperta di Eloy del crudele scherzo ordito
alle sue spalle avrà come sottofondo una musica «muy leve y prosaica, casi inesisten-
te» (p. 212); Eloy, sbigottito e umiliato, affida la sua profonda amarezza a un canto
accompagnato da un brano che si delinea chiaramente nella mente del drammatur-
go: «sorda y funeral, la música evita asimismo el énfasi y, en su monotona simplici-
dad, resulta aún más sobrecogedora» (p. 213).
Ancora, nell’ultima parte del testo «la música describe un efecto descendente»
(p. 232) ma dopo l’uccisione di Eloy e la confessione di Ismael «se torna suave y tri-
ste» (p. 237), per poi affievolirsi lentamente in chiusura del libretto: «la música se va
amortiguando y es ya un hilillo sonoro cuando terminan de cerrarse las cortinas»
(p. 244).
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Da una prima analisi delle didascalie, dunque, appare chiaro che Buero intervie-
ne profondamente su quello che dovrà essere l’aspetto musicale del libretto, conce-
∑
pendolo già in stretto accordo con le note.
Tuttavia, l’idea musicale dell’autore non si esprime solamente attraverso le citate
didascalie, ma è parte integrante della struttura stessa del testo, sottesa a una serie di
relazioni meno evidenti.
Una di queste è senz’altro il legame tra musica e rumore, che affiora più volte
nel corso del testo; ci imbattiamo in una «música de explosiones» (p. 153) o nella
rappresentazione sonora della città deserta e violenta: «La música estalla en nuevos
tiroteos y explosiones lejanas».
Si assiste, in questi casi, a un uso dell’elemento musicale come “riproduttore
∑
di rumore”: il rumore non si genera con comuni oggetti o artifici scenici, ma viene
interpretato musicalmente e ricreato tramite il suono degli strumenti musicali. Nel
testo, ciò avviene nel caso del rumore di un’esplosione, di uno scoppio, di un tonfo,
∑
ecc.
Buero evita di utilizzare il rumore fine a sé stesso, ma preferisce riprodurlo
con l’ausilio della musica. Quando ciò risulta irrealizzabile, tenta costantemente di
∑
renderlo il più possibile affine a un suono; da questa concezione nascono i «gritos
musicales», le «musicales exclamaciones» e le «risas musicales» (pp. 232-236).
Appare evidente che uno dei compiti affidati alla musica, in questo libretto
bueriano, è quello di trasformare il rumore e rappresentarlo.
Questo processo è rintracciabile in tutto il testo, ma subisce un’importante
evoluzione quasi in chiusura del libretto, quando Buero affianca all’idea di sostituire
il rumore con la musica, quella di associare rumore e musica.
Nell’esempio riportato in precedenza, si può osservare che il rumore dello sparo
∑
non viene reso con un suono musicale, bensì sottolineato dalle note del timpano,
suonato contemporaneamente al rumore prodotto dal corpo che tocca il suolo:
Un disparo desde el escenario efectuado casi al mismo tiempo alcanza
el perseguido, que se tambalea. Se levantan en la sala musicales gritos
femeninos. La música describe un efecto descendente y las miradas
de los congregados en el escenario siguen la immaginaria caída de un
cuerpo desde el palco al centro del proscenio, donde, con un enorme
golpe que el timbal subraya aparece súbitamente el perseguido (p. 236).
Con l’arrivo in scena dei sei finti marziani si assiste a un’altra associazione
∑ ∑
fra rumore e musica, grazie all’inserimento di alcuni suoni metallici fra gli accordi
emessi dalla bacinella:
La música se vuelve sigilosa y extraña; entre sus acordes se reiteran, con
otros metales, las frescas melodías que la bacía emitió momentos antes
(p. 162).
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L’indicazione potrebbe far pensare alla timbrica degli ottoni, ad esempio, ma
potrebbe trattarsi, verosimilmente, di un suono metallico ottenuto dalla percussione
di oggetti metallici che non siano strumenti musicali, o dalla distorsione elettronica
del suono o, ancora, da suoni creati elettronicamente. Un espediente di questo tipo
si accorderebbe con il suono di latta emesso dalla bacinella e creerebbe un legame
con un altro punto del testo, in cui si ricorre ad artifici acustici al fine di riprodurre
voci metalliche, inframmezzate al silenzio dell’orchestra: ∑
La orquesta calla de repente. Se oyen cantos tras el telón del fondo,
emitidos por dos voces de raro timbre metálico (p. 195).
Ma è poco oltre che si ha, forse, una fra le direttive sonore più interessanti di
tutto il libretto, quando Buero specifica che la bacinella percossa da Eloy emetterà
«doce notas cristalinas» che «componen una frase sonora» (p. 159).
Oltre alla meticolosa indicazione musicale, che prevede l’emissione di note
«cristalinas», non può sfuggire il suggerimento di costruire una frase sonora con
«doce notas» e non con le sette note alla base del sistema tonale. Questo nuovo
suggerimento pare un esplicito riferimento alla musica dodecafonica il cui utilizzo,
fra l’altro, si accorderebbe con l’iniziale collaborazione fra Buero e Halffter, musicista
∑
che si è ripetutamente confrontato con la dodecafonia nel corso della sua carriera
compositiva.
Basandosi in parte sulla dissonanza, inoltre, la dodecafonia si coniugherebbe
assai bene con il concetto di suono che traspare dalle disposizioni bueriane, in cui,
come si è detto, si assiste sovente alla rappresentazione musicale del rumore – le
citate «explosiones musicales» o il suono di latta della bacinella che lentamente si
trasforma e diventa frase musicale –. Questa teoria potrebbe essere avvalorata, inoltre,
dal fatto che la musica dodecafonica può dare luogo a combinazioni dissonanti che
risulterebbero estremamente rappresentative del clima contemporaneo e marziale
dell’opera e delle distorsioni allucinatorie di Eloy.
Proseguendo nell’analisi del testo, si rilevano altri passaggi significativi che
permettono di scorgere ancor più chiaramente la complessità del discorso musicale
bueriano.
Con l’entrata in scena di Teresina, nella prima parte, si apre il secondo duetto
∑
amoroso dell’opera, fra questo personaggio e il tenore Rodolfo. L’accompagnamento
∑ ∑
musicale, di cui si è già avuto modo di parlare, sarà bruscamente interrotto dal
rumore delle esplosioni esterne al teatro:
Explosiones. La música se interrumpe al tiempo. La expresión de ambos
cambia: se torna reflexiva, desencadenada. Se miran perplejos, extraños.
Pero la música tonal se reanuda y sus caras vuelven a sonreír (p. 180).
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Questa didascalia è particolarmente importante, in quanto Buero non solo
menziona espressamente la «música tonal», ma indica che «la música se vuelve tonal
y romántica»23. Ciò porterebbe a pensare non solo a un cambiamento dell’espressione
musicale, ma a un vero e proprio passaggio di sistema musicale.
Alla luce di quanto osservato precedentemente, Buero potrebbe addirittura aver
supposto un utilizzo combinato della musica tonale e dodecafonica, a seconda delle
esigenze testuali e sceniche. In questo senso, la resa del sentimento, specie se amo-
roso, si paleserebbe con più coerenza espressiva nella melodia del sistema tonale,
mentre tutto ciò che afferisce alla contemporaneità politica, al mondo extraterrestre,
alla componente militare, alle visioni allucinatorie di Eloy, così come al rumore,
potrebbe trovare uno strumento espressivo più efficace in un uso meno tradizionale
del mezzo musicale, ossia nel sistema dodecafonico.
Nella didascalia presa in considerazione poc’anzi, infatti, sarà solamente con la
ripresa della musica tonale che il duetto amoroso, interrotto dalle esplosioni, potrà
proseguire e concludersi; si osservi che in chiusura del brano, quando la musica si fa
«tonal», per l’appunto, i due personaggi cantano all’unisono, come nella tradizione
∑
operistica romantica. Ma una volta terminato il duetto, e con esso la parentesi pas-
sionale e amorosa, Buero ci avvisa che «la música tonal se estingue».
Il supposto utilizzo dei due sistemi musicali, secondo lo schema che si evince
da questo specifico passaggio testuale, potrebbe trovare applicazione più ampia nel
corso del testo.
Al termine della prima parte, ad esempio, due voci fuori campo introducono
l’ingresso in scena di due strane figure, due improbabili visitantes, accompagnati sul
palco da una musica che «lanza sobrecogedores acordes»; anche in questo caso si
potrebbe ipotizzare, nuovamente, l’uso della dissonanza.
In apertura del secondo atto, Buero indica «Música. Gritos de espanto, antes de
que descorran las cortinas, que culminan en un estridente acorde coral» (p. 197). Un
accordo stridente, dunque disarmonico, ottenuto dal connubio di voce e musica, che
affianca l’arrivo dei marziani con «metálicas voces al articular las palabras» (p. 197).
Nelle pagine che seguono questo passaggio, le indicazioni di Buero si fanno più
rade ma, nonostante ciò, continua a trasparire l’idea di impiegare una musica più
intimamente legata al concetto di melodia nei momenti di maggior sentimentalismo,
come nell’aria del disinganno di Eloy – «una imprecación nada enfática, de tono
∑
sencillo y triste, hijo de su duro desengaño. Sorda y funeral, la música evita asimismo
el enfásis» (p. 213) – e l’uso di una musica meno tradizionale nei passaggi connessi al
tema dei visitantes e alle visioni oniriche e allucinatorie.
Ma la supposta alternanza dei due sistemi musicali registra, alla fine del libretto,
un’ultima e interessante dinamica.
In chiusura dell’opera, infatti, Buero si congeda con una lunghissima didascalia
∑
nella quale ritroviamo accorpati i due sistemi musicali che hanno sorretto la sua
23
La sottolineatura è mia.
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visione musicale fino a questo momento, tonale e dodecafonico, ora sovrapposti e
fusi insieme.
Si ricorderà che dopo la tragica morte di Eloy «llega del fondo el comienzo de
una obertura española donde se entreverán sones de guitarras» (p. 214).
Buero introduce un tema musicale tradizionale spagnolo, che sottolinea «me-
lancólico» il piccolo corteo funebre che accompagna la salma di Eloy verso il came-
rino sulla destra della scena. La bacinella, simbolo di tutte le illusioni del protagoni-
sta, giace abbandonata al suolo e «repentinamente, comienza a sonar la extraña su-
cesión de notas que Eloy oía en ella y que pronto gana intensidad» (p. 214). Ancora
una volta, quindi, si può ipotizzare un uso dissonante dell’accordo, per evidenziare∑
l’elemento visionario in contrasto con la melodia di chitarre dell’ouverture che sot-
tolinea, invece, il patetismo della morte in scena del protagonista.
Marta raccoglie la bacinella e la porta nel camerino in cui è stato adagiato il
cadavere di Eloy, e questo ricongiungimento provoca un rinnovato intensificarsi del
motivo musicale che Buero associa a questo oggetto, mentre continua in sottofondo
l’ouverture spagnola, in una sovrapposizione finale di suoni e melodie:
las notas de la bacía, trocadas ya en invasora catarata, siguen mezclándose
curiosamente con las mesuradas tonalidades del fondo…
Entre tanto se oye la segunda estrofa de la copla castellana, que alguna
moza de la venta canta fuera, y su melodía también se entrama con las
notas incontables que parecen salir del camerino cerrado (p. 243).
Conclusioni
L’analisi proposta delle puntuali, costanti e precise indicazioni sceniche di Bue-
ro, così come la costruzione di alcuni dialoghi e addirittura la possibilità di basa-
re tutto il libretto sull’alternanza dei sistemi tonale e dodecafonico, permettono di
∑
affermare che Buero concepì il testo di Mito secondo una chiara visione musicale
d’insieme. Ciò testimonia la profonda coscienza musicale del drammaturgo, offren-
do una diversa e nuova prospettiva per apprezzare la scrittura di questo autore e il
valore di Mito, essendo questi interventi parte integrante del libretto e pressoché
inscindibili dal testo stesso.
Mito risulta dunque una valida testimonianza della sensibilità musicale del
drammaturgo e delle potenzialità della sua scrittura musicale.
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XXIV Congresso dell’Associazione Ispanisti Italiani – AISPI, (Padova, 23-26 maggio 2007),
Roma-Madrid, AISPI-Instituto Cervantes. In corso di stampa.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 81-101. issn: 2240-5437.
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De reescrituras y obsesiones:
La cicatriz y La voz de Mallick (1981),
de Pedro Casariego Córdoba
R AÚL D ÍAZ R OSALES
Università degli Studi di Milano
[email protected]
A modo de falsa introducción (breves apuntes de recepción)
«Arrojé un piano al mar para que se convirtiese en pianola. Creía que el lenguaje
de los hombres coincidía con el del universo»1. Sin abusar del sentimentalismo de
una crítica romántica2, quizás esta composición, incluida en unos cuadernos tan
familiares y vitales, de fresca y sincera desinhibición, nos puede servir de guía para
1
Pedro Casariego Córdoba, Cuadernos amarillo, rojo, verde y azul, Madrid, Árdora, 1998, p. 189.
2
Las circunstancias vitales (su suicidio a los 37 años) han influido indudablemente en la recep-
ción de la obra, cuyos primeros compases han sido la reivindicación del autor. El propio Pe Cas Cor
elaboró, en 1990, un curriculum vitae publicado por la revista El Europeo. Esta versión, ampliada y
concluida con la noticia de su muerte (1993), elaborada por Pe Cas Cor Sociedad Imaginada, aparece
publicada en el catálogo de la exposición realizada con su obra pictórica: Pedro Casariego Córdoba,
homes i monstres. hombres y monstruos, Valencia, Universitat de València, 1997, p. 36, ed. trilingüe
en valenciano, español e inglés. Aunque, como afirmó el propio poeta en una entrevista: «De su bio-
grafía dijo que siempre había sido incorregiblemente mentirosa», algo considerado como una exger-
ación por la propia Pe Cas Cor S. I. Concisa, vertebrada en el humor ante la desesperación, da cuenta
de la pulcra disección tierna e irónica a la que sometió la realidad; una visión que derriba antiguas
estructuras cognitivas que no son más que parapetos que esconden la verdad.
Raúl Díaz Rosales
De reescrituras y obsesiones: La cicatriz y La voz de Mallick (1981), de Pedro Casariego Córdoba
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posicionar a un poeta que sin duda ha mantenido un perfil de secundario de culto,
lejos del papel que probablemente le podía corresponder —dada la magnitud de su
obra—, en una suerte de ambivalente contradicción entre el poeta de culto, alaba-
do en ambientes selectos, y su inclusión en programas editoriales de reivindicación
que, sin embargo, no han logrado darle un espacio en una mapa poético que sin
duda potencia otras latitudes estéticas3.
Hablar de Pedro Casariego Córdoba supone establecer un equilibrio entre pun-
tos equidistantes: cierto es que no quiso formar parte activa del mundo literario,
pero la suya no fue una aparición que podamos calificar de marginal. Tras la publi-
cación de diversas traducciones4, vio la luz su primer libro de poemas, El hidroavión
de K.5, y, posteriormente, Maquillaje (letanía de pómulos y pánicos)6. El hecho de
que se editase en un sello como Editora Nacional con un prólogo firmado por Pedro
Laín Entralgo, nos obliga a pensar que fue decidida la apuesta por la difusión de su
obra7. Algo que corrobora la aparición del diálogo Shann en una revista tan poco
sospechosa de pertenecer a la periferia cultural española como Revista de Occidente
muestra que no era la suya una apuesta que renegase de la difusión. Más adelante,
los rescates de su obra se han producido en dos volúmenes editados en prestigiosas
(y conocidas) casas editoriales: una recopilación de sus textos en prosa se recogió en
3
Describe Juan Carlos Suñén aquella época: «Corrían por entonces los vientos de una normal-
ización estética más impositiva que necesaria, que se topaban una y otra vez con los muros de una
pluralidad tan vigilante como vigilada. Y Pedro Casariego Córdoba se subió las solapas y caminó
entre la tormenta sin mirar demasiado a los lados» («Rigurosa desobediencia» —reseña a Pedro
Casariego Córdoba, Verdades a medias—, ABC Cultural, 3 de julio de 1999, p. 6).
4
Anónimos islandeses del siglo XIII, Saga de los groenlandeses / Saga de Eirik el Rojo, ed. y trad. de
Antón y Pedro Casariego Córdoba, Madrid, Siruela, 2010. Publicó también traducciones en la revista
Poesía. Revista ilustrada de información poética, en los números 15 (julio de 1982), 25 (diciembre de
1985) y 26 (julio de 1986).
5
Pedro Casariego Córdoba, El hidroavión de K., Madrid, Ave del Paraíso, 1994, recogido poste-
riormente en Poemas encadenados (1977-1987), prólogo de Ángel González, introducción de Esther
Ramón y epílogo de Pedro Casariego H.-Vaquero, pp. 179-247. El orden de publicación de sus libros
no se atiene al proceso de escritura: el primer poema encadenado sería La canción de Van Horne, in-
édito hasta la aparición de los Poemas encadenados. Antes, una serie de 300 poemas independientes,
con el título Poemas Apasiados del Caballero Inmaduro, serían las primeras producciones poéticas.
6
Maquillaje (letanía de pómulos y pánicos), con un prólogo de Pedro Laín Entralgo Madrid, Edi-
tora Nacional, 1983.
7
En la crítica realizada por la aparición de los Poemas encadenados, José Luis García Martín
subraya esa aparente contradicción que supone la consideración de radical y marginal que algunos
sectores han querido dar a un poeta que, a nivel editorial, sí dispuso, a priori, de los medios necesa-
rios para la inclusión en el establishment. La consideración de este crítico de los poemas, «dilatadas
colecciones de fragmentos que rara vez tienen valor por sí mismos», así como su convencimiento de
que sólo con el marco de ruptura de los novísimos, especialmente de Leopoldo María Panero, y de
otro poeta marginal (o marginado) como Eduardo Haro Ibars, podría ser posible su poesía, acaban
por concluir en la bondad que la mitificación del personaje ha supuesto para su poesía (El cultural,
suplemento cultural de El Mundo (13/03/2003), p. 11).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 117-142. issn: 2240-5437.
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De reescrituras y obsesiones: La cicatriz y La voz de Mallick (1981), de Pedro Casariego Córdoba
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Verdades a medias8, en 1999, y, posteriormente, varios poemarios (algunos de ellos
inéditos) se recogieron en Poemas encadenados (1977-1987). Y en torno a esas dos
apariciones, la labor esmerada y preciosista de difusión, a través de cuidadísimas
ediciones de sellos editoriales de menos peso pero mayor exquisitez9, gracias a la la-
bor de Pe Cas Cor Sociedad Imaginada10, que ha hecho posible, además, la aparición
de poemas en distintas revistas (El Europeo, Hora de Poesía, La Balsa de la Medusa,
Por Ejemplo, Catálogos de Valverde 32…).
La singularidad de su creación le hace difícil de encuadrar en corrientes actua-
les tan fagocitadoras y monolíticas como son la poesía de la experiencia o la poesía
de la diferencia. Su presencia en las antologías generales es nula, y hay que acudir a
aquellas compilaciones que presentan panoramas ajenos a tendencias dominantes,
donde se explicita la cualidad más importante, en un primer acercamiento, de la
obra de Casariego Córdoba: su rareza. Así, Julia Barella lo recogió en Después de la
modernidad. Poesía española en sus lenguas literarias11 y, con radical transparencia,
de manera ya definitiva la compilación preparada por José María Parreño y José Luis
Gallero con el inequívoco título de 8 poetas raros. Conversaciones y poemas12. Años
después, recogiendo ese mismo espíritu de revelación de espacios y líneas poéticas
silenciosas y/o silenciadas, aparecía la Antilogía. Contrapoesía de poetas reversados,
coordinada por Marcus Versus e Isabel García Mellado13.
8
Pedro Casariego Córdoba,Verdades a medias, selec. y ed. de Antón Casariego, Madrid, Espasa
Calpe, 1999.
9
Así, la labor de Árdora al realizar la preciosa edición de Cuadernos amarillo, rojo, azul y verde,
así como el libro-homenaje La vida puede ser una lata. Falsearé la leyenda, donde, a la reedición de
su libro de dibujos glosados por poemas (o poemas ilustrados) se añade una selección de textos de
homenaje. Recientemente, la editorial Tansonville ha rescatado sus poemarios Maquillaje, La canción
de Van Horne y, en edición trilingüe español, inglés y francés, La risa de Dios.
10
«Pe Cas Cor Sociedad Imaginada tiene como objetivo promocionar la obra de Pedro Casar-
iego Córdoba, en un principio preferentemente su pintura, y luego tanto ésta como su obra liter-
aria. Fue creada en el año 1991 por un grupo de personas cercanas a él y actualmente mantiene su
misma estructura, poco formal y con participación colegiada en la toma de decisiones» (tomado de
la página web http://www.pedrocasariego.com, abundante en materiales e indicaciones. Fecha de
consulta: 25/05/2011). Exposiciones de su labor pictórica, el cuidado de sus ediciones póstumas, y la
elaboración y mantenimiento de su página web, son las actividades que realizan. Es precisamente esa
página la fuente más completa de información bio-bibliográfica sobre el autor.
11
Julia Barella, Después de la modernidad. Poesía española en sus lenguas literarias, Barcelona, Ed-
itorial Anthropos, 1987. Completan la nómina Luis Alberto de Cuenca, Francesc Parcerisas, Valentí
Pugi, Jaume Valcorba Plana, Bernardo Atxaga, Felipe Benítez, Aberlardo Linares, Lorenzo Martín del
Burgo, Julio Martínez Mesanza y Lois S. Pereiro.
12
José María Parreño y José Luis Gallero (eds.), 8 poetas raros. Conversaciones y poemas, Madrid,
Árdora Ediciones, 1992. Heredando el proyecto que no se llevó a cabo de Tomás Seral de realizar una
Antología de Omitidos, los poetas que se recogen en esta antología son, como explican los editores,
raros «por únicos y desconocidos […] por la singularidad de su obra, y también por la dificultad
misma de llegar a conocerla». Los otros autores fuera del escalafón son Miguel Ángel Bernat, Blai
Bonet, Teresa Gracia, Juan Hidalgo, Carlos Oroza, Joseba Sarrionandía y Eduardo Scala.
13
Marcus Versus e Isabel García Mellado (eds.), Antilogía. Contrapoesía de poetas reversados, Ma-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 117-142. issn: 2240-5437.
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De reescrituras y obsesiones: La cicatriz y La voz de Mallick (1981), de Pedro Casariego Córdoba
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Antes, en 2007, apareció otro panorama general de la poesía española donde te-
nía cabida la obra de Pe Cas Cor, pero, de nuevo, un título anuncia la segmentación
del discurso antológico: Metalingüísticos y sentimentales. Antología de la poesía espa-
ñola (1966-2000). 50 poetas hacia el nuevo siglo14. En medio del clima general de no
inclusión en panoramas generales, cabe mencionar una rareza: la Poesía espanhola
de agora / Poesía española de ahora, editada por Joaquim Manuel Magalhães, donde
sí aparecía la obra de este autor entre la amplia muestra que ofrecer. Más adelante, el
propio Luis Alberto de Cuenca, amigo del autor (escribió el prólogo de Qué más da),
lo recoge en su Diez poetas de los 80, como una de las «realidades indiscutibles de la
poesía actual escrita en castellano»15. Esa rareza viene confirmada por otros poetas.
Así, Ángel González afirma:
Pedro Casariego Córdoba es un artista intrigante y misterioso, yo diría
que sin par en la literatura española de su tiempo. Ha escrito poemas,
narraciones, diálogos dramáticos, ensayos y otros textos que son todo
eso en una sola pieza, y en ningún momento se atuvo a los modos y las
modas que caracterizaron el trabajo de sus contemporáneos. ¿Afán de
originalidad? No lo creo. Más bien me inclino a pensar que su incues-
tionable originalidad no es algo buscado, sino un hecho que se deriva
espontáneamente de una actitud ante la escritura que, en el panorama
de la literatura española de finales del siglo xx, no comparte con nadie.
Es la suya una posición “rara”, y no sólo por única, sino también por
paradójica16.
Porque la obra de Casariego Córdoba es única en el panorama literario español,
lo que supuso, en los primeros acercamientos a sus libros, una incomprensión que
empañó su estudio17.
drid, Ya lo dijo Casimiro Parker, 2010. Entre los eludidos, repiten Eduardo Scala y el propio Casariego
junto a Gonzalo Escarpa y A. Martínez.
14
Marta Sanz Pastor (ed.), Metalingüísticos y sentimentales. Antología de la poesía española (1966-
2000). 50 poetas hacia el nuevo siglo, Madrid, Biblioteca Nueva, Madrid, 2007. Afirma la editora: «En
Metalingüísticos y sentimentales ha resultado inevitable cruzar el criterio de representatividad con el
resbaladizo criterio de calidad», abarcando la poesía española desde la publicación de Arde el mar
(1966), de Pere Gimferrer, hasta 2007 («Desde los metalingüísticos y sentimentales hacia la poesía del
siglo XXI», p. 11). Extensa e interesante la nómina de estas páginas.
15
Luis Alberto de Cuenca, «Prólogo», en Luis Alberto de Cuenca (ed.), Diez poetas de los ochenta,
Mercamadrid, Madrid, 2007. Completan la nómina Miguel D’Ors, Eloy Sánchez Rosillo, Ana Rosset-
ti, Javier Salvago, Jon Juaristi, Chantal Maillard, Abelardo Linares, Andrés Trapiello y Julio Martínez
Mesanza.
16
Ángel González, «Prólogo. Palabras insuficienes para Pedro Casariego Córdoba», en Pedro
Casariego Córdoba, Poemas encadenados, Barcelona, Seix Barral, 2001, p. 7.
17
«Alejado de generaciones mecánicas y engranajes poéticos, Pedro Casariego Córdoba (o Pe
Cas Cor, como le gustaba firmar) no pasó desapercibido. Los libros que publicó obtuvieron elogiosas
críticas e incluso uno de ellos, La voz de Mallick, fue accésit del premio Juan Ramón Jiménez, en 1989.
Sin embargo, la singularidad de su propuesta no fue siempre bien entendida y, sobre todo, casi nadie
supo dónde situarla» (Esther Ramón, «Geografía del frío», en Pedro Casariego Córdoba, Poemas
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 117-142. issn: 2240-5437.
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De reescrituras y obsesiones: La cicatriz y La voz de Mallick (1981), de Pedro Casariego Córdoba
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Los tiempos actuales han logrado otorgar un mayor relieve que no se aparta, por
otro lado, de esa senda de reconocimiento-homenaje, más cercano a la admiración
de autores coetáneos, o a la proliferación de admiradores en nuevas generaciones,
que a la verdadera inclusión en programas académicos, como se percibe en el vo-
lumen de homenaje realizado por la revista Pliegos de la ínsula Barataria (número
2, primavera de 1995), donde se recoge una selección de textos propios así como
homenajes al poeta de otros autores.
Los límites de la creación. La poética de Pe Cas Cor
Nuestras palabras
nos impiden hablar.
Parecía imposible.
Nuestras propias palabras.
Con estos cuatro versos lapidarios comienza uno de los libros de Casariego: La
risa de Dios. En una entrevista concedida a la revista El Paseante, interpretaría él
mismo esta angustiosa percepción del lenguaje: «Para mí esto explica el problema
de la incomunicación. No son nuestras palabras lo que nos permite expresarnos en
esta habitación sino aquellas pequeñas manchas mecánicas que tenemos en nuestro
interior»18.
Quizás por eso el suyo fue un movimiento de progresiva alianza, desde la es-
critura, con el dibujo: primero los poemas encadenados, donde la tipografía tenía
un significado evidente, y, más tarde, los dibujos y poemas de La vida puede ser una
lata19, composiciones como la de El juego, u obras como los Cuadernos, imbricación
natural y necesaria de ambas facetas artísticas, hasta llegar a sus lienzos, en cuya
elaboración depositó el poeta toda su creatividad20. 1985 sería el año de asunción
encadenados (1977-1987), p. 14). Páginas de indudable interés que conforman la primera tentativa de
análisis de conjunto de su obra. La autora ha preparado una tesis doctoral sobre Pe Cas Cor.
18
«Fragmento de la entrevista de El Paseante», en Pedro Casariego Córdoba, homes i monstres.
hombres y monstruos, p. 36.
19
De la imbricación de poema y dibujo da cuenta la extraña sensación de pérdida al leer varios
de los textos de La vida puede ser una lata sin los dibujos respectivos en la antología 8 poetas raros.
Conversaciones y poemas, pp. 22-27.
20
Véase Juan Antonio Millón, «La obra de Pedro Casariego Córdoba: (di)visibilidad infinita o el
pasaje de lo uno a lo otro», en homes i monstres. hombres y monstruos, pp. 7-17, donde se recoge un
desarrollo más amplio de estas tres etapas señaladas en el cultivo de escritura y pintura. Pe Cas Cor
Sociedad Imaginada realizó tres exposiciones de su obra pictórica. En la primera de ellas, en vida
del autor, se podían adquirir los cuadros en exposición. Las dos siguientes, en el Círculo de Bellas
Artes de Madrid, en 1994, y en la Universidad de Valencia, en 1997, fueron un homenaje al poeta ya
fallecido. Se editaron sendos catálogos: Pedro Casariego Córdoba, pintura y dibujos, Madrid, Círculo
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de esa derrota de la escritura como medio expresivo, que en 1990 se hace definitiva,
constada por un movimiento de mayor peso de la pintura.
Como indica Millón, La risa de Dios supone un punto de inflexión en la tra-
yectoria, donde esos cuatro primeros versos nos hablarán de un poeta que, como
Mallarmé, había asumido los límites del lenguaje y, además, había tomado la firme
decisión de negar la práctica de ese imposible. Todo ello fruto de la crisis espiritual
sufrida por el poeta, además, siempre condicionado a nivel creativo por
su temprana creencia en la imposibilidad de la expresión perfecta de
los sentimientos, en la absoluta superioridad de cualquier hálito vital
frente a su reflejo codificado a través del lenguaje, en la desaparición del
verdadero arte durante el proceso de convertir lo interior en exterior21.
De nuevo, la propuesta de Casariego se muestra valiente en su dubitación, le-
gándonos el mapa estético en el que encuadrar su obra. Piedra roseta es el Mani-
fiesto, que forma un conjunto con los textos que le anteceden y preceden, titulados
Verdades a medias, todos ellos de 198322. En otro juego de ficción donde se delega de
nuevo la autoría23, dice el poeta: «Mando imprimir aquí, para corroborar mi dolori-
da sumisión a tal tratado [el de Manfred Kaltz]», y para que sirva de prólogo y quizá
de epílogo, el texto, siempre mutilado, de mi único manifiesto»24.
Desde la relatividad que impone a cualquier sabiduría (es el individuo mismo
el que ha de aprender y encontrar su propio camino para ver), el Manifiesto supone
una revelación de su ideario. Escritura metafórica, sí resulta llamativa la ausencia
del elemento humorístico que podemos encontrar con mayor abundancia en el resto
de su obra.
Tal vez por ser, más que literatura, revelación, más que escrito, guía de escritura,
o más que aceptación de una verdad, la protesta ante la misma: «el Manifiesto es un
grito de silencio, una protesta más que una propuesta. Un cabezazo contra la pared,
de Bellas Artes, 1994, y el anteriormente citado homes i monstres. hombres y monstruos, que recogía
distintos textos sobre la creación de Pe Cas Cor.
21
Antón Casariego, «La lata es la vida», en Pedro Casariego Córdoba, La vida puede ser una lata
/ Falsearé la leyenda, Madrid, Árdora, 1994, p. 5.
22
Véase Antón Casariego, «Notas» a «Verdades a medias» – «Manifiesto», en Pedro Casariego
Córdoba, Verdades a medias, pp. 213-216. Estos textos vieron la luz por primera vez en Pliegos de la
ínsula Barataria. Revista de cración literaria y de filología, 2 (1995), número especial dedicado a Pedro
Casariego Córdoba. Posteriormente se recogieron en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias,
selec. y ed. de Antón Casariego, pp. 25-51. En esta segunda edición sí aparece marcada la distinción,
mediante la adición del epígrafe, entre el «Manifiesto» y la segunda parte de «Verdades a medias»
(justo antes de «Escribí este rosario de letras…», que no aparece en la versión de Pliegos…, quizás por
imposiciones tipográficas de diseño de página.
23
Escribe el poeta: «suscribo todas las conclusiones que pueden y deben extraerse de la concien-
zuda lectura del ensayo de Manfred Kaltz titulado El artista en cuanto ser inferior, manuscrito en
época tan sospechosa como la que incluye el año de desgracias de 1939» («Verdades a medias» [1],
en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias, p. 14).
24
Ibíd.
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la búsqueda de un resquicio para los benditos, para los inocentes, para la huida de
las almas rebeldes»25.
En estos textos parecen agruparse todos los motivos recurrentes de Pedro Ca-
sariego Córdoba. Es la suya una obra encadenada: no solo en sus libros de poemas
encontramos un continuum, sino que debemos entender su creación como un mapa
(con la excepción del desarrollo cronológico, lineal, que va de la escritura a la pintu-
ra), donde los elementos van dispersándose, encontrando su lugar en cada creación,
adaptándose al mensaje que obliga al poeta a escribir sin perder, en absoluto, el
valor distintivo e identificador de la obra: su unidad como recorrido de búsqueda,
confesión y lucha. Evitando caer, ya se comentó al principio, en la tentación del pe-
ligroso enfoque romántico, sí es obvio que la creación de Casariego Córdoba tiene
muy poco de elaboración matemática y artificial, y mucho de gesto inspirado (sin
desechar, claro, el proceso de revisión del texto, como se comprueba al analizar las
variantes de La cicatriz recogidas como apéndice de este artículo):
Me acuerdo que una vez Pedro me dijo que no le interesaba nada la poe-
sía de la madurez. Lo decía sin furia, con absoluto convencimiento. La
poesía que a él le interesaba había de nacer del poder y no de la destreza,
de la inspiración y no de la habilidad, de la entrega y no de la caza26.
Más allá de la figura del poeta, Casariego aborda, en este texto programático
de denuncia, una genealogía de los artistas: «cojera de los corazones, ascendieron a
los altares empujados por un aliento de sensibilidad vacía! ¡Desconocíamos tantas
verdades!». Y así se propagó «la enfermedad de la cultura visible». Frente a todo ello,
el análisis es devastador:
Estúpidamente negábamos, ciegos negábamos lo evidente: sólo existe
el artista interior, sólo se puede ser artista secreto, la comunión todo
lo mancha. ¡Estábamos canonizando a los más débiles, nombrábamos
doctores a los incapaces! ¡El artista debe crear dentro de sí mismo!27.
Habrá un poeta «de segunda», «poeta que escribe», una especie de poeta de lo
externo: «este poeta condenado que a nada sobrevive ha de revelar la naturaleza de
la gran tragedia, del precio de la piedra, del precio de cada pan, de cada lágrima,
de cada rugido, de cada hombre»28. Pero el poeta nos pide, aunque inmediatamen-
25
Antón Casariego, op. cit., p. 214.
26
Luisa Castro, «Pedro Casariego Córdoba», ABC, «Tribuna abierta», 10/02/1993.
27
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» – «Manifiesto», en Verdades a medias, p. 15.
[Señalo entre corchetes si ese fragmento de «Verdades a medias» corresponde al que antecede al
«Manifiesto» (en ese caso [1]), o si es el que lo sigue (en ese caso [2])].
28
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [2], p. 17.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 117-142. issn: 2240-5437.
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te rebaja la exigencia de colaboración, un posicionamiento radicalmente distinto:
«Desangraos en la construcción de un caballero interior afín a la gloria y al vacío…
No me hagáis caso, sólo os requiero para que asumáis la defensa del bruto, del ver-
dadero poeta, del leñador, del iletrado»29. Una poesía que reniega del burocrático
acto de la escritura, de la visibilidad y presunción del libro escrito, de la pertenencia
a una sociedad donde la cultura es el compartimento estanco de los museos, frente
a la vitalidad del arte y su compromiso, doloroso, con la revelación desde el interior.
Y así, el acto social de la escritura, lejos de convertirse en placentero estatus de pri-
vilegiado intelectual creativo, deviene en impulso casi30.
En la entrevista recogida en Sur Exprés incide en esta misma idea, la de la im-
posibilidad de condescender con la escritura: «Un hombre inteligente no se dedica
a escribir. Un hombre inteligente se hace príncipe del silencio. […] Si soy un artista
medio decente, es porque soy bastante bruto y poco brutal»31. Por tanto, de nuevo es
esa naturalidad creativa (necesidad discursiva no filtrada por convenciones) la que
alimenta la verdadera autenticidad. Si en una anterior entrevista había afirmado:
«Me gusta el artista que no hace lo que denominamos obra de arte», al ser inte-
rrogado nuevamente sobre esta declaración, no duda en reafirmarse: «me parece
indudable que el verdadero artista no condesciende jamás a engendrar un libro, una
música, un cuadro»32.
Una poética del silencio, de la inacción proyectada hacia fuera, y que busca la
revolución interior, el incendio y la fiebre de la verdadera sabiduría, sin desdeñar,
por otro lado, la comunicación del torrente impulsivo de la palabra: «el canto so-
noro y compulsivo de las palabras manchadas»33. Así Casariego Córdoba planteó,
como última medida, la nada como argumento, tema y enfoque. Un vacío tangible,
responsable, que esconde una ética y moral artística que no se rebajan al superficial
refinamiento de lo escrito.
Diario de obsesiones, 1981: La cicatriz y La voz de Mallick
Se lamentaba el poeta: «Lo terrible es la obsesión, ser un simple esclavo de un
alma estropeada»34. En Casariego Córdoba, el gesto artístico era una respuesta in-
consciente e incontrolable ante la realidad. Una vía de escape para una mente ase-
diada que solo buscaba paz:
29
Ibíd.
30
«No se escribe una obra literaria: se incurre en una obra literaria. Manufacturarla significa, si no
se trata de un fraude aún más grave, desnudarse, y yo “desprecio a los que se desnudan” (entiéndase
metafóricamente)» (Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [2], p. 16).
31
«Entrevista para Sur Exprés», en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias, p. 210.
32
Ibíd.
33
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [2], p. 16.
34
«Entrevista para Sur Exprés», p. 208.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 117-142. issn: 2240-5437.
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Me paso la vida intentando concederme descansos a mí mismo; soy uno
de esos haraganes que no dan golpe y no cesan de obsesionarse, uno de
esos vagos que trabajan celularmente… Quiero decir que todas mis cé-
lulas, huesos y cartílagos trabajan violentamente, como obreros azules,
y no me dejan en paz ni un solo instante —imagínense ustedes, ¡ni un
solo instante!—35.
Necesidad, por tanto, de la escritura, de ceder al impulso36: «No se escribe una
obra literaria: se incurre en una obra literaria»37. Casi un delito que vertebra su que-
hacer artístico, y que encuentra en la figura del torrente su más clara plasmación:
Mi forma de escribir es la imitación del torrente. Consiste simplemente
en abrir un grifo y dejar que manen de ese grifo todos los líquidos y to-
dos los cantos químicos posibles, tratando de hacer acopio de imágenes,
robando palabras a los periódicos, expresiones a las gentes, términos a
los diccionarios38.
Se ha mencionado en estas páginas el adjetivo encadenado. Sus libros de poemas
suponen una secuenciación, una historia que exigía el molde estrófico pero que no
podía renunciar a la narración. La canción de Van Horne (1977), El hidroavión de
K. (1978), La risa de Dios (1978), Maquillaje (1979), La voz de Mallick (1981) y DRA
(1986): ocho años de escritura configurando «mundos a partir de cero», desde «el
gusto por lo cinematográfico y por el relato policíaco», en obras donde «personajes
muy diversos se entrecruzan en constante actividad, como pequeñas figurillas de
colores vivos agitándose en una misma caja cerrada, y la niebla corre el peligro de
espesarse si quien lee no mantiene un mínimo afán de averiguación»39.
Pero más allá del encadenamiento de poemas para formar un único poema en-
cadenado, es necesario entender esta organicidad en un nivel superior: la obra de
Casariego Córdoba plasma un único universo parcelado en obras y artes concretos
(así sus libros y sus pinturas).
Fruto esto de su concepción quasi autobiográfica de la escritura (hablar de un
yo que estará, enmascarado y expuesto a la vez, en sus obras) y de la concepción
obsesiva de ciertas realidades, no cabe duda que será fácil encontrar concomitancias
y reelaboraciones de un mismo tema.
35
Ibíd., p. 206.
36
«Para Pe Cas Cor, la escritura es fruto de una incontinencia, ya que mostrar los pensamientos
más íntimos es signo de debilidad, y convencer al otro con palabrería es aún peor, pues nos despoja
de lo más valioso que tenemos, lo que nos individualiza: nuestros errores» (Antón Casariego, «No-
tas», en Verdades a medias, p. 214).
37
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [2], p. 16.
38
Juan Antonio Millón, op. cit., p. 13.
39
Esther Ramón, «Geografía del frío», p. 15.
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En este sentido, dentro de la bibliografía del autor, destacan dos obras: La voz de
Mallick40 y La cicatriz41, que parecen retomar el mismo tema desde dos posiciones
distintas: el largo poema encadenado, el primero, y la breve obra de teatro, la se-
gunda. Sin arriesgar la sobreinterpretación de la crítica biográfica —y más allá de la
probable productividad de tal enfoque42—, sí ha de asumirse cierta confesionalidad
en la obra del autor: con poética precisión abordó y definió este posicionamiento
Francisco Umbral: «hay timidez y sabiduría en su manera de no hablar de él sin
hablar de otra cosa»43. Sus escritos canalizarían sus obsesiones, como bien observó
Ángel González (sus «preocupaciones», como las denomina Juan Carlos Suñén):
«tengo la impresión de que la obra que dejó es un conjunto acabado y coherente,
organizado en torno a un constante núcleo de obsesiones derivadas en parte del
“ansia de infinito” que él reconoce sentir, pese a saber que se trata de una aspiración
irrealizable»44. Lo que en alemán se denomina Sehnsucht.
Ello no implica que su escritura quede reducida al exhibicionismo visceral: en el
matiz de la impostura poética que ya articuló Pessoa45 encontramos la herramienta
40
Merecedora del accésit del Premio de Poesía Juan Ramón Jiménez, publicada en 1989, se recoge
en Poemas encadenados. Cito por esta última edición, a partir de ahora, identificada como Mallick,
añadiendo más tarde m. y el número de estrofa, tal y como articuló sus poemas encadenados el autor,
añadiendo el número de página.
41
«Editada por primera vez en Pliegos de la ínsula barataria, se recogió posteriormente en Ver-
dades a medias, con pequeños retoques. En esta edición se incluyen algunas correcciones del autor
no advertidas al ser publicado el manuscrito, póstumamente, en Barataria», señala Antón Casariego,
(«Notas», en Verdades a medias, p. 217). Es por esta última edición por la que cito el texto, identifi-
cado como Cicatriz. Recojo, en apéndice, las diferencias, relativamente numerosas. Aunque algunas
de ellas de escaso interés (corrección de una errata, adición de comas), sí resultan otras, en cambio,
muy interesantes para observar el proceso de corrección que se llevó al eliminar, en las acotaciones,
aquellas indicaciones que trascendían la función indicativa para establecerse como un lenguaje poé-
tico propio incapaz de materializarse en escena. Las menciones al público son numerosas, y algunas
de ellas, con humor, implican el diálogo con los posibles espectadores, imposible de realizarse si no
es mediante la lectura. Un ejemplo de ello es: «El pelo del hombre condenado a muerte ha crecido
imperceptiblemente, y el público no lo percibe» (Cicatriz, p. 42). Con un bello texto recibió la publi-
cación de este poemario Clara Janés: «Ookunohari», ABC, «Panorama», 22/12/1989.
42
«Dejando de lado el análisis de su poesía, si es que esto fuera posible en una vida como la de
Pedro Casariego, tan inquebrantablemente soldada a su obra» (Gonzalo García Pino, «Nadie sabe,
ni siquiera yo, cuánto tiempo he vivido», Caballo verde. Suplemento de libros y arte de La Razón,
21/02/2003, p. 26).
43
Francisco Umbral, Diccionario de literatura, Barcelona, Planeta, 1997, p. 51. De nuevo, Ángel
González: «La literatura de Pedro Casariego es decididamente confesional; no cuenta el argumento
de su vida —algo que oculta con mucho cuidado—, pero sí expone con transparente sinceridad su
atormentada intimidad y las carencias que lo aquejan: la soledad, la incomunicación, la incertidum-
bre, la búsqueda difícil del amor. Pero no deja de ser otra vez paradójico que quien así se comporta
sea también el autor de los siguientes versos: “me desprecio a mí mismo / cuando hablo tanto de mí,
/ porque yo desprecio a los que se desnudan”» (Ángel González, op. cit., pp. 9-10).
44
Ángel González, op. cit., pág. 9
45
«O poeta é um fingidor / Finge tão completamente / Que chega a fingir que é dor / A dor que
deveras sente» (de su poema Autopsicografia).
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constructiva de Pe Cas Cor, que esconde y maquilla su verdad para hacerla idéntica
a sí misma en una traducción metafórica y estilísticamente abigarrada. De ahí el
interés de establecer el estudio comparativo de estos dos escritos como primer paso
para establecer su obra como reelaboración de una idea obsesiva del poeta.
La relación entre La cicatriz y La voz de Mallick, a nivel temático, ya es advertida
por el propio Antón Casariego: «Algo parecido a lo que se narra en La voz de Ma-
llick, la otra cara de la misma moneda, ocurre en La cicatriz, breve obra de teatro del
mismo año que el poemario, 1981»46. La cicatriz es una obra de teatro en dos actos,
el primero de ellos con dos escenas, donde cada acto se sitúa en un día (consecutivos
ambos)47.
El propio Antón Casariego proporciona un pequeño resumen de la obra:
Un prisionero condenado a muerte que desconoce la causa de su cas-
tigo, pues http://marca física, es tanto un estigma que le señala como
alguien que es diferente, que sabe a pesar de estar confuso, y que, por
tanto, sufre, como la prueba de que ese amor liberador es real48.
Señala, además, cómo repite la estructura dialógica protagonista/antagonista
que encontramos, asimismo, en Shann y Qué más da49. Porque La cicatriz es el juego
del diálogo entre el protagonista (Él), el guardián y su hija (Ella). Todo desde el mi-
nimalismo más abstracto. Obra de teatro, se sobrepasan, en ocasiones, las indicacio-
nes formales para dar cuenta de un lirismo que impregna toda la obra50.
Frente a esta simplicidad (no hay más que un escenario, el de la prisión), en
La voz de Mallick el mismo tema se desarrolla con una prodigalidad de detalles: un
universo externo que se expande con Mallick como narrador:
Este es el libro en el que el protagonista tiene más de “alter ego” de Pe-
dro, aunque él no se reconozca como su autor verdadero (juego que
46
Antón Casariego, «Notas» a La cicatriz, en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias, p. 217.
47
Para un análisis dramatológico de la obra, a través de la Teoría de las Mentalidades, véase
Manuel Pérez, «La cicatriz, de Pedro Casariego, un lenguaje dramático de la contemporaneidad»,
Pliegos de la ínsula Barataria, 2 (1985) pp. 169-181. No se establecen, como el propio autor afirma,
«conexiones entre su obra teatral y el resto de las facetas artísticas de Casariego, aun a sabiendas
de que únicamente el conjunto total de las mismas puede revelar el auténtico perfil de este creador
singular» (p. 181).
48
Antón Casariego, op. cit., p. 217.
49
Ibíd. Shann fue publicada en Revista de Occidente, 56 (1986), y recogida posteriormente en
Verdades a medias. Por su parte, Qué más da apareció por primera vez en Verdades a medias y fue
reeditada, con prólogo de Luis Alberto de Cuenca e ilustraciones de Javier Roz (Almería, El Gaviero,
2004).
50
Así, en una de las acotaciones: «hundiéndose poco a poco, como un gran barco» (La cicatriz, p.
33), y, más adelante, «Ha aparecido un reloj enorme. Ocupa un círculo de pared, junto a la ventana;
el público lo ve y cree que funciona perfectamente. […] El alcaide es un hombre viejo de aspecto
extraordinariamente bondadoso; fue piloto en la guerra, pero usa gafas. ¿Quién le habrá peinado tan
magníficamente?» (La cicatriz, p. 42).
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comparten la mayoría de sus libros). Solo en su celda, Mallick, el basure-
ro que quemó su fe, al que todos creían mudo, habla de su vida anterior
en Ookunohari, ciudad dominada por una casta de sacerdotes blancos
que sojuzgan a los cristianos negros. Dirige sus palabras a una lejana
mujer japonesa, Wataksi, por cuyo amor, más puro que el del Señor, ha
roto su silencio, y que al final parece materializarse gracias a la pasión
que mueve la voz del preso. Su beso transforma al rebelde Mallick en un
hombre normal, en un esclavo negro quizá feliz51.
Efectivamente, en una nota preliminar se explicita cómo el autor del libro, in-
tentando captar «la respiración de la ciudad» de Ookunohari, encontró una voz,
procedente de una selva, «un hombre que hablaba solo» (Mallick): «Este libro no
es sino el resultado de escribir la voz de Mallick, aquella parte de la voz de Mallick
que grabó el autor. Resulta triste decirlo, sobre todo para el autor, pero el autor de
este libro no es su verdadero autor» (Mallick, 355)52. Así, el título, no podría ser más
descriptivo, pues todo el lirismo brota de esa voz, protagonista absoluta.
Esta voz del autor está dirigida a Wataksi, su enamorada. Y, volviendo a «Verda-
des a medias» [1], es la suya una palabra llena de verdad:
Entono, por tanto, al mismo tiempo que el canto sonoro y compulsivo
de las palabras manchadas, un mea culpa tan sincero como el eco, tan
sincero como Mallick, tan lejano como Wataksi, tan ajeno a nosotros
como todos nuestros destinos, tan fugaz como la prostituta mulata que
visita mi celda cada mes53.
Mallick asume las coordenadas de sabiduría que exigía Pedro Casariego:
Mallick el basurero54 es mudo
se equivocan los
desmemoriados y
los nuevos
La voz de Mallick ayuna
aciertan los más sabios55.
51
Pe Cas Cor Sociedad Imaginada, http://www.pedrocasariego.com/libros/mallick.htm (fecha de
consulta: 25/05/2011).
52
En La canción de Van Horne también se hará uso del juego de la autoría, negando la esperada
sinceridad y veracidad de la obra: «La canción de Van Horne / dice tan poco acerca de Van Horne»,
p. 177.
53
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [1], en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a
medias, p. 16.
54
No quiero dejar de recoger ideas que estructuran la obra de Pe Cas Cor, como la del oficio de
basurero. Así, había afirmado en una entrevista: «El mundo me parece algo espléndido y algo repug-
nante. Hay mucha basura y pocos basureros» (entrevista en Verdades a medias, cit., p. 209).
55
Mallick, m. 3, p. 358. El aspecto visual no sólo cobra especial importancia en los cuadernos, o en
sus lienzos. El valor de la disposición tipográfica es tangible en las disposiciones de cualquiera de sus
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Un silencio que rompe por su amada: «por ti hago traición a mi silencio» (Ma-
llick, m. 5, p. 359), ya que, como explica al final del libro, «juré / no volver a hablar
/ hasta encontrar / un amor más joven / que el del Señor» (Mallick, m. 76, p. 395).
Wataksi, sabia y fiel: «Wataksi / ráfaga japonesa / te quiero / porque llevas / la toalla
/ al toallero / y el cuchillo / al corazón del enemigo» (Mallick, m. 4, p. 358).
El espacio
Ambos protagonistas comparten un espacio: la prisión. Si bien en el caso de La
cicatriz se trate de un condenado a muerte, las notas de humor no dejan de sorpren-
der al lector en la descripción de la celda: «Desde el punto de vista del espectador,
estamos en una prisión cualquiera, no demasiado lujosa, pero visitable. Desde el
punto de vista del condenado a muerte, la prisión es la única prisión del mundo y,
por lo tanto, la más terrible de todas» (Cicatriz, p. 27).
Aunque se reviste, esta celda, de imágenes positivas: «La celda del condenado es
la mejor de la prisión: hay una estantería con libros, un televisor diminuto y un flo-
rero comprado en unos grandes almacenes. Un gran cartel, fácilmente legible para
el espectador, dice: Se permiten regalos navideños» (Cicatriz, p. 27). Símbolos
de generosidad son los visillos que mandó colocar el alcaide para tapar los barrotes
de la única ventana. Y encontramos, en este espacio, un elemento común a ambas
obras, al aludir a otra de las órdenes del alcaide: «También ha mandado atrapar un
pájaro silencioso. El pájaro sigue vivo y vive en una pequeña jaula, que puede ser
azul»56; pájaro que recuerda al que pide Mallick: «Wataksi / dame tu pájaro tranquilo
/ porque un pájaro tranquilo / es siempre / el nido / más cómodo» (Mallick, m. 73, p.
393). Un ave que en ningún caso es símbolo de vitalidad, sino de silenciosa presen-
cia, reconfortante, quizás al asumir la opresión del canto.
Una cama estrecha, flores de plástico y una linterna completan el escenario. En
el segundo acto se introducen pequeños pero importantes cambios: un reloj enorme
y una fotografía gigantesca del alcaide. El significado del reloj como agobiante paso
del tiempo para un condenado a muerte es obvio, pero, además, el tiempo es aún
más cruel para los presos, ya que «el alcaide ha estado jugando con él y ahora ade-
lanta muchísimo» (Cicatriz, p. 43), mientras que la fotografía sirve como objetivo
poemarios. A este respecto, afirmó Francisco Umbral: «La libertad tipográfica, tan vieja, es en él una
cosa nueva, fresca, sincera», (op. cit., p. 51) y Millón afirma, sobre la primera fase con la «disposición
plástica del poema»: «Siguiendo una tradición vanguardista, aunque posea una protohistoria remota,
Pedro Casariego Córdoba utiliza, en su búsqueda de la expresión poética, una ruptura de los límites
tipográficos convenciones o usuales, en una apuesta rediviva de transgresión, conforma el poema en
un objeto» (op. cit., p. 12).
56
Sobre el color azul, afirmó en «Verdades a medias» [1]: «El color azul fue y es mi única excusa,
mi primera y única coartada» (Verdades a medias, p. 14). Amarillo y azul son colores de especial
repercusión en su obra.
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para los dardos. Frente a la celda, lugar de interlocución del condenado a muerte
con el guardián, en el segundo acto la conversación con la hija del guardián tiene
lugar en la sala de visitas de la prisión, de escenografía simple: «Una reja formada
de barras de hierro pintadas de amarillo divide en dos partes la sala de visitas; la
reja va de izquierda a derecha del escenario, desde el punto de vista del espectador»
(Cicatriz, p. 44), donde Él se encuentra más cerca de los espectadores pero les da la
espalda. Encontramos, además, dos sillas, idénticas, y una mesa donde vemos un
paquete luminoso, un bote de pintura y un pincel.
En La voz de Mallick, la celda es «azul y soltera» (Mallick, m. 6, p. 359) y hasta
ella llegan las voces de los esclavos negros. Al igual que la celda de Él, tan solo hay
una ventana, que en este caso adquiere una gran carga metafórica:
mi celda es un cíclope terrible
y yo miro por su único ojo
miro por el ventanillo de mi celda
pequeño
c
o
m
o
ala de ángel
o de mosca57.
Una celda desde la que le cantan los negros. Y a diferencia de Él, Mallick sí ob-
serva lo que ocurre a su alrededor, para narrárselo a Wataksi. Aunque hay más con-
tactos con el exterior, como la prostituta mulata que cada mes acude a su celda para
proporcionarle placer por un dólar ookunohariano58. Y es entonces donde empieza
el despliegue del universo de Pe Cas Cor, y donde estriba la mayor diferencia entre
ambas obras: si en La cicatriz no hay otro espacio que no sea la prisión, en La voz de
Mallick, justamente esa prisión es el lugar desde donde el protagonista relata lo que
sucede en el exterior, en la ciudad de Ookunohari. Los esclavos negros que cantan,
aquellos mendigos a los que asesina, los campos, el cometa asesino, la colina… Es
este espacio de la celda en el que se sitúa Mallick, pero que abandonará.
Él / Mallick
Él tiene, como rasgo distintivo, una cicatriz que no siempre puede ser observa-
da, pues solo Él y Ella pueden verla. Este signo, la cicatriz, concebida como marca,
es signo distintivo de la creación de Pe Cas Cor:
57
Mallick, m. 31, p. 372.
58
La misma idea se recoge en «Verdades a medias» [1], p. 9.
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El estigma que distingue, que señala al que lo porta. […] En Pe Cas Cor
la cicatriz adquiere especial relevancia, sirviendo incluso como título a
su única pieza teatral (contenida en Verdades a medias) y se refleja acaso
también como distintivo de lucidez, en muchos de sus dibujos, al igual
que el tatuaje59.
Un referente de fe: «Yo sé que está, existe. No sé si creo en Dios, pero creo en
mi cicatriz» (Cicatriz, p. 33). Aunque mienta a los niños sobre el origen de la cica-
triz (afirma que se la hicieron con una navaja), sí le pudo contar uno de los conejos
encarcelados amarillos (condenados a morir rápidamente) que «había en la prisión
una mujer maravillosa que besaba a los presidiarios y dejaba cicatrices en sus caras
para no ser olvidada jamás. Esa mujer me besó anoche» (Cicatriz, p. 34). Lo que si-
túa el desarrollo de la obra en apenas tres días (el día del beso, el día siguiente, en el
que transcurre el primer acto con la conversación del guardián, y el día de la visita
de la hija del guardián, con la resolución del conflicto).
La primera descripción física que se nos da recalca su condición de condenado
a muerte, aunque parece que no se aviene bien a su imagen: «El condenado a muerte
es un hombre joven que no tiene aspecto de condenado a muerte, aunque no está
bien afeitado. Está solo y parece muy nervioso. Lleva el pelo corto. Es rubio o more-
no» (Cicatriz, p. 28).
En el segundo acto, aparece con restos de espuma de afeitar, con el pelo «im-
perceptiblemente» más largo y con ropa de presidiario: «Él lleva puesto un pijama
a rayas, un viejo pijama de presidiario; los pijamas de presidiario suelen ser alegres,
rayas rojas y rayas blancas, como el pijama de Él, pero no están hechos a medida»
(Cicatriz, p. 43).
Por lo que respecta su definición sentimental, se trata, sobre todo, de un hombre
confuso: no sabe por qué fue condenado a muerte aunque lo intuye —«Quizá me
haya condenado a mí mismo, negándome a vivir» (Cicatriz, p. 28)—, ni logra estar
seguro de quién es la mujer maravillosa, la única que trasciende lo puramente terri-
ble. Un hombre que intenta afirmarse ante un guardián bondadoso, pero incapaz de
comprenderle, y que solo con la mujer maravillosa puede sentir resuelta su situación
de incomunicación con el mundo, pues como afirma Manuel Pérez:
Él ofrece un complejo, polisémico y dotado de las contradicciones del
hombre contemporáneo […] transido de un dolor existencial cierta-
mente profundo, manifiesta abiertamente (aludiendo, incluso, a la lo-
cura) su incomprensión del universo exterior cuya relación se le torna
problemática60.
Un ser que aspira a volver a empezar, reformarse y comenzar una vida «con otra
cara, con otros ojos, en otra ciudad» (Cicatriz, p. 28).
59
Esther Ramón, op. cit., p. 16.
60
Manuel Pérez, op. cit., p. 177.
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Mallick, por el contrario, carece de vestimenta: «estoy completamente desnudo
aunque un uniforme de dril cubre todo mi cuerpo / estoy completamente desnudo»61
(Mallick, m. 30, p. 371). Una desnudez que acentúa su discurso de desesperación —la
llamada a Wataksi—, que mezcla la narración llena de impetuosa liricidad con la
necesidad de paz y reposo: «no quiero enloquecer mientras te hablo / voy a hablarte
con otra voz / con una voz mucho más fría» (Mallick, m. 19, p. 366), escribe en una
estrofa enmarcada en ambos márgenes por la palabra «CALMA».
Respecto a su actitud, la identidad de asesinos figura como eje central de su
construcción como personajes. Así Mallick:
hombres inocentes y hombres asesinos
todos somos el mismo hombre
y todos confesamos crímenes atroces62.
Mientras que Él aún debe mostrar su valía asegurando su condición de asesino,
aquel que no tiene «una cara lisa, vulgar, de empleadillo que viaja en metro»: «¡Mi
cara es la de un asesino a sueldo […] Voy a matar a un jeque árabe» (Cicatriz, p. 39).
Y, además, desesperanzados: «y yo confieso / que quemé la fe / y luego vendí sus
cenizas» (Mallick, m. 35, p. 374); aunque no lo suficiente como para no emprender
el viaje en busca de una «SEÑAL» (Mallick, m. 36, p. 374). En el caso de Él, el refugio
será también el ensueño donde aparece la amada.
Ella / Wataksi (o la salvación del amor)
Ella (no necesita más especificación) es, en La cicatriz, la que salvará al con-
denado a muerte: «Ella tiene el pelo largo; Ella ha tenido que ponerse un traje de
presidiario, pero todos sabemos que es una mujer muy guapa vestida de presidario,
aunque la reja nos impide verla bien» (Cicatriz, p. 45). Hija del guardián, a través de
las fotografías que éste le hizo al condenado a muerte queda enamorada de él. Aun-
que en el primer acto se plantea la duda de si es realmente «la mujer maravillosa»
61
Ángel González señaló cómo «por un prurito de pudor, para exhibir su intimidad, Pedro Ca-
sariego Córdoba toma todo tipo de precauciones, y transfiere sus tribulaciones particulares a per-
sonajes ficticios que son los encargados de exponerlas y representarlas, de “escenificarlas”: Mallick
encerrado en su celda de eremita, el condenado a muerte recluido en su prisión (Cicatriz), los se-
res nonatos confinados en el claustro materno (Shann)…, todos son exponentes de su atormentado
“yo”» («Prólogo. Unas palabras insuficientes para Pedro Casariego Córdoba, en Pedro Casariego
Córdoba, Poemas encadenados, p. 10). Señala, además, estos versos como indicativos de esta lucha
y tensión de contrarios armonizados: «Para desnudarse, Pedro Casariego se cubre con mucho cui-
dado, paradoja que Mallick formula con estas palabras: “Estoy completamente desnudo / aunque un
uniforme de dril cubre todo mi cuerpo”» (ibíd.). Al fin y al cabo, la obra literaria era para Pe Cas Cor
una desnudez despreciable (véase nota 30 de este artículo).
62
Mallick, m. 35, p. 374.
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con la que soñó Él, en la conversación mantenida en el segundo acto el protagonista
sí la reconoce como tal: «Tú eres Ella, la mujer maravillosa, la hija del guardián»
(Cicatriz, p. 45). Personaje protector («he tenido una buena idea mientras fumaba,
te fotografiaré desnuda y me vestiré con tus fotos, las balas rebotarán en mi pecho
cuando los tiradores me fusilen», Cicatriz, p. 45); es su amor el que posibilita la iden-
tificación y revelación del otro, al encontrar en Él la cicatriz que el guardián niega
que exista, asumiendo su maldad como elemento constitutivo: «Tú no eres un buen
presidiario: odias al guardián, doblas cucharas y tenedores en el comedor de la pri-
sión, eres peligroso con una navaja en la mano, matas jeques árabes. Y una cicatriz
cruza tu cara» (Cicatriz, p. 48). Pero la cicatriz trasciende su significado como marca
física para alcanzar su entidad como signo de salvación: la mujer es la cicatriz, es
la marca que libera al condenado a muerte, pues su delito será no haber sido, hasta
entonces, objeto del amor de ninguna mujer. Pese a todo, no se resuelve el problema
de la comunicación, o, con una interpretación benevolente y optimista, el amor no
necesita de ese entendimiento para alcanzar una comprensión amorosa: «No entien-
do lo que dices, pero me gusta no entenderte» (Cicatriz, p. 45), le dirá ella.
Wataksi viene definida en términos de poderosa belleza: es «cerezo / luz / luna /
agua / mujer» (Mallick, m. 14, p. 363), «la flor del cerezo / cuya visión / provocó mi
deshielo» (Mallick, m. 28, p. 370), incluso «diosa» (Mallick, m. 18, p. 365), es la «pri-
mavera que derritió mi nieve» (Mallick, m. 50, p. 381), y es el recuerdo de ese primer
beso el que produce la sensación de sacudida: «como el puño / de un terremoto»,
«sombra del beso» que «resucitó mi viaje» (Mallick, m. 50, p. 381). Y la rememo-
ración de este acto amoroso provoca la carrera alucinante, dueño de una «energía
imposible», que poco a poco va perdiendo velocidad, al ir desvaneciendo la fuerza
de ese recuerdo. Y entonces, finalmente, se descubre la «SEÑAL que ya no espera-
ba» y que le indicaría «la meta / de mi salvaje peregrinación por la nada más vacía»
(Mallick, m. 58, p. 385). Un amor que destruye la irreconciliable alianza de estrellas
y abismo. Y que plantea la redención del preso a través de la liberación: «Wataksi /
darte la mano y caminar / es salir del laberinto» (Mallick, m. 65, p. 389). Ha sido el
beso el que ha revelado la puerta a la alegría: con el abedul de su alegría construye
Mallick una canoa «y al fin tú eres / un río navegable / para mi canoa» (Mallick, m.
80, p. 397). Y así el beso descubre al esclavo negro que habita a Mallick. Y el amor se
convierte en revelación:
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la
salvación
de
tu
boca
desenmascárandome63
me duele tanto
tanto
me abre64.
La interpretación del final de este poemario ha sido unívoca en su desesperanza,
en distintos estudios. Así opina Marta Sanz Pastor en el comentario que hace al frag-
mento de La voz de Mallick que recoge en su antología: «El amor pone al descubierto
la vulnerabilidad; el amor nos impide tomar distancia y es el catalizador de nuestra
domesticación y de nuestra condición pacífica de bueyes»65, o Esther Ramón:
El amor muestra sin embargo una grita en su propio asidero: «temo / me
quieres / (…) temo que estés besando / al esclavo negro / que hay en mí».
Como si Mallick intuyese que, aunque unos labios borren «la crónica del
amor imposible / entre estrella y abismo», sólo puede permanecer fuera
del uniforme de los esclavos negros si persevera en la soledad de su cel-
da, en el hundimiento en la angustia, en el frío66.
Pero pese a la normalización, a la apertura a la que obliga el beso y su rememo-
ración (la liberación y la fuerza que conlleva), un personaje como Mallick no deja de
construirse, razonablemente, en la contradicción:
Wataksi
si me amas
es que amas la basura
y si amas la basura
es que no me amas a mí67.
El intento de reconciliación entre la paz que otorga Wataksi y la condición de
esclavo negro a la que puede verse sometido el personaje no puede juzgarse como
una tragedia únicamente, ya que la revelación de la verdad, la exposición del pro-
pio yo de Mallick supone una vía de conocimiento a través del amor. Por tanto, en
Wataksi encontraremos el deshielo que conduce al verdadero yo, y que, por tanto, no
63
Sic. Errata en el texto.
64
Mallick, m. 83, p. 398.
65
Marta Sanz Pastor, op. cit., p. 518, n. 7.
66
Esther Ramón, op. cit., p. 33.
67
Mallick, m. 79, p. 396.
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crea, sino descubre al verdadero Mallick, que antes desnudo, quizás manufacturado,
suponía un fraude.
Dios
La figura de Dios, presencia constante en la obra de Pe Cas Cor, obligaría a un
tratamiento mucho más extenso del que corresponde a estas páginas. Del poemario
La risa de Dios, solo mencionaremos sus tres últimos versos:
Mi angustia
es el eco
de la risa de Dios68.
La supeditación y la dependencia de este ser superior inspiran un discurso am-
bivalente de asunción de un dios en el que no se cree como ser inequívocamente
benévolo. De ahí que en La cicatriz la ruptura sea clara:
Mi cara es la de un asesino espiritual, la de un fanático que se consume
pensando en el amor y la muerte. Mi cara ya no es mía; se hace más débil
y más fuerte que yo. Mi cara es superior a mí, pero gime y llora. Mi cara es
la de un poeta que odia la poesía. Mi cara es la de un vagabundo que odia
los caminos y el polvo. Mi cara es la de un sacerdote que odia a Dios69.
Dios será, al fin y al cabo, la figura omnipresente ante la cual Pe Cas Cor esta-
blezca una difícil relación de desprecio, miedo, incomprensión… Religiosidad cruel,
en la mayoría de las ocasiones, pero que no deja de encontrar su expresión tintada
de elementos humorísticos: «la misericordia / del Señor / es infinita / infinitamente /
grande / por ello / no cupo / en la horca del kickapoo / quizá el indio kickapoo / hu-
biera preferido / una misericordia / de bolsillo / una edición / barata / del Señor» (Ma-
llick, m. 73, p. 393). El tono religioso, casi de sermón, que se alcanza en «Verdades a
medias» [1] y [2] y en su «Manifiesto» (donde afirmará: «Mis gafas se me antojan tan
crueles e indispensables como la risa de Dios»70) nos muestran una visión de un dios
entronizado y derribado, un ídolo al que sustituye la adoración del hombre al hombre:
Santificamos a Dios, hicimos de Él un Santo; caminábamos campos en
pos del cielo, cerrábamos campos con Iglesias. Luego, misteriosamente,
bajó la cotización de las acciones de Dios en la Bolsa inmaterial de las
68
La risa de Dios, escrita en 1978, fue publicada por primera vez en la revista El Paseante (1985) y
recuperada para Poemas encadenados, pp. 249-301.
69
Cicatriz, p. 38.
70
«Verdades a medias» [1], p. 13. Como dato biográfico, la miopía le eximió de tener que realizar
el servicio militar; considerando vergonzante tal hecho, intentó alistarse como voluntario.
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almas: adiós a la religión de Dios, un adiós dubitativo porque el pañuelo
aún se agita71.
Con meridiana claridad articuló su concepción de Dios al explicar su obra La
risa de Dios:
En el fondo, lo que dice este libro es que si hay un ser superior, en el que
yo creo, ese ser debe contener a la vez, puesto que ha creado todo, el
bien y el mal; debe ser a la vez bueno y malo. No es una visión dualista,
sino que hay un dios que no es ni bueno ni malo sino que juega con
nosotros72.
Así, el lúdico actuar de Dios se traduce en nuestra impotencia y desgracia, en
ocasiones.
El afeitado
Aunque pueda parecer aparentemente banal, el afeitado, presente en ambas
obras, es recurrente como símbolo de revelación y cuidado. Así, en La voz de Ma-
llick, se dirige el protagonista a Wataksi: «sólo tú puedes llevar el compás de mi
delirio / cálmame / necesito que afeites / mis mejillas descuidadas / con la más tier-
na navaja de caricias» (Mallick, m. 68, p. 390). Y también en La cicatriz, donde el
condenado a muerte presenta restos de espuma: «Hay una cantidad razonable de
espuma de afeitar muy blanca en las mejillas y la barbilla de Él; la espuma de afeitar
debe permanecer donde está durante todo el tiempo posible» (Cicatriz, p. 42), lo que
indica una revelación de la cicatriz.
Además, aparece asimismo en «Verdades a medias» [1]:«Afeitarse todos los días
puede ser un pecado terrible. Afeitarse todos los días es alejarse definitivamente del
arrayán y del aire. Admiro a las secretarias que se afeitan cada mañana antes de ir
en helicóptero a las oficinas del centro y de cristal»73. En este texto parece aludir a
la domesticación que supone acatar ciertas reglas de conducta social y, sobre todo,
de artificialización. Aunque no deja de mostrar, en ambivalente recepción, su admi-
ración ante aquellas que logran cumplir con los requisitos de la efímera y exigente
vida moderna.
71
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» – «Manifiesto», en Verdades a medias, p. 14.
72
Pedro Casariego Córdoba, «Fragmento de la entrevista de El Paseante», en Pedro Casariego
Córdoba, homes i monstres. hombres y monstruos, p. 36.
73
«Verdades a medias» [1], p. 13.
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Conclusión (parcial)
Una obra de los débiles, de conmiseración que no niega la miseria propia de
cada uno, sobre todo de aquellos que luchan contra lo establecido74. Tanto Él como
Mallick son condenados ante un poder superior, aunque ese juego jerárquico no se
observa desde una perspectiva exclusivamente respetuosa75.
Treinta años después de su escritura, ambas obras conservan la misma fuerza
expresiva que se apreció ya en su aparición: «Tengo que mencionar la obrita de tea-
tro llamada La cicatriz, que aguantaría espléndidamente bien una lectura (y hasta
una representación)»76, diría Juan Carlos Suñén.
En la entrevista recogida en la antología 8 poetas raros, y reeditada en Verdades
a medias, escribió: «No sé si soy sentimental, lo que sí sé es que estoy plagado de
sentimientos, de peces que piden calor»77. Y por eso caben, como manifestación del
yo, la ironía, el humor, la ternura…
Aunque explicitó bien en qué consistía la escritura: «Un buen poema quizás sea
el lado valiente de un cobarde o la bala de un sentimental»78, quizás en Maquillaje
legó toda una clave para identificar a los suyos:
A los que saben
que el coche blanco
es sólo el más veloz
de mis ceniceros
y a Genoveva79.
En su prólogo al segundo poemario publicado por Pe Cas Cor, Pedro Laín En-
tralgo definió el maquillaje del mundo como
una pared, en definitiva quebradiza, interpuesta entre lo que se ve y lo
que se presiente, entre la seguridad inmediata y opresora de la aparien-
cia visible y la incierta, promisora seguridad de una realidad profunda.
74
«me apiadé / del arrugado ladrón de carros de fuego / la debilidad del rebelde / merece una
piedad / mucho más / honda / que el océano / pacífico / de los / mansos» (Mallick, m. 74, p. 394).
Señalaba Esther Ramón: «los mendigos, y en general los personajes marginados o fuera de la ley (el
toxicómano de El hidroavión de K., los delincuentes y asesinos, los desocupados, el indio…), ocupan
en el imaginario de Pedro Casariego Córdoba un lugar cargado de sentido» (op. cit., p. 31).
75
«el Señor / apuesta / en las carreras de ángeles / nosotros / apostamos / en las carreras de galgos
/ he aquí / la principal diferencia / entre / el Señor / y los hombres» (Mallick, m. 75, p. 394).
76
Juan Carlos Suñén, op. cit.
77
Pedro Casariego Córdoba, «Entrevista para Sur Exprés», p. 209.
78
Ibíd., 206.
79
Pedro Casariego Córdoba, Maquillaje (letanía de pómulos y pánicos), cit., reeditado en Zara-
goza, Tansonville, añadiendo un texto de su hermano Antón («Frau Schneider, por usted no pasan
los años», pp. 7-8).
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Algo hay en el mundo y en el hombre más allá del maquillaje. Hay, por
lo pronto, ese corazón del mundo y del hombre80.
La obra de Casariego Córdoba presenta ese reconocimiento del maquillaje del
mundo, derribado de distintos modos: si en La cicatriz lo encontramos reducido a
su mínima expresión: apenas Él, Ella, el guardián y una prisión, el simbolismo ad-
quiere una profusión salvaje en La voz de Mallick, donde en cualquier caso todo el
universo se concentra en la tensión sentimental y ética entre un hombre (Mallick) y
una mujer (Wataksi). Al fin y al cabo, el suyo fue un ejercicio de ruptura, de observa-
ción de la realidad interior para crear una propia y singular, como se ha señalado81.
Con humor, sin duda, afirmó Pe Cas Cor: «sólo soy un verdadero artista mien-
tras vacío el lavaplatos»82. Pero más allá de lo ingenioso, hay una decidida apuesta
por la poesía como forma de vida, acto creativo para impregnar cualquier actividad
cotidiana de belleza y revelación, desautomatizándola de su burocracia, con la rebe-
lión como estímulo y mandato: «Aquellos de entre vosotros que desoigan y desobe-
dezcan serán premiados, a ellos, por regar, basta una sola gota, su propio misticismo
con sangre sabia, les otorgará la vida premios y mercedes innombrables. Bendito el
que no haga caso»83.
De ahí la obra que crea: una visión profunda de lo superficial, desesperanzadora,
en ocasiones, irónica, tierna, y, sobre todo, necesaria, que reinventa el conflicto des-
de distintas perspectivas para que sea el mismo hombre en diferentes hombres —o
el mismo hombre que en realidad somos todos—, el que nos muestre el camino del
desaliento pero también el de la sincera búsqueda de la verdad sin concesiones. Ma-
neras de romper barajas marcadas para poder realmente alcanzar la virtud del juego.
80
Pedro Laín Entralgo, «Prólogo a un joven poeta», en Pedro Casariego Córdoba, Maquillaje
(letanía de pómulos y pánicos), Zaragoza, Tansonville, 2006, p. 10.
81
«Crea su propio sistema poético: simbólico y visionario, nada conservador ni retórico, mel-
ancólico y trágico, épico y humorístico al tiempo, capaz de romper los límites de la imagen, las
pautas de representación de las palabras y de la identidad de un sujeto fragmentado, dividido y hasta
negado. Su lenguaje es una especie privada, un preciso estado interior que construye su escenografía
detallada en lo exterior y cotidiano» (Antonio Ortega, «Un hielo celeste» —reseña a Poemas encade-
nados (1977-1987)—, Babelia, suplemento cultural de El País, 12/04/2003, p. 11).
82
Pedro Casariego Córdoba, «Verdades a medias» [1], p. 13.
83
Ibíd., p. 16.
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Anexo:
tabla de variantes
Pliegos de la ínsula Barataria Verdades a medias
Ø [dibujo del rostro de un varón con una cicatriz, es-
cribiéndose precisamente esa palabra como marca]
(obra de teatro) Ø
1984 1981
no demasiado lujosa pero visitable (p. 75) no demasiado lujosa, pero visitable (p. 27)
y por lo tanto la más terrible (p. 75) y, por lo tanto, la más terrible (p. 27)
una televisión diminuta (p. 75) un televisor diminuto (p. 27)
Ø (p. 75) ÉL (p. 28)
Pero no había jurado (p. 75) Imposible, no había jurado (p. 28)
El se sienta (p. 76) [errata] Él se sienta (p. 28)
El público se dará cuenta inmediatamente de que el Ø (p. 28)
guardián no sabe hablar francés (p. 76)
ÉL (disculpándose).—Creí que no fumaba usted ÉL (conciliador).—Le daré el mío. (Se lo da.) Creí
estando de servicio, pero le daré el mío. (Se lo da.) que no fumaba usted estando de servicio. (p. 30)
(p. 77)
Sabría de memoria sus oraciones si usted hubiera Sabría de memoria sus oraciones, si usted hubiera
rezado (p. 78) rezado (p. 33)
Es fea a primera vista, pero los niños me preguntan Es fea a primera vista, y los niños me preguntan
cómo me la hice. (p. 79) cómo me la hice. (p. 33)
a veces pienso que me estoy volviendo loco. Pero no a veces pienso que me estoy volviendo loco… pero
estoy loco (p. 79) no estoy loco (p. 34)
Había en ella tanta pasión. Pero podía ser también Había en ella tanta pasión… (Pausa.) También po-
fría como el hielo. (p. 79) día ser tan fría como el hielo del Polo Norte (p. 34)
Aunque el alcaide le haya comprado a usted una Aunque el alcaide le haya comprado a usted un
televisión diminuta. (Señala la televisión diminuta.) televisor diminuto. (Señala el televisor diminuto.)
(p. 80) (p. 36)
(Arroja el tubo de aspirinas contra el público, prefe- (Arroja el tubo de aspirinas contra una butaca va-
riblemente apuntando a una butaca vacía). (p. 81) cía). (p. 37)
Cuando pienso en ella la cabeza no me duele. (p. 81) Cuando pienso en ella, la cabeza no me duele (p. 37)
ella tenía las riendas pero no las usaba (p. 82) ella tenía las riendas y no las usaba (p. 38)
Llevo un rifle carísimo escondido dentro de la caja Llevo un rifle carísimo escondido dentro de un
de un instrumento musical. Voy a matar a un jeque instrumento musical. Voy a matar a un jeque árabe.
árabe, pero nunca me he sentido tan tranquilo (p. Pero nunca me he sentido tan tranquilo (p. 39)
83)
para desayunar en sus casas decoradas con medallas para desayunar en sus casas decoradas con medallas
olímpicas. Pero las fotografías serán escudos (p. 83) olímpicas, pero las fotografías serán escudos (p. 40)
El público verá, sorprendido, cómo el guardián El guardián agita los brazos (p. 41)
agita los brazos (p. 84)
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Él, como el público, no entiende del todo lo que está Él no entiende del todo lo que está pasando (p. 41)
pasando (p. 84)
El guardián se tapa la cabeza con la almohada. Con- El guardián se tapa la cabeza con la almohada, en
sidero fundamental que una mujer haya bordado un cuya funda hay un tigre bordado (p. 41)
tigre en la funda de la almohada (p. 84)
la televisión diminuta (p. 85) el televisor diminuto (p. 42)
la estación del ferrocarril (p. 85) la estación de ferrocarril (p. 42)
las estaciones del ferrocarril (p. 85) las estaciones de ferrocarril (p. 42)
transcurren 10 segundos (p. 85) transcurren diez segundos (p. 43)
la estación del ferrocarril (p. 86) la estación de ferrocarril (p. 43)
El público se sorprende cada vez más, porque no es Ø (p. 44)
demasiado inteligente (p. 86)
Pero no me conoces (p. 87) y no me conoces (p. 45)
Se levanta y muestra la corbata al público; el públi- Se levanta y muestra la corbata al público: la corbata
co, cada vez más sorprendido, advierte que la corba- es una linterna encendida (p. 47)
ta es una linterna encendida (p. 89)
No sé por qué, pero espero que no haya demasiados Ø (p. 51)
espectadores sensibles en el teatro (p. 91)
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r e f e r e nc ias b i b l io g r á f ic as
Casariego, Antón, «La lata es la vida» en Pedro Casariego Córdoba, La vida puede ser una lata /
Falsearé la leyenda, Madrid, Árdora, 1994, pp. 5-8.
Casariego Córdoba, Pedro, Maquillaje (letanía de pómulos y pánicos), con un prólogo de Pedro
Laín Entralgo, Madrid, Editora Nacional, 1983, reeditado en Zaragoza, Tansonville, añadien-
do un texto de su hermano Antón («Frau Schneider, por usted no pasan los años», pp. 7-8).
—, «Entrevista para Sur Exprés» [entrevista realizada en febrero de 1998 por José María Parreño
y José Luis Gallero], en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias, pp. 205-210; publicada
anteriormente, con el título «Los manicomios están llenos de ropa interior», Sur Exprés, 8
(marzo de 1988), pp. 102 y sigs., con el título «Nací apache»], publicada posteriormente en
Pliegos de la ínsula Barataria. Revista de creación literaria y de filología (número especial de-
dicado a Pedro Casariego Córdoba), 2 (1995), pp. 127-131, y en José María Parreño y José Luis
Gallero, 8 poetas raros, Madrid, Árdora, 1992, pp. 15-19, recogida con el título «Entrevista
para Sur Exprés».
—, La voz de Mallick, Huelva, Diputación Provincial de Huelva, 1989, recogido posteriormente
en Poemas encadenados, prólogo de Ángel González, introducción de Esther Ramón, epílogo
de Pedro Casariego H.-Vaquero, 2ª ed, Seix Barral, Barcelona, 2009, pp. 353-398.
—, La cicatriz, en Pliegos de la ínsula Barataria. Revista de creación literaria y de filología (nú-
mero especial dedicado a Pedro Casariego Córdoba), 2 (1995), pp. 73-91, recogido posterior-
mente en Pedro Casariego Córdoba, Verdades a medias, pp. 25-51.
—, homes i monstres. hombres y monstruos, Valencia, Universitat de València, 1997, ed. trilingüe
en valenciano, español e inglés.
—, Cuadernos amarillo, rojo, verde y azul, Madrid, Árdora, 1998.
—, Verdades a medias, selec. y ed. de Antón Casariego, Madrid, Espasa Calpe, 1999.
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món, epílogo de Pedro Casariego H.-Vaquero, Barcelona, Seix Barral, 2003.
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"Description": "Dopo anni di oblio, Andrés Carranque de Ríos (1902-1936) sta ritrovando il suo giusto spazio nella critica e presso i lettori. Il proposito del presente lavoro è delineare la figura dello scrittore, praticamente sconosciuto in Italia, e analizzare alcuni aspetti della sua prosa giornalistica e narrativa. Si studierà l’importante e controverso legame con il cinema che conosceva la sua timida alba in Spagna, si analizzeranno i racconti pubblicati sulla rivista illustrata «Estampa» e si metteranno in luce alcuni aspetti dei suoi tre romanzi: «Uno» (1934), «La vida difícil» (1935), «Cinematógrafo» (1936). Carranque appartiene a quella generazione di scrittori della Repubblica che fanno della letteratura uno strumento di denuncia sociale, convergendo sulla necessità di superare l’elitismo borghese dell’avanguardia per rivolgersi alle masse, raccontando le dure condizioni di vita della classe operaia. La letteratura di Carranque non è però propagandistica: rifiuta l’addottrinamento di partito per denunciare le ferite aperte del corpus sociale in una prospettiva neorealista. Tutto ciò viene dalla sua esperienza diretta: una vita di ristrettezze economiche che lo obbligano a dedicarsi fin da giovanissimo ai lavori più svariati, in Spagna e in Europa. Il suo anarchismo lo porta due volte in carcere e il tempo della reclusione è dedicato alla lettura disordinata a vorace. Nonostante una vita al margine nel 1935 viene scelto, insieme ad alcuni grandi della letteratura, come delegato spagnolo nel Primo Congresso Internazionale di scrittori in difesa della Cultura realizzato a Parigi.\r\n\r\nAfter years of being ignored as a writer by critics and readers, Andrés Carranque de Ríos (1902-1936) is finding his deserved place. The aim of this work is to outline the figure of this writer, almost unknown in Italy, and analyze some aspects of his narrative and journalistic prose. We will study as well the important and controversial relation between Carranque and the cinema, which was having a timid beginning in Spain. We will analyze the stories published by Carranque in the illustrated magazine 'Estampa' and we will also underline some aspects of his three novels: 'Uno' (1934), 'La vida difícil' (1935) and 'Cinemátografo' (1936). Carranque belongs to that generation of writers of \"la República\" that made of literature an instrument of social protest to overcome the bourgeois elitism of vanguard and to appeal to the masses by telling them about the harsh living conditions of the working class. The literature is not propaganda for Carranque: he refuses party indoctrination and exposes the open wounds of the social body in a neorealist perspective. All of this comes from his direct experience: a life of privations that forced him to work since a young age in lots of different jobs, in Spain and Europe, and his anarchism that led him into prison two times. Despite a life at the margin, Carranque was chosen, along with important personalities of literature, as a Spanish delegate to the First International Congress of Writers for the Defence of Culture held in Paris, in 1935.",
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La lunga ombra dell’anarchico
Aspetti della narrativa di Andrés Carranque de Ríos
B ARBARA M INESSO
Università degli Studi di Milano
[email protected]
Introduzione
Dopo anni di oblio, Carranque, che ha fatto della sua vita una creazione origina-
le e che non ha mai smesso di denunciare le ingiustizie e i soprusi subiti dalle classi
marginali, senza sfociare in facili manicheismi, sta ritrovando il suo giusto spazio
nella critica e presso i lettori1. È sintomatico che nel 2006 un lettore appassionato,
nonché scrittore, Asis Lazcano, sia arrivato finalista nel premio Alfonso X El Sabio
con la sua biografia romanzata di Carranque, intitolata La sombra del anarquista.
1
Dalla pubblicazione del suo ultimo romanzo (1936) passarono quasi trent’anni prima che
un’opera di Carranque venisse rieditata. Il suo Cinematógrafo venne incluso da Joaquín de Entram-
basaguas nel volume IX (1963) di Las mejores novelas contemporáneas, Barcelona, Planeta, 1958-1971.
Negli anni ‘70 si assistette a un importante recupero dell’opera di Carranque dovuto soprattutto a José
Luis Fortea che raccolse alcuni dei racconti di Carranque, tra cui quello che dà il titolo al volume, in
De la vida del señor Etcétera y otras historias, Madrid, Helios, 1970. Tre anni dopo Fortea pubblicò
uno studio dedicato all’autore dal titolo La obra de Andrés Carranque de Ríos, Madrid, Gredos, 1973.
Fortea firma anche l’introduzione all’edizione de La vida difícil di Turner, Madrid, 1975 e più recente-
mente ha curato l’edizione completa dell’opera di Carranque: Obra completa, Madrid, Ediciones del
Imán, 1998. A partire dagli anni Novanta Blanco Bravo Cela ha contribuito al recupero dello scrittore
con una serie di articoli e curando l’edizione di La vida difícil, Madrid, Cátedra, 2005. Cinematógrafo
è stata rieditata nel 1993 dal Comune e dalla Comunità di Madrid e nel 1997 da Viamonte (Madrid)
con un prologo di Antonio Muñoz Molina.
Barbara Minesso
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Il proposito del presente lavoro è delineare la figura dello scrittore, praticamente
sconosciuto in Italia, e analizzare alcuni aspetti della sua prosa giornalistica e nar-
rativa. Si studierà l’importante e controverso legame con il cinema che conosceva la
sua timida alba in Spagna, si analizzeranno i racconti pubblicati sulla rivista illustra-
ta Estampa e si metteranno in luce alcuni aspetti dei suoi tre romanzi.
Profilo biografico
Andrés Carranque de Ríos nasce a Madrid nel 19022, lo stesso anno di Rafael
Alberti e Luis Cernuda, ed è pressoché coetaneo di García Lorca, Buñuel e Dalí. La
vicinanza alla celebre Generazione del ’27 è solo anagrafica; differente per estrazione
sociale e concezione artistica, Carranque non partecipa alle ludiche provocazioni
avanguardistiche della madrilena Residencia de Estudiantes e rifugge l’adesione a
scuole, accademie, sette e partiti. Avventuriere per temperamento, un’assidua in-
quietudine lo spinge a vagabondare per l’Europa aspirando la vita a pieni polmoni
alla ricerca di una nuova alba.
La sua numerosa famiglia – è il primo di quattordici figli – sopravvive con lo
stipendio del padre, portiere del mattatoio municipale di Madrid, uomo piuttosto
brutale e intransigente nei confronti delle velleità artistiche del primogenito. A tre-
dici anni Andrés inizia a lavorare in un’ebanisteria come apprendista; i colleghi gli
prestano libri e opuscoli rivoluzionari, mentre la realtà sociale diventa irrespirabile.
L’aumento dei prezzi aveva cancellato i benefici derivanti della neutralità spagnola
durante la Prima Guerra Mondiale. Carranque, fondatore di un gruppo anarchico,
partecipa nel 1917 ai saccheggi di generi alimentari nella capitale; entra in carcere ed
esce poeta, con tanto di chioma e pipa sempre spenta. Il desiderio di esperienze e di
mondo lo porta, senza un soldo in tasca, da Bilbao a Santander, Anversa e Parigi, a
lavorare come verniciatore, venditore ambulante, scaricatore di porto; solo il mal di
mare gli impedisce di diventare marinaio. Passa molte notti sulle banchine dei treni,
nelle stazioni, nei rifugi per indigenti e a volte visita i bordelli cosmopoliti, in cerca
di un po’ di calore. Tornato a Madrid, dopo due anni e mezzo, utili a scoprire che la
miseria umana non ha frontiere, viene arrestato di nuovo, questa volta per fare pro-
paganda sovversiva e legittimare l’assassinio del capo del governo per mano di anar-
chici. Il tempo della reclusione è dedicato alla lettura, vorace e disordinata, mentre
cresce in lui l’odio per l’ordine sociale e l’affanno di scrivere. Una volta libero, l’at-
trazione per la Ville Lumière è irresistibile come per tutti i bohémien dell’epoca, ma
in Carranque, pur vivendo di espedienti, manca quel tratto di compiaciuta picaresca
2
I principali dati biografici su Carranque si trovano in: José Luis Fortea, Introducción a La vida
difícil, Madrid, Turner, 1975; Joaquín de Entrambasaguas, Las mejores novelas contemporáneas, vol
IX; Blanca Bravo Cela, Introducción a La vida difícil; Manuel Borrás, «Del señor etcétera. Carranque
de Ríos» in Javier Barreiro (ed.), Oscura turba de los más raros escritores españoles, Zaragoza, Xordica,
1999.
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presente in altri autori; allo stesso modo, la narrazione dell’avventura galante, in
voga nella produzione di quegli anni, diventa nella sua opera aneddoto amaro e
frustrante.
Non cessa di scrivere versi e solo quando termina Nómada torna a Madrid deci-
so a pubblicarlo. Nel 1923 esce questo libro di poesie di chiara ispirazione anarchica,
con brani che inneggiano a Rosa Luxemburg, la dinamite e la pistola. L’anarchismo
di Carranque è la conseguenza del confronto con una realtà misera e ostile, in fami-
glia, sul lavoro, in carcere, a Madrid e in Europa. Si vendono in totale cinque copie
del libro: uno smacco per l’aspirante poeta e un disastro economico per l’editore, un
venditore di uova anarchico.
Passano undici anni prima che Carranque torni a pubblicare un libro, il suo
primo romanzo di ispirazione autobiografica: Uno (1934), seguito a breve distanza
di tempo da La vida difícil (1935).
In questo periodo la sua prosa si affina, come dimostrano i racconti e le novelle,
una decina in tutto, che pubblica sui periodici dell’epoca. Ma vivere della propria
penna è ancora un miraggio lontano e la lotta per la sopravvivenza lo obbliga di
nuovo ai lavori più improbabili: promotore di abbonamenti di riviste di moda, ma-
nager del fratello pugile, modello di nudo nell’Accademia di Belle Arti, muratore.
Cerca fortuna nel mondo appena nato del cinema, frequentando assiduamente i
caffè dove si riuniscono i circoli di aspiranti attori e presunti registi, assumendo una
pose che spera possa destare attenzione. La sua ostinazione è finalmente premia-
ta: dopo una serie di promesse incompiute, sogni frustrati e contratti mai stipulati,
ottiene una parte importante nel film Zalacaín el Aventurero (1929), ispirato a un
romanzo dell’ammirato maestro Pío Baroja. Sembra aver trovato la sua dimensione,
è convinto di poter fare cose interessanti in questo mare immenso che è il cinema.
In realtà ottiene solo qualche particina secondaria, mette la sua bella voce al servi-
zio del doppiaggio dei primi film sonori, e con la testa piena di sogni, condizione
necessaria per riprendere a camminare, viaggia a Parigi, con la speranza di lavorare
per la Paramount. Non ha fortuna. Ancora una volta la capitale francese si dimo-
stra una città il cui cielo è ostile per gli outsider che lottano. Torna a Madrid con la
convinzione che la letteratura sia la sua unica salvezza. Approfittando dell’ondata
di traduzioni dal tedesco e dal russo, legge instancabilmente Gorkij, Čechov, Go-
gol’, Dostoevskij, anche se non dimentica mai di mettere in tasca un libro di versi
di Antonio Machado. Non sono passati molti anni da quando, in compagnia di un
amico scrittore, girovagava per i paesi di Spagna, offrendosi di recitare versi propri o
prestati nei circoli ricreativi, in cambio di qualche moneta per continuare il viaggio.
Nella sua vita il paradosso diventa un blasone; proletario senza mezzi, non vuo-
le rinunciare alla buona cucina e ama vestire bene. Non si toglie mai i guanti bianchi
che nascondono i segni del duro lavoro manuale; i più maligni mormorano che gli
abiti dal taglio elegante siano regali di signore soddisfatte dei favori dispensati dal
versatile scrittore. Carranque, che ha dato vita letteraria a vari gigolò e protettori,
non ha mai manifestato, forse influenzato dalla lettura entusiastica di Nietzche, una
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grande considerazione nei confronti delle donne, le quali però non restano indiffe-
renti al suo fascino di uomo alto, moro, garbato e simpatico. Molte sfilano nella sua
vita, ma l’unica con cui instaura una relazione duratura, anche se poco convenzio-
nale, è Eugenia Castañer, donna forte, moderna e liberale, capace di dare all’artista
stabilità emotiva e sostegno economico.
Nonostante il suo appartarsi dai circoli artistici e una vita al margine, nel 1935
viene scelto, insieme ad alcuni grandi della letteratura, come delegato spagnolo nel
Primo Congresso Internazionale di scrittori in difesa della Cultura realizzato a Pari-
gi, che vede la partecipazione, tra gli altri, di Neruda, Dos Passos, Gide. Carranque,
in qualità di inviato del prestigioso giornale Heraldo di Madrid, manda le sue crona-
che dal Congresso e la sua firma appare a fianco di quella di Neruda in una sorta di
appello in cui si ribadisce la necessità di una giusta diffusione della cultura.
Lo scrittore torna da Parigi con il fermo proposito di riprendere l’attività lette-
raria nell’unica forma che gli si confà: la prosa del romanzo. Un terzo titolo si ag-
giunge alla lista, prima che la morte, sopraggiunta nel 1936 a causa di un cancro allo
stomaco, stronchi i suoi progetti. Si tratta di Cinematógrafo, splendida evocazione
romanzata della grigia alba di un cinema spagnolo appena supportato da un’indu-
stria cinematografia pressoché inesistente.
Carranque giornalista
Dei nove articoli3 pubblicati da Carranque tra il 1933 e il 1935 ci occuperemo in-
nanzitutto delle cronache inviate al quotidiano Heraldo de Madrid dal Primo Con-
gresso Internazionale di Scrittori per la difesa della Cultura, celebrato a Parigi tra
il 21 e il 25 giugno del 1935. Successivamente analizzeremo un articolo uscito su
Estampa che ci permetterà di esplorare il legame profondo, ma anche conflittuale
tra l’autore il cinema.
Da Parigi
La necessità di creare un ampio fronte internazionale di scrittori antifascisti in
opposizione alla crescente minaccia imperialista dei regimi di destra si concretizza
negli anni Trenta in una serie di iniziative di cui si fanno promotori soprattutto i
russi e i francesi. La decisione di dar vita a Parigi a un Congresso di Scrittori “in
difesa della cultura” e non “rivoluzionari” ben esprimeva questa nuova politica an-
3
«Un nuevo sistema de vivienda», Estampa, 9-IX-1933; «África misteriosa», Estampa, 16-IX-
1933; «Catalina Bárcena y Martínez Sierra vuelven a España para producir películas en Madrid»,
Estampa, 27-X-1933; «Seis horas dentro de un taxi», Nuevo Mundo, 15-XII-1933; «El Congreso In-
ternacional de Escritores para la defensa de la Cultura», Heraldo de Madrid, 17-VI-1935, 26-VI-1935
e 1-VII-1935; «Los escritores y el pueblo», Línea, 29-X-1935; «La cultura y el orden», Línea, 19-X-
1935.
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tifascista che da quel momento avrebbero sostenuto i Partiti Comunisti. Nel 1935 si
riunirono nel Palais de la Mutualité duecentotrenta rappresentanti provenienti da
trentotto paesi. La delegazione spagnola era composta da Álvarez del Vayo, che de-
nunciò la gravissima repressione della rivoluzione asturiana del 1934, dallo scrittore
Arturo Serrano Plaja e da Carranque de Ríos.
Le parole pronunciate durante le giornate del congresso parigino, al di là delle
polemiche e degli scontri personali, hanno come denominatore comune la difesa di
una letteratura impegnata e rivoluzionaria vincolata al nuovo pubblico di operai e
contadini. Carranque rappresenta una Spagna che vive un momento di tensioni so-
ciali esasperate. Le elezioni avevano decretato la vittoria della destra, a dimostrazio-
ne che l’euforia del primo biennio repubblicano (1931-1933) si era spenta. Non era
bastato ripristinare le libertà democratiche, soppresse durante la dittatura di Primo
di Rivera, il quale aveva scelto di liquidare con la persecuzione e la repressione la
minaccia del movimento operaio e delle organizzazioni anarchiche. La Repubblica
lasciava ancora insoddisfatte molte richieste e la netta polarizzazione in due blocchi
contrapposti di una società, sempre più coinvolta nel dibattito politico, faceva pre-
sagire l’imminenza del conflitto civile.
Uno dei risultati immediati del Congresso fu la creazione di una Associazione
Internazionale di Scrittori per la Difesa della Cultura (AIDC) il cui Comitato Inter-
nazionale era composto da dodici scrittori antifascisti de prestigio, uno dei quali era
Valle-Inclán.
Il 17 giugno del 1935 usciva un articolo sull’Heraldo intitolato «El Congreso In-
ternacional para la defensa de la cultura», corredato di una caricatura di Carranque
firmata da Del Arco e da un lungo sottotitolo: «El joven escritor Carranque de Ríos
nos habla de la significación y alcance que dicho Congreso tendrá en el mundo in-
telectual». L’anonimo intervistatore di Carranque si limita a sottolineare che questi
è diventato un nome di prestigio dopo la pubblicazione di La vida difícil. E che «sus
méritos y su independencia» gli sono valsi la convocazione a Parigi. In un tono con-
fidenziale Carranque spiega i propositi del Congresso:
En ese tiempo se examinará la labor literaria realizada por los diversos
países, las trabas que por parte del nazismo se pone a determinados
escritores y las persecuciones de que éstos son objeto por Gobiernos de
una y de otra tendencia. Los acuerdos han de ser muy importantes, y
sobre todo, adquieren importancia al estar avalados por las firmas de lo
más destacado de la intelectualidad mundial
Riguardo ai suoi progetti, rivela che il suo terzo romanzo «recoge toda la lucha
de la cinematografía española en la época del cine mudo». E, sollecitato dall’interlo-
cutore, esprime la sua distanza dal teatro. «Me hallo dentro del campo de la novela y
no quiero salir del mismo hasta que mi labor quede y la juzgue completa dentro de
este género literario»; oltretutto uno scrittore come lui «al que le gusta decir cosas
propias, aunque sean raras, encuentra más libertad en el libro para ello que en el
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diálogo teatral, sujeto al freno del espectador del momento». Il teatro è per Carran-
que un «freno molesto», una camicia di forza e in più sta attraversando in Spagna, a
suo parere, un momento di grande decadenza e mediocrità.
Nove giorni dopo, il 26 giugno del 1935, l’Heraldo pubblica le prime impres-
sioni di Carranque presentato come “enviado”. Il lungo articolo racconta la sessione
di apertura del congresso in una Parigi invasa dai cartelli che lo annunciano: un’ora
prima dell’inizio ci sono centinaia di partecipanti intorno all’imponente Palais de la
Mutualité, alcuni dei quali stanno comprando il biglietto d’ingresso che costa dai 5
ai 20 franchi.
Minutos antes de las nueve de la noche hace su entrada en el salón la
delegación española. En la segunda fila del patio de butacas tenemos
nuestros asientos y delante y detrás de nosotros se hablan diez idiomas.
Una grande ovazione accoglie la presidenza. Al centro un commosso André
Gide prende la parola ed esordisce dicendo che «Jamás ha estado la literatura tan
viva como ahora» eppure vive in uno stato costante di minaccia.
El que la cultura está amenazada nos lo hace ver el empobrecimiento
de algunos países. Pero la solidaridad y los peligros de contagio de país
a país es tal en los días de hoy que todos nos sentimos más o menos
amenazados.
La cultura che si vuole difendere «está hecha del agregamiento de las culturas
particulares de cada país»; una cultura comune e internazionale.
La parola passa poi al delegato inglese E. M. Forster che riconosce che la Gran
Bretagna non è minacciata da un brutale fascismo, ma da un pericolo ancora più in-
sidioso che è la restrizione progressiva di tutte le libertà nella vita pubblica. Reclama
una maggiore autonomia per gli scrittori e si scaglia contro la censura. La sessione
è poi sconvolta da un incidente che riguarda proprio la delegazione spagnola. Un
uomo «alto y grueso» fa irruzione sul palcoscenico. È Eugenio d’Ors. Gli spagno-
li – portavoce Álvarez de Vayo – sono costretti a spiegare che quell’uomo è uno
dei più assidui collaboratori de “El Debate” organo di espressione della frangia più
reazionaria della società spagnola, capitanata da Gil Robles. La presidenza decide
comunque che in un determinato momento concederà la parola a d’Ors, evento che
poi non si verifica.
Parte dell’articolo è un sentito commiato allo scrittore René Orvel, morto suici-
da all’età di trentacinque anni.
L’ultima cronaca inviata da Parigi viene pubblicata il primo luglio del 1935. Car-
ranque rievoca i due discorsi che hanno acceso il pubblico durante la sessione del
22 giugno, giorno in cui arrivano i primi applausi per la Spagna nel momento in cui
Louis Aragon pronuncia il nome di Valle Inclán. L’intervento di Ilya Ehrenburg mo-
stra il tono rovente e rivendicativo dei libri: spiega all’uditorio che in Russia gli scrit-
tori sono accolti con grande calore nelle fabbriche e che ogni libro composto con
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«palabras humanas» lavora «sobre los sueños reveladores de la conciencia». Causa
grande tristezza il pensiero che molti scrittori «cuya voz fue creada para ser enten-
dida por millones de hombres» siano costretti a dialogare con se stessi in un’angusta
prigione.
André Gide accusa i nazionalisti di essere nemici della cultura mostrando solo
ciò che è falso e artificiale. L’autore non ammette che «una civilización tenga nece-
sariamente que ser insincera y que el hombre no pueda civilizarse sino mentiendo».
Carranque termina l’articolo con un’amara riflessione scaturita dalla visione di
un antico scudo spagnolo sull’insegna di una pelletteria, mentre passeggia in una
desolata Parigi notturna senza mezzi di trasporto dal momento che smettono di
funzionare «mucho antes que en Madrid».
Avrebbe voglia di svegliare il meschino proprietario che immagina avere molti
punti in comune con l’orologiaio protagonista del suo romanzo La vida difícil per
informarlo che «España ha variado lo suficiente para suprimir […] ese escudo».
Il cinema
Carranque fece parte in gioventù della “caimania”, ovvero un gruppo di persone
che frequentava assiduamente le tertulias di Madrid nelle quali si discorreva di cine-
ma4. Ottiene la sua prima parte nel 1927 in Al Hollywood madrileño, un film speri-
mentale di Nemesio M. Sobrevila che con una prospettiva avanguardista «cuestiona
la picaresca cinematográfica madrileña»5, cosa che farà lo stesso Carranque nel suo
terzo romanzo Cinematógrafo. Dopo una serie di apparizioni in altri film6, partecipa
a Zalacaín el aventurero, che la critica accolse molto favorevolmente e che permise
a Carranque non solo di consolidare la sua fama di attore, ma anche di conoscere
l’ammirato maestro Pío Baroja che scriverà il prologo al suo primo romanzo Uno.
Nonostante questa intensa attività in ambito cinematografico7 e un’evidente
attrazione per questo mondo intorno al quale girano molti dei suoi personaggi8,
approfitta di ogni occasione per screditarlo. Nel 1933 commentando su Estampa9
il ritorno dagli Stati Uniti di Catalina Bárcena e Gregorio Martínez Sierra intenzio-
nati a produrre film a Madrid, riconosce che il cinema spagnolo acquisirà maggiore
tecnica e sontuosità. Ma, allo stesso tempo, consiglia ai giovani di non fidarsi delle
4
Blanca Bravo Cela, «Carranque de Ríos y el cine (1925-1936)», Secuencias, 11 (2000), p. 74.
5
Ibidem.
6
Es mi hombre di Carlos Fernández Cuenca (1927), La del soto del parral di León Artola (1928),
Eloy Gonzalo o el Héroe de Cascorro di Emilio Bautista.
7
Da segnalare l’ultima sua apparizione cinematografica in Miguelón (El último contrabandista) di
Adolfo Aznar y Hans (1933), ma anche l’attività di doppiatore e la scrittura di una sceneggiatura Abril
(1931), progetto per il quale non troverà finanziatori.
8
Blanco Bravo Cela, «Carranque de Ríos y el cine (1925-1936)», p. 74.
9
«Catalina Bárcena y Martínez Sierra vuelven a España para producir películas en Madrid»,
Estampa, 27-X-1933.
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imprese cinematografiche spagnole, di risparmiare soldi ed illusioni, diffidando di
offerte e promesse. L’autore critica, da un lato, la produzione hollywoodiana che
restituisce un’immagine della Spagna stereotipata e anacronistica e dall’altro il go-
verno spagnolo che non difende né protegge l’industria cinematografica e sembra
non capire che «el cine es una de las armas más poderosas con que puede defenderse
un país».
La narrativa
Gli anni della Seconda Repubblica propiziarono la nascita in Spagna di una let-
teratura sociale realista di grande impatto10 prodotta da una generazione di scrittori
che avvertiva la necessità di superare “l’arte per l’arte” e di restituire alla letteratura
un ruolo attivo di critica e di denuncia.
La pubblicazione nel 1930 del libro di José Díaz Fernández El nuevo roman-
ticismo costituisce il superamento teorico più concreto e decisivo della letteratura
d’avaguardia. L’autore auspica un ritorno alla realtà, facendo dell’elemento umano
l’essenza dell’arte. Il romanzo deve essere considerato uno strumento per analiz-
zare la società e contribuire a trasformarla, capace di mettere in luce «los mecani-
smos que perpetuaban y hacían posible el mantenimiento de situaciones opresivas
e injustas»11.
Carranque appartiene a questa generazione di scrittori che rifiutano l’antireali-
smo e l’idea del romanzo come gioco scevro da ogni responsabilità e optano per la
politicizzazione del dogma artistico, per un’arte sociale di contenuto rivoluzionario
da diffondere con tutti i mezzi possibili, non solo il libro, ma anche il racconto, la
novella, l’articolo di giornale. Víctor Fuentes analizza alcuni romanzi del gruppo e
ne ricava che il tema centrale «es el de la denuncia de la barbarie represiva desen-
cadenada por las fuerzas del Estado contra las reivendicaciones sociales de campe-
sinos y obreros»12. La peculiarità di Carranque rispetto al gruppo è, secondo Bravo
Cela, «una excepcional ironía que carga tintas de modo sutil, con una fina elegancia
que le lleva de la fotografía al grito y de ahí de nuevo al silencio latente que esconde
siempre una queja»13.
Il principale motivo letterario di Carranque è la realtà; partendo dalle condizioni
di vita di un gruppo sociale fatto di persone con nome e cognome, cerca di sveglia-
re la coscienza del lettore narrando gli aspetti più crudeli della realtà quotidiana14.
10
José Esteban – Gonzalo Santonja, Los novelistas sociales españoles (1928-1936), Barcelona, An-
thropos, 1988, p. 7.
11
Ibidem, p. 11.
12
Víctor Fuentes, «La novela social española (1931-1936): temas y significación ideológica», Ínsula,
288 (1970), pp. 1, 4.
13
Blanca Bravo Cela, «Carranque de Ríos, el tremendista obligado», Cuadernos Hispanoamerica-
nos, 647 (2004), p. 43.
14
José Luis Fortea, Prólogo a La vida difícil.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 103-116. issn: 2240-5437.
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Il gruppo sociale diventa personaggio, la critica alla borghesia è sempre presente
e, sebbene tratti della desolazione e della negazione dei bassifondi, un nuova luce
appare sempre all’orizzonte, la fiducia nell’uomo, nonostante tutto, non crolla mai.
Racconti sulla stampa
Nel secondo e terzo decennio del Novecento Carranque collabora con alcune
delle riviste letterarie madrilene di maggior prestigio dove pubblica nove raccon-
ti15. La collaborazione più assidua è quella con Estampa, pubblicazione settimanale
illustrata fondata da Luís Montiel de Balanzat, ingegnere madrileno e monarchico
moderato, entusiasta della tecnica, delle macchine e del progresso. La rivista soddi-
sfaceva le pretese del sottotitolo che recitava Revista Gráfica y literaria de la actuali-
dad española y mundial. Ad un anno dalla sua fondazione Estampa raggiungeva una
tiratura di 200.000 copie, pari a quella dei suoi rivali più competitivi come Blanco y
Negro e Nuevo Mundo. Il criterio editoriale fu quello di arrivare al grande pubblico
mantenendo un tono moderato, senza un impegno politico evidente. Sin dal primo
numero, la rivista mostrò un’attenzione speciale verso il pubblico femminile e si in-
teressò al ruolo della donna nella società del momento, sottolineando il suo ingresso
in professioni che fino a quel momento erano riservate unicamente agli uomini. Una
caratteristica distintiva di Estampa era la grande quantità di fotografie che riempiva-
no le pagine della pubblicazione.
I cinque racconti che Carranque pubblica hanno per protagonisti personaggi
emarginati, sofferenti, poveri, reclusi. Con poche pennellate l’autore suggerisce la
miseria, le privazioni e i sacrifici di questi uomini dal destino spesso tragico che
giungono a una morte prematura a causa della malattia, della follia, delle precarie
condizioni lavorative. In questi brevi racconti che occupano una sola pagina della
rivista viene per lo più rappresentato un conflitto di classe, uno scontro tra il bor-
ghese e il proletario, tra l’oppressore e la vittima. Ma non sempre le vittime sono i
più deboli, «en ocasiones son los adinerados empresarios que han amasado su for-
tuna sirviendo a los demás»16. Questo tono amaro di sconfitta è mitigato, in alcuni
racconti, dal senso di solidarietà e fratellanza che si instaura tra i compagni, siano
essi lavoratori, operai, detenuti.
Gli operai del racconto Los trabajadores (14/10/1933) si stringono intorno a Mar-
tín, un collega della segheria che, a causa di un incidente sul lavoro, giace dolorante
sul letto di una clinica dopo aver subito un’operazione alla testa. I colleghi osserva-
no silenziosi la sua agonia: il corpo che sembra allungarsi sotto le lenzuola, il viso
15
«Un astrónomo», La Voz, 01/02/1924; «En invierno», Estampa, 18/02/1933; «En la cárcel», Estam-
pa, 06/05/1933; «El método», Estampa, 17/06/1933; «Los primeros pasos», Nuevo Mundo, 28/07/1933;
«Los trabajadores», Estampa, 14/10/1933; «De tres a cinco de madrugada», Estampa, 24/11/1934; «El
señor director», Ciudad, 16/02/1935; «Cuatro hombres encarcelados», Ciudad, s. f.
16
Blanca Bravo Cela, Introducción a La vida difícil, p. 85.
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sempre più pallido e i lamenti che cessano per lasciare spazio al silenzio definitivo.
La breve introduzione del racconto spiega che Los trabajadores è in realtà frutto
delle osservazioni di Juan Vergara, falso nome di un giovane che aveva abbandonato
l’Università, si era allontanato dalla famiglia, aveva conosciuto la vita operaia e «de-
spués se hizo propagandista». Ma finì per morire in carcere a Malaga nel 1926 all’età
di ventinove anni. La sua eredità ai compagni fu un orologio d’oro e alcuni scritti,
tra cui questa Estampa social che conteneva «conceptos penados por el código».
Carranque, che dice di aver rimaneggiato il racconto, afferma di firmarlo «sin la me-
nor vanidad y sólo como un recuerdo a su memoria». La prima scena è un ritratto
della vita operaia: si racconta della durezza delle mattine d’inverno soprattutto per
quegli operai che per risparmiare raggiungono la fabbrica a piedi, della pigrizia dei
minuti che precedono il suono della campana che dà inizio alla giornata lavorativa,
del rumore delle macchine che obbliga a parlare a gesti. Nella seconda scena si nar-
ra dell’incidente di Martín e della successiva operazione. L’operaio ferito alla testa
dopo essersi ribaltato con il carro cerca di sorridere alla notizia che né il carro né
le mule hanno subito danni. È un medico freddo e cinico quello che lo opera e che
«sonríe fríamente», osserva che in uno dei suoi guanti ci sono macchie di sangue e
si accende una sigaretta, diversa da quelle che fumeranno gli operai attorno al letto
del moribondo: «el humo es más espeso que el que despedía después de la operación
el cigarrillo egipcio del médico». Non c’è nessuna partecipazione al dramma che
avviene in quella clinica di ospedale da parte del medico che è costretto a lasciare la
sua partita a carte quando viene chiamato a ratificare la morte di Martín.
A volte, come detto, le vittime sono avidi imprenditori o lavoratori troppo zelan-
ti. «La dedicación al trabajo destinado a ganar demasiado también es considerada
por el autor como una bajeza, que no dignifica en absoluto»17. I fratelli di En invierno
(18-XI-1933) sono ossessionati dall’accumulare denaro con il loro negozio di generi
alimentari al punto da condurre una vita miserabile: il pranzo gli viene preparato
per poche pesetas dalla portinaia: «la comida […] era tan mezquina, que la portera
deducía que los dos hermanos comían peor que obreros». L’avidità dei due arriva
all’estremo di non comprare nemmeno il latte che potrebbe migliorare le condizioni
di salute del fratello minore che finisce per ammalarsi e morire. Arrivati al cimitero,
il fratello deve attendere che termini la cerimonia funebre in onore di una persona
che, a giudicare dal feretro, doveva essere ricca. «A Miguel le pareció que uno de los
señores enlevitados le observaba de arriba abajo y que detenía los ojos en sus botas,
llenas de barro». Le uniche parole che spezzano il silenzio del funerale sono quel-
le del becchino un momento prima della sepoltura che ribadiscono l’inconsistenza
della condizione umana: «Echaremos un poco de cal, así se descompone antes».
In De tres a cinco de la madrugada (24/11/1934) la vittima è una giovane attrice
di ritorno a casa dopo una notte di applausi e champagne. Non può reprimere un
grido di sorpresa nello scorgere dietro la tende la presenza di un uomo, ma si ricom-
17
Ibidem.
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pone rapidamente e riprende il controllo della situazione quando capisce che l’intru-
so non è altro che un devoto ammiratore. L’attrice scoppia a ridere nell’osservare che
l’inatteso ospite «vestía un traje muy usado», una risata nervosa e burlona che ferisce
e «aplana» l’altro. Nonostante le richieste dell’uomo di andarsene e di porre fine
alla deludente conversazione, l’attrice lo trattiene, offrendogli dello champagne, tor-
mentandolo con domande, con la lettura delle lettere che lui le aveva inviato e con
quella risata che esplodeva «como un chorro de agua diábolica». Gli occhi dell’uomo
si fanno via via più lucidi, con «la fijeza de la locura» e preso da un raptus, finirà per
uccidere l’attrice facendola precipitare dalla terrazza.
La miseria del protagonista de El método (17/06/1933) appare evidente già dalle
prime righe del racconto quando ci viene descritto attraverso gli occhi del suo nuo-
vo datore di lavoro, fabbricante di inchiostro: «El fabricante […] tenía delante a un
hombre mal trajeado, con una cabeza expuesta a una calvicie prematuras y unos
ojos de mirar débil que demostraban una alimentación insuficiente». E se avesse os-
servato meglio avrebbe visto che le scarpe del nuovo commissionario, Julián Gutiér-
rez avevano «la menor cantidad posible de tacón». Il commissionario era convinto
che si potessero ricavare notevoli guadagni dalla vendita delle ampolle di inchio-
stro; l’importante era avere un metodo. Il suo è quello di evitare i quartieri troppo
aristocratici e di puntare su quello più popolare della Latina. Dopo il primo giorno
di insuccessi, lo scetticismo inizia a farsi strada. Durante il suo secondo giorno di
lavoro, il protagonista si imbatte in una tabaccaia, una donna «algo pasada, pero de
la que podía esperar un hombre que no fuera muy exigente una ternura adornada
por curvas de grasas». La tabaccaia ascolta compiaciuta la dimostrazione di Julián
Gutiérrez, che capisce che c’è effettivamente n metodo per uscire dalla miseria.
Con un brusco salto temporale la scena successiva ci porta nella camera matri-
moniale della coppia, due mesi dopo le nozze. «La estanquera esperó a que Julián
Gutiérrez oprimiese el botón de la luz eléctrica para despojarse de la dentadura y
hundirla en un vaso de agua. De la cocina llegaba un olor desagradable, y él se le-
vantó para cerrar la puerta de la alcoba». L’autore insiste sugli elementi che rendono
questa scena domestica volgare e sgradevole: l’approccio della donna al corpo del
marito, le sue carezze con la mano sudata che obbligano Julián a lamentarsi, il rife-
rimento al russare18.
Una volgarità percepita tristemente anche da Julián Gutiérrez che avvertì «el
leve derrumbamiento de su libertad y el fracaso de su método».
En la cárcel (06/05/1933) è la fedele riproduzione del primo racconto pubblicato
da Carranque sulla stampa intitolato Un astrónomo19. È una strana vicenda raccon-
18
Blanca Bravo Cela in «Carranque de Ríos, el tremendista obligado», p. 47, sottolinea la sor-
prendente somiglianza del frammento finale del racconto con un paragrafo de La Colmena di Cela:
«Idénticas vulgaridades y similares renuncias son las descritas por Cela años después». Bravo Cela
insiste che il modello del tremendismo celiano non è altro che l’estetica degli scrittori della Seconda
Repubblica. Carranque sarebbe dunque l’anello mancante tra l’estetica prebellica e il tremendismo.
19
La Voz (01/02/1924).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 103-116. issn: 2240-5437.
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tata in prima persona, evidentemente un ricordo dell’autore del carcere di Malaga,
in cui si narra dell’abitante di una cella, in possesso di un libro e di un telescopio che
è convinto di poter scappare su Marte in primavera. Arriva la primavera e il recluso,
pazzo o sognatore, si suicida.
Romanzi
Il suo primo romanzo Uno è composto con aneddoti della sua intrigante vita
mischiati alla finzione, e a pochi mesi dalla pubblicazione viene tradotto in russo.
Carranque chiede e ottiene per questo libro il prologo di Pío Baroja, il quale, dopo
aver tracciato con ironia il carattere del suo discepolo, vagabondo e chisciottesco,
anarchico innocuo, ma implacabile davanti a un piatto di salmone, saluta il suo
ingresso nel mondo della letteratura «con garbo e con prestanza». Uno è la storia
di un anarchico militante che prima in caserma, poi in carcere e infine per strada
nei bassifondi madrileni, sperimenta le bassezze e la viltà di un sistema sociale op-
pressivo, e si dispone alla fine a riannodare la sua militanza politica. Solo in questo
punto il personaggio si discosta dal suo creatore; Carranque è impegnato sempre
più esclusivamente nella scrittura e si allontana dall’attivismo politico. Riceve con
lo stesso scetticismo del protagonista de La vida difícil la notizia dell’avvento della
Repubblica.
In La vida difícil (1935) la critica sociale, sempre presente, ma mai apertamente
schierata verso una fazione o un partito, evolve verso la narrazione frammentaria
di vite incrociate e l’autore dimostra un gran dominio del contrappunto simultaneo.
Magistrale è l’inserimento di un romanzo nel romanzo, che unisce storie e destini,
marcando l’abisso che separa la realtà e la finzione letteraria. Le piaghe della società
sono esibite crudamente, tra costanti riferimenti alla storia recente di Spagna e un
finale che sembra prevedere tragici eventi della storia mondiale.
Il romanzo è diviso in quattro “scene” a loro volta suddivise in sequenze; la
storia principale riguarda le peripezie del protagonista che cerca di sopravvivere in
ambienti diversi, tra Francia e Spagna e finisce per essere ucciso da due tedeschi. La
seconda storia riguarda una coppia francese divorata dalla noia e la terza linea ar-
gomentale è un romanzetto rosa ambientato in Africa. Numerosi sono i riferimenti
alla storia di Spagna tra la fine del 1930 e la proclamazione delle Seconda Repubblica.
Cinematógrafo (1936) racconta dell’alba grigia del cinema spagnolo, nelle mani di
un’industria ancora inconsistente e caratterizzata dal costante approfittarsi delle illusioni
suscitate da chi le si avvicina come fosse un nuovo “El Dorado”20. La critica sociale si fon-
de con la critica estetica, cinematografica e letteraria. Il cinema per Carranque è costitui-
to da due mondi: il primo è fatto da impresari e produttori, furbi e scarsamente preparati,
abilissimi però nello sfruttare il prossimo; il secondo è composto da quei personaggi che
si alimentano di sogni di gloria. Sono i personaggi meglio riusciti del romanzo, ritratti
20
José Luis Fortea, La obra de Andrés Carranque de Ríos, p. 114.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 103-116. issn: 2240-5437.
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con grande tenerezza. Non manca un riferimento autobiografico nella figura di Álvaro
il quale conosce come gli altri le miserie e le bassezze del mondo del cinema, ma è privo
di illusioni e di speranze. Si allontana da quel mondo, viaggia attraverso La Mancha e ci
descrive la vita di un paese nei suoi diversi strati sociali; entra al servizio di un politico
senza scrupoli per poi rompere con un mondo «que exige para poder vivir el ayudar o
apoyar a los mismos responsables de su infortunio»21 e muore suicida.
Conclusioni
Andrés Carranque de Ríos partecipa a quel fenomeno di crescente politicizza-
zione della letteratura iniziato a metà degli anni ‘2022, ispirato dalla disastrosa po-
litica estera del governo (in particolari gli insuccessi del Rif), alimentato poi dalla
conflittualità sociale della Repubblica, con il maggiore peso dei sindacati e dei par-
titi e l’aggravarsi della situazione dell’agricoltura. Il bienio negro (1933-1935) è carat-
terizzato da ulteriori problemi, dalla svolta conservatrice del governo, da un’ondata
di scioperi e terribili repressioni. La generazione di scrittori sorta intorno al 1927
aggregata intorno al Nuovo Romanticismo di Díaz Fernández considera necessario
abbandonare l’elitismo tipico dell’avanguardia per avvicinarsi alle masse, raccon-
tando l’oppressione delle classi lavoratrici. Díaz Fernández non rifiuta gli stilemi e
le forme dell’arte avanguardistica; bensì suggerisce di estendere al piano etico e po-
litico la sovversione estetica23. Questa generazione sarà impegnata nella produzione
di generi che vanno dal romanzo rivoluzionario e belligerante al reportage roman-
zato. Tuttavia la letteratura degli anni ‘30 non è unicamente propagandistica e uti-
litaristica. Carranque è un neorealista «de vibración proletaria, pero reluctante a la
literatura de receta política»24. La critica sociale di Carranque non viene dai dettami
di un partito, ma dalla sua esperienza, quella raccontata in Uno il cui stile semplice,
l’abilità dei dialoghi, il concatenarsi delle scene, il realismo fatto di appunti rapidi e
pennellate rendono il suo stile simile a quello del suo maestro Pío Baroja25. Con una
tecnica, sempre più affinata, capace di incrociare vite e destini denuncia «las heridas
sangrantes del cuerpo social»26. Il suo universo fatto di personaggi al margine pare
affidato al caos e privo di senso e da esso emerge non solo una protesta sociale «sino
una impresión de oquedad y absurdo que prefigura el existencialismo que tomará
carta de naturaleza pocos años después»27.
21
Ibidem, p. 120.
22
Domingo Ródenas de Moya, «Entre el hombre y la muchedumbre: la narrativa de los años
Treinta», Cuadernos Hispanoamericanos, 647 (2004), pp. 7-28.
23
Ibidem.
24
Ibidem, p. 15.
25
Ibidem, p. 27.
26
Ibidem.
27
Ibidem.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 103-116. issn: 2240-5437.
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La vida invisible ed El séptimo velo
di Juan Manuel de Prada:
quando echi e geometrie divengono formule
S IMONE C ATTANEO
Università degli Studi di Milano
[email protected]
El plagio, como la delación, es una forma distante y subli-
mada de crimen que debería quedar impune o incluso ser re-
compensada, ahora que la literatura ha explorado y profanado
las infinitas combinaciones del idioma, ahora que todas las
metáforas esenciales (incluso las decorativas) han sido descu-
biertas, ahora que ya no se puede aspirar a la originalidad1.
Il presente articolo è un’appendice a un più vasto lavoro sulla giovane narrati-
va spagnola degli anni ’90 che verrà pubblicato a breve. In tale monografia si sono
prese in considerazione tre traiettorie letterarie emblematiche nel tentativo di spie-
gare il complesso fenomeno sociologico, culturale e commerciale di quella che a
suo tempo venne definita la “Generación X” e si sono inoltre confrontati i differenti
approcci letterari degli autori selezionati – Juan Bonilla (Jerez de la Frontera, 1966),
Ray Loriga (Madrid, 1967) e Juan Manuel de Prada (Baracaldo, 1970) – valutando
il percorso di maturazione di ognuno di loro, partendo dai libri di esordio e arri-
1
Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, Barcelona, Seix Barral, 2008, p. 411.
Simone Cattaneo
La vida invisible ed El séptimo velo di Juan Manuel de Prada: quando echi e geometrie divengono formule
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vando fino alle ultime pubblicazioni, in un arco di tempo che copre all’incirca due
decenni: dal 1992 – anno in cui esce il romanzo Lo peor de todo2 di Loriga – al 2010.
Uno degli aspetti più interessanti emersi dallo studio è stato il progressivo mutare
della poetica di questi giovani scrittori fino a raggiungere, in alcuni casi, posizioni
quasi antitetiche rispetto a quelle adottate nelle loro opere prime. Un esempio piut-
tosto chiaro di quanto affermato è costituito, a nostro avviso, dal corpus pradiano e
già in un articolo3, all’interno di un discorso più ampio, si era posta in evidenza la
volontà dell’autore di accostarsi a una letteratura spiccatamene popolare, affine per
certi versi al feuilleton ottocentesco. In queste pagine si vuole affinare ulteriormente
lo sguardo per evidenziare come una scelta di quel tipo abbia avuto ricadute an-
che nella costruzione seriale di determinate situazioni e personaggi e abbia portato
alla ripetizione pressoché costante di costrutti metaforici, immagini a effetto, ecc;
un sintomo accennato da Anne Lenquette in un’occasione circoscritta, senza però
concedervi troppa importanza, complice anche il fatto che l’articolo della studiosa
era stato redatto quando Prada non aveva ancora pubblicato La vida invisible né El
séptimo velo:
Con respecto al retrato de García Lorca, resulta interesante cotejar los
dos fragmentos. En LMDH [Las máscaras del héroe], Lorca viene pre-
sentado a través de unas imágenes o metáforas que ponen de realce su
«andalucismo» y su don de gentes. […] Lo sorprendente estriba en que se
utilicen exactamente los mismos términos para describir Lorca en LEDA
[Las esquinas del aire]. Este autoplagio revela los límites de la ineventiva
novelesca y cierta propensión a la facilitad4.
2
Ray Loriga, Lo peor de todo, Madrid, Debate, 1992.
3
Cfr. Simone Cattaneo, «¿Qué ha sido de la joven narrativa de los años 90? Un panorama entre
pasado, presente y futuro», Ínsula, 760 (2010), pp. 13-17.
4
Anne Lenquette, «El pequeño mundo de Juan Manuel de Prada: personas, personajes y másca-
ras», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan Manuel de Prada: De
héroes y tempestades, Madrid, Editorial Verbum, 2003, pp. 237-238. Prada in Las máscaras del héroe,
mette in bocca a uno dei protagonisti del romanzo, Fernando Navales un brutale elogio del plagio:
«Alguien dijo que la literatura se nutre de literatura y tiene razón o, por lo menos, tenía la malicia y la
socarronería y el desparpajo de enunciar una verdad vergonzante que otros prefieren callar. La litera-
tura es una especie de botica muy ordenada, con hileras de jarroncitos que guardan ungüentos, cada
uno en su alacena correspondiente. Uno puede entrar con llave en la botica, destapar los jarroncitos,
aspirar su aroma antiguo y ponerse a fabricar su propio ungüento, a partir del recuerdo olfativo que
otros le dejaron: esto lo hacen los escritores más bellacos, quienes, por cobardía moral o estética no
se atreven a declarar las fuentes de su inspiración. Quienes, como yo, hemos hecho del plagio una
virtud estilística entramos en la borica destrozando la cerradura, robamos los ungüentos y defeca-
mos en los jarroncitos para que no se note el hurto» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe,
p. 411). Riguardo al legame tra questa teoria del plagio e la metaletteratura, scrive Orejas: «La teoría
del plagio es, en el fondo, una teoría de la literatura considerada como metaliteratura, expresada por
medio de metáforas olfativas, al tiempo que una llamada de atención sobre el carácter ficcional de la
obra» (Francisco G. Orejas, «Juan Manuel de Prada», in La metaficción en la novela española contem-
poránea. Entre 1975 y el fin de siglo, Madrid, Arco Libros, p. 475).
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Juan Manuel de Prada è uno scrittore sui generis e, per certi versi, contradditto-
rio: il suo esordio di enfant prodige delle lettere spagnole (Coños, 1995) lo svincola
fin da subito dal filone giovanile del “realismo sucio” degli anni ’90 del XX secolo e
lo colloca in una posizione di isolamento all’interno del “momento X”5. Prada, in
effetti, appariva come il rappresentante di uno stile rabbiosamente letterario, carat-
terizzato dalla ferma volontà di plasmare mondi fantastici, di un’opulenza decaden-
te, in netta controtendenza rispetto alle crude rappresentazioni realiste o alle ansie
adolescenziali riportate nei romanzi dei suoi coetanei6. Si mostrava dunque, grazie
a un eterogeneo bagaglio culturale7 e a una prosa barocca straripante di metafore
e similitudini8, come una voce innovativa della contemporaneità proprio in virtù
5
Per un approfondimento del termine “momento X” rimandiamo all’articolo di Martín Estudillo,
Luis, «The Moment X in Spanish Narrative (and Beyond)», in Christine Henseler – Randolph D.
Pope (ed.), Generation X Rocks. Contemporary Peninsular Fiction, Film and Culture, Nashville, Van-
derbilt University Press, pp. 235-246.
6
«Prada ejemplifica la manera humanista tradicional de acercarse a la creación, a la literatura,
al mundo de las letras, mientras que Mañas crea desde la renovación, apoyado en una entrada per-
manente de novedades, de información, a veces sin jerarquía alguna, en que la realidad y la ficción
se han entrecruzado» (Germán Gullón, «Dos proyectos narrativos para el siglo XXI: Juan Manuel de
Prada y José Ángel Mañas», in Ángeles Encinar - Kathleen M. Glenn (ed.), La pluralidad narrativa.
Escritores españoles contemporáneos (1984-2004), Madrid, Biblioteca Nueva, 2005, p. 26). «Juan Ma-
nuel de Prada o Juan Bonilla. Estos autores se han relacionado con una corriente más culturalista,
cuyo eje es un estilo cuidado y una técnica más depurada. A pesar de su juventud, dichos escritores
han logrado el aplauso tanto del público como de la crítica, sin que en ningún momento se haya
cuestionado su calidad literaria» (Eva Navarro Martínez, La novela de la Generación X, Granada, Edi-
torial Universidad de Granada, 2008, p. 24). Cfr. anche gli articoli di Jorge Barriuso, «El baby boom
del 98», Babelia, 342 (1998), pp. 6-8; Toni Dorca, «Joven narrativa en la España de los noventa: la Ge-
neración X», Revista de Estudios Hispánicos, 2 (1997), pp. 309-324; Luis García Jambrina, «La narrativa
española de los noventa: el caso de Juan Manuel de Prada», Versants. Revue Suisse des Littératures
Romanes, 36 (1999), pp. 165-176; José María Izquierdo, «Narradores españoles novísimos de los años
noventa», Revista de Estudios Hispánicos, 2 (2001), pp. 293-308; Sabas Martín, «Narrativa española ter-
cer milenio (guía para usuarios)», in AA. VV., Páginas amarillas, Madrid, Ediciones Lengua de Trapo,
1997, pp. ix-xxx. Víctor Fuentes, pur riconoscendo le enormi differenze tra Prada e i suoi coetanei,
sottolinea acutamente il fascino provato dallo scrittore per la depravazione e lo indica come possibile
punto di contatto generazionale: «Prada es quizás quien más se regodea en la abyección, la cual com-
parte con los otros escritores, aunque el “realismo sucio” le venga a él a través del Cela tremendista
o del esperpento» (Víctor Fuentes, «Los novísimos narradores de la Generación X», Claves de Razón
Práctica, 76 (1997), p. 67).
7
«P: ¿Cómo mezcla el casticismo, o sea esa vena suya por lo tradicional, con la literatura pulp, el
cine de Tarantino, las referencias a Reservoir Dogs? R: Pues de manera natural. Todo eso forma parte
también de mi tradición; no establezco distingos, los trato como compañeros de viajes, me da igual
que uno sea de anteayer y el otro de hace mil años. Yo me he formado leyendo a gente muy diversa
que no tiene nada que ver entre sí, y el fruto de esas lecturas y esas películas es un gusto por unas
determinadas formas de expresión, entre las cuales se incluyen el cine cutre, la literatura pulp, y junto
a ellas están Proust y Orson Welles, pero no pasa nada, cohabitan» (Patricia Núñez, «Juan Manuel
de Prada: Sin el señor Lara cientos de escritores españoles se habrían muerto de hambre», Lateral, 37
(1998), p. 35).
8
«En esta novela [La tempestad], como en la precedente, el autor da prueba de ser el mejor esti-
lista de su promoción, de ser un auténtico orfebre del lenguaje, de ser dueño de una excepcional
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dell’ottica tradizionalista, e a tratti anacronistica, con cui affrontava il bianco della
pagina9.
I primi libri da lui pubblicati nascono dall’attrazione nei confronti di ambienti
gotici, oscuri di desiderio e peccato, immersi in un’ombra atemporale ma dall’odore
stagnante di epoche passate (El silencio del patinador, 1995) oppure dall’irrazionale
timore di essere destinato al fallimento10 che lo spinge a riscattare dalla soffitta scura
e umida dell’oblio varie figure minori della letteratura spagnola (Las máscaras del
héroe, 1996; Desgarrados y excéntricos, 2001) o, ancora, dalla voglia di combinare tra
loro vari clichés e generi letterari11 (La tempestad, 1997). In queste opere sorge a poco
a poco un universo pradiano – sia per quanto riguarda le atmosfere ritratte e i temi
trattati, sia nella costruzione del testo e nel lavorio di scrittura – che, dopo lo snodo
di Las esquinas del aire (2000), raggiunge una piena e definitiva concrezione in La
vida invisible (2003)12 ed El séptimo velo (2007).
Prada, con il passare degli anni, ha optato per un progressivo avvicinamento a
una letteratura di più ampio consumo – il cambio di rotta era già palese in La tem-
riqueza verbal. En suma: Prada es un maestro de la adjetivación, un insólito conocedor de la técnica
de la repetición […] y un excepcional creador de símiles y metáforas» (José Manuel López de Abiada
– Augusta López Bernasocchi, «Símiles y metáforas en La tempestad de Juan Manuel de Prada. Una
interpretación», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan Manuel de
Prada: De héroes y tempestades, pp. 250-251.
9
«Pero nada de eso importa nada ante la emergencia de un prosista joven que quiere escribir en
castellano y no redactar traduciéndose a sí mismo del inglés. De momento, y pese a los anglos, el
castellano se salva y se prolonga en Juan Manuel de Prada» (Francisco Umbral, Diccionario de litera-
tura. España 1941-1995: de la posguerra a la posmodernidad, Barcelona, Planeta, 1995, p. 210).
10
«Siempre recuerdo ese dístico de Borges, que se titula A un poeta menor y dice: “La meta es el
olvido. Yo he llegado antes”. Al final todos vamos a engrosar las filas del mismo ejército: el olvido»
(Miguel Leandro Pérez, «Juan Manuel de Prada: Es un libro bruto, me gusta fastidiar y enconar los
ánimos», El Mundo, http://www.elmundo.es/elmundo/2001/10/18/cultura/1003389603.html (data
consultazione: 25/06/11).
11
«En La tempestad (1997) una parte del prólogo se dedica a aclarar las intenciones que guiaron
al autor […]. Prada dice que es beligerante contra el realismo de manera que el relato policíaco, el
folletín y la intriga, la literatura y el cine popular forman la argamasa de que está compuesto. En estos
subgéneros busca el medio de expresar lo más personal» (Epicteto Díaz Navarro, «Las máscaras del
escritor: las primeras novelas de Juan Manuel de Prada», in Ángeles Encinar - Kathleen M. Glenn
(ed.), La pluralidad narrativa. Escritores españoles contemporáneos (1984-2004), Madrid, Biblioteca
Nueva, 2005, p. 209.
12
«En todas ellas —hasta la fecha: La tempestad, que obtuvo el Planeta; Las esquinas del aire, […]
así como en algún título narrativo no novelesco —muy destacadamente, Desgarrados y excéntricos—
persiste la presencia de los temas que hacen que inconfundiblemente un escritor sea él mismo: en el
caso de Prada, la atracción del abismo —a la vez angustiosa y fascinada— que participa del feísmo y
del horror «gótico», y la tensión entre lo castizo ibérico ahondado —al modo de Francisco Nieva— y
lo subyugada y frenéticamente —en el sentido propio— cosmopolita. Estos dos temas confluyen, y
en algún aspecto alcanzan su cima hasta hoy, en La vida invisible» (Pere Gimferrer, «El espejo de las
palabras», ABC, http://www.abc.es/hemeroteca/historico-15-10-2004/abc/Cultura/el-espejo-de-las-
palabras_9624174262314.html (data consultazione: 14/05/11)).
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pestad13 – e ogni volta che la sua cinica inventiva si discosterà dalla rivisitazione cri-
tico-letteraria di un autore o un’epoca per abbracciare mondi assolutamente fittizi
poggerà sempre sulle solide e duttili basi del feuilleton, un’ossatura che gli permette
di combinare con disinvoltura i soliti triangoli sentimentali14 e su cui è facile inne-
stare variazioni derivanti da altri generi, con personaggi, tic stilistici e sintagmi fissi,
rispolverati di continuo per erigere i muri portanti dei suoi scritti oppure, semplice-
mente, per aggiungere qualche modanatura in grado di ornare il testo. Si potrebbe
parlare dunque di una traiettoria letteraria frutto di una sedimentazione e, in parte,
di una fossilizzazione che, come si è accennato, mostra tutte le sue stratificazioni
negli ultimi libri dati alle stampe.
Quando in La vida invisible descrive Fanny Riffel, la protagonista di una delle
due storie che con il loro intrecciarsi compongono il libro, e ripercorre la prime
tappe della sua carriera di pin up immortalata dagli scatti di un fotografo o dal pigro
ronzare di una rudimentale telecamera, lo scrittore tira di nuovo a lucido il proprio
sguardo da voyeur, impigliato tra le rotondità e i pizzi di una fantasia legata a un
modello di donna d’antan, che aveva contraddistinto Coños15:
Tenía unos senos nada copiosos ni estridentes que se deshojaban sobre
su cuerpo como cachorros perplejos, cuando no había un sostén que
los cautivase, o bien se juntaban, como un racimo pugnaz cuando la
enjaezaban con uno de aquellos corsés blindados de corchetes. […] Tenía
un dorso de plastilina, adiestrado en mil y una danzas […], y un vientre
que copiaba la luna, perturbado por un ombligo que a veces quedaba
oculto por las bragas que se embutía en sus sesiones fotográficas, bragas
un poco ortopédicas, ribeteadas exageradamente de encajes y puntillas16.
13
Marco Kunz in un duro articolo pubblicato in seguito all’uscita di La tempestad, evidenzia come
il “classicismo” letterario di Prada possa risultare particolarmente allettante per il grande pubblico e,
in qualche modo, giustifichi la vittoria del premio Planeta: «En sus obras de ficción Prada confirma el
conservadurismo de sus ideas normativas: evita desconcertar al lector con procedimientos técnicos
no compatibles con la inercia de sus hábitos de recepción, con lo que dificulta el placer de una lectu-
ra sofisticada, pero garantiza, en cambio, la asequibilidad de sus libros para un público numeroso»
(Marco Kunz, «Autorretrato de un escritor joven: la poetología de Juan Manuel de Prada en Reserva
natural», Versants. Revue Suisse des Littératures Romanes, 36 (1999), p. 186).
14
È stata Anne Lenquette la prima a notare il costante utilizzo da parte di Prada di triangoli senti-
mentali in cui un terzo personaggio introduce un conflitto spesso insanabile: «La narrativa pradiana
descansa sobre un sistema de parejas y tríos. En realidad, las numerosas parejas lo son sólo en apa-
riencia y, detrás de estas falsas parejas, se ocultan tríos que siguen un mismo esquema: el del famoso
triángulo amoroso. A diferencia de lo que suele ocurrir en las películas o en las novelas, donde las
variaciones de este triángulo resultan múltiples, en este caso vuelve reiteradamente la ecuación que
sitúa a una mujer en medio de dos hombres» (Anne Lenquette, op. cit., p. 234).
15
Per quanto riguarda il rapporto tra arte ed erotismo in Juan Manuel de Prada, cfr. Rubén Ca-
stillo Moreno, «El erotismo en la novelística de Juan Manuel de Prada», in AA. VV., El Erotismo en la
Narrativa española e Hispanoamericana actual, El Puerto de Santa María, Fundación Luis Goytisolo,
1999, pp. 49-56.
16
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, Madrid, Espasa Calpe, 2007, pp. 93-94.
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Anche l’elogio surrealista dell’ascella femminile sembra un’eco del volumetto
d’esordio che si prolunga poi attraverso le storie di El silencio del patinador:
Muchos años después aprendería que este gusto por las axilas sin afeitar
lo compartía con los surrealistas […]. Al atraerla hacía mí, tomándola
por los costados, noté la proximidad tibia de sus sobacos, como erizos
de mar que escondiesen, bajo su aspecto hosco, una carne salobre y
recóndita como un pecado17.
Besé sus sobacos intonsos, que eran feroces y salobres como pozos de
hormigas18.
Nei passaggi in cui il narratore ritorna all’epoca della sua infanzia, gli scenari
divengono invece bui e iniziatici, carichi di sogni e insicurezze adolescenziali, paiono
irrompere nel testo svincolandosi dalle pagine della sua unica raccolta di racconti,
per ritrarre, ancora una volta, un protagonista affascinato dalla scrittura, attratto dai
misteri della notte e del sesso:
Enrabietados, resolvíamos este clima de inminencia sexual empareján-
donos a voleo; y, emboscados entre las tinieblas crujientes de carcoma
y fragrantes de incienso fosilizado, buscábamos acomodo en un presbi-
terio derruido, en una capilla lateral rezumante de verdín, en un con-
fesionario descuajeringado que podría haber inspirado a Georges Ba-
taille. Allí, prófugos de las enseñanzas de Sir Galahad, tumbados sobre
cascotes que nos lastimaban la espalda o recostados sobre paredes de
una piedra desmigajada, nos metíamos mano premiosamente, sin llegar
nunca a nada, atenazados por la impericia19.
Se si paragona il passaggio precedente con quest’altro, tratto da Las manos de
Orlac, è impossibile non notare un’affinità nel tono impiegato, negli scenari tratteg-
giati e nei gesti smargiassi e goffi dei personaggi:
Allí, en los huecos sustraídos a la tierra, surcados por vías que tem-
blaban antes de acoger el traqueteo del tren, como niños terribles
de Cocteau o buscadores de un Santo Grial inaccesible, fumába-
mos cigarrillos que sabían a hierbas medicinales […] y nos mastur-
17
Ibidem, p. 239.
18
Ibidem, p. 301. In Coños è possibile leggere: «Los sobacos de Nuria, misteriosos de tanto pelo
que les asoma, me guiñan su ojo ciego en cuanto ella se despista, con una morosidad de párpados que
caen para mostrar una pestaña inverosímil de tan peluda» (Juan Manuel de Prada, Coños, Madrid,
Valdemar, 2005, p. 20). In El silencio del patinador il dettaglio si ripete: «Se agachó para besarme, y su
melena me nubló la vista como el ala de un pajarraco. Llevaba un vestido de tirantes muy ceñido que
le dejaba al descubierto unos sobacos intonsos y algo sudorosillos» (Juan Manuel de Prada, El silencio
del patinador, Madrid, Valdemar, 1997, pp. 122-123).
19
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 64.
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bábamos en cuadrilla, con ese fanatismo deportivo de a ver quién
termina antes, y orinábamos sobre los charcos de agua podrida20.
Vi è poi un intero capitolo (da pagina 220 a 242), in cui viene riportato il primo
timido incontro amoroso del protagonista – Alejandro Losada – e di Laura, quando
erano ancora dei ragazzini, che non stonerebbe affatto all’interno di una nuova edi-
zione di El silencio del patinador perché, oltre a riproporre i temi di un’adolescenza
marcata dell’attrazione sessuale peccaminosa e a obbedire allo schema classico delle
narrazioni brevi pradiane – un soggetto riporta in prima persona un’esperienza per-
turbante che culmina in uno sbalordimento onirico o in un presagio di morte21 – ,
ritornano alcune costanti quali la presenza di elementi militari22, dimore dall’aria
viziata da un lutto e dalla polvere depositata dagli anni23, la sagoma scarmigliata e
ridicola di un grafomane di mezza tacca, etc.
Proprio il ritratto di questo scribacchino richiama alla memoria i cammei che
punteggiano Las máscaras del héroe e Desgarrados y excéntricos, con le loro esagera-
zioni parodiche e i corpi dei personaggi sorpresi in contorsioni ridicole da fantocci
disarticolati24:
20
Juan Manuel de Prada, El silencio del patinador, pp. 11-12.
21
In El silencio del patinador però, non vi è solo un’unità tematica, ma anche lo schema narrativo
rimane lo stesso in tutti i racconti, costituendo un modello universale: «Casi todos los relatos de
Prada están escritos con estuctura de árbol caído. Un follaje circular y envolvente a modo de extensí-
simo preámbulo —la copa—, y de repente, una acción que se desarrolla de forma lineal y rápida —el
tronco—. Para evitar la monotonía, la acción a veces no sale del centro de la copa sino de alguna rama
lateral e inesperada. Algunos opinarán que se trata de una dalta de recursos; y otros destacarán la ca-
pacidad del autor, dada su juventud, para crear sus propios moldes formales» (José Ángel Cilleruelo,
«A punto de nieve», Clarín, 1 (1996), p. 53).
22
«Su padre, un coronel que acababa de ser destinado a nuestra ciudad levítica, con mando sobre
el regimiento que aguardaba la invasión de los tártaros en el cuartel de las afueras» (Juan Manuel de
Prada, La vida invisible, p. 221). «En un ángulo de la biblioteca, dormido de polvo en un paragüero, se
hallaba el sable nupcial […]. La hoja del sable, en cambio, conservaba su temple y su limpieza trémula,
como pude comprobar al desenvainarla y blandirla. El acero hacía cosquillas al aire» (ibidem, p. 238).
23
«Laura me tomó del brazo y me condujo hasta la habitación donde se agolpaba la biblioteca del
coronel; si —como suele afirmarse— los libros que leemos explican los avatares de nuestra biografía,
el padre de Laura pertenecía a esa estirpe de hombres que se han propuesto, por lealtad o contrición,
una observancia severísima de los mismos hábitos: encuadernados en una piel moteada que no acep-
taba intromisiones en rústica se alineaban los volúmenes de Plutarco y Cicerón, Tácito y Tito Livio,
Virgilio y Homero, prietos en los anaqueles, como un ejército de dioses penates o vigías del tiempo
que habían visto nacer y verían morir sin inmutarse a su propietario […]. Para alguien como yo, que
ya empezaba a barruntar mi destino literario, la biblioteca del coronel poseía una fuerza intimida-
toria y sagrada, una fuerza que, añadida a la impresión de juventud cercenada que me habían tran-
smitido los retratos de su difunta esposa, empezaba a debilitar aquella animadversión que profesaba
a mi rival» (ibidem).
24
«[Emilio Carrere] Tenía una cara gorda y pálida, como de vejiga de pescado, en la que ya le
azuleaba una barba pugnaz (se afeitaba varias veces al día, pero enseguida le volvían a asomar los
cañones, como testimonios múltiples de su virilidad). Fumaba en pipa un tabaco apestoso, al que
añadía las pelusas y cazcarrias que encontraba en el fondo de los bolsillos, y miraba con ojos revira-
dos, víctimas de un mareo producido por el humo de la pipa. Llamaban la atención las guías de su
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Augusto Pérez Vellido trabajaba sobre su escritorio […] con esa clande-
stinidad aplicada y artesanal del tipógrafo que compone un semanario
satírico o del anarquista que confecciona bombas caseras. De vez en
cuando se removía en el asiento, inclinándose sobre las cuartillas, y en-
tonces asomaba a la ventana su cabezón de sacamantecas o inventor de
la guillotina, con los cabellos greñudos y canos nimbados de un fuego
revolucionario y las patillas gigantescas que enlazaban con un bigotazo
de káiser prusiano25.
L’autore utilizza lo stesso procedimento per introdurre Bruno Boavista, amico
di Alejandro Losada:
Bruno Boavista, ya lo dije antes, era un gordo apoteósico, un poco en la
tradición bonancible y a la vez cáustica de quienes se sienten cómodos y
abrigados en su gordura, al estilo de Charles Laughton. Tenía una boca
carnosa, con un labio inferior en el que colgaba la pipa que no dejaba de
chupetear incluso cuando se le apagaba, incluso cuando no la abastecía
de tabaco. Sus mejillas gruesas y exangües estaban decoradas con levísi-
mas manchas de palidez, como las impresiones que los dedos dejan en
las pieles muy delicadas o mórbidas. También su frente era pálida, como
lavada por las paradojas y risueñas imposturas que tramaba su cerebro,
pero su nariz, astuta, muy inquisitivamente aquilina, apercibía al inter-
locutor contra la impresión engañosa de ingenuidad que en principio
transmitía su aspecto zangolotino26.
Dal libro Las esquinas del aire Prada riprende invece sia la figura di un narrato-
re dedito alla scrittura e intento a convertire le proprie vicende in argilla letteraria
da plasmare in un romanzo27 sia l’impostazione biografica, spogliandola però del
corsetto della quest28 – che in La vida invisible viene invece applicato alla ricerca di
Elena – e conservando la confessione orale29 come strumento atto a infrangere il
bigote, a la moda borgoñesa, y los puños de su camisa, que se pintaba con tiza para tapar la mugre»
(Juan Manuel de Parada, Las máscaras del héroe, p. 60). «Don Jacinto Benavente tenía cara de profe-
sor de esperanto o de duendecillo conservado en un frasco de formol; hablaba con frases lapidarias,
como un Oscar Wilde de saldo, y soltaba epigramas como quien suelta escupitajos» (ibidem, p. 121).
25
Ibidem, p. 226. In realtà si potrebbero citare anche le pagine seguenti fino alla 232, ma per ragio-
ni di spazio ci limitiamo a questa caricaturesca presentazione del personaggio.
26
Ibidem, p. 200.
27
«—Pero si es precisamente ahora cuando debes viajar... Seguro que encuentras inspiración para
tu próxima novela» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 24). «Tabares y Jimena me animaban
para que contase aquella fértil derrota de Ana María Martínez Sagi en una especie de biografía» (Juan
Manuel de Prada, Las esquinas del aire. En busca de Ana María Martínez Sagi, Barcelona, Planeta,
2000, p. 367).
28
«Las esquinas del aire no es una novela, sino que participa de la biografía, el ensayo literario, el
reportaje y el libro de memorias, y que todo este mogollón de adscripciones está servida de manera
novelesca. Los anglosajones poseen una palabra que designa nítidamente este tipo de libros, quest»
(ibidem, pp. 10-11).
29
«Así vemos que aquí, tiene gran importancia la confesión, entendida como la verbalización de
hechos penosos, y como el modo de llegar a la verdad. […] Tanto Fanny como Chambers se confie-
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muro di silenzio eretto dallo scorrere del tempo. Dalla carta e dall’inchiostro nasce
così, come un prezioso e sensuale origami, la storia di Fanny Riffel, una biografia
in cui l’autore non incappa in stonature, scegliendo e maneggiando abilmente una
terza persona, a differenza di quanto avveniva nell’ultima sezione di Las esquinas del
aire dove finiva per prevalere un’“io” posticcio30.
Accanto agli echi di ampio respiro che instaurano un’intertestualità generica
con le precedenti pubblicazioni dello scrittore, ve ne sono altri che invece rientra-
no nel campo specifico dell’autocitazione ed è piuttosto facile ravvisare una ripresa
puntuale, o con minime variazioni, di frasi già collaudate, soprattutto di metafore
o similitudini che hanno raggiunto un assetto ormai definitivo. Qui ne elenchiamo
alcune:
La noche se estrellaba sobre el callejón como un ascensor sin cables ar-
rojado desde los trasteros del cielo31.
la nieve mitigó el escándalo de la sangre32.
Elena, subió las escaleras de peldaños crujientes de carcomas y pecados33.
san, y así la novela reconstruye la recepción de esas confesiones, una recepción que no supone la re-
paración ni la expiación […]. La recepción de esas historias y su transmisión es casual, cambia tanto
el papel del confesor, que no es una instancia superior que dirige la acción, e igualmente cambia el
posible resultado. La confesión aquí parece volverse claramente representación, y los dos casos, con
sus vidas disipadas, situadas entre la ingenuidad y la perversión, muestran la vida «real», oculta tras
lo social y lo permitido» (Epicteto Díaz Navarro, «Las máscaras del escritor: las primeras novelas de
Juan Manuel de Prada», p. 216).
30
«Este discurso enmarcado plantea […] ciertos problemas relativos a su estatuto comunicati-
vo, ya que no nos hallamos ante la mera transcripción de un relato oral, sino ante una cuidadosa
elaboración del mismo tras la que se percibe sin dificultad la mano del responsable del enunciado
marco. En primer lugar, su disposición narrativa reproduce el rigor de la descrita en el relato marco;
la narración que el personaje hace, presuntamente de su propia vida está sometida a una cuidada
planificación que se percibe en la organización y distribución de los materiales, en la selección de
los motivos auténticamente relevantes de una vida dilatada, en la introducción de elementos que
crean expectativa en el lector, etc. […] En segundo lugar, si atendemos al análisis del plano verbal, no
resulta difícil percibir cómo el discurso atribuido a Ana María Martínez Sagi, sigue ofreciendo una
llamativa similitud con el del enunciador del relato marco, en cuanto reproduce de modo sistemático
varios de sus estilemas definidores» (José Antonio Pérez Bowie, «Las esquinas del aire o las permea-
bles fronteras de la ficción», in José Manuel López de Abiada - Augusta López Bernasocchi (ed.), Juan
Manuel de Prada: De héroes y tempestades, pp. 380-381).
31
Ibidem, p. 73. «La noche se desplomaba con estrépito, como un armario arrojado desde los
desvanes de Dios» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 74). «La noche ya se había
abalanzado, como un ascensor sin cables, sobre el patio de vecindad» (Juan Manuel de Prada, Las
esquinas del aire, p. 91).
32
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 395. «la nieve tapa la obscenidad de la sangre» (Juan
Manuel de Prada, La tempestad, Barcelona, Planeta, 2006, p. 210).
33
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 385. «La escalera, crujiente de carcomas o pecados,
tenía los peldaños desiguales y muy erosionados» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 88).
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Salió a abrirle, un poco a regañadientes y tras una tardanza de minu-
tos, una mujeruca muy amojamada y menuda, como alimentada con
cañamones; tenía un rostro bovino y al mismo tiempo rapaz, en insólita
hibridación zoológica, y una mirada desmigajada de legañas. Bruno de-
dujo sin demasiada lástima que tendría que mantenerse en vela las vein-
ticuatro horas del día para que los huéspedes morosos no se largasen sin
apoquinar el parné34.
la calle tenía ese aire despojado de las geografías soñadas por De Chirico35.
In La vida invisible inoltre l’autore ricorre, ancora una volta, all’abituale struttura
imperniata su coppie e terzetti, rispettando così la serialità degli intrecci già posta in evi-
denza da Anne Lenquette36. Alejandro Losada è il vertice del triangolo amoroso formato
da Laura ed Elena37 e, quest’ultima, come Jimena in Las esquinas del aire38, potrebbe esse-
re inserita in un “triángulo amistoso” costituito da Losada e Bruno39; non va dimenticata
poi la gelosia possessiva – riflesso della rivalità tra Alejandro e Gabetti in La tempestad – ,
del genitore di Laura che determina una certa freddezza nei rapporti tra questi e il pro-
tagonista. L’altra coppia è composta, ovviamente, da Fanny Riffel e Tom Chambers e,
volendo portare all’estremo la teoria della triangolazione sentimentale, non sarebbe af-
fatto insensato ipotizzare che questi, proponendosi di lenire le ferite psicologiche dell’ex
pin up, stia in realtà affrontando tutti gli uomini che in passato l’hanno oltraggiata – il
padre, lo stesso Chambers negli anni dell’adolescenza, il predicatore Burkett, James Bre-
slin, ecc. – .
Non vi è però solo una perfetta simmetria a livello di congegni narrativi, ma i vari
esseri di carta che si annidano tra le pagine mostrano un solo viso, sono statue di un car-
rillon azionato ripetutamente da Prada. Dietro le maschere di Alejandro Ballesteros, per-
34
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 385. «Era una mujeruca consumida por el insomnio
(tendría que velar para vigilar a sus huéspedes más trasnochadores, y también que madrugar, para
que no se largasen sin arreglar las cuentas), muy amojamada y menuda, como si se alimentase con
cañamones. Tenía un rostro bovino y al mismo tiempo rapaz, en insólita hibridación zoológica»
(Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 89).
35
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 617. «la calle de Carreteras, deshabitada y torcida
como un paisaje de De Chirico» (Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 243). «El Paseo
de Recoletos mostraba una perspectiva desolada y entumecida, como de geografía retratada por De
Chirico» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 110).
36
Cfr. Anne Lenquette, op. cit., pp. 234-236.
37
In questo caso vi è un elemento innovatore costituito dal fatto che sia un uomo a essere conteso
tra due donne, situazione che di solito appariva invece invertita: «A diferencia de lo que suele ocurrir
en las películas o en las novelas, donde las variaciones de este triángulo resultan múltiples, en este caso
vuelve reiteradamente la ecuación que sitúa a una mujer en medio de dos hombres» (ibidem, p. 234).
38
«O sea que a la pareja sentimental-profesional narrador/Jimena se aúna Tabares, un acólito
intelectual y profesional dispuesto a profesarle a Jimena una devota y platónica admiración […]. El
triángulo amistoso sustituye al triángulo amoroso» (ibidem, pp. 234-235).
39
«En cambio mientras acompañó el trastorno de Elena […] Bruno atisbó la posibilidad de una
vida enteramente distinta. […] empezó a experimentar una regeneración, no ya moral, sino incluso
orgánica» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 369).
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sonaggio principale di La tempestad, dell’anonimo narratore di Las esquinas del aire e di
Alejandro Losada si cela un unico individuo —con ogni probabilità trasposizione dell’au-
tore—, declinato secondo tratti caratteriali costanti. Il protagonista pradiano è un sogget-
to in balia della passione per la scrittura o l’arte40 che, inibito da questa visione astratta del
mondo, affronta in maniera impacciata la lotta per la vita41 e tende a idealizzare le donne
amate42. I profili delle eroine, a loro volta, si ripetono in un susseguirsi di specchi: hanno
un naso prominente, i capelli corti, i tratti del viso orientaleggianti, indossano spessissimo
una tuta da lavoro «azul mahón» o un abito che stempera le loro forme femminili43 e, infi-
ne, sono circonfuse da un’aura quasi mistica che le eleva alla categoria di sibille visionarie:
Sara se había incorporado a la utopía libertaria más por caridad que por
convicción […]. Ya iba vestida con el mono azul mahón que la rebajaba
a una condición plebeya, y se había cortado el pelo y limado las uñas.
[…] No se rebajaba al sentimentalismo, pero dejaba que sus palabras […]
sonasen contaminadas de un orgullo retrospectivo, como si su regene-
ración sirviera para aliviarla de pecados anteriores. En los anarquistas
40
«Yo mismo había dilapidado mi juventud en la exégesis de ese cuadro, me había abismado
durante años en el enigma de sus figuras y, después de arduas investigaciones y pesquisas, había
asestado a la posteridad una especie de mamotreto o tesis doctoral, en la que incorporaba otra in-
terpretación más a las existentes» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 12). «Antes de inmolar
aquellos ejemplares únicos […], los transportaba a mi casa y los devoraba en esas noches de insomnio
que el escritor inédito debe prevenir con alguna ocupación […]. En aquellos libros […] encontré el
bálsamo espiritual que requiere el neófito, y también la dosis de saludable escepticismo que robustece
cualquier vocación literaria» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 33). «Se equivocaba.
Para escribir hace falta, antes que nada, una subjetividad enferma y extraviada, tan extraviada como
la pulsión sexual del adolescente Chambers, tan enferma como el amor que profesaba a Fanny Riffel»
(Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 141).
41
«Me sentí entonces más hermanado a Nicolussi, porque comprendí que era cobarde, compren-
dí que el celibato le había gangrenado la capacidad resolutoria y lo había ensuciado con el betún de la
derrota» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 221). «Mi incapacidad para aplicar esta distinción
teórica a la práctica, agravada por mi temperamento más bien retraído […] deparaba un currículum
erótico adelgazado hasta el desfallecimiento. […] mi ineptitud ante las mujeres […] me enfurecía y
reconcomía por dentro» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 167). «Desde que coinci-
diéramos en el Ritz —me confesó—, había descubierto en mí esa desconcertada abulia que postra
determinadas sensibilidades […]. Bruno enseguida entendió que […] si en mí abulia no se introducía
un revulsivo que la trastornase, acabaría aislándome en ese albergue de inactividad en que los escri-
tores desahuciados refugian sus frustraciones» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 218).
42
«Fabio nunca llegó a corresponder mi amor, pero en cambio empezó a profesarme una devo-
ción morbosa y acaparadora […] Aquí, inevitablemente, me ruboricé, porque yo también había cedi-
do a esa tentación» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 156). «Yo había amado a Laura durante el
último tramo de la infancia […] y también durante la taciturna pubertad, con ese amor trágico y der-
rochón que no se detiene a esperar correspondencia» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 24).
43
Anne Lenquette ipotizza che il naso possa avere un valore simbolico: «La nariz de Jimena
anticiparía su infalible perspicacia en la investigación llevada a cabo» (Anne Lenquette, op. cit., p.
232). Così come l’aspetto androgino potrebbe servire a sottolineare il loro status di donne emanci-
pate: «Ahora bien, no es de extrañar que la emancipación y modernidad redunden en perjuicio a la
feminidad. De allí que tanto A. M. Martínez Sagi como Jimena o Chiara sean mujeres con un físico
andrógino» (ibidem, p. 230).
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existe la misma intención expiatoria que en los católicos: su religión los
purifica44.
[Chiara] Iba vestida con un chándal, y sobre el chándal llevaba un hol-
gado jersey masculino […] que le anulaba los senos y cualquier otra tur-
gencia de cintura para arriba45.
Encendí una lámpara y me quedé allí durante un buen rato, leyendo en
su llama las palabras que me dedicaba mi ángel de la guarda: todavía
no había aprendido el alfabeto, pero ya sabía descifrar la escritura del
fuego, como las pitonisas46.
Chiara tenía un perfil de camafeo o ángel prerrafaelita, de un quietismo
que sólo perturbaba su nariz, aquilina y algo escorada hacía un lado47.
Me había interpelado una muchacha de veintitantos años, de pelo muy
corto (como los ángeles andróginos que merodeaban en mis ensoñacio-
nes) y rasgos tímidamente orientales; era de cuerpo menudo (el guar-
dapolvo azul mahón la empequeñecía aún más y le borraba cualquier
asomo de turgencia. […] [el de Jimena] era un rostro de una unánime
belleza, […] que recordaba al de esas actrices de antaño, Sylvia Sidney o
Gene Tierney […]. Pero no fue su belleza de labios pensativos y ojos ra-
sgados lo que atrajo mi atención […] sino su nariz. Era una nariz altiva
y respingona que yo jamás había visto repetida, una nariz fuera de cata-
logación que explicaba y enaltecía las otras circunstancias de su rostro,
a la vez que las rectificaba48.
volvió a asaltarme el mismo sentimiento que ya me asaltó cuando cono-
cí a Jimena, la misma miedosa veneración que los antiguos profesaban
a las sibilas49.
Siempre me había atemorizado ese don innato de Laura para inmiscuir-
se en los pensamientos ajenos. Poseía dotes adivinatorias que la empa-
rentaban con las sibilas50.
La reconocí [Laura] a primera vista. Tenía el mismo cuerpo menudo de
la infancia (pero luego comprobaría que esta impresión era engañosa: el
guardapolvo azul mahón la empequeñecía y le borraba cualquier asomo
de turgencia) y el pelo igual de corto, dejando expedito el óvalo de su
rostro, que recordaba al de esas actrices de antaño, Sylvia Sidney o Gene
Tierney, especializadas en películas exóticas. Pero no fueron su belleza
orientalizante ni su modesta estatura […] las circunstancias que me la
44
Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 497.
45
Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 65.
46
Ibidem, p. 71.
47
Ibidem, p. 82.
48
Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 95.
49
Ibidem, p. 258.
50
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 15.
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hicieron reconocible de inmediato, sino su nariz altiva y respingona, que
yo jamás había visto repetida, una nariz fuera de catalogación que era a
la vez compendio y la excepción de su rostro51.
Anche gli aiutanti che guidano i narratori tra le insidie della trama presentano
varie affinità: in genere si contraddistinguono per la robustezza o la pinguedine del
loro fisico, i comportamenti bislacchi e una sarcastica ironia che li rende simili ai
graciosos delle rappresentazioni del Siglo de Oro – va però specificato che nei volumi
di Prada, a eccezione di Vittorio Tedeschi in La tempestad, si discostano dallo stere-
otipo teatrale grazie alla loro vasta cultura – :
—Pues yo te hacía con Giovanna Zanon, follando como un enano, y
mira tú por dónde me vienes hecho una piltrafa —dijo Tedeschi.
Aún me quedaba una exigua reserva de humor:
—¿Y cómo crees que habría venido si de verdad hubiese estado follando
con esa bruja? Seguro que en el armario guarda una fusta para azotar a
sus amantes.
—Bueno, siempre será preferible una zurra mientras te trajinan que una
zurra a palo seco, ¿no te parece?52
[Tedeschi] Tenía el torso atezado, sin concesiones a la grasa, perturbado
solamente por la caligrafía de los músculos53.
Joaquín Tabares […]. Era un gordo de piel lechosa, con ademanes de
sátrapa y una parsimonia verbal exasperante que lo hacía regodearse en
cada palabra, como si estuviera saboreando un caramelo. […] No había
alcanzado aún la cuarentena, y su obesidad le atirantaba la piel, exo-
nerándolo de arrugas, lo cual contribuía a difuminar su edad54.
[a Tabares] El vino le aflojaba más y más la lengua […] y le garantizaba
la secreción de saliva suficiente para no cesar en su cháchara ni tampoco
en la deglución de los platos que Jimena iba suministrándole. Quizás
fuese un berzotas y el tío más zafio del orbe, pero se hacía querer, y po-
seía cierto magnetismo que obligaba los demás a girar en torno a él […]
como satélites subyugados por su facundia55.
Bruno era un treintañero de aspecto cetáceo que caminaba con cierta
flojera, como si las piernas que asomaban por debajo del barrigón le
colgaran a guisa de frágiles zancos, en lugar de sostenerlo. Su tempera-
mento linfático se conciliaba con repentinos accesos de facundia que se
correspondían muy puntualmente con la naturaleza un tanto extraña de
su literatura, que trataba de ser humorística manteniendo una aparien-
51
Ibidem, p. 192.
52
Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 176.
53
Ibidem, p. 181.
54
Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 56.
55
Ibidem, p. 174.
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cia de impávida seriedad y disfrazaba las supercherías más rocambole-
scas con una pátina de erudiciones apócrifas56.
L’autore inserisce inoltre tra le pagine di La vida invisible la figura di un religioso
dalle maniere ruvide e dal cuore d’oro57, una sorta di variante di Tedeschi che, come
vedremo oltre, rispunterà nel volume successivo.
In El séptimo velo (2007), finora ultimo romanzo dello scrittore zamorano,
Prada imbastisce uno scavo trasversale tra le nefandezze dell’umanità negli anni
della Seconda Guerra mondiale ricorrendo a un universo narrativo ben costruito,
ma per certi versi “prefabbricato”, poiché spesso vengono assemblati e amalgamati
passaggi estratti da testi precedenti e si ha l’impressione che quanto scritto riguardo
a La vida invisible sia valido anche per quest’opera. La struttura di entrambi i volumi
è identica: un prologo funge da introduzione ai fatti, seguito da due parti corpose
che culminano in un epilogo rassicurante. Julio Ballesteros, in qualità di narratore,
ricalca le movenze di Alejandro Losada e, dibattendosi tra presente e passato, per
mezzo di una quest che ricorda molto da vicino quella, certamente più letteraria,
di Las esquinas del aire58, riscopre la figura non comune del padre oltre a compiere
un cammino di formazione e di crescita personale. Anche il modo di condurre
la diegesi è simile a quello di La vida invisible: chi narra è un ascoltatore attento
– di dialoghi o di nastri registrati poco importa59 – che rinuncia alla prima persona
quando trascrive sulla pagina ciò che ha udito, preferendo esprimersi attraverso una
voce narrante neutra e onnisciente.
All’interno di El séptimo velo ritorna inoltre un doppio sistema di coppie e
terzetti che ruotano attorno a Jules Tillon e Julio Ballesteros. Tillon è al centro di
due triangoli: uno formato da lui, Lucía e André – a cui si potrebbe aggiungere, in
seconda battuta Antonio, sebbene questi abbia come rivale il ricordo del partigiano,
poiché subentra dopo la sua sparizione – ; l’altro invece vede coinvolti in un giro di
56
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 198.
57
«Entre los miembros de aquel séquito disperso de samaritanos destacaba por su ubicuidad un
fraile trinitario que regentaba una hospedería […]. Se llamaba Gonzalo, rondaba la cincuentena y
tenía facciones rústicas, un poco sanchopancescas, como de campesino tostado por el sol; era un an-
darín y un culo de mal asiento que, en otro siglo, se hubiese bastado él solito para liberar a todos los
cautivos de Argel» (Ivi, p. 514). «El padre Gonzalo vestía un jersey muy holgado, de una lana tosca y
desteñida. No usaba abrigo: quizás pensaba que esta prenda denigraba su fortaleza física, quizá se hu-
biese desprendido de él al iniciar su ronda nocturna, imitando el ejemplo de San Martín» (Ivi, p. 516).
58
È curioso notare che Juan Manuel de Prada cerca di far presa su chi legge, in entrambi i libri,
insinuando, già nelle battute iniziali, che le persone oggetto dell’indagine potrebbero essere ancora
vive. «Y, en fin, podríamos buscarla a ella misma [Ana María Martínez Sagi]. ¿Quién nos asegura
que haya muerto?» (Juan Manuel de Prada, Las esquinas del aire, p. 140). «—Quiere decir que está
vivo... —No me atrevería a jurarlo —dijo, algo temeroso de que sus palabras me brindaran un asidero
para seguir inquiriendo, para seguir importunándolo—. Cuando me llamó estaba en las últimas, o al
menos eso me aseguró» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, Barcelona, Seix Barral, 2008, p. 61).
59
Julio Ballesteros ricostruisce le sfortunate vicende del genitore grazie alle conversazioni con
padre Lucas, Enric Portabella e Sabine Blumenfeld, mentre Alejandro Losada ha accesso ai dialoghi
registrati su cassette tra Chambers e Fanny.
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ricatti sessuali Olga e Otto Abetz. Ballesteros, a sua volta, intreccia una relazione con
Nuria – troncata dalla tragica morte della giovane – e, successivamente, si innamora
di Sabine Blumenfeld.
I personaggi al centro di queste geometrie sentimentali condividono, come già
accadeva nel libro precedente, parecchie caratteristiche con altri esseri pradiani.
Jules è il solo che di primo acchito sembrerebbe sfuggire al modello del protagonista
impacciato, ma la sua disinvoltura nella guerriglia è bilanciata dalla timidezza con le
donne e la paranoia ossessiva di cui è vittima lo trasforma nel corrispettivo maschile
di Fanny ed Elena, un fobico ermeneuta di messaggi immaginari che si moltiplicano
sotto il prisma del suo sguardo:
Y entretanto [Jules] consumía la espera leyendo vorazmente los
periódicos, rastreando en la apretada tipografía de la sección de anuncios
o en la más desahogada de los titulares los códigos secretos que sus
enemigos empleaban para transmitirse instrucciones. Los periódicos se
habían transformado en un vasto, incoherente, tautológico criptograma
que sólo con paciencia y dedicación podría llegar a descifrar. Y a esta
tarea inabarcable como el océano se dedicó en las semanas sucesivas,
inmerso en un laberíntico galimatías que, de vez en cuando, entre el
tumulto de cacofonías y frases obtusas, le deparaba el hallazgo de unas
palabras que, en combinación con otras (que ya había repescado en otras
secciones del mismo periódicos, o en ejemplares de ediciones anteriores),
formaban un mensaje que sus enemigos sin duda empleaban para
comunicarse, palabras que de repente adquirían un resplandor de oro60.
Julio rispecchia invece lo stereotipo dell’intellettuale insicuro e pavido, rinchiuso
nella tranquillità di un’esistenza monotona o stritolato dalla morsa del dolore per la
perdita di persone a lui care, un cinquantenne restio a prendere l’iniziativa che si vede
coinvolto in vicende in grado di scuotere le fondamenta della sua granitica apatia:
Nunca he sido persona curiosa, ni siquiera inquisitiva; más bien al
contrario, me he esforzado siempre por rehuir las confidencias ajenas,
por evitar los descargos de conciencia, incluso cuando esos descargos
y confidencias de algún modo me atañen, o sobre todo entonces. […]
Supongo que esta actitud retraída me ha granjeado alguna malquerencia
o animadversión y también cierta fama de persona esquiva; pero a
cambio me ha permitido vivir más tranquilo, porque los secretos
que llegamos a conocer mal de nuestro grado acaban de algún modo
infectando nuestros días, acaban removiendo ese mundo tenebroso que
hubiésemos preferido mantener anestesiado61.
La descrizione di Lucía richiama alla memoria quella delle altre eroine di Prada:
vi è sempre un paragone cinematografico —questa volta l’attrice presa a modello
60
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 391-392.
61
Ibidem, pp. 55-56.
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è Miriam Hopkins e non Sylvia Sidney o Gene Tierney— e la bellezza della donna
viene connotata dal carattere spumeggiante62, non dall’esuberanza del corpo:
[Lucía] Había sido una mujer bella […]; más pizpireta que sensual (en
sus retratos de juventud guardaba cierto parecido con Miriam Hopkins,
una actriz de comedia que ya casi nadie recuerda), con un punto de
travesura o socarronería en la mirada63.
Le compagne di Ballesteros, a causa di un complesso edipico del narratore, sono
quasi una copia della madre:
Nuria era intrépida y socarrona, más pizpireta que sensual, y que incluso
guardaba cierto parecido (muy diverso al de mi madre, pero en cierto
modo complementario) con Miriam Hopkins, aquella actriz de comedia
que ya casi nadie recuerda64.
Entró en la habitación una mujer menuda [Sabine] y, sin embargo,
vigorosa, que aún no habría cumplido los cuarenta años; transmitía,
además, una impresión de elasticidad que la hacía parecer más joven.
Guardaba cierto parecido con Miriam Hopkins, una actriz de comedia
que quizá ya nadie recuerde. […] Y ahora su risa se distendió con un
punto de travesura o socarronería. El mismo tipo de sonrisa que tan
atractiva hacía a mi madre, el mismo tipo de sonrisa que me había
enamorado de Nuria, por un complejo edípico seguramente65.
Gli occhi di Olga – sineddoche della sua avvenenza malinconica –, grandi come
quelli raffigurati nei mosaici bizantini, ricordano lo sguardo di Dina Cusmano in
La tempestad66, screziato però dal riflesso grigio perla del paesaggio russo che vi è
rimasto impigliato negli anni dell’infanzia:
Una de ellas [Olga] se detuvo ante Jules; tenía unos ojos grandes, como
de mosaico bizantino, de un color gris con irisaciones de nácar, y unos
pómulos que se adivinaban patricios67.
62
Come già aveva notato Anne Lenquette nell’analisi dei primi romanzi pradiani, le donne sono
nella maggior parte dei casi personaggi attivi, vivaci, che non esitano a prendere l’iniziativa, in netto
contrasto con la passività maschile: «Es de notar que es la mujer quien lleva la voz cantante en estos
triángulos. Aprovecha su posición central y estratégica para mover los hilos del amor o del engaño
amoroso» (Anne Lenquette, op. cit., p. 234).
63
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 15.
64
Ibidem, p. 17.
65
Ibidem, pp. 642-643.
66
«Tenía [...] unos ojos pardos y demasiados grandes, de mosaico bizantino» (Juan Manuel de
Prada, La tempestad, p. 21).
67
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 142.
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Anche alcuni personaggi secondari si mantengono fedeli ad archetipi già
intravisti in altri scritti. Fidel Estrada è un genitore che ha dovuto crescere la
figlia contando solo sulle proprie forze e professa nei confronti della giovane una
venerazione compiaciuta e ammirata68 – lo stesso accade a Gilberto Gabetti in La
tempestad69 e al padre di Laura in La vida invisible70 –, ma in lui non vi è traccia
della gelosia morbosa che contraddistingueva i suoi predecessori. Padre Lucas, con
il suo corpaccione da aspirante pugile, con le maniere sbrigative di chi concepisce la
propria vocazione religiosa come un mezzo per aiutare materialmente il prossimo
e con il suo eloquio al di sopra delle righe71, è un alter ego di padre Gonzalo72. Enric
Portabella, infine, non è altro che una versione “catalana” e professionale dell’estroso
Tom Chambers: grazie alle sue sessioni di ipnosi – equivalenti ai dialoghi tra Fanny
e il sosia di Rutger Hauer – la storia di Jules Tillon affiora dagli abissi dell’amnesia e
può essere tramandata. Sia Chambers che Portabella poi, contribuiscono, con il loro
approccio poco ortodosso ma estremamente umano, a dissipare le nebbie della follia
che tormentavano i loro interlocutori.
In El séptimo velo non solo gli attori che si affacciano sulla scena possiedono
volti o gesti noti, ma persino le situazioni che li vedono protagonisti sono tratte
da intrecci precedenti e, in certe occasioni, si assiste al riciclo di fondali allestiti
tempo addietro. Fidel Estrada si invaghisce di Catalina Salazar, futura madre di
Lucía, durante la rappresentazione teatrale di Santa Isabel de Ceres di Alfonso Vidal
y Planas73 e al medesimo dramma Prada aveva dedicato qualche pagina in Las
máscaras del héroe74, riassumendolo con lo stesso tono irriverente qui proposto. Da
quel libro sulla sgangherata bohème madrilena d’inizio XX secolo proviene anche la
stampa infernale dell’ufficio di Ricardo Aguilar75, proprietario del locale Pasapoga e
degno successore di don Narciso Caballero76, impresario del Teatro de la Comedia.
Il cancro che affila i lineamenti della madre di Julio Ballesteros77 è una ripetizione
68
«Pronto se entablaría entre padre e hija una aleación indestructible, entre otras razones porque
fue Estrada quien se ocupó principalmente de su educación» (ibidem, p. 187).
69
«Chiara fue el espejo en el que Gilberto se miraba: la fue modelando a su gusto, en un ejercicio
de adoración» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 131).
70
«Cuando veía salir de clase a Laura [su padre] siempre reproducía idéntico movimiento: […]
recibía a Laura con los brazos abiertos, para tomarla en volandas y mantenerla por unos segundos
suspendida en el aire, como si la ofrendase a la naturaleza que tan benigna había sido con él y su
potencia generativa, antes de comérsela a besos» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 222).
71
Cfr. Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 260-272.
72
Cfr. Juan Manuel de Prada, La vida invisible, pp. 514-524.
73
Cfr. ibidem, pp. 184-186.
74
Cfr. Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, pp. 298-306.
75
Cfr. Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 286-288.
76
Cfr. Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, pp. 135-137.
77
«Desde que a mi madre le declararan aquella metástasis cancerígena que interesaba los pulmo-
nes y el hígado y hacía inútil cualquier intervención quirúrgica, me había esforzado por asumir su
muerte irremediable» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 9).
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della tremenda malattia che consuma il padre del narratore di Sangre Azul78 in El
silencio del patinador e il genitore di Fernando Navales in Las máscaras del héroe79;
così come il diabete strazia i corpi di Fidel Estrada80 e del padre di Fanny Riffel81.
L’esperienza di Jules nel manicomio di Santa Coloma de Gramenet82 è modellata a
partire dalla reclusione di Fanny nell’ospedale psichiatrico Chicago Read83, tanto
che i due istituti appaiono intercambiabili:
El manicomio, apartado de las barriadas extremas que deshilachaban el
paisaje urbano, conservaba, visto desde la lejanía, ese aire agrícola que
tenían las instituciones de beneficencia decimonónicas. A medida que
uno se aproximaba al edificio, con pabellones que emergían a modo de
radios del bloque principal, monótonos de ventanas con rejas y muros de
un color otoñal, quedaba desmentida esta primera impresión bucólica84.
El edificio, erigido en una finca orientada hacia el mediodía y
resguardada de los vientos por la sierra, tenía una estampa señorial,
con sus pabellones como alas de un palacete y la torre grácil de su
capilla. Visto en lontananza, podía confundirse incluso con la quinta de
recreo de unos príncipes; a medida que uno se aproximaba al edificio y
contemplaba los muros de un color otoñal, monótonos de ventanas con
rejas, esta primera impresión bucólica quedaba desmentida85.
Juan Manuel de Prada accompagna poi queste riprese con giri di frase, calco
della propria scrittura, che divengono un sommesso ma costante autocitarsi86 e
78
«Cuando llegó el invierno, el abuelo cayó postrado en la cama [...], corroído por una gangrena
que no le dejaba respirar. “Cáncer óseo”, diagnosticó el médico» (Juan Manuel de Prada, El silencio
del patinador, p. 45).
79
«El cáncer óseo o los remordimientos de conciencia habían postrado a mi padre en la cama»
(Juan Manuel de Prada, Las máscaras del héroe, p. 77).
80
«Los médicos que lo habían atendido propusieron a Lucía amputarle ambas piernas, para de-
tener el avance de la gangrena ocasionada por la falta de riego sanguíneo, pero ella se había negado
en redondo: dilatar la muerte de su padre unos pocos meses a cambio de mutilarlo se le antojaba un
ensañamiento innecesario» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 249).
81
«El muy tozudo enfermó de diabetes y se negó a tratarse con insulina. Al final hubo que am-
putarle ambas piernas y trasladarlo al hospital de Peoria» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible,
p. 341).
82
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, pp. 403-430.
83
Juan Manuel de Prada, La vida invisible, pp. 487-504.
84
Ibidem, p. 135.
85
Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 403.
86
«palabras brotando de la cornucopia de sus labios» (ibidem, p. 75, 346). La stessa espressione
compare più volte in Juan Manuel de Prada, La vida invisible, cit., pp. 260, 263-264, 290, 294, 319, 452,
586, 588, 635. «allá donde la piel adquiere un tacto de papel de Biblia» (Juan Manuel de Prada, El
séptimo velo, p. 221). La metafora biblica è presente altrove: «una iconografía triste de señoritas como
papel de biblia» (Juan Manuel de Prada, Coños, p. 44). «y busqué [...] la cara interna de los muslos, que
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danno vita, come si è mostrato, all’interno del corpus delle sue opere a un continuo
déjà vu, o déjà lu, alimentando così il sospetto di trovarsi di fronte non solo a
un’ autoreferenzialità intratestuale e intertestuale ludica o artistica in linea con
la temperie culturale contemporanea87, bensì a soluzioni di comodo, a formule
espressive che, con il minimo sforzo, permettono di rifinire ambienti o schizzare
fisionomie con la disinvoltura di uno zelante artigiano, abile nel ricorrere di tanto
in tanto ai trucchi del mestiere per trarsi di impaccio, in questo modo però si corre
il rischio di creare immagini che, rimbalzate dalle pareti di un labirinto di specchi,
finiscono per perdere il loro spessore letterario e si dissolvono in un’impalpabile
consistenza d’ombra.
tenían, en efecto, un tacto vegetal y sutilísimo, casi como de papel de biblia» (Juan Manuel de Prada,
Las máscaras del héroe, pp. 265-266). «Siempre es otoño en los cementerios» (Juan Manuel de Prada,
El séptimo velo, p. 254). In La vida invisible è possibile leggere: «en los cementerios siempre es otoño»
(Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 422). «sus perseguidores empezaron a poner a prueba sus
dotes hermenéuticas deslizando sus consignas [...] en el repiqueteo de la lluvia sobre los cristales de
las ventanas, en el humo de las chimeneas, en el ronquido de los otros internos, en el sigiloso goteo de
los grifos, en el ronroneo de los tubos fluorescentes, en la geometría de las constelaciones, en el tictac
de un reloj, en el tictac de un reloj, en el tictac de un reloj que ha dejado de marcar la hora pero sin
embargo sigue funcionando» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 406). I sensi di Fanny, affinati
dalla paranoia, captano gli stessi segnali: «el Enemigo multiplica sus mensajes: la luz intermitente de
los neones, […] el chisporrotear de una bombilla averiada, el parpadeo de un gato nictálope, la geo-
metría de las constelaciones, el sigiloso goteo de un grifo, las arrugas de las sábanas que la ahogaban
con su temperatura de sudario, el tictac de un reloj, el tictac de un reloj, el tictac de un reloj que ha
dejado de marcar la hora» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 407). «sobre la nieve que borra
el escándalo de la sangre» (Juan Manuel de Prada, El séptimo velo, p. 496). La frase è ripetuta con
qualche variante in La tempestad e in La vida invisible: «el charco de sangre que la nieve se encargaba
aplicadamente de aspirar» (Juan Manuel de Prada, La tempestad, p. 30). «la nieve mitigó el escándalo
de la sangre» (Juan Manuel de Prada, La vida invisible, p. 395).
87
«El arte actual vive un poco de discursos prestados. Ha asumido con mucha facilidad algo que
vamos a llamar intertextualidad orgánica, la mezcla de materiales, técnicas, estilos y planteamientos
estéticos, de uno o diferentes sistemas» (Juan F. Villar Dégano, «Sobre el arte del futuro», Revista de
Occidente, 181 (1996), p. 53). «lo que la novela de hoy no pretende ocultar en ningún caso es que se
trata de «literatura», que su artificio es voluntariamente aceptado como punto de partida, que quiere
revelar su doble codificación: ser lenguaje, pero ser también versión sobre el lenguaje narrativo como
construcción que parodiar, homenajear, redescubrir, parafrasear, en definitiva, revisitar. La alusión
o cita literaria, referencia a modelos estilísticos que se remedan sin esconder su artificio, antes bien,
haciéndolo patente es una constante en una literatura finisecular particularmente “revisionista”, “ci-
tacionista”» (José María Pozuelo Yvancos, Ventanas de la ficción. Narrativa hispánica, siglos XX y XXI,
Barcelona, Ediciones Península, 2004, p. 52).
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Il viaggio africano di José Más
D ANILO M ANERA
Università degli Studi di Milano
[email protected]
José Más (Écija 1885 – Madrid 1941)1 è un autore oggi ben poco conosciuto, rara-
mente menzionato dalle storie letterarie, tutt’al più con un cenno nell’ambito del regio-
nalismo andaluso, mentre per un ventennio, tra il 1915 e il 1935, la sua nutrita e variegata
produzione narrativa godette di vasto successo di pubblico e anche di critica, basti ricor-
dare l’attenzione che gli dedicò Rafael Cansinos Assens2. La guerra civile e la scomparsa
di Más segnarono un rapido oblio. In seguito, Joaquín de Entrambasaguas gli fa posto
nella sua grande antologia di romanzi e gli dedica un’approfondita panoramica3, pur non
priva di riserve, mentre Federico Carlos Sainz de Robles passa da un ritratto elogioso a
non poche perplessità4, specie considerando il giudizio più frequentamente citato, quello
1
Il cognome viene talora riportato, per norma ortografica, senza l’accento. Qui si rispettano gli
usi delle varie fonti, ma si mantiene nel testo la variante usata dall’autore all’epoca, sia a stampa che
nel suo ex-libris.
2
Con vari articoli e il saggio Sevilla en la literatura. Las novelas sevillanas de José Más, Madrid,
Rivadeneyra, 1922.
3
Joaquín de Entrambasaguas, «Introducción» a La orgía, in Las mejores novelas contemporáneas,
Tomo V (1915-1919), Barcelona, Planeta, 1959, pp. 709-774.
4
Nella voce corrispondente all’autore del suo Ensayo de un Diccionario de la Literatura. Tomo
II. Escritores españoles e hispanoamericanos, 2ª ed, Madrid, Aguilar, 1953, p. 685, scrive: «José Mas
sobresale por su viva imaginación, su colorismo descriptivo, la fuerza realista de sus temas, su prosa
natural, sin altisonancia ni rebuscamientos; su maestría narrativa y la intensidad patética de muchas
situaciones y escenas. Es un novelista de masas, malogrado en la plenitud de su labor». Ma appare
molto meno convinto in La promoción de «El Cuento Semanal» (1907-1925), 2ª ed, Madrid, Espasa
Danilo Manera
Il viaggio africano di José Más
166
di Eugenio G. de Nora5, che vede in Más un’impallidita «reedición andaluza del levanti-
no Blasco Ibáñez», maestro al quale peraltro il nostro dichiaratamente s’ispira. De Nora
mostra di preferire i romanzi satirico-critici dell’ultima stagione (specie En la selvática
Bribonicia del 1932 e El rebaño hambriento en la tierra feraz del 1935), «obras estética-
mente rezagadas, pero de un valor testimonial muy apreciable»6.
Sono della stessa opinione anche Pablo Gil Casado7 e soprattutto Francisco
Caudet8, che segnala come nei romanzi di Más quel che conta «no es el tipismo
regional, sino la denuncia de la injusticia y opresión social»9. Il tentativo di
recupero messo in atto da Caudet circa trent’anni fa è parallelo a quello di Manuel
Bernal Rodríguez10, che auspica uno studio globale e obiettivo dell’opera di Más
e s’interroga sulle ragioni del silenzio intenzionalmente caduto su di lui: non si
è trattato di calo d’interesse, ma di brusca interruzione a causa del conflitto e di
censura da parte del regime che ne è derivato, ostile alla concezione impegnata che
Más aveva della letteratura11. In quello stesso periodo si dedica in modo solitario a
Más anche l’iberista tedesco Klemens Detering, che purtroppo pubblica in proprio
e un po’ artigianalmente i risultati delle sue ricerche12, importanti anche per i dati
biografici che apporta, provenienti dalla famiglia dello scrittore. Detering attesta ad
esempio che fu incarcerato per due mesi nel 1941, poco prima della morte (avvenuta
il 18 settembre), e le sue opere, specie quelle più critiche, vennero ritirate dalla
circolazione.
Calpe, 1975, pp. 221-223.
5
Eugenio G. de Nora, La novela española contemporánea (1898-1927), tomo I, 2ª ed, Madrid, Gre-
dos, 1963, pp. 367-370.
6
Entrambe le citazioni da ibidem, p. 367.
7
Cfr. La novela social española 1920-1971, Barcelona, Seix Barral, 1973.
8
Cfr. Francisco Caudet, «Prólogo» a José Más, En la selvática Bribonicia, Madrid, Ayuso, 1980,
pp. I-XVII, e Francisco Caudet, «“El rebaño hambriento en tierra feraz” (1935) de José Más», in Be-
nito Brancaforte – Edward R. Mulvihill – Roberto G. Sánchez (eds.), Homenaje a Antonio Sánchez
Barbudo. Ensayos de literatura española moderna, Department of Spanish, University of Wisconsin,
Madison, 1981, pp. 253-268.
9
Francisco Caudet, «José Mas: Dos novelas sobre la crisis monárquica y el desengaño republica-
no», in Las cenizas del fénix. La cultura española de los años 30, Madrid, Ediciones la Torre, 1993, pp.
183-209; la cit. è da p. 184.
10
Manuel Bernal Rodríguez, «José Más, entre el costumbrismo y el compromiso», Cauce. Revista
de filología y su didáctica, 2 (1979), pp. 149-170; e Manuel Bernal Rodríguez, «“Las novelas del campo
andaluz” de José Más», Cauce. Revista de filología y su didáctica, 3 (1980), pp. 149-170.
11
Scrive Bernal Rodríguez in «José Más, entre el costumbrismo y el compromiso», p. 156: «Los
escritos de J. Más especialmente los de la última época, derivan hacia un claro compromiso social de
defensa del oprimido, del desheredado, por una parte, y de agudización crítica de estamentos sociales
y actitudes ideológicas —clero, burguesía, terratenientes etc.— que le colocarán en una situación di-
fícil, especialmente al resultar vencedores de la contienda, precisamente, los grupos sociales y las ide-
as atacados. En este sentido, su suerte corre pareja a la de muchos otros escritores comprometidos».
12
Klemens Detering, José Más: un novelista olvidado, Duisburg, K. Detering, 1981. Nonostante
rare segnalazioni, come il trafiletto «Recordando a un escritor sevillano» sulla pagina sivigliana di
ABC (9/12/1981, p. 73), il volume ha avuto scarsissima diffusione.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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Il viaggio africano di José Más
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La riscoperta di José Más tuttavia tarda ancora a venire. A cavallo tra XX e
XXI secolo, si registrano, accanto a sporadici riferimenti13, la riedizione del corpus
romanzesco ambientato a Siviglia, per conto di quell’amministrazione provinciale e a
cura di Virgilio Sánchez Rey14, e un bel saggio di Carmen de Urioste Azcorra15. Nel 2004,
l’editrice madrilena Visión Libros ripubblica tre romanzi di José Más16 e negli ultimi
anni ci sono avvisaglie di nuova attenzione, specie ad opera di Mohamed Ben Slama17.
Ma c’è un aspetto molto particolare per cui si è tornati a parlare della vicenda
letteraria di José Más: il suo legame con l’ex colonia spagnola della Guinea
Equatoriale18, dove visse alcuni anni durante l’adolescenza e la primissima giovinezza,
esperienza che ha alimentato un filone della sua poliedrica narrativa.
Gli studi, sviluppatisi negli ultimi tempi, sulla letteratura coloniale ispanoafricana
e su quella postcoloniale equatoguineana ispanofona riconoscono a José Más un
ruolo di precursore, con i pregi e difetti del caso. Nel 1999, due specialisti, Jacint
Creus e Gustau Nerín, raccolgono in un’antologia, Estampas y cuentos de la Guinea
13
Ad esempio: Arturo Martín Criado, «“El Rastrero”, novela de costumbres de la Sierra de Béjar»,
Revista de Folklore, t. 14a, 157 (enero 1994), pp. 22-27. Una monumentale storia letteraria lo include,
sia pur con pochi dati: Felipe B. Pedraza Jiménez – Milagros Rodríguez Cáceres, Manual de literatura
española. X. Novecentismo y vanguardia: Introducción, prosistas y dramaturgos, Cénlit, Estella (Navar-
ra), 1991, pp. 354-356.
14
José Más, Novelas sevillanas, ed. lit. de Virgilio Sánchez Rey, Diputación Provincial de Sevilla,
1994, 2 t.
15
Carmen de Urioste Azcorra, «Canon y regionalismo andaluz: José Más», in Narrativa andaluza
(1900-1936). Erotismo, feminismo y regionalismo, Universidad de Sevilla, 1997, pp. 97-152.
16
Si tratta di En la selvática Bribonicia, El rastrero: una Castilla recóndita, trágica y completamen-
te desconocida e El rebaño hambriento en la tierra feraz.
17
Cfr. Mohamed Ben Slama, «La fatalidad en las novelas sevillanas de José Mas», Espéculo: Revi-
sta de Estudios Literarios, 39 (julio-octubre 2008), http://www.ucm.es/info/especulo/numero39/jose-
mas.html (data consultazione: 01/06/2011); Mohamed Ben Slama, «La crítica social en las novelas de
José Mas», Artifara, 8 (enero-diciembre 2008), http://www.artifara.unito.it/Nuova%20serie/Artifara-
n--8/Scholastica/default.aspx?oid=108&oalias= (data consultazione: 01/06/2011); Ben Slama, Moha-
med, «La temática de las novelas cortas de José Mas», Espéculo: Revista de Estudios Literarios, 47
(marzo-junio 2011), http://www.ucm.es/info/especulo/numero47/josemas.html (data consultazione:
01/06/2011).
18
La Guinea Equatoriale è una piccola repubblica sulle coste occidentali dell’Africa centrale, com-
posta da un riquadro di terraferma (Mbini, precedentemente noto come Río Muni, con la città più
popolosa, Bata) situato tra Camerun e Gabon, e cinque isole, tra cui la maggiore, Bioko (già Fernan-
do Poo) ospita la capitale, Malabo (chiamata nel periodo coloniale Santa Isabel). Colonia spagnola
dal 1778, anche se occupata di fatto solo da fine Ottocento, è indipendente dal 1968, ma ha patito
fino al 1979 la spietata dittatura di Francisco Macías Nguema, seguita dal regime dispotico del nipote
Teodoro Obiang Nguema. Nonostante le ingenti riserve petrolifere scoperte, lo sviluppo non arriva
alla popolazione e buona parte dell’élite culturale vive in esilio, prevalentemente in Spagna. Cfr. Justo
Bolekia Boleká, Aproximación a la historia de Guinea Ecuatorial, Salamanca, Amarú Ediciones, 2003.
Sull’epoca coloniale (in concreto il segmento novecentesco) è di grande interesse, specie per l’appara-
to iconografico, il volume: José Luis Centurión, Crónica gráfica de la Guinea Española, Madrid, SIAL
– Casa de África, 2010. Si veda anche: Carlos González Echegaray, «La vida cotidiana en la Guinea
Ecuatorial durante la época colonial», in José Ramón Trujillo (ed.), África hacia el siglo XXI. Actas del
II Congreso de Estudios Africanos en el Mundo Ibérico, Madrid, SIAL – Casa de África, 2001, pp. 157-167.
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Il viaggio africano di José Más
168
española19 prose novecentesche descrittive, odeporiche o narrative precedenti
all’indipendenza della Guinea Equatoriale. José Más è l’autore più rappresentato, con
tre brani, e quello che apporta i testi più antichi. L’anno dopo esce il fondamentale
panorama di Antonio Carrasco González, La novela colonial hispanoafricana, ora
in una seconda edizione aumentata20, dove Más è in bella vista all’inizio della parte
dedicata alla Guinea, rilievo che confermerà nel 2004 José Ramón Trujillo nella sua
preziosa bibliografia ragionata, dove lo definisce «el primer verdadero novelista
colonial»21.
A tracciare la via dell’indagine sugli scritti “africani” di Más è Juan Miguel
Zarandona Fernández22, il quale si concentra innanzitutto sulla traduzione dal
francese che il sivigliano eseguì del romanzo Batuala, di René Maran (1887-1960),
premio Goncourt 1921, uscito in castigliano l’anno successivo. Nel prologo, Más
esprime un po’ goffamente la sua sorpresa nel vedere in libreria l’opera di uno
scrittore africano di razza nera e di buona cultura, mentre l’opinione corrente era che
l’inferiorità impedisse ai neri di produrre letteratura23. E Donato Ndongo-Bidyogo,
uno dei massimi scrittori equatoguineani, riprende l’infelice passo, a mo’ d’esempio,
nell’introduzione alla sua pionieristica Antología de la literatura guineana24.
Zarandona puntualizza che Más seppe comunque, nonostante ogni prevenzione,
apprezzare il romanzo di Maran e farlo conoscere al pubblico spagnolo25. Il critico
19
Jacint Creus – Gustau Nerín (eds.), Estampas y cuentos de la Guinea Española, Madrid, Clan
Editorial, 1999. I testi di José Mas Laglera (tratti tutti da En el país de los bubis) sono: Medallones, pp.
107-119; Las botas de montar, pp. 167-175; La espuria, pp. 255-264.
20
Antonio M. Carrasco González, La novela colonial hispanoafricana. Las colonias africanas de
España a través de la historia de la novela, Madrid, SIAL – Casa de África, 2000; rinviamo però a
Antonio M. Carrasco González, Historia de la novela colonial hispanoafricana, Madrid, SIAL – Casa
de África, 2009, dove la parte V sulla Guinea è alle pp. 313-365, mentre di José Más si parla alle pp.
319-322.
21
José Ramón Trujillo, Fuentes documentales de la literatura en español en el África subsahariana.
Tradición, traducción y modernidad, Separata de Linguax. Revista de Lenguas Aplicadas, 2 (2004), p. 7.
22
Juan Miguel Zarandona Fernández, «Realismo, alegoría y utopía en las novelas africanas de José
Mas (1885-1940)», in Actas del IV Coloquio Internacional de Estudios sobre África y Asia (Alicante/
Málaga, Instituto Alicantino de Cultura Juan Gil-Albert de la Diputación Provincial de Alicante),
Málaga, Algazara, 2002, pp. 313-326.
23
Renato Maran, Batuala. Verdadera novela de negros, Prólogo, traducción y notas de José Más,
Madrid, V. H. Sanz Calleja, 1922. Il prologo è alle pp. III-XIX, e a p. III si legge: «La novela no sólo
era de negros, sino que estaba escrita por un individuo perteneciente a esta raza. El caso me pare-
ció insólito. Yo no podía concebir que un negro del Congo tuviese aptitudes de escritor. Sabía que,
educándoles en Europa, llegaban a ser buenos bailarines y que algunos hasta habían llegado a tocar
la trompeta y el violín con verdadero arte; pero de esto a describir paisajes y estados de almas, había
mucha distancia».
24
Donato Ndongo-Bidyogo (ed.), Antología de la literatura guineana, Madrid, Editora Nacional,
1984. In seguito è uscita una nuova edizione: Donato Ndongo-Bidyogo – Mbaré Ngom, Literatura de
Guinea Ecuatorial (Antología), Madrid, SIAL – Casa de África, 2000.
25
Zarandona è poi tornato recentemente sulla questione nel suo intervento «El “Prólogo” de la
traducción española del Batuala de Renato Maran de 1922: las contradicciones textuales de José Mas»,
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Danilo Manera
Il viaggio africano di José Más
169
circoscrive poi il corpus delle opere “africane” di Más, sottolineandone l’originale
evoluzione, e lo passa in rassegna con acute osservazioni.
Infine, nel 2010 è stato riproposto ai lettori di oggi, in una collana specializzata
in libri di viaggio, con introduzione di José Esteban e un commento di Unamuno,
En el país de los bubis26, l’opera che è all’origine della linea africana nella scrittura di
José Más e su cui si concentra la presente lettura.
La storia di tale libro si dipana attraverso tre fasi. Nel 1914 esce una stesura parziale
e acerba27, rimasta senza eco. Il giovane autore stava muovendo i primissimi passi
di quella che sarà una feconda traiettoria di romanziere e non era ancora trascorso
un decennio dal suo definitivo rientro dalla Guinea. Il dato testimonia tuttavia il
ruolo dei ricordi africani e di viaggio per la vocazione narrativa di Más. L’edizione
di riferimento è però senz’altro quella del 192028, rimaneggiata e accresciuta, che
contiene le tre parti fondamentali e reca alle pp. 7-15 un importantissimo Preámbulo
que solamente interesa al autor, datato novembre 1919. Ad essa rimandano qui, d’ora
in poi, le indicazioni di pagina non diversamente specificate. Nel 1931 si pubblica una
«2ª edición corregida y aumentada»29, che in realtà ingloba soltanto una recensione
presentato al II Congreso Internacional de Estudios Literarios Hispanoafricanos África y escrituras
periféricas en español (Madrid 5-8 de octubre 2010), in corso di pubblicazione negli atti del medesi-
mo. Analizzando il testo di Más, Zarandona dimostra che è disordinato, incoerente, contraddittorio
e disinformato (fino al punto da considerare congolese Maran, originario della Guyana francese).
Invita dunque a restringere la portata di alcune affermazioni ingenue o maldestre alla mentalità e ai
pregiudizi del tempo e a quel contesto culturale, considerando invece il valore positivo della rapida
traduzione e diffusione del romanzo di Maran, operazione con cui Más contribuì allo sviluppo della
creazione letteraria spagnola a tema africano, cui era lui stesso interessato in prima persona, impor-
tando un’opera che colmava una lacuna.
26
José Más, En el país de los bubis, La Coruña, Ediciones del Viento, 2010. «Introducción» di José
Esteban alle pp. 9-14 e «Prólogo» di Miguel de Unamuno alle pp. 15-19; alle pp. 12-13 vengono ripro-
dotte le copertine delle edizioni originali. Il volume è stato recensito, tra gli altri, da Emilio Soler, «Un
andaluz en Guinea», Revista de Libros, 170 (febrero de 2010), p. 32.
27
José Más, Con rumbo a tierras africanas. Notas, impresiones y recuerdos de un viaje a Fernando
Poo, Barcelona, Labielle, 1914.
28
José Más, En el país de los bubis. Escenas de la vida en Fernando Poo, Madrid, V. H. Sanz Cal-
leja, 1920 (184 pp.). Contiene alcune foto in bianco e nero, tra cui un ritratto dell’autore a Fernando
Poo, dopo la p. 16. Anche questa scelta è significativa del valore documentale attribuito al libro. Sulla
stessa linea la copertina a colori, che mostra un capo bubi armato e danzante con lancia, ornamenti
da cerimonia e casco piumato (sullo sfondo, dominato dal giallo, si intravedono sagome di guerrieri,
una sorta di piccionaia, una palma e un banano). La figura centrale è infatti ispirata molto probabil-
mente a una foto come quella, straordinariamente simile, riprodotta a p. 144 del già citato volume di
José Luis Centurión, Crónica gráfica de la Guinea Española, scattata nel 1901 dal missionario Padre
Albanell. Altre immagini simili si possono vedere nel fondo fotografico clarettiano, disponibile on
line: http://bioko.net/claret/. È molto interessante anche la raccolta di cartoline d’epoca messa a dis-
posizione nello stesso portale: http://bioko.net/postal/ (data consultazione: 01/06/2011).
29
Más, José, En el país de los bubis, 2ª ed. corr. y aum., prólogo de don Miguel de Unamuno, Ma-
drid, Pueyo, 1931 (236 pp.).
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Il viaggio africano di José Más
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di Miguel de Unamuno (risalente al 1921)30, posta a mo’ di prologo, e la narrazione
Justicia africana, già uscita da sola nel 192531. Su quest’ultima edizione si basa la
citata riedizione del 2010.
En el país de los bubis. Escenas de la vida en Fernando Poo, che comprende
vari approcci dell’autore alla tematica africana, ha una struttura coscientemente
eterogenea32, articolata in tre parti provviste di una loro autonomia, pur non mancando
i rimandi incrociati. La prima e la seconda sono di lunghezza pressoché uguale (circa
il 35% del volume), mentre la terza è più breve (circa il 20%). Nel Preámbulo, che per
la sua estensione e il carattere narrativo di alcuni passi autobiografici costituisce un
nucleo per nulla accessorio, Más accenna alla sua condizione di orfano povero, dopo
la morte prematura del padre, il poeta e giornalista Benito Más y Prat (1846-1892).
Sottolinea inoltre il valore decisivo del viaggio a Fernando Poo nella sua esistenza33
e colloca verso il 1910 l’embrione del libro:
En las páginas de este libro, cándidas, sencillas e ingenuamente escritas,
van reflejadas mi niñez y mi adolescencia. Es un libro de recuerdos que
tiene para mí la tristeza y el dolor de lo vivido. Casi toda la primera
parte se escribió hace nueve años. No he querido ni retocarla. Lo que
pierda en valor literario lo ganará en sinceridad y en fervor. En nuestra
existencia hay siempre un acontecimiento trascendental y decisivo. En
la mía fue el viaje a Fernando Poo, cuando aun era yo un niño. No se
trataba de un viaje de estudio ni de sport. Iba para colocarme en una
factoría, con el ansia de ganar unas pesetas que se necesitaban en casa
de mi madre. Era necesario luchar con la vida y vencerla. Y a mí me
30
Miguel de Unamuno, «En el país de los bubis», La Nación (Buenos Aires), 01/01/1921.
31
José Más, Justicia africana, La Novela Semanal, 201 (16 de mayo de 1925), 56 pp.
32
Lo nota puntualmente Zarandona: «La estructura, tanto externa como de contenido, es muy
compleja, hecho que se plasma en el completo mosaico de tipologías textuales presentes en sus no
muchas páginas: diario de viaje, descripción de paisajes, la naturaleza africana, costumbres pintore-
scas y modos de vida, tipos humanos exclusivos (lo etnográfico-etnológico), crónica social, excursio-
nes y escenas de la vida ordinaria, cuentos más o menos basados en las experiencias de cada día, le-
yendas e historias indígenas». Il critico rileva inoltre il tono «profundamente realista-costumbrista»
indicato chiaramente dal termine escenas del sottotitolo («Realismo, alegoría y utopía en las novelas
africanas de José Mas (1885-1940)», pp. 317-318).
33
La datazione dei viaggi di José Más in Guinea Equatoriale non è agevole. I dati disponibili
sono imprecisi e a volte contraddittori. L’autore, nel «Preámbulo» del 1919, indica un’età alla partenza
di 12 anni («¡Oh mis doce años de entonces!», p. 7), mentre poi nella narrazione si passa a 13 («un
muchachito que apenas contaba trece primaveras», p. 22). Sempre nel «Preámbulo», afferma di aver
compiuto 4 traversate e aver trascorso 7 anni sull’isola, con intervalli in Spagna («Cuatro veces fui a la
maravillosa isla descubierta por el valeroso navegante portugués. Siete años pasé allí, con intervalos
de unos meses que venía a España para reponerme de la crueldad del clima», p. 14). José Esteban
parla di «ocho años» trascorsi a Fernando Poo (op. cit., p. 9), poi di «siete años», fissando il rientro
all’aprile 1905 (ibidem, p. 11). Essendo Más nato il 6 giugno 1885, aveva 12 anni nel 1897 e, contando
quella della sua nascita, vedeva allora la sua tredicesima primavera. È probabile che la seconda metà
del 1987 sia l’epoca della partenza, e la seconda metà del 1904, quando il nostro aveva 19 anni, quella
del ritorno.
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pareció fácil y hasta divertido el combate. ¡Cuándo volveré a ser audaz y
temerario como entonces! (p. 7).
Emergono subito nel Preámbulo alcuni elementi chiave, che l’autore sembra
anzi voler ricalcare. Il viaggiatore è un bambino che non conosce nemmeno il mare
e deve partire in cerca di fortuna per necessità, ma non pensa a ostacoli e difficoltà,
perché, sulla spinta dei libri d’avventura, vede tutto avvolto da una luce favolosa, dal
fascino dell’ignoto:
Por mi retina pasó la azul lejanía de un país desconocido y maravilloso.
Era todo claro y ensoñador como un cuento de hadas. Luz, luz, siempre
luz. La sombra y la penumbra se desvanecían en el resplandor del
ensueño. Aquellos cuentecillos leídos meses antes, donde se hablaba de
remotas tierras, de hombres primitivos y de bosques inmensos, iban a
convertirse en realidad. Yo pronto sería el capitán de los quince años o
el rey del país de los enanos. Era el encanto sutil de lo desconocido, de
lo bellamente ignorado (p. 8).
Non a caso, al cognato Pepe che lo accompagna a Cadice, chiede di comprargli
«El Foco Eléctrico, un cuento que habla de unos países semejantes a los que yo voy
a visitar» (p. 9)34. Il viaggio si configura per il narratore autodiegetico come uno
snodo educativo, quasi un’iniziazione, umana innanzitutto, ma anche letteraria,
vibrante in queste «notas, impresiones y recuerdos que se grabaron en mi alma con
trazos indelebles» (p. 14), nonostante i rischi corsi e il fallimento economico: «casi
estuve entre las garras de la que no perdona; mas al fin venció mi fuerte naturaleza
y pude regresar a mi patria; pero tan pobre como a la salida y con muchas ilusiones
muertas» (p. 15).
La prima parte, De Cádiz a Fernando Poo (pp. 17-82), suddivisa in 20 capitoletti,
segue scrupolosamente la traversata marittima35, offerta come un percorso di
formazione, con il trasbordo dalla famiglia dell’infanzia in terraferma a una
nuova famiglia e scuola costituita dalla nave, che a sua volta fa sbarcare infine a
un nuovo mondo d’avventura, atteso e accolto in un alone di lucente azzurro da
favola. La nostalgia della casa e della patria, pur presente sullo sfondo, rimane un
riferimento remoto. Non a caso, la narrazione inizia con un’immagine di solitudine
sul bastimento simile a una culla: «No olvidaré nunca la impresión que me produjo
verme solo en aquella gran mole, que se mecía dulcemente sobre las aguas como una
cuna gigantesca» (p. 19). A poppa della «casa movible» ondeggiano «los colores de
la bandera española» (ibidem) e il capitano gli dice: «¡Te gustará el viaje, pequeño.
34
Si tratta probabilmente di quest’edizione: José Muñoz Escámez, El Foco eléctrico. (Aventuras de
cuatro niños). Novela científica para la infancia, 2ª ed. corregida y aumentada por el autor, ilustrada
por J. Cuevas y M. Méndez Bringas, Madrid, Saturnino Calleja, 1895.
35
Fonde le esperienze di più viaggi (come dichiara l’autore nella nota a p. 27, all’inizio del IV
capitolo: «Desde este capítulo mezclo impresiones y recuerdos de varios viajes»), ma presentandole
sempre come il primo avvicinamento all’isola.
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Verás cosas muy bonitas. Y aquí estarás como en tu casa. En el mar todos somos
amigos!» (p. 20). In lontananza, Cadice, «como una ciudad fastuosa de un cuento
oriental, parecía hecha de marfil, con reflejos plateados y matices de nácar» (ibidem).
Nell’ambiente cordiale ed esclusivamente maschile che trova a bordo, l’apprendistato
comincia fin dalla prima cena, seguita dal primo mal di mare, frangente in cui viene
assistito dal passeggero catalano Carles. Il mattino seguente, dopo uno scambio di
battute con lui, scrive: «Lo estimé profundamente, como si se tratara de una persona
de mi familia. Desde este momento me pareció que no estaba en un sitio extraño, ni
rodeado de hombres casi desconocidos» (p. 24). Il giovanissimo protagonista, come
dopo un rito di passaggio, prende possesso del nuovo spazio: «Aquel día comí y cené
con un apetito de salvaje. El mareo de la tarde pasada no volvió a importunarme.
Era ya todo un hombre. Recorrí el buque de proa a popa, de babor a estribor» (p. 25).
La nave tocca le Canarie, poi il deserto del Río de Oro e, sei giorni più tardi, fa
scalo nella multiforme città di Freetown in Sierra Leone. È il primo incontro, nel
caldo soffocante, con l’Africa nera: «África la fuerte, la intrincada, la de vegetación
exuberante, está a nuestra vista con todo el esplendor de su salvaje belleza. […] con
la magnificencia propia de una naturaleza virgen o paradisíaca» (p. 37).
Ed è anche l’occasione per i primi mossi quadretti di costume: l’assalto al
bastimento da parte delle lance che propongono il trasbordo a terra e una rissa tra i
loro piloti, mentre sale a bordo un gruppo di dame locali eleganti e briose. Quando
il vapore riparte, trasporta nuovi passeggeri, fonte di sorprese per l’udito, l’olfatto e
la vista:
El silencio que antes reinaba en aquel sitio habíase cambiado en una
espantosa gritería; la cámara, tan limpia, estaba ahora convertida en un
vaciadero de cáscaras de naranja y de plátanos, y el ambiente despedía un
tufillo peculiar e inconfundible. Olía a carne de negros; olor penetrante
y molesto en sumo grado. […] Por la cámara paseábanse algunos negros
jóvenes, vistiendo a la europea y de mirada inteligente; pero chicos y
grandes, varones y hembras, armaban un vocerío infernal, pues todos
querían hablar al mismo tiempo (pp. 43-44).
Ancor più sconcertante è la visione dei braccianti della Sierra Leone, ingaggiati
dal governo spagnolo per ripartirli tra gli agricoltori della colonia, sistemati a prua,
vicino agli animali, scena che fa pensare il protagonista alla tratta degli schiavi:
En amontonamiento informe, unos sentados sobre los travesaños de las
jaulas, otros extendidos en el suelo de la sucia cubierta; unos cara al sol,
otros boca abajo, descalzos, desnudos hasta la cintura, con pantalones
de colores vivos; estos ostentando sus espaldas de gigantes, aquellos sus
pechos hercúleos y brazos de líneas viriles, se veían como a unos ochenta
negros, que chillaban y vociferaban en una jerigonza insoportable,
que más parecían aullidos que palabras, callando todos atemorizados
cuando el capataz les dirigía palabras fuertes y gesticulaba (pp. 46-47).
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Il viaggio africano di José Más
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La vita sulla nave prosegue, tra una tombola e uno scherzo, l’avvistamento di un
branco di delfini, letture ispiratrici o d’intrattenimento, qualche personaggio curioso
tra i marinai o i viaggiatori, la contemplazione degli sconfinati paesaggi marini
diurni e notturni, il cambio di vestiti dai bauli, un espressivo racconto di caccia
all’elefante, una spettacolare tempesta elettrica e lo scalo a Monrovia, in Liberia, con
un nuovo carico di braccianti. Nell’ultima notte a bordo il ragazzino è invaso da una
desolante malinconia, e piange sopraffatto dalla solitudine, dal senso di debolezza e
incertezza per ciò che lo attende. Ma a rinfrancarlo tornano i colori fatati dell’alba
tra il monte Camerun e Fernando Poo: «Paisaje de una soñada poesía. Un solo color
domina todo: el azul; pero ¡qué riqueza en matices!: azul turquí el cielo, azul plata el
mar, azul violáceo las montañas que se alzan ante nuestro buque» (p. 76).
E il bastimento costeggia l’isola, offrendo nuove delizie paesaggistiche di una
natura rigogliosa fino all’eccesso, dipinta con vivace colorismo:
Ya se distinguen las manchas de los caseríos. Ya se desligan de lo azul los
troncos gigantescos de las ceibas y las delgadas palmeras. Ya es el curso
plateado de un río, que espejea al sol como la hoja de una espada. Ya es
el humo de un hogar, que sube lentamente, con esa pereza embriagadora
propia de los trópicos. Ya es la cinta negra que traza en el cielo una
bandada de cuervos. Ya es la roja, amarilla, verde, plomiza y tornasolada
que dibujan en el espacio bandadas de loros, palomas silvestres, colibríes
y mirlos. Ya es la chispeante llama del sol, que hace arder la tierra y nos
muestra cráteres de volcanes, abismos, valles, llanuras, colinas, playas,
escarpes, ensenadas: todo erizado de vegetación, pero de una fertilidad
prodigiosa (pp. 77-78).
Il protagonista compara con gli scali precedenti e non ha dubbi: «África, la que
yo soñé, es ésta» (ibidem). Trionfale l’approdo a Santa Isabel, impavesata a festa con
bandiere spagnole, che pare il contraltare di Cadice, quasi un presepe tropicale36:
Santa Isabel ha surgido con toda su belleza infantil. Parece que
han sacado las casitas de una caja de cartón y las han diseminado
caprichosamente por la falda del monte. El contraste es bello, grandioso.
Bajo la pujanza ciclópea de una naturaleza virgen, bajo el marco de la
vegetación ubérrima, las débiles armazones de las casas minúsculas y de
las empalizadas microscópicas (p. 78).
L’arrivo è un affettuoso tripudio di familiarità:
A los nuevos nos saludan como a antiguos conocidos. […] Una ola de
fraternidad envuelve a estos compatriotas. La cubierta se llena de grupos
animados. […] Todos parecen miembros de una numerosa familia que
36
Della chiesa di Santa Isabel dirà più avanti: «Se adorna con una torrecilla de forma cónica, que
la creí arrancada de esos cartones de construcción que fueron la delicia de mi niñez» (p. 87).
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Il viaggio africano di José Más
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se han reunido después de largo tiempo de separación. […] En Sierra
Leona y en Monrovia los que subían hablaban el inglés; aquí sólo se oye
el castellano (pp. 79-80).
Ma il protagonista non manca di notare alcuni aspetti discordanti, come
l’eccitazione nervosa di chi s’imbarca per il viaggio di ritorno da quello che sentono
come un esilio, o la mancanza totale di donne:
Ni una sola mujer pone su nota sencilla, tierna y atrayente. Un país sin
mujeres no se concibe. Sin embargo, la triste realidad se ofrecía en toda
su crudeza. En Santa Isabel no había ni una sola mujer blanca. Sólo en
Basilé, pueblo de colonos, existían algunas; pero que arrastraban una
vida mísera y llena de peligros (p. 81).
Si palesa soprattutto la preoccupazione per le malattie tropicali che fiaccano
fisico e animo dei coloni spagnoli37:
Los rostros pálidos delatan la pobreza de la sangre, el paso de alguna
fiebre no lejana, la huella de la horrible disentería, la señal de un grave
paludismo, la melancolía de la nostalgia. En suma: tristeza, angustia,
desilusión, cansancio de la vida (p. 79).
La narrazione si conclude, circolarmente, con la discesa dalla nave, l’abbandono
della famiglia vicaria e del mezzo di trasporto magico:
Parecía que abandonaba algo mío. Aquello era una prolongación de
la patria. Hasta que puse el pie en el bote que me conduciría a tierra
no me di cuenta de que me hallaba en África, a una distancia fabulosa
de las playas españolas. Y aquel buque, que había mirado por nuestra
existencia con la ternura de una madre, que nos había cobijado tanto
tiempo y nos había defendido de la tempestad y de las furias de las
olas, tenía para mí un prodigioso encanto de seducción. Mi gratitud
se convertía en ternura. Desde el bote veía su costado negro, fuerte,
vencedor de la inclemencia del tiempo y de los embates del mar,
y me imaginaba que todo él sonreía como despidiéndome (p. 81).
37
Già a Freetown aveva accennato ai malanni endemici che decimano i bianchi e a cui i neri pa-
iono immuni: «Aunque pocos, algunos europeos hemos visto transitar por las calles, y en todos se
nota el estrago producido por el clima: sus rostros tienen amarillez cadavérica; las venas no logran
sonrosar estos semblantes de pómulos pronunciados; la insalubridad del terreno va minando las
naturalezas, y por muy ricas que sean les roba el vigor, dejándolas exhaustas. Por el contrario, el ne-
gro, tanto el indígena como el llegado de otro punto de la costa africana, se cría fuerte, es de potente
pecho y de brazos hercúleos. Hijo del sol y de la tierra caldeada, por sus venas corre todavía la sangre
sana y ardiente de las razas primitivas» (p. 42). Más stesso ne fu vittima, anche se, in un momento
d’entusiasmo, associa la febbre all’esuberanza vitale: «Exceso de luz, exceso de color, exceso de vida.
He ahí el peligro de los países tropicales. ¡Oh extraña paradoja! La fiebre, esa terrible dolencia, no es
más que una plétora de vida causando la muerte» (p. 77).
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La seconda parte, Bajo el cielo tropical (pp. 83-146), è la prosecuzione naturale
della prima, ma risulta alquanto eclettica e frammentaria. La prima sezione (El País)
riprende la narrazione dallo sbarco, sempre dal punto di vista di Más ragazzino,
ancora pronto a infervorarsi: «Olvido toda mi existencia pasada y me creo héroe de
una novela de Julio Verne o de Mayne Reid» (p. 85). Si descrivono così la scarpata di
una ventina di metri che separa il molo di Santa Isabel dalla città (e che è come una
seconda frontiera, quasi un simbolo del dislivello tra i due mondi, del salto da fare),
l’accoglienza da parte del commerciante andaluso Alfonso Casajuana, il suo modesto
emporio con mescita, la cittadina di 50-60 case e poco distante il villaggio di coloni
bianchi, in maggioranza valenzani, di Basilé, unico punto dell’isola in cui si trovano
famiglie intere di spagnoli38. Tratteggia poi il profilo dei fernandinos, una sorta di
aristocrazia africana benestante di Santa Isabel, discendenti da famiglie “civilizzate”
della costa continentale, che hanno conservato costumi britannici, parlano inglese
tra loro e invitano la colonia bianca a eleganti e allegri balli.
Ma il documento più straordinario che Más offre sono le pagine dedicate ai
bubi, «los verdaderos indígenas de Fernando Poo» (p. 97), che al sabato si recano
all’emporio dove lavora in frotte chiassose – ma procedendo in fila indiana – per
comprare rum e vendere «gallinas, huevos, cacao, café, aceite de palma, calabó y
bambú» (ibidem). Ce li dipinge come selvaggi puerili, che divertono con la loro
«encantadora ingenuidad» (ibidem) e vivono in uno stato primitivo, salvo quelli
educati nelle missioni cattoliche e protestanti. Ma non manca di notare che la
vicinanza dei bianchi è per loro dannosa: corrotti dall’alcolismo, i bubi della costa
sembrano la caricatura di quelli dell’interno, robusti e agili. Nel descrivere, con tocchi
veloci ma attenti, gli usi, le abitazioni, le forme di governo, gli ornamenti e i rituali
degli indigeni, accanto a tratti che giudica barbari (in primo luogo la mancanza
d’igiene, ma anche il tatuaggio sul volto, l’unguento di fango ocra per proteggersi
dagli insetti o il braccialetto di liane stretto ai bambini piccoli, che con la crescita
crea deformazioni), ne annota anche altri moralmente nobili, come il valore dato
alla dignità personale o all’ospitalità (che compara con analoghi sentimenti nell’epica
omerica). E tesse in fondo un involontario elogio dei bubi quando sottolinea la loro
refrattarietà allo sfruttamento lavorativo:
Todos los medios que se han empleado para que el bubi trabaje en las
fincas de los labradores europeos han resultado infructuosos. Como
sólo se cultiva una pequeña parte de la isla, ellos se esconden en los
bosques y forman sus poblados, repartiéndose el terreno, y como sus
38
Ma le condizioni di salute ancora una volta guastano l’emozione positiva: «Yo me creía tran-
sportado por arte de encantamiento a una aldea española. No se veía ni un negro por las calles, y las
campanas de la iglesia tocaban con tal dulzura, que un contento inefable iba llenando mi alma. […]
Pasé por la plazoletilla de la iglesia y me detuve alborozado. Niños y niñas salían del templo de Dios.
Eran de raza española, pero la mayoría nacidos en Basilé. Estaban paliditos, y algunos muy delgados.
Sentí una gran lástima, una angustiosa compasión. Yo no ignoraba que el clima de la isla era fatal
para las mujeres y para los infantes» (pp. 94-95).
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necesidades están cubiertas no se avienen a trabajar dependiendo de un
amo ni se esclavizan por el dinero (pp. 102-103).
Quanto alle loro credenze religiose, le considera
tan primitivas como sus trajes, sus tocados y sus artes; adoran a un ser,
invisible para los profanos y visible para los feticheros, que representa
el genio del Bien, o sea Rupé en su lenguaje, y a un espíritu que todo los
destruye, o sea al genio del mal, llamado Morimó. Elevan sus preces al dios
del mal y no se preocupan del dios bueno, porque afirman que de este último
nada tienen que temer, puesto que su bondad es infinita (pp. 101-102)39.
La seconda sezione, Medallones, è composta da cammei romanticheggianti e
schizzi dal vivo, dedicati non a bubi, ma a personaggi della screziata umanità di
Santa Isabel. Sfilano così Violeta, meticcia bellezza crepuscolare che sembra una
sivigliana, «apuesta, gentil y desgraciada como una princesita de ensueño» (p. 105);
il domestico liberiano Jony, muscoloso e sempliciotto come un bimbo, premuroso e
grato per il buon trattamento che riceve dopo tanti soprusi; il ricchissimo Ton-Yala,
malato di vizi e alcolismo, che da Creso finisce mendicante, ossuto come un Cristo
del Greco; lo scimmiesco cubano Malanga, fanaticamente filospagnolo, decorato per
burla dal governatore; Taborda, colosso mulatto di São Tomé, proprietario di una
piantagione di cacao, ghiotto e lussurioso, che adora il tabacco e s’accende la pipa
con la fiammella dei lampioni. Affiora anche il motivo tipico dell’accesa sensualità
africana nella sinuosa figura di Matá, la ventenne fernandina che vive libera con il
figlioletto avuto da un bianco, «muchachita de andares rítmicos y de voz suave y
acariciadora», nei cui occhi neri «palpita toda la lujuria de la flora tropical» (p. 105):
Ella busca siempre nuevos amores y prefiere a los hombres de la Península
Ibérica, exceptuando a los portugueses. Se entrega cuando quiere. En
ocasiones es casta como una esposa sencilla. En cambio, cuando la tarde
o la noche tropical se impregnan de perfumes enervadores es como
una bacante ebria, y su cuerpo quema y se retuerce entre el espasmo
del supremo instante. Entonces balbucea palabras de cariño y se queja
bajito, sin rechazarnos. Mata no se entrega por plata. Su existencia es
un canto al amor y a la libertad. Y bajo el cielo encendido de la isla, esta
mujer sonríe, enseñando su blanca dentadura y henchidos de vida sus
redondos senos, duros y negros como el ébano (p. 106).
Ai Medallones segue Tríptico, tre paginette manieristiche di prosa poetica
su un mattino, un meriggio e una notte africani. Più intrigante il testo seguente,
39
In calce a questa frase pone la seguente nota: «Yo ofrezco a D. Miguel de Unamuno, para gozar
con sus donosos comentarios, este trozo de filosofía paradójica y positivista de los indígenas de Fer-
nando Poo» (nota 1, p. 102). Il filosofo bilbaino risponderà, nella già ricordata recensione bonearense,
che altrettanto fanno la maggior parte dei cristiani. Per un’articolata descrizione della religiosità bubi
si veda Amador Martín del Molino, Los Bubis. Ritos y creencias, Madrid, Labrys 54, 1993.
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Una excursión a Moka, trainato dal ritmo del viaggio, in cui brillano le capacità
d’osservazione dell’autore. Moka è un villaggio bubi di montagna presso il quale si
trovano sorgenti di acqua minerale effervescente naturale, ritenute dagli indigeni
un luogo demoniaco a causa degli uccelli morti per le esalazioni. Il narratore
autodiegetico, aggirando le proibizioni, riesce a riempire due bottiglie, che però
scoppiano durante il trasporto (affidato ovviamente a portatori neri). Da un punto di
vista ideologico, si registra il plauso per l’attività dei coloni (ad esempio nella figura
di Ángel Díaz, madrileno responsabile di una fattoria, che vive quasi sempre da solo
e si fa obbedire dal centinaio di neri alle sue dipendenze) e dei missionari clarettiani,
la congregazione decisiva nella storia della Guinea Equatoriale spagnola40. Il rettore
della missione di Banapá, ricevendo i viaggiatori, dice loro che fanno bene a voler
conoscere l’isola, così «podrán defender como se merece este rinconcito de tierra
africana, que debe ser como una prolongación de la madre patria» (p. 122).
Chiude questa seconda parte una sezione di quadretti, Recuerdos, il primo dei
quali molto significativo. Si tratta di La caja de libros. Nella tranquillità dell’isola, il
ragazzo sente desiderio di letture. Chiede in giro, ma nessuno ha libri, che trovano
noiosi. Per tre mesi deve rileggersi più volte El foco eléctrico, poi:
Escribí a casa pidiendo libros. Llegó al fin el correo, después de una
espera cruel, y me trajo unas cuantas novelas de Julio Verne y del Capitán
Mayne Reid. ¡Oh cómo gocé con aquellos cuadernos de portada azul;
con aquellas hojas agarbanzadas, a dos columnas, de letra menuda; con
aquellos ingenuos grabados en madera, donde adquirían vida real los
personajes y las descripciones! (p. 139).
A orientare la sua formazione e le sue inclinazioni letterarie è il colto compagno
di lavoro quarantenne Pedro Gay, che riceve da casa libri d’ogni genere. Tramite
lui conosce grandi autori «en lamentables traducciones de la Casa Maucci, que
entonces me parecieron bonísimas» (p. 140). Gli propone allora di importare libri da
vendere. Il loro capo è d’accordo e chiedono per il vapore seguente un assortimento
di edizioni popolari proprio alla barcellonese Maucci. In un primo momento non
trovano la cassa nel carico, poi spunta fuori due mesi dopo, e l’emozione è forte:
Aquellos libros eran un tesoro inapreciable, único. Miraba los títulos
con pasión, y cuando saqué de la caja el primer volumen, tembló entre
mis dedos como una gran mariposa. Suavemente, como si los libros
estuviesen hechos con una materia frágil y quebradiza, fui dejándolos
sobre el mostrador hasta formar una fantástica torre de papel (p. 143).
40
Sull’operato dei missionari spagnoli si veda: Jacint Creus, «La construcción de un modelo de
evangelización colonial: Guinea española, 1845-1910», in José Ramón Trujillo (ed.), África hacia el
siglo XXI, pp. 97-112. I clarettiani (o Congregazione dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di
Maria) hanno anche pubblicato dal 1903 al 1968 una rivista importantissima per la cultura coloniale
equatoguineana, La Guinea Española, disponibile on line: http://www.bioko.net/guineaespanola/la-
guies.htm (data consultazione: 01/06/2011).
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Mettono in vendita solo i doppioni. Il resto se lo spartiscono. Il giorno dopo un
ufficiale di marina compra Il giocatore e Le notti bianche di Dostoevskij, il primo
libro venduto a Fernando Poo. L’episodio colpisce fortemente Unamuno: Más,
scrive, «a quien fue la lectura la que le lanzó a los doce años a la vida aventurera,
deseaba libros para alimentar su fuente de acción, porque él vivía y los demás se
dejaban vivir».
L’ultimo quadretto, Noticias de España, è di nuovo dedicato all’arrivo dei vapori,
ma stavolta dal punto di vista della costa, di chi aspetta. Il cerchio si chiude, ora è lui
a imbarcarsi sulla lancia per salire a bordo da terra, celebrando il rito della nostalgia:
El barco traía noticias de España, de la patria querida, de los seres
amados, y nosotros infantilmente esperábamos como un maná, como
algo sagrado que nos viniera del cielo, las cartas, los periódicos, las
revistas: todo aquello que nos hablaba del terruño y de la familia lejana.
[…] y todo tomaba a nuestros ojos de Robinsones desterrados una
grandeza épica, y un deseo febril de retornar a España se iba asomando
a todas las pupilas (p. 146).
La terza parte del libro, Fantasías africanas, è formata da una serie di racconti,
rielaborazioni di storie ascoltate a Fernando Poo o spunti personali, gestiti con
mestiere e con più d’una concessione al gusto modernista per il misterioso, l’orrido
e l’esotico41. In Las botas de montar, Don Luis, uno dei coloni stabilitisi sull’isola da
più tempo, racconta del suo amore per la nera Fanny, che ha colmato la sua triste
solitudine con «su docilidad y sus atenciones» (p. 150). Un giorno Don Luis litiga con
un inglese, che poi nottetempo si presenta a casa sua con due complici per fargliela
pagare. E Fanny lo salva volteggiando vertiginosamente un machete cubano fino
all’arrivo della polizia. El aviso de la muerta è una storia d’oltretomba di quelle in
voga all’epoca. Una madre defunta appare in sogno al figlio pregandolo di toglierle
dagli occhi una scheggia di vetro della bara. Insiste finché il figlio la fa esumare ed
esaudisce la richiesta, che risulta motivata. A raccontare è il mulatto Balmaseda,
stessa fonte di El espíritu del castigo, dove, per scoprire quale dei suoi dipendenti
gli ha rubato tre bottiglie di cognac, ricorre a un vecchio stregone indigeno, che
con erbe e incantesimi fa confessare i colpevoli. El desaparecido narra di un colono
41
I contemporanei apprezzarono proprio questi aspetti. Ecco ad esempio la sintesi del diploma-
tico libertario socialista Gabriel Alomar Villalonga (Palma de Mallorca, 1873 – Il Cairo, 1941): «El
aviso de la muerta sugiere el recuerdo de Poe y Hofmann. El espíritu del castigo desprende un fuerte
vaho de sahumerio ritual salvaje, un inquietante prestigio de divinidades negras. La iniciación es un
verdadero idilio salvaje, el amor estallando en los confines entre el hombre y la fiera, como premio de
la lucha brutal en las noches de celo, bajo la selva primitiva y confidente. El desaparecido es una ráfaga
de demencia en que la Muerte colora aspectos de libertad en los límites entre el mar y el misterio. La
espuria es el mejor de esos cuentos. Sobre la última página se ciernen unos cuervos fatidicos —los
cuervos de Arturo Gordon Pym escapados a Poe—, y cuando uno de ellos se atreve a lanzarse a devo-
rar los ojos de la mujer bubi, cuyo cuerpo ha sido enterrado hasta el cuello en plena vida, nos invade
el escalofrío de un sublime terror que jamás olvidaremos» (cfr. José Más, Justicia africana, p. 4).
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che impazzisce nell’ospedale di Santa Isabel, in un delirio di persecuzione fugge
prendendo in ostaggio l’infermiere e infine si getta in mare dalla scarpata.
La iniciación riprende il filone erotico tropicale con forti tinte decadentiste42.
Durante i festeggiamenti natalizi, dai tratti carnevaleschi, un gruppo di braccianti
di Monrovia, che hanno terminato il loro contratto e attendono la nave del ritorno,
spendono parte dei risparmi nella bettola di un deportato cubano. A un certo punto
un uomo sussurra qualcosa all’orecchio di una ragazzina quasi impubere ed esce
con lei nel cortile sul retro del locale. Ma un altro li segue circospetto e s’azzuffa con
il rivale per il possesso dell’adolescente, che sorride loro, lusingata nella sua vanità
femminile. La lotta è furibonda, tra pugni, morsi e graffi, finché uno dei due riesce
ad asfissiare l’altro, abbattendolo:
La casi niña lanzó un grito de alegría. El vencedor, con el rostro
ensangrentado y el cuerpo sudoroso, avanzó hacia la negra con las pupilas
agrandadas por el deseo. Ella, al verlo avanzar, abrió los brazos después
de arrancarse el pañuelo que cubría su vientre y sus muslos de virgen.
Y arrastrada por un placer vesánico, se ofreció al vencedor, palpitante
y estremecida. Todo en silencio. El viento se aletargaba en la atmósfera
de sopor y de calma. El sol caía sobre el grupo. La virgen entregábase
sin un grito, sin una protesta. De la tierra se elevaba un vaho cálido,
ardiente. Era el aliento poderoso de la tarde africana, que enloquecía
de lujuria ante el insaciable deseo de la naturaleza tropical (p. 166).
All’uscita del libro impressionò particolarmente La espuria, che chiude il volume.
José Más, basandosi sulla tradizionale feroce punizione dell’infedeltà presso i bubi
da lui stesso descritta nella seconda parte del libro43, tesse una storia drammatica su
una coppia mista: lo spagnolo Enrique e la sua amante bubi. Quando Enrique deve
recarsi in Spagna, la lascia sola, sicché viene facilmente rapita dai suoi. Lo stregone, il
capo villaggio e le donne della tribù non hanno dubbi nel condannarla. Le anziane le
sputano addosso, le pungono il seno, danzano intorno a lei. Poi, sanguinante, viene
42
Il soggetto di La iniciación fu scelto per la copertina a colori dell’edizione del 1931, giocata sui
toni del marrone e rosso aranciato, dove si vede in primo piano la ragazza nera a seno nudo e in se-
condo piano i due maschi che lottano per lei.
43
«Los bubis rinden culto a la fidelidad. Lo severo de sus castigos podría servir de ejemplo a al-
gún celoso personaje de los dramas calderonianos. Las leyes especiales de su tribu dejan en libertad
al varón para apropiarse de varias mujeres; pero han de ser fieles al hombre que les toque en suerte,
pues en el caso de que alguna de ellas cometa adulterio es repudiada, y como castigo de su grave falta
le amputan la mano derecha. Si la desgraciada mujer consigue sobrevivir a tan inhumana operación
la dejan en el interior del bosque, y allí, durmiendo recostada en los troncos de los árboles y alimen-
tándose de plátanos y de otros frutos, se va deslizando su existencia, hasta que se le declara una en-
fermedad y muere en medio de los más terribles sufrimientos y en el más completo abandono» (pp.
101-102). Sulla durezza del castigo nel diritto tradizionale bubi si veda Günter Tessmann, Los bubis
de Fernando Póo, a cura di José Ramón Trujillo y Basilio Rodríguez, Madrid, SIAL – Casa de África,
2008 (ed. orig. 1923), pp. 205-209 e 251-252.
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condotta nella boscaglia, dove prima le amputano una mano e poi la seppelliscono
in piedi in una fossa, con solo la testa fuori. La donna sviene e quando si riprende
vede terrorizzata un avvoltoio afferrare la mano troncata e i corvi calare su di lei.
Unamuno compara questo tipo d’orrore all’Edipo di Sofocle, precisando che «sin
pasar por lo truculento, rara vez se llega a lo trágico, y sin llegar a lo trágico no se
ha sentido la poesía». E dall’insieme degli scritti di Más sente levarsi un sentore di
tragedia:
Y a pesar de todo despréndese de estos recuerdos africanos, ecuatoriales,
de un muchacho blanco desterrado entre negros, un vaho de tragedia
muda, de tragedia sin palabras. Se siente la tragedia animal, casi vegetal,
de la raza negra. […] De la visión de la raza negra, la de los bubis, […]
se forma una nube de tragedia. Esos niños grandes, lúbricos y crueles,
borrachos y embusteros, que son los negros capaces, sin embargo, hasta
de la santidad, pero de una santidad casi vegetal, constituyen uno de los
más grandes misterios de la Historia44.
Come si è potuto notare fin dal primo contatto sul bastimento, e poi lungo
tutto il libro, la visione che Más ha dei nativi africani è eurocentrica, paternalista
e riduttiva. Corrisponde alla mentalità dell’epoca, con i suoi pregiudizi negativi a
sostegno del sistema di controllo dei dominanti sui dominati, con le generalizzazioni
stereotipate che non si fa fatica a confermare, e con una costante enfatizzazione della
differenza45. Anche quando coglie con simpatia qualche aspetto della cultura locale,
Más lo valuta con criteri etnocentrici, banalizzando istituzioni e mitologie, filtrando
le osservazioni empiriche non solo attraverso il discorso egemonico corrente, ma
anche attraverso la propria formazione quasi da autodidatta, intrisa, come s’è visto,
di toni favoloso-romanzeschi.
I bubi poi appaiono doppiamente emarginati, perché sospinti alla periferia della
loro stessa isola, essendo la capitale, i suoi dintorni e i pochi nuclei significativi
44
Un simile commento presta ovviamente il fianco a critiche come quella di Benita Sampedro
Vizcaya, che addita l’entusiasmo colonialista del rettore di Salamanca nello studio «Breve visita al
archivo colonial guineano», in Gloria Nistal Rosique – Guillermo Pié Jahn (eds.), La situación actual
del español en África, Madrid, SIAL – Casa de África, 2007, pp. 246-271, dove si legge, a p. 252: «Una-
muno usa esta oportunidad para expresar un profundo entusiasmo con el proyecto colonial, filtrado
con complejas y liberadoras ansiedades sobre la atracción sexual tropical. Pero quizás su nota más
personal en este prólogo sea la transposición del ‘quijotesco’ ser español a la realidad guineana. Una-
muno sugiere que es, precisamente, la lectura de novelas, y la subsiguiente necesidad de aventuras, lo
que —como al hidalgo manchego— ha transportado a José Mas (y, por extensión, la empresa colonial
española en su conjunto) a estos distantes territorios del África tropical».
45
Come nota Carrasco González, «todas las corrientes ideológicas españolas fueron igual de ra-
cistas: el negro era un salvaje, con un grado de primitivismo indudable y al que no se le apreciaban
rasgos de cultura» (op. cit., p. 315) e «Más no se puede desprender del paternalismo con el que el
blanco se revestía ante el negro. Era común en la época y pertenecía a la mentalidad de entonces. El
negro era para los ojos europeos un ser primitivo; a veces cruel y a veces niño. Y la labor educadora
de pueblos que andaban desnudos, no conocían la escritura y practicaban el canibalismo, se les hacía
algo imprescindible» (ibidem, p. 321).
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occupati da una società europea e panafricana, poliglotta e multietnica, in cui
possono avere solo un ruolo secondario, non solo nei confronti dei bianchi, ma
anche dei fernandini. L’indigeno può emanciparsi solo copiando il colonizzatore,
nonostante ciò produca talora effetti stridenti o anche ridicoli per il portatore della
cultura “superiore”. E la presunta missione civilizzatrice è ben riassunta dal bilancio
che tratteggia, dopo 5 anni di presenza a Banapá, il rettore clarettiano:
Con la ayuda de mis compañeros he logrado mucho de los indígenas.
Tenemos escuelas de primera enseñanza y de artes y oficios, y
lentamente vamos infundiendo la fe en estos espíritus ingenuos y
sencillos. Alrededor de la misión hemos formado un pueblecito. Los
que viven ahí se visten y se calzan. Las mujeres tienen ya idea del pudor
y velan sus desnudeces. Hemos conseguido crearles esas necesidades, y
así les inculcamos el amor al trabajo y al ahorro. Muchos de esos bubis
están como braceros en nuestra finca; a otros les hemos regalado una o
dos hectáreas de terreno para que las cultiven por su cuenta. Nosotros
recogemos el fruto y lo mandamos a España, y después les entregamos
lo que ha producido en plata contante y sonante. Claro está —dijo el
rector, sonriéndose— que ese terreno queda, después de cierto número
de años, a favor de nuestra amada congregación, como premio a nuestros
desvelos y sacrificios (p. 124).
Ne emerge una concezione del civilizzare inteso come cancellare una preesistente
condizione difettosa o colmare vuoti, creando bisogni e inculcando “valori” e
abitudini civili. L’africano nero è visto – sempre per opposizione e in riferimento
al bianco – come un essere subalterno, immaturo, elementare o deforme, senza
identità né storia, da ricondurre a schemi europei. Educandolo daccapo, come un
bambino, si può forse condurlo a una vita pienamente umana.
Más non guarda con troppa fiducia a questo processo di assimilazione forzata,
e mostra invece, in modo ricorrente, una propensione istintiva a favore della
mescolanza razziale biologica, che si palesa nell’elogio del mulatto. Ad esempio, il
figlioletto della fernandina Matá: «un hermoso niño de tez bronceada, en cuyos ojos
arde la llama del aventurero y en cuyo cuerpo se diseñan ya las líneas de la agilidad
y de la fuerza, tan peculiares en esta raza mixta» (pp. 105-106).
Un buon esempio d’ibridazione, per cui Más rinvia addirittura al crogiolo
andaluso, è la figura di Violeta, fernandina educata in Inghilterra:
Su cuerpo tiene ondulaciones y movimientos de andaluza, y toda ella
recuerda ese tipo de mujer, entre mora y cristiana, que suele verse en el
barrio de la Macarena, de Sevilla. Violeta sabe el inglés y el español; pero
ella, por su gracia meridional, es más española que inglesa. Violeta tiene
muchos pretendientes; pero no se ha decidido todavía por ninguno.
Violeta sueña quizá con un mulato guapo, fuerte, dominador, que
conquiste por la fuerza de su brazo y por la intensidad avasalladora de
su mirada todo un reino (p. 104).
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Alla dimensione mulatta corrisponde in qualche misura la società urbana
composita, creolizzata e di un certo dinamismo, intravista a Freetown e Monrovia
e in uno stato ancora molto embrionale a Santa Isabel46. In En el país de los bubis, il
campione di tale strato sociale è Balmaseda: «El mulato era un hombre de una fina
sensibilidad. Bien constituido, fuerte, musculoso, esbelto y ágil, llevaba en sí toda la
briosa naturaleza de las razas mixtas. Su valor rayaba en lo temerario» (p. 156).
Non a caso, all’occorrenza, si comporta come un bianco: «A Balmaseda se le iba
terminando la paciencia. De pronto avanzó hacia el grupo de negros suplicantes, y
una lluvia de bofetones y patadas cayó sobre sus servidores, que se dispersaron por
el solar como una nube de cuervos» (p. 167).
Per Más, i mulatti educati dagli europei marcano la distanza con i nativi anche
in una sola generazione; l’apporto bianco sembra risiedere nello spirito sagace e
attivo, quello nero nella complessione robusta e resistente alle condizioni ambientali
africane47. Ovviamente, è un rapporto diseguale e un meticciato a senso unico48,
data l’assenza di donne bianche e il colonialismo di dominio e sfruttamento in atto
in Guinea Equatoriale.
Il narratore secondario di Las botas de montar, Don Luis, si costruisce un alibi
per il fatto di amare la remissiva Fanny scomodando la morena de la sierra:
Era la negra más bonita de la isla. Sus ojos tenían la expresión dulce
y suave de una niña; parecía una Virgencita negra. Muchas veces la
comparé con la Virgen de Montserrat. Ella sonreía gozosa al saber que
también había imágenes cristianas de su obscuro color (p. 150).
E Fanny, in un passo emblematico, rivela fino a che punto ha introiettato il
divario:
Yo me tendí en un diván que teníamos en uno de los ángulos de la sala
y Fanny se echó a mis pies como un falderillo. Yony nos trajo el café.
Después los brazos de mi mujercita negra se colgaron de mi cuello.
— Quisiera —me dijo— haber nacido blanca para ser más digna de ti.
— ¿Acaso la dignidad reside en el color? (p. 152).
46
Quella che Más ritrae è, beninteso, una fase di scontro e incomprensione, siamo certo ben di-
stanti da figure interrazziali di passaggio o spazi creoli potenzialmente fertili e creativi nel ridefinire
un’identità culturale. Tuttavia è un aspetto rimarchevole, e non a caso sono proprio alcuni dei testi
che stiamo commentando quelli scelti da Jacint Creus e Gustau Nerín per la loro già ricordata anto-
logia del 1999.
47
Cfr. nota 37. Nella figura di Taborda, un esempio di carattere rimasto poco energico: «este mu-
lato es infantil, porque si se hubiese dado cuenta de su fuerza y de su gigantesca estatura y hubiese
heredado de su padre el espíritu aventurero, Taborda no se conformaría a vivir como un burgués y
capitanearía alguna tribu salvaje de las que rinden admiración y obediencia a la osadía y a la teme-
ridad» (p. 112).
48
Sulla questione si veda, tra gli altri: Gustau Nerín i Abad, Guinea Ecuatorial, historia en blanco y
negro. Hombres blancos y mujeres negras en Guinea Ecuatorial (1843-1968), Barcelona, Península, 1997.
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Dopo il suo gesto di coraggio, Don Luis si rende conto che «el amor debía
de ser el crisol maravilloso donde se podían fundir los antagonismos y los odios
de dos razas» (p. 154). Ipocrisia o buona fede che la si voglia ritenere, non appare
comunque un progetto realistico. Se per i dominatori le unioni miste (come per altri
versi l’educazione missionaria) sono una sorta di cooptazione di corpi o soggetti
inferiori, per i dominati collaborare con gli invasori significa tradire e corrompersi,
sicché le donne che s’uniscono ai bianchi sono viste come “inautentiche”, devianti e
colpevoli. È quanto accade alla sventurata protagonista del racconto La espuria, «la
única mujer que viniendo del bosque se había atrevido a romper con la costumbre
y la moral establecidas por sus leyes» (p. 177), diventando così un esempio perfetto
di assimilazione subordinata:
La bubi quedó hecha dueña absoluta de la vivienda, en unión de una
muchachita de Corisco que le servía de doncella y de criada. La bubi
vestía ya como una mujer europea. Peinábase con el cuido y el arte de
una mujer de Sierra Leona y usaba botas pomposas, con grandes lazos
de colores. Todos los domingos iba a oír misa a la iglesia católica. Era
sencilla, infantil, ingenua. Enrique había conseguido el raro prodigio de
reunir en una sola hembra a la esclava y a la amante (p. 178).
In vari momenti del libro l’aspetto o il comportamento degli indigeni è
comparato a quello animale, dalla ferinità dei braccianti assiepati sulla nave alle
donne bubi che ridono bestialmente davanti al castigo della “spuria”, passando per
Fanny paragonata a un cagnolino. Come avverte il filosofo camerunense Achille
Mbembe, il nativo è ricacciato nel perimetro dell’animalità per procedere al suo
addomesticamento: viene addestrato a servire nel mondo fatto per il padrone. Il
colono si appropria del nativo, familiarizza con lui e infine lo utilizza49. Severo è il
giudizio del critico della Guinea Conakry M’bare N’gom, che cita proprio En el país de
los bubis, appoggiandosi sulla descrizione repellente e negativa di taluni personaggi
neri, come esempio dell’immagine d’alterità subalterna e irrilevante, quando non
mostruosa, dell’autoctono equatoguineano nel discorso coloniale spagnolo50.
49
Achille Mbembe, Postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005, p. 272: «L’intera epistemologia del co-
lonialismo è fondata su un’equazione semplicissima: non c’è praticamente alcuna differenza tra il prin-
cipio nativo e il principio animale, e ciò giustifica l’addomesticamento dell’individuo colonizzato».
50
M’bare N’gom, «Geografías postcoloniales de la memoria. Guinea y el discurso colonial en
España», in Rosa M. Medina Doménech – Beatriz Molina Rueda – María García Miguel (eds.), Me-
moria y reconstrucción de la paz. Enfoques multidisciplinares en contextos mundiales, Granada, Cata-
rata, 2008, pp. 69-91. Cfr. p. 79: «El cuerpo africano es creado como un ente disfuncional y pasivo, lo
cual contribuye a su negación como sujeto histórico. Es un cuerpo feo, imperfecto, inmutable y sin
identidad. En la novela En el país de los bubis, de José Más Laglera, el negro es representado como un
ser exótico, primitivo y con cualidades zoológicas […]. Son representaciones sexualizadas, animali-
zadas, fijas e históricas tras las cuales transpira la incapacidad del africano de generar cultura y de
producir conocimientos».
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La buona accoglienza ricevuta da En el país de los bubis51 e l’esperienza della
già citata traduzione di Batuala spingono Más a un ambizioso progetto di feuilleton
ambientato in Africa, scritto nella seconda metà del 1922 e pubblicato nel 1924:
La piedra de fuego52. La struttura portante è quella di un viaggio di sola andata,
dall’avamposto di Gombe, nella Nigeria britannica, verso l’inesplorato cuore del
continente, alla volta di una leggendaria montagna di cristallo con pietre sacre
d’un rosso acceso, che potrebbero essere preziosissime gemme. La spedizione è
composta da Eliazar e Diana, fratello e sorella mulatti, con i loro servi e portatori
neri, e Roberto, un ingegnere inglese (ma nato a Gibilterra e cresciuto a Siviglia). I
tre sono mossi dallo spirito d’avventura più che dalla sete di ricchezze, apprezzano
le emozioni del pericolo e la bellezza degli scenari naturali, idillici o spaventosi
che siano. Lungo il percorso si susseguono scene di caccia e di guerra tribale, un
incendio della selva e una truce “festa del sangue”, notti di luna e zuffe di ippopotami
lungo il fiume, praterie con branchi di giraffe e uno smisurato gorilla che s’accende
di lussuria vedendo le grazie di Diana al bagno e dev’essere abbattuto (la scena è
ripresa dall’immagine di copertina, dove la belva urlante afferra la giovane svenuta).
Roberto escogita un ingegnoso espediente per salvare il gruppo quando vengono
incolpati della scomparsa di un idolo, e tra lui e Diana sboccia l’amore. I tre arrivano
infine nello sperduto villaggio dello zio stregone dei due mulatti, Balachó, fonte
delle notizie sulla “pietra di fuoco”, il quale si lascia convincere a mostrargliela. Li
accompagna in una caverna vulcanica piena di quarzi dai bagliori rossastri. Da lì un
cunicolo li conduce al ventre del vulcano da cui le prodigiose pietre ricevono luce
e calore. Nella cavità un vermiglio lago solidificato e trasparente mostra cadaveri
di uomini a animali inghiottiti dalla montagna. Roberto preleva di nascosto un
campione dei cristalli, per verificare se si tratta di rubini, ma Balachó se ne accorge
e invoca vendetta contro la profanazione. I tre si arrampicano su per il cratere e
fuggono all’esterno grazie a una fenditura, ma troppo tardi: l’eruzione li raggiunge.
L’unica consolazione degli innamorati è venir travolti dalla lava stretti in un abbraccio.
L’autore alterna scene drammatiche a momenti umoristici o descrittivi, e
dosa assai bene concitazione e slarghi, suspense e colpi di scena. Sembra il sogno
realizzato di Más ragazzino: «Todo el valle parecía en aquel momento la estampa
51
Detering evidenzia tuttavia che l’interesse mostrato dai numerosi recensori dell’epoca non an-
dava al contenuto sociale, ma era precipuamente stilistico, ed esemplifica con l’articolo di Pascual
Santacruz sul mensile Nuestro Tiempo di Madrid del maggio 1921: «Hay en El país de los bubis, pági-
nas que igualan sino superan en colorido a las de Blasco Ibáñez. Entre la generación nueva de prosi-
stas, conozco muy pocos —iba a decir ninguno— que manejan el léxico con la maestría y elegancia
de este fogoso y galano escritor. Posee un respetable caudal de vocablos que distribuye con espíritu
de verdadera precisión y tiene sobre todo, en grado sobresaliente el esplendor de la frase. Es un estilo
el de Más, lleno de luz, ya de la cegadora cenital, ya de la tamizada y poética de los crepúsculos» (op.
cit., pp. 30-31).
52
José Más, La piedra de fuego, Madrid, Renacimiento, 1924 (294 pp.). In calce, a p. 290, figurano
le date di composizione: «Sevilla, 29 de agosto de 1922 – Madrid 19 de diciembre de 1922».
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de un libro de aventuras»53. Si corona anche l’orientamento dell’autore verso una
specifica miscela razziale54: «Diana era hermosa, con esa hermosura incomparable
de las mulatas hijas de padre blanco y de madre negra, producto de dos razas que
con el cruzamiento vigorizaban la especie tan necesitada de nuevas energías»55.
Il romanzo breve Justicia africana esce nel maggio 1925 nella collana popolare
La Novela Semanal56. Come si è detto, verrà poi inserita, con alcuni ritocchi,
nell’edizione del 1931 di En el país de los bubis. Con il titolo cambiato in Birika y
Sittó, è l’unico testo di una nuova quarta parte, chiamata Estudios psicológicos. Tale
aggiunta, insieme a quella dello scritto unamuniano, si spiega come scelta editoriale
e forse volontà di riunire tutte le narrazioni brevi e medie di ispirazione africana: il
plurale nel titolo della nuova sezione lascia infatti intuire una presumibile volontà
di arricchirla in seguito.
La storia s’impernia sulla rivalità tra due bubi della stessa tribù: Sittó ed Essile. Il
primo è scapolo e ha risparmiato per comprare la ballerina adolescente Birika come
moglie. Il secondo, capo della milizia reale, pur avendo già varie mogli, è molto
ricco e s’incapriccia di Birika. Sittó lo prega di lasciargliela. Essile finge per burla di
accettare, ma in realtà non rinuncia ed è d’accordo con la madre di Birika, l’anziana
Timbabá. Invano Sittó cerca di convincere Birika, dopo le nozze, a fuggire con lui
dove comandano i bianchi, ma la ragazza è rispettosa di leggi e usanze, ribatte che
l’inganno si paga. Sittó allora affronta Essile, che lo provoca. Sittó perde il controllo e
lo uccide, subendo poi la punizione tribale: morire di fame e sete nella foresta legato
indissolubilmente al cadavere di Essile, finendo preda degli uccelli rapaci.
Il testo è di taglio piuttosto diverso dai racconti precedenti, oltre che notevolmente
più esteso. Il tentativo dell’autore sembra essere quello, arduo, di assumere la
prospettiva dell’africano, come prova anche l’uso sistematico di termini e frasi in
lingua bubi (tradotti in nota), assente altrove. La società dei bianchi compare solo
in un’allusione di Sittó che vuol attrarre Birika lontano dal villaggio: «Allí tendrás
todas esas libertades de que gozan las mujeres de los blancos pálidos. […] Tu mano
53
Ibidem, p. 202.
54
Zarandona segnala che il dettaglio poco verosimile di una famiglia mista agiata e regolare agli
inizi di una colonia britannica in Africa è «revelador de la personalidad de Mas y su postura a favor
de la convivencia total de las razas» («Realismo, alegoría y utopía en las novelas africanas de José
Mas», p. 321, nota 4).
55
José Más, La piedra de fuego, pp. 8-9.
56
Quello delle serie settimanali di novela corta fiorite tra il 1907 e il 1936 fu un fenomeno editoriale
di enorme portata in Spagna, che ampliò notevolmente il pubblico dei lettori e a cui parteciparono
quasi tutti gli scrittori dell’epoca. Lo studioso pioniere in questo campo è Federico Carlos Sainz de
Robles, con il già ricordato volume La promoción de «El Cuento Semanal» (1907-1925). Sull’apporto
di Más si veda il già citato articolo di Mohamed Ben Slama, «La temática de las novelas cortas de
José Mas». In concreto su La Novela Semanal (1921-1925) si veda: José María Fernández Gutiérrez,
La novela semanal, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 2000 (il riferimento al
fascicolo di José Más è a p. 187).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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izquierda no será cortada, ni servirá de festín a las aves de rapiña». E proprio qui si
colloca una nota che recita: «Véase mi libro En el país de los bubis, donde se describe
el castigo que ha de sufrir la mujer cuando falta a sus deberes conyugales»57.
L’edizione nell’affermata collana ad alta tiratura si apre con una nota anonima
(ma nella quale non è affatto irragionevole immaginare l’intervento dell’autore), alle
pp. 3-8, intitolata José Más, assai rilevante per constatare il consapevole progetto
“africano” del nostro e ricapitolarne lo sviluppo. Innanzitutto viene riportato il
proposito espresso da Más nel prologo alla traduzione di Batuala:
La novela que describa las costumbres de los salvajes del África tenebrosa
y recóndita está todavía por explorar en España. Este es un nuevo filón
que descubro a mis compañeros. Yo empecé dando el ejemplo con mi
libro En el país de los bubis, y, Dios mediante, pienso seguir con una
serie de novelas de Fernando Poo y de la Guinea Continental Española.
Es necesario que el lector se interese por estos restos de nuestro antiguo
poderío colonial58.
Poi si rammenta la tappa successiva:
Después de En el país de los bubis, con un largo intervalo durante el cual
José Más ha consolidado su prestigio de novelista, el autor de La orgía
publica otra obra de ambiente, escenarios y personajes africanos: La
piedra de fuego. Es una novela de aventuras que hace pensar en las obras
maestras del género, en aquellas Minas del Rey Salomón, por ejemplo,
que apasionaron nuestra adolescencia, hechas con el interés supremo de
un folletinista y el arte de un verdadero escritor59.
Per presentare infine la più recente:
He aquí ahora su tercera obra sobre el fondo lujuriante y las pasiones
primitivas, con paisajes inflamados y fértiles, con negros consumidos
por los pecados capitales en todo su brutal ímpetu.
Justicia africana, la novela con que José Más inaugura su colaboración
en La Novela Semanal, señala acaso la culminación de género
[…]. Profunda y genesiaca energía colma Justicia africana. Plástico
descripcionismo la enriquece y abrillanta. Un hálito feroz de humanidad
salvaje nos encalidece el pensamiento al leerla. Y su final tan implacable,
tan terrible como aquel otro del cuento La espuria quedará para siempre
fijo en el recuerdo de los lectores60.
57
José Más, Justicia africana, p. 42. La nota è la n. 2 e, nello stabilire una connessione, segna anche
la distanza, non solo cronologica, dal libro precedente. Frequenti sono in questa narrazione i riferi-
menti alla penosa condizione femminile, in una civiltà tradizionale bubi ciononostante coesa.
58
Ibidem, p. 3.
59
Ibidem, p. 4. Si fa riferimento ovviamente a Le miniere del Re Salomone (1885), del britannico
Henry Rider Haggard (1856-1925), romanzo con cui la trama di La piedra de fuego ha qualche asso-
nanza.
60
Ibidem, pp. 5-6.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 165-189. issn: 2240-5437.
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In seguito verrà ancora, nella fase più radicalmente critica di Más, il romanzo
En la selvática Bribonicia61, dove, dietro il paravento della rovinosa civilizzazione
di un paese centrafricano immaginario, selvaggio e felice, ad opera di stranieri
colonizzatori che, attratti dalle ricchezze minerarie, vi portano l’alienazione del
capitalismo occidentale, si legge – anche mediante scoperti rimandi nei nomi
dei personaggi – una satira pungente della società e politica spagnola tra la fine
della monarchia di Alfonso XIII e gli inizi della Repubblica. Qui l’Africa è solo un
riferimento utopico, che però lascia trasparire posizioni in qualche misura ribaltate
rispetto a quelle della gioventù62.
Di certo, il Más pionieristico che colpì all’epoca e oggi desta nuovamente
l’attenzione, nel bene o nel male, partecipa di quell’africanismo letterario che risultò,
anche suo malgrado, strumento del discorso coloniale63, disegnando spazi “vergini”
per giustificarne l’occupazione. La sua Africa nera e selvaggia, sempre “tenebrosa e
recondita”, ostile scenario adatto alle scorrerie eroiche, rispetta i cliché dell’esotismo
avventuroso: è un territorio dell’incompiuto e del manipolabile, ciecamente
sottomesso a tradizione e superstizione, anomalo nelle bellezze come nelle crudeltà.
Más non menziona gli abusi dei bianchi e la resistenza indigena, preso com’è dal
paesaggismo, dalla curiosità etnografica e dall’aneddotica quotidiana. Tuttavia è
difficile ravvisare in lui intenti propagandistici, un (rap)presentare per la prima volta
quei luoghi al fine di “addomesticarli” e aprire la via a chi vi ci sarebbe trasferito:
Más insiste semmai al contrario sulla delusione e le difficoltà, la nostalgia e la
mancanza di prospettive. Con questo corpo estraneo, con questo smisurato ignoto
che lo sovrastava, il giovanissimo Más cercò i punti di contatto di cui era capace, si
lasciò raggiungere, provò in seguito a raccontarlo. Ma soprattutto, per lui l’Africa
e l’isola di Fernando Poo rimasero per sempre legati all’insostituibile esperienza,
umana e letteraria, del viaggio.
61
José Más, En la selvática Bribonicia. Historia novelada de un país que quisieron civilizarlo, Ma-
drid, Pueyo, 1932.
62
Non è esattamente questo l’ultimo capitolo “africano” di Más, di cui uscì ancora, postumo, il fas-
cicolo di 16 pp. El fetichero blanco, «Novelas y Cuentos», Madrid, Dédalo, 1942. Alcune fonti indicano
tale titolo negli anni ’20, ma da un lato la serie, di fattura modesta, non esisteva in quel decennio, e
dall’altro Más non avrebbe avuto nessuna ragione per non includere anche questi testi nell’edizione
del 1931 di En el país de los bubis. La raccolta, d’ampio formato e carattere tipografico assai ridotto,
contiene due racconti fino ad allora inediti: El fetichero blanco (pp. 3-6) e El espejo en la selva (pp.
11-13), i quali presentano un’involuzione conservatrice probabilmente obbligata dalle circostanze,
nell’ultimo tribolato momento dell’esistenza di Más, subito dopo la guerra civile (cfr. Klemens Dete-
ring, op. cit., pp. 35-36). Gli altri testi, già noti, sono Justicia africana (pp. 6-11), Las botas de montar
(pp. 13-14), El aviso de la muerta (pp. 14-15), El espíritu del castigo (pp. 15-16) e El desaparecido (p. 16).
63
«La meta del africanismo literario era, por medio de un proceso narrativo muy estratégico,
articular un “texto” comprensible y aceptable para el imaginario de la opinión pública metropolitana
y, por ende, justificar la aventura colonial de España» (M’bare N’gom, op. cit., p. 78).
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R i f e rim e n t i b i b l io g r a f ic i :
Ben Slama, Mohamed, «La crítica social en las novelas de José Mas», Artifara, 8 (enero-dici-
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39 (julio-octubre 2008), http://www.ucm.es/info/especulo/numero39/josemas.html (data
consultazione: 01/06/2011).
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(marzo-junio 2011), http://www.ucm.es/info/especulo/numero47/josemas.html (data con-
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Bernal Rodríguez, Manuel, «“Las novelas del campo andaluz” de José Más», Cauce. Revista de
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—, «José Más, entre el costumbrismo y el compromiso», Cauce. Revista de filología y su didácti-
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Bolekia Boleká, Justo, Aproximación a la historia de Guinea Ecuatorial, Salamanca, Amarú Edi-
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Cansinos Assens, Rafael, Sevilla en la literatura. Las novelas sevillanas de José Más, Madrid,
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Fare dell’Africa un nuovo Brasile:
letteratura e retorica coloniale
nell’ottocento portoghese
V INCENZO R USSO
Università degli Studi di Milano
[email protected]
1. Il progetto coloniale come progetto culturale
Il mondo è ormai quasi completamente lottizzato,
e ciò che resta, sta per essere ripartito, conquistato e colonizzato.
Pensare a queste stelle che, la notte, sono lassù sopra la nostra testa,
a questi vasti mondi che non raggiungeremo mai.
Vorrei annettere i pianeti se solo potessi: penso spesso a questo.
Mi rende triste vederli così chiari e, tuttavia, così lontani
Cecil Rhodes1
Per nove decimi l’Africa era già ripartita nel 1900, solo per un decimo lo era
nel 1876. Nel 1880 la presenza europea si limitava nel continente africano alle sole
fasce costiere, all’Algeria, Senegal, Gabon, sotto la bandiera francese; Gambia, Sier-
ra Leone, Angola e Mozambico, sotto la bandiera portoghese. Quindici anni dopo,
1
Ora in Michael Hardt – Antonio Negri, Impero, tr. it. di A. Pandolfi, Milano, Rizzoli, 2000, p. 211.
Vincenzo Russo
Fare dell’Africa un nuovo Brasile: letteratura e retorica coloniale nell’ottocento portoguese
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la famigerata e fulminea “corsa all’Africa”, a cui avevano partecipato – con ipocrita
complicità prima, poi trasformatasi in reciproca ostilità – oltre alle potenze coloniali
consolidate (Inghilterra, Francia, Spagna) e nuove (Germania e Italia), piccoli stati
come il Belgio e il Portogallo (del resto già installato in Africa), si era conclusa: ine-
sorabilmente, gli spazi bianchi scomparivano per lasciar posto alla acribia dei car-
tografi e dei geografi nazionali, artefici moderni di un più ampio progetto coloniale:
«l’intelligenza coloniale è, in gran parte, una applicazione dell’intelligenza geogra-
fica», scrive nel 1890 lo scrittore e intellettuale portoghese Jayme Batalha Reis2. Nei
remoti possedimenti schiere di uomini (le cui mansioni spesso si sovrappongono)
come geografi, amministratori, poeti, ingegneri, scrittori, avventurieri, fotografi – e
davvero la fotografia e la letteratura, entrambe mosse dalla capillare diffusione del
giornalismo, sembrano essere le due arti che contribuiscono con più efficacia alla
produzione di un immaginario coloniale – si adoperano per creare o ricreare una
realtà coloniale nel cuore stesso della vita metropolitana. La singolare competizione
che si svolge sul territorio africano e che vide come protagoniste le spedizioni di
ricerca e le compagnie coloniali facenti capo alle nazioni europee, proprio perché
rappresenta l’ultima conquista comune di territorio non europeo da parte di poten-
ze continentali, impresse tanto a livello giuridico che geopolitico un nuovo nomos
della terra, se per nomos intendiamo «la misura che distribuisce il terreno e il suolo
della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data
dell’ordinamento politico, sociale e religioso»3.
L’impresa coloniale europea aveva dispiegato i suoi mezzi (scienza, cultura) per
ridurre quel vuoto in un “pieno di nomi”, in un catalogo, in un archivio4: le scienze e la
tecnica (e il discorso ideologico euforico finesecolare che le accompagna) diventano
a un tempo il motore e la giustificazione del colonialismo, e il progresso (le sue
filosofie così come le retoriche nazionaliste europee che del suo mito si riempiono la
bocca) ammette nel suo nome l’esportazione “forzata” della civilizzazione.
In Culture and Imperialism, Edward Said mostra, soprattutto nel campo
narrativo francese e inglese, secondo lui, paradigmatici di questo processo, lo sforzo
formidabile – complesso, contraddittorio – che le culture nazionali europee hanno
compiuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in quel periodo che va sotto
il nome ormai classico di “Età degli imperi”. Said muove dal Conrad di Heart of
2
Jayme Batalha Reis, Estudos Históricos e Geográficos, Lisboa, Agência das Colónias, 1941, p. 210
(tr. it. dell’autore).
3
Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum»,
traduzione e postfazione di E. Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1991, p. 59.
4
Sulla questione dell’archivio come dispositivo di conoscenza e di esercizio del potere cfr. Thomas
Richards, The Imperial Archive, Knowledge and the Fantasy of Empire, London and New York, Verso,
1993. Sul caso imperiale portoghese si veda Nuno Porto, «O museu e arquivo do Império (o terceiro
império português visto do Museu do Dundo, Companhia de Diamantes de Angola», in Cristiana
Bastos – Miguel Vale de Almeida – Bela Feldman-Bianco (coordenação), Trânsitos coloniais: diálogos
críticos luso-brasileiros, Lisboa, Imprensa de Ciências Sociais, pp. 117-132.
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Darkness per cogliere la coscienza ambigua del rapporto moderno tra letteratura
e progetto coloniale allorché, all’inizio della narrazione, la condanna dell’impresa
coloniale («la conquista della terra non è una bella cosa a guardarla troppo da vicino»)
è riscattata solo dall’Idea: «un’idea che la sostiene; non un pretesto sentimentale ma
un’idea; e una fiducia disinteressata in quell’idea: qualche cosa da esaltare, davanti
alla quale inchinarsi, e alla quale offrire sacrifici…»5.
La grande lezione di Said è appunto quella di aver dimostrato – al contrario
di quanto generalmente si crede – che è l’azione imperialista, l’Impero a seguire
l’Idea quale complessa e stratificata produzione delle culture nazionali metropoli-
tane. L’immaginario coloniale di questa epoca, infatti, si forgia non solo sulle ide-
ologie e sull’azione politica ufficiale, sulla storiografia, sulla economia, sui nuovi
saperi codificati dalla modernità (l’antropologia, l’etnografia, la sociologia) ma ri-
cade più o meno coscientemente, più o meno surrettiziamente nelle opere d’arte,
riarticolandone i miti, le figure, i cliché. In questo senso, non solo nei testi della
cosiddetta letteratura “coloniale” (in senso stretto) ma anche in quelli di scrittori
che apparentemente non si interessano di questioni coloniali o che non appoggiano
apertamente la condotta della politica ufficiale dello stato di appartenenza si può
riconoscere quella “struttura di atteggiamento e di riferimento” comune agli imma-
ginari imperiali dell’epoca. L’analisi del “corpus” letterario, selezionato quasi sempre
fra le opere canoniche della letteratura nazionale – che traducono in narrazione la
densa costruzione della Nazione – consente di mappare quei luoghi testuali in cui il
discorso coloniale fra le pieghe della propaganda politica e l’ideologia dell’autore si
riconfigura in nuove versioni del progetto imperiale come spia di un rinnovato con-
senso all’espansione d’oltremare. Said ci insegna che analizzare dei romanzi – tanto
più se circoscritti agli anni di genesi e sviluppo del colonialismo moderno – significa
leggerli «dapprima come grandi prodotti dell’immaginazione creativa o interpreta-
tiva, e poi […] come parte del rapporto tra cultura e impero»6. Anzi proprio per-
ché l’Imperialismo è sostenuto da diversificate formazioni ideologiche che alla fine
dell’Ottocento, soprattutto dopo la corsa all’Africa, hanno assunto la consistenza e
lo spessore di un’impresa a lungo termine, studiare dal punto di vista culturalista le
opere d’arte del canone europeo significa innanzitutto analizzare i dispositivi atti a
creare e / o consolidare l’Idea che riscatti l’impresa coloniale. Non è soltanto la spe-
ranza (più o meno frustrata) del profitto, impulso spesso convincente di tutta la
propaganda metropolitana a mobilitare l’immaginario coloniale; oltre e al di sopra
di esso, esiste un impegno sempre rinnovato e diffuso – laddove novità e perpetua-
zione7 sono i lati della stessa medaglia della fluida modernità coloniale europea (si
5
Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, in I capolavori di Joseph Conrad, con uno scritto di I. Calvino,
Milano, Mondadori, 2003, p. 10.
6
E. W. Said, Cultura e Imperialismo, tr. it. di S. Chiarini e A. Tagliavini, prefazione di J. Buttigieg,
postfazione di G. Baratta, Roma, Gamberetti, 1998, p. 18.
7
«It is the process of ambivalence, central to the stereotype, that my essay explores as it constructs
a theory of colonial discourse. For it is the force of ambivalence that gives the colonial stereotype its
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rinnova per perpetuare, e per perpetuarsi l’Impero deve rinnovarsi) – dal momento
che, come scrive Walter Benjamin,
le ideologie dei dominatori sono per loro natura più mutevoli delle idee
degli oppressori. Esse devono, infatti, non solo, come queste ultime
adattarsi di volta in volta al conflitto sociale, ma anche tradurlo ogni
volta in una situazione in fondo armonica8.
Dicevamo allora che questo impegno rinnovato e diffuso del progetto coloniale
è teso, da una parte, a creare consenso e a far accettare l’idea nella metropoli che i
territori lontani e le loro genti debbano essere sottomessi; dall’altro, a rivitalizzare
le energie della società metropolitana in modo che quei «bravi cittadini potessero
pensare all’imperium come a un dovere prolungato nel tempo, quasi metafisico di
governare popolazioni subordinate»9.
Quanto allora ci preme studiare è il rapporto fin troppo diretto, eppure com-
plesso, perché stratificato e spesso ambiguo, tra progetto coloniale come tema domi-
nante nella vita sociale, politica e culturale delle metropoli e le letterature da queste
prodotte, a un tempo suo contributo e suo effetto. Se è indubbio che l’altrove fine-
secolare – sia esso il Maghreb francese, l’India britannica o l’Africa equatoriale per
i portoghesi (Africa che in realtà si riduce a zone molto piccole geograficamente
rispetto a quanto la retorica “onirica” africanista pretendesse) – si riempie di nomi,
di senso, o come scrive Said, quei luoghi distanti bastano da soli a svolgere un ruo-
lo inestimabile nell’immaginario, nell’economia, nella vita politica e nella struttura
sociale della Gran Bretagna, della Francia e del Portogallo, è altrettanto vero che a
informare questo immaginario la cultura (e la letteratura in particolare) dispiegherà
tutto un intreccio di invenzioni mitiche, retoriche, mistificatrici, – si pensi al ruolo
delle riscritture delle storiografie “esotiche” da parte delle storiografie europee – de-
clinate in modo da comporre una ampia strategia di “forme culturali associate al
dominio”. Alla fine dell’Ottocento, è la stessa impresa coloniale in quanto esperien-
za e pratica dell’altrove, cioè, in quanto reale e simbolica “discesa agli inferi” delle
colonie, che fornisce la base moderna per ridisegnare, legittimando, confutando,
problematizzando, le varie idee sulla cultura. Il moderno discorso coloniale parla,
insomma, per esperienza, per “conoscenza diretta” spacciata per scienza: l’Impero si
giustifica, almeno, per il disturbo che si è preso di allargarsi e allargare i suoi territori.
Come scrive perentoriamente l’esploratore portoghese Serpa Pinto10, solo l’esperien-
currency: ensures its strategies of individuation and marginalisation; produces that effect of proba-
bilistic truth and predictability which, for the stereotype, must always be in excess of what can be
empirically proved or logically construed» (Homi Bhabha, «The other Question», in Contemporary
Postcolonial Theory, edited by Padmini Mongia, London etc., Arnold, p. 37).
8
Citato in Romano Luperini, L’allegoria del moderno: saggi sull’allegorismo come forma artistica
del moderno e come metodo di conoscenza,Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 7.
9
E. W. Said, op. cit., p. 36.
10
«Os factos procurados neste livro sam a expressão da verdade. Verdade triste muitas vêzes, mas
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za può garantire la verità, l’autorità – personificata nella sua figura di nobile (inte-
so come sinonimo di non-lucrativo)11 viaggiatore – deriva solo dalla testimonianza
delle cose africane. Tuttavia, la moderna traduzione culturale dell’impresa coloniale
(con i suoi agenti sul campo a raccogliere informazioni per le codificazioni metro-
politane), come si diceva, ha bisogno di codificare questa “conoscenza” soprattutto
in termini di rappresentazione di sé, ricerca di identità che passava inevitabilmen-
te per l’alterità (come crogiolo di istanze diversissime, addirittura antagoniste): «Il
colonialismo costruisce figure dell’alterità e dirige i suoi flussi con una complessa
struttura dialettica. La costruzione negativa degli altri, dei non europei, è ciò che
fondamentalmente crea e sostiene la stessa identità europea»12.
2. Politica e immaginario coloniale nel Portogallo di fine ottocento
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la cultura portoghese codifica per la
prima volta in immaginario coloniale tutta quella costellazione di pratiche politi-
che, di conoscenze empiriche, di discorsi ideologici, di teorizzazioni scientifiche o
pseudo-scientifiche sulle rovine del suo Impero storico, dopo la perdita delle “In-
die” e del “Brasile”: lo spazio africano. La scelta di studiare gli immaginari coloniali
all’epoca dell’età degli imperialismi europei (1875-1914) non significa dimenticarne
le profonde stratificazioni storiche e culturali – il che è tanto più vero per un Paese
come il Portogallo che già dal XVI secolo ha consumato il passaggio da nazione a
impero13 – piuttosto deriva dall’idea che è in quel periodo di tempo (Congresso di
Berlino, corsa all’Africa e sua spartizione, prima guerra mondiale) che la modernità
occidentale trasforma l’imperialismo in un vero e proprio progetto di cultura. An-
che per la cultura portoghese, quanto meno a livello di investimento immaginario e
di produzione mito-poietica, è valida la considerazione di Edward Said per cui l’idea
sistematica di impero d’oltremare nelle culture di Inghilterra, Francia e Stati Uniti
(che egli analizza) gode di uno status privilegiato:
Si tratta di un’idea che ha molto a che fare con le proiezioni dell’imma-
ginario, sia nella finzione narrativa che nella geografia e nell’arte, e che
que seria crime ocultar. Procurei apresentar nêlle os resultados de um trabalho aturado de muitos
meses, e garanto o que digo sôbre geografia Africana, porque só eu sou uma autoridade para falar
nella na parte respectiva á minha viagem, em quanto outro não houver seguido os meus passos atra-
véz d’Àfrica, e não me convencer do contrario» (Serpa Pinto, Como eu atravessei a África. A carabina
d’el rei, vol. I, 1ª ed. 1881, Mira-Sintra, Publicações Europa-América, 1998, p. XVIII).
11
«Não fui á Àfrica ganhar dinheiro. Tive a mesquinha paga de official do exèrcito e não quiz
outra» (Serpa Pinto, op. cit., p. XVIII).
12
Michael Hardt – Antonio Negri, op. cit., p. 125.
13
«A empresa descobridora e colonizadora, ao contrário da dos espanhóis, foi desde o começo, ou
quase, identificada com a actividade fundamental da Nação» in Eduardo Lourenço, «Retrato (póstu-
mo) do nosso colonialismo inocente», Critério, 3 (Janeiro de 1976), p. 10.
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acquisisce una sua costante realtà attraverso atti effettivi di espansione,
di amministrazione, di investimento, come nel perseguire un determi-
nato obiettivo. Vi è un che di sistematico nella cultura imperialista, in
nessun altro impero tanto evidente come in quello inglese e francese e,
seppur in modo diverso, statunitense, cosicché quando parlo di “strut-
tura di atteggiamento e di riferimento” è per l’appunto a questo aspetto
che io mi riferisco14.
Eppure, rispetto ai progetti imperiali che la corsa all’Africa innesca nelle vecchie
e nuove potenze europee, la questione coloniale portoghese di fine Ottocento non è
solo il prodotto storico di un dibattito europeo che ricade al livello nazionale sulla
teorizzazione ideologica e sulla pratica politica e diplomatica: la costruzione, tanto
reale quanto simbolica, del terzo impero portoghese, se da un lato accompagna la
vita politica nazionale per l’intero secolo (e più decisamente durante l’ultimo quin-
dicennio) funzionando come paradigma di tutti i discorsi sull’identità e sui destini
del Paese, dall’altro comporta un riassestamento strutturale (politico, economico,
sociale) che adegui l’immagine del Portogallo imperiale alla nuova realtà geografica
africana. Difatti, se è vero che la perdita del Brasile (la cui secessione risale al 1822)
non fu sentita come vero e proprio “trauma” da parte della cultura portoghese, la
quale non produsse una letteratura dell’elaborazione del lutto, è pur vero che il ridi-
mensionamento imperiale fu in qualche modo assorbito dalla compensazione che
il progetto coloniale africano rappresentava. A metà del secolo, l’opzione coloniale
portoghese necessitava di essere riformulata concettualmente in termini nuovi: non
più legata alla realtà e agli stereotipi di nazione negriera o commercialmente pro-
tezionista, essa si sforza di sintonizzarsi sull’ora europea, su pressione e imitazione
diretta o indiretta degli imperi centrali, in primis della alleata Inghilterra, tanto più
dal momento in cui l’Africa cessava di essere considerata una terra di confino e di-
ventava lo spazio del desiderio imperiale europeo. Ma la sostituzione della geografia
imperiale (“fare dell’Africa un nuovo Brasile”), come la stessa formulazione indica,
privilegiava – ancora in ampi settori dell’opinione pubblica – le retoriche della con-
tinuità, della perpetuazione mimetica di forme sociali arcaiche già sperimentate dai
portoghesi in Brasile, della tradizione della colonizzazione africana (se non mondia-
le), del suo primato e della sua missione storica.
Già prima del 1870, prima cioè dell’interesse europeo per l’Africa, il terzo impe-
ro portoghese per quanto possa essere teorico (data la scarsa conoscenza dei terri-
tori africani e l’interesse minimo da essi suscitati nell’opinione pubblica), comincia a
funzionare come un vero e proprio specchio identitario, per reazione all’idea di infe-
riorità con cui la cultura portoghese si rappresentava ed era rappresentata dalle altre
nazioni in pieno XIX secolo. D’altronde, sin dall’epoca delle Scoperte geografiche,
l’identità nazionale del Portogallo si era andata costruendo sulla sua proiezione im-
periale. Senza impero coloniale, poteva diventare addirittura difficile pensarsi come
14
E. W. Said, op. cit., pp. 19-20.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 191-209. issn: 2240-5437.
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“portoghesi”: «Portugal existia através do seu império, e através dele, imaginava-se
centro»15. L’Africa come nuovo e rinnovato spazio imperiale avrebbe permesso alla
nazione di pensarsi ancora come tale, nonostante la perdita di egemonia nel sistema
mondiale e la crisi di immagine che la secessione del Brasile aveva provocato.
Tal como o período de ruína nacional e perda de prestígio está associa-
do ao fim do império brasileiro, o ressurgimento nacional tem de passar
pela redescoberta das fórmulas que fizeram a grandeza nos séculos de
ouro. É em África que as humilhações passadas podem ser curadas, é
aí, é só aí que Portugal pode de novo dirigir a Europa; é essa a chave do
renascimento nacional. De uma forma ou de outra todos os intellectuais
dos anos setenta, oitenta e noventa partilham desta noção, que se torna
uma dos mais significativos traços de união da população portuguesa16.
La questione coloniale, ancora una volta, è dettata dalla stretta e pur ambigua
relazione nazione / impero: la rappresentazione identitaria dell’una passa sempre per
la costruzione di una “comunità immaginata” imperiale. Nell’immaginario politico
nazionale finesecolare, l’idea per cui la sopravvivenza del Portogallo sarebbe dipe-
sa dall’esistenza dell’impero, dalla sua manutenzione a tutti i costi fa il paio con
la coscienza della vulnerabilità del paese – tanto più in tempi di minacce esterne
(nella versione doppia dell’unificazione iberica e/o dell’annessione castigliana17) – e
con la discussione sulla sproporzione imperiale portoghese. Non a caso, il dibattito
che attraversa tutta la politica “africanista” portoghese sulla vendita o quanto meno
sull’alienazione di una parte dei territori coloniali perdurerà con alterne fortune
alla fine dell’Ottocento, come dimostrano certe posizioni, non raramente isolate, di
intellettuali come Eça de Queirós o Oliveira Martins.
As relações de Portugal com as suas colónias são originais. Elas não nos
dão rendimento: nós não lhes damos um único melhoramento: é uma
sublime luta – de abstenção! […] Para quê temos colónias? E aí de nos
que não as teremos muito tempo! Bem cedo elas serão expropriadas por
utilidade humana. A Europa pensará que imensos territórios, pelo facto
deplorável de pertencer a Portugal, não devem ficar perpetuamente se-
questradas do movimento da civilização; e que tirar as colónias à nossa
15
Margarida Calafate Ribeiro, Uma História de Regressos: Império, Guerra Colonial e Pós-Colonia-
lismo na Literatura Portuguesa, Porto, Afrontamento, 2004, p. 41.
16
António José Telo, Lourenço Marques na Política Externa Portuguesa, Lisboa, Edições Cosmos,
1991, pp. 19-20.
17
Il fantasma dell’annessione castigliana diventa un vero e proprio tema letterario nella seconda
metà dell’800, come testimonia il racconto di Eça A catastrofe, abbozzo testuale del romanzo non
compiuto A Batalha do Caia, in cui il romanziere immagina l’invasione castigliana del suo Paese a
fini puramente didattici: l’estremo oltraggio avrebbe bruscamente risvegliato dal sonno un Porto-
gallo sonnambulo. L’idea di decadenza intimamente legata a quella di una necessaria rigenerazione
nazionale attraversa tutta l’opera di Eça de Queirós. Le parole di Ega in Os Maias ne sono un famoso
esempio: «Portugal não necessita reformas […] Portugal o que precisa é a invasão espanhola».
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inércia nacional, é conquistá-las para o progresso universal. Nós temó-
las aferrolhadas no nosso cárcere privado de miséria. Não tardará que
na Europa se pense em as liberartar. Para evitar esse dia de humilhação
sejamos vilmente agiotas, como compete a uma nação do século XIX – e
vendamos as colónias! Mas somos pobres, meus senhores! E que se di-
ria de um fidalgo (quando os havia) que deixasse em redor dele os seus
filhos na fome e na imundície – para não vender as salvas de prata que
foram dos seus avós? Todos diriam que era um imbecil canalha! Pois
bem, estes quatro milhões de portugueses são os filhos esfomeados do
Estado, para quem as colónias estão como velhas salvas de família pos-
tas a um canto num armário18.
Dopo la forzata spoliazione da parte dell’Inghilterra di fasce territoriali al confi-
ne fra Angola e Mozambico a seguito dell’Ultimatum del 1890, l’immaginario politi-
co e culturale portoghese cesserà di pensare l’Africa come uno spazio in eccesso per
la nazione e quindi come merce per un possibile scambio commerciale. La difesa dei
confini coloniali diventerà un obbligo storico e sacro per l’imperialismo nazionalista.
Interpenetrando os interesses económicos, a ideológia assumiu, após o
Ultimatum, um papel de grande relevo com repercussões directas na
própria evolução política portuguesa no século XX. Os sentimentos na-
cionalistas tomavam corpo em torno da ideia de império tecendo-se mi-
tos à volta dos territórios coloniais encarados como parcelas “sagradas”
de um património inalienável a cujos direitos se associava a vocação
ultramarina portuguesa19.
La specificità dell’imperialismo portoghese moderno risiede proprio nel carat-
tere “organico” delle colonie (siano esse sconosciute, sognate o solo disprezzate) dal
momento che esse sono considerate come un innesto vitale, un complemento senza
discontinuità nel corpo della nazione. Non è un caso allora che, anche a livello giu-
ridico, il Portogallo sia stato insieme alla Francia il primo stato europeo a sostenere
alla Conferenza sul Congo (1885) «l’assoluta uguaglianza tra gli status territoriali,
considerando il suolo delle colonie e delle terre d’oltremare come un dominio posto
sullo stesso piano del “territorio statale” della madrepatria europea»20. Quella che
doveva sembrare una equiparazione artificiale, fondata su questioni meramente tat-
tiche, divenne una delle idee fondanti dell’immaginario imperiale portoghese lun-
go l’intero Novecento: «E a África, e specialmente a Ángola, apresentava-se como
o sucedâneo da Índia e do Brasil, para nos garantir geográfica e economicamente
18
Eça de Queirós, As Farpas (Lisboa 1871-72), coordenação de Maria Filomena Mónica, S. João
de Estoril, Princípia, 2004, pp. 115-120.
19
Maria Manuela Lucas, «A ideia colonial em Portugal, 1875-1914», Revista de História das Ideias,
14 (1992), p. 313.
20
Carl Schmitt, op. cit., p. 60.
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uma autonomia que nos não garante por si só o território português da peninsula
hispânica»21.
In questo senso, il nazionalismo portoghese – la cui recrudescenza risale al tem-
po dell’Ultimatum inglese – è, a differenza di quanto avviene nelle altre potenze
europee, quasi sempre imperialista.
Durante todo o século XIX, mas sobretudo no seu último quartel, esteve
sempre na questão colonial um dos pontos mais críticos do nacionalis-
mo português: é em torno dela que, por grande parte, se pensa a identi-
dade do país e se refaz a sua memória, se traçam os caminhos a percor-
rer, se calculam as hipóteses de sobrevivência nacional num mundo em
trasformação22.
Se la maggior macchina mitografica della coscienza coloniale è, anche in Por-
togallo, la letteratura – di impostazione più o meno colonialista –, il suo contributo
allo studio dell’immaginario imperiale finesecolare dovrà necessariamente essere
considerato nell’orizzonte del discorso identitario del Paese, al fine di svelare tanto
l’affinità quanto la differenza portoghese nella costruzione dei suoi miti culturali
rispetto al resto degli imperi europei.
3. Genealogie di un discorso coloniale sull’Africa
L’indipendenza del Brasile (1822) e quindi – dal lato portoghese – la fine di quel
secondo impero, di quell’impero “monocoloniale” centrato tutto in America del Sud,
corrisponde in termini reali, non meno che simbolici, a un profondo mutamento di
paradigma su cui tutta la cultura sente la necessità di investire: con l’espressione “fare
dell’Africa un nuovo Brasile”23, secondo la vulgata storiografica attribuita al progetto
di Sá da Bandeira già alla fine degli anni Trenta del XIX secolo e chiosata da molti
(non ultimo, Oliveira Martins che l’avvertiva come frustrazione e possibilità, a un
tempo) deve, infatti, intendersi tutta la mobilitazione non solo politico-diplomatica
e socio-economica ma soprattutto culturale che il Portogallo – almeno per tre quarti
del secolo, e più coscientemente a partire dagli anni Settanta – sviluppa intorno a ciò
che resta del suo Impero. Difficilmente si può negare che l’imperialismo portoghese
21
Oliveira Martins, Portugal em África. A questão colonial. O conflito anglo-português, prefácio do
prof. José Gonçalo de Santa-Rita, Lisboa, Guimarães e C.ª Editores, 1953, p. 163.
22
Valentim Alexandre, Velho Brasil, Novas Áfricas: Portugal e o Império (1808-1975), Porto, Afron-
tamento, 2000, p. 174.
23
Uno dei tratti specifici del colonialismo portoghese deve essere rintracciato proprio nello iato
temporale tra l’esperienza della colonizzazione del Brasile e il progetto colonialista in Africa: «O
Brasil podia, portanto, ser usado como recurso simbólico para a construção de un império africano»
(Miguel Vale de Almeida, «O Atlântico Pardo. Antropologia, pós-colonialismo e o caso “lusófono”»,
in Cristiana Bastos – Miguel Vale de Almeida – Bela Feldman-Bianco (coordenação), op.cit., p. 32).
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sia diacronicamente un imperialismo “per sostituzione”, almeno secondo la vulgata
storiografica: alle Indie si sostituisce il Brasile alla fine del ’500, così come il Brasile è
sostituito dall’Africa nel XIX secolo. È pur vero, però, che la “sostituzione” del Brasile
con l’Africa (e il solo evocare il nome dell’intero continente, quando in verità, si trat-
ta di fasce costiere il cui interno è ancora “bianco”, immacolato, vedremo, non è solo
una strategia lessicale di “svuotamento” comune all’Europa coloniale, quanto anche
una portoghesissima proiezione onirica di grandezza inesistente24) necessiterà di un
“sovrappiù” ideologico che la cultura (grazie anche ai nuovi saperi) dovrà costruirsi
per presentare la moderna impresa imperiale senza rotture e discontinuità. Il surplus
ideologico sarà garantito al progetto coloniale, in primo luogo, dalla vittoria del libe-
ralismo, e dalla diffusione del giornalismo che ne delineerà le idee-guida, in secon-
do luogo (e soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta), dalla competitività
internazionale, e dal conseguente interesse per l’Africa, e infine, dalle politiche di
modernizzazione delle colonie (si pensi a Andrade Corvo e al governo regenerador)
e dalla potenziale opportunità che i territori africani offrivano per incanalare l’emi-
grazione metropolitana fino a quel momento diretta quasi esclusivamente in Brasile.
I primi due tempi dell’Ottocento coloniale portoghese, dagli inizi fino al 1840 il
primo, e compreso nel trentennio 1840-1870 il secondo, possono essere considerati
il retroterra storico e culturale del colonialismo moderno. Il primo tempo, segnato
da instabilità politica e decadenza nazionale, è segnato, in seguito alla proclamazio-
ne del nuovo regime liberale, dall’azione di tutta l’intellighenzia nazionale che, se
non dimentica la vocazione imperiale portoghese, comincia a discutere la vendita
o l’alienazione di parte dei territori coloniali e abolisce il traffico negriero – Sá da
Bandeira, 1836 – più per pressione esterna (inglese) e per accattivarsi il favore euro-
peo (ma anche per evitare l’invio di ulteriore manodopera angolana in Brasile) che
per astratti ideali umanistici. Il secondo tempo, invece, si caratterizza per le prime
controversie territoriali, ancora di poca importanza, che coinvolgono le potenze eu-
ropee e il Portogallo, il quale, se continua a essere attaccato come il paese per eccel-
lenza dello schiavismo e del traffico negriero, può vantare tuttavia – anche grazie a
varie misure giuridiche più o meno applicate come quella del 1854 e del 1859, o quel-
la del 186925 – l’alibi abolizionista. È in questo ambiente che i primi segnali di novità
si infiltrano nel discorso coloniale portoghese allorché l’ideologia ufficiale comincia
a considerare una necessità tradurre il carattere moderno della civilizzazione colo-
24
Nella sua relazione del 19 Ottobre del 1877, l’allora governatore-generale dell’Angola, Caetano
Alexandre de Almeida e Albuquerque, scrive al Ministro della Marina e dell’oltremare che «a exten-
são da província para o interior é um mal sem proveito […] pois sem os principais estabelecimentos
parecem ilhas perdidas num oceano indígena sem limites […] É preciso, portanto, confessar triste-
mente que o nosso império no interior é imaginário» (Maria Manuela Lucas, op. cit., p. 304).
25
Se l’abolizione effettiva del traffico negriero risale al 1858, la fine della schiavitù nelle colonie
portoghesi, istituito dalle leggi del 1854 e del 1859, è solo teorica. Senza alcuna eco in Angola, queste
stesse misure legislative furono ribadite nel 1869, e se da un lato procedevano all’abolizione della
schiavitù, dall’altro obbligavano gli schiavi a servire i loro signori fino al 1878, con lo statuto di liberti.
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niale perseguita nel resto dell’Europa: la modernizzazione dei territori (il fomento
delle opere pubbliche e lo sfruttamento minerario), l’investimento nella creazione
di una rete di trasporti, la fine della schiavitù, la discussione intorno all’utilizzo del
“lavoro obbligatorio” degli africani, il dibattito su antischiavismo / schiavismo, l’av-
vicinamento alla vecchia alleata inglese in nome di una apertura di tipo liberista del
mercato e degli scambi, a discapito dell’atavico protezionismo iberico.
L’internazionalizzazione della questione africana induce la cultura e la politi-
ca portoghese a creare i suoi anticorpi ideologici: secondo la vulgata coloniale del
tempo, prima di allora, nessuna potenza europea avrebbe osato contestare i “nostri
possedimenti”; ora gli interessi e le mire espansioniste degli altri preoccupano, e
le preoccupazioni difensive di Lisbona si addensano tutte nel mito della “presenza
secolare” dei portoghesi in Africa e della prima concettualizzazione di quel contro-
mito della “spoliazione” che in tante variazioni si declinerà alla fine dell’Ottocento.
Eppure, sono gli ultimi trenta anni del secolo XIX e i primi del secolo XX a codi-
ficare culturalmente, durante l’esplorazione, l’occupazione militare e la spartizione
africana, l’ideologia imperiale portoghese: a questo periodo risale la formazione e
l’evoluzione tanto delle sue mitologie culturali quanto delle sue conseguenze nella
dottrina coloniale ufficiale e nella pratica politica26 nella misura in cui sia il contesto
nazionale che quello internazionale obbligheranno a rivedere e a ripensare le po-
sizioni del Paese. Se la fine-secolo segna un discrimine fondamentale per la storia
futura di tutta la colonizzazione europea (“The scramble for Africa”, Congresso di
Berlino 1884-1885), essa assume in Portogallo un significato speciale, tanto per le sue
vicende interne che per quelle esterne (l’Ultimatum del 1890, il regicidio del 1908,
instaurazione della repubblica nel 1910, inizio della Grande Guerra e sua successiva
entrata al fianco degli alleati in difesa dei suoi possedimenti coloniali).
Al terzo periodo (1870-1890) del lungo secolo coloniale portoghese risale la ri-
sposta – si dica subito, in ritardo – del Portogallo alle “minacce” internazionali che
prevedeva da un lato un forte investimento nelle spedizioni scientifiche (è del 1875 la
nascita della Società di Geografia di Lisbona), in risposta agli esploratori di Inghilter-
ra, Francia, Belgio, dall’altro la creazione di un consenso popolare all’emigrazione più
sistematica in Africa27.
Il mito dell’Eldorado, erososi verso la fine degli anni Sessanta, grazie al ritrova-
mento delle mine angolane torna a ricorrere in modo frequente nell’immaginario
coloniale portoghese: la costruzione dell’Africa come un “secondo Brasile”, anche
26
Se è senza dubbio vero che è l’interesse a creare il mito, spesso la relazione è inversa: ossia,
progetti di indole economica o politica, lungi dal rappresentare il risultato di calcoli oggettivi e di
una programmazione finalizzata allo sfruttamento delle risorse, diventano essi stessi riflesso delle
mitografie culturali. Cfr. su questa questione Jill Dias – Valentim Alexandre, O Império Africano
1825-1890, in Nova História da Expansão Portuguesa, vol. X, direcção de Joel Serrão e A.H. Oliveira
Marques, Lisboa, Editorial Estampa, 1998.
27
Si veda per un’importante testimonanzia Eça de Queirós, A Emigração como força civilizadora,
Lisboa, D. Quixote, 1999.
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quale strenuo tentativo ideologico di colmare il vuoto della sua perdita reale, passa
per la diffusione immaginifica di uno spazio non solo ricco di oro, ma anche – e sarà
un cambiamento paradigmatico – di terreni fertili da coltivare, di avorio, di miele.
Portugal parecia ter voltado aos tempos felizes e aureos das descobertas
marítimas do seculo XV e do opulento commercio oriental do reinado
de D. Manuel e dos monarchas da primiera metade so seculo XVI. A
corrente da opinião publica estabelecia-se na direcção dos nossos vastos
e abandonados dominios africanos. Os jornais e os ecriptores de pezo
dedicavam columnas e paginas a mostrar aos incredulos as riquezas mi-
nerarias que aquelles novos Eldorados encerravam28.
La scoperta delle miniere di oro rivitalizza il mito dell’Eldorado chiosato
nell’opera di Eça de Queirós, anche su diretta influenza di quel King’s Salomon Mi-
nes di Haggard, che lo stesso Eça fece pubblicare nel 1890: anzi, è forse proprio in
A Ilustre Casa de Ramires che lo spazio, geografico e immaginario, africano passa
dall’essere soltanto luogo dell’arricchimento coloniale attraverso l’oro facile a luogo,
invece, dell’imprenditorialità agricola.
Al mito dell’Eldorado è poi legata la promozione dell’emigrazione dalla metro-
poli all’Angola che non è altro che una eco, neppure tanto attenuata, del generale
progetto “branquizante”, di sostituire, cioè, l’umanità nera con quella bianca. A pro-
getti di eugenetica di massa, come quelli di ridurre ai minimi termini la popolazione
nera angolana, attraverso l’emigrazione, si oppongono tuttavia le tesi “scettiche” di
António Seixas, secondo il quale più che esportare uomini il Portogallo ha bisogno
di importarne. La difficoltà della colonizzazione portoghese, continua il saggista,
deriva anzi dal fatto che i territori africani non offrono condizioni di esistenza agli
emigranti della Metropoli che in larga misura sono poveri e vanno alla ricerca più di
lavoro salariato che di terre vergini da coltivare.
Quem emigra é pobre, pobrissimo. A sua única riqueza è o seu trabalho,
o seu capital único a actividade pessoal. Precisa de salários e não de
terrenos virgens. Precisa de empresários e não de trabalhadores. […] A
mãe pátria dá terrenos aos emigrantes. Mas de que servem os terrenos
sem capitaes? Poucos homens, tendo a liberdade de escolha, se resignam
voluntariamente a ser Robinson Crusoe, e a crear civilisação para si, com
as suas próprias faculdades!29
Come testimoniano le posizioni di António Seixas, un certo atteggiamento più
“realista” nei confronti dell’Africa comincia a insinuarsi all’interno dello stratifica-
28
A. E. Victoria Pereira, Portuguezes e Inglezes em África: Romance Scientifico, Lisboa, João Ro-
mano Torres, 1892, p. 17.
29
António José de Seixas, A Questão Colonial Portugueza em presença das condições de Existência
da Metropole, Lisboa, Typographia Universal, 1881, pp. 23-24.
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to discorso colonialista: ristrettissimi settori dell’élite nazionale provano a proporre
soluzioni nuove (come la vendita o l’alienazione di territori) per una gestione più
proficua dei possedimenti portoghesi in nome di un “colonialismo economico” qua-
le quello inglese piuttosto che di un colonialismo esclusivamente di “prestigio”. Il
personaggio di Gouveia immaginato da Eça de Queirós in A Ilustre Casa de Ramires
(1900) incarna alla perfezione lo spirito positivo dell’economista, pronto a vendere
o a cedere quelli che il senso comune chiama i “padrões da glória” della nazione,
scagliandosi contro le mitologie passatiste dell’impero. Il discorso per cui “l’Africa è
buona da vendere!” pronunciato dall’economista Gouveia nel romanzo queirosiano
si convertirà presto in discorso minoritario nella retorica coloniale del Portogallo, la
cui cultura anche letteraria continuava a specchiarsi nell’Africa per vedere il riflesso
(o solo per illudersi di vederlo) della propria grandezza imperiale.
Se ormai l’occasione di agire indisturbato in Africa era perduta30, il Portogal-
lo, per provare al mondo civilizzato – il quale, lo aveva “addirittura” snobbato, alla
conferenza di Bruxelles (1876) indetta da Leopoldo II – la sua sovranità sui territori
africani, organizza, mimeticamente all’azione degli imperi centrali, le sue spedizioni
scientifiche che, oltre a mappare il territorio fino ad allora ignoto e preteso, funzio-
navano da elemento legittimante al mito della presenza secolare portoghese in Afri-
ca31. La rivendicazione in nomine historiae si legava indissolubilmente al mito della
vocazione coloniale del popolo portoghese, che il parossismo della ideologia colo-
niale mostrando senza rotture, evocava nei termini di una missione che da esclusi-
vamente storica si elevava a meta-storica, a spirituale. La storia portoghese coloniale
doveva ricucire l’avventura imperiale dal momento che essa era la conseguenza di
una vocazione, di un sentimento nazionale che va al di là della dominazione che le
contingenze storiche hanno determinato.
In tante portoghesi novels of empires riecheggia la formula del Paese che ha
come futuro il destino già “pre-destinato” dal suo passato di gloria. In un medio-
cre, ma significativo romanzo coloniale dal titolo Portuguezes e Inglezes em Áfri-
ca. Um romance scientifico scritto da Victoria Pereira (1892) l’immagine dell’arrivo
dell’esploratore africano a Lisbona che ovviamente ricorda «quello dei navigatori
del secolo XV e XVI, che hanno scoperto i paesi, i quali sono oggi la nostra gloria
30
«Os portugueses daquele período não souberam encontrar recursos económicos e a vontade
política necessários para tomar posse das terras entre as duas costas oceânicas. Sem ter, na altura
rivais europeus que se interessasem pelo interior, perderam uma oportunidade histórica que nunca
mais se lhes apresentaria: a exclusividade comercial e militar no interior da África centro-austral» in
René Pélissier, História das Campanhas de Angola. Resistências e revoltas 1845-1941, Lisboa, Estampa,
1986, p. 92.
31
Si veda per esempio l’«Esboço Histórico» —una sorta di introduzione strategica— alla relazio-
ne di viaggio di Capelo e Ivens, De Angola à Contracosta. È tuttavia curioso notare come le epigrafi
poste all’inizio rispettivamente tratte da Camões e da una lettera dell’ Abbé Durand alla Société de
Geographie de Paris del 1880, funzionino come veri e propri segnali di prestigio coloniale. È signifi-
cativo che oltre al vate nazionale, si necessiti del ricorso alle fonti straniere per rimpolpare il mito del
primato storico portoghese proprio dinnanzi al consesso europeo.
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e il nostro incubo» è solo un esempio fra i tanti di come la cultura, non solo alta,
pensa all’Africa come lo spazio privilegiato in cui si possa compiere il destino por-
toghese che è alle spalle: «No hotel, o major tres vezes que chegar ás janelas e fallar
nas suas viagens, nos paizes do ouro, dos diamantes e no brilhante futuro que estava
reservado a Portugal, quando o povo, essa alavanca poderosa, o ajudasse no seu
emprehendimento»32.
Il mito dell’ eredità sacra delle colonie africane (primato storico, scoperta di
“nuovi mondi” svelati al “mondo”, missione provvidenziale dei portoghesi) infor-
mano quello che è stato definito “Colonialismo di prestigio”: esso non solo è funzio-
nale ai discorsi del nazionalismo quanto soprattutto alla proiezione del Portogallo
a livello internazionale. Infatti, presenza secolare in Africa e vocazione coloniale in
connubio (insieme agli altri miti meno specifici, ma comuni con il resto d’Europa
come quello della superiorità dell’uomo bianco o della missione civilizzatrice, sia
essa religiosa, tecnologica o culturale) diventano potenti fattori di coesione nazio-
nale e un vero e proprio vessillo ideologico nelle dispute europee.
La questione coloniale diventa, allora, in questi anni non solo terreno di batta-
glia europeo, quanto un vero e proprio motivo di scontro politico tanto tra il Partito
Regenerador e Progressista, entrambi monarchici, ma anche per il nuovo sogget-
to rappresentato dal nascente movimento repubblicano. Non bisogna dimenticare
che l’immaginario coloniale, che prende forma nelle opere letterarie e saggistiche di
questo periodo, tradurrà anche una dialettica politica interna, si nutrirà delle varie
posizioni ideologiche assunte dinnanzi alle vicende storiche del Portogallo e inter-
nazionali, non lasciando tuttavia intravedere nessuna possibilità di superamento del
circolo vizioso nazionalismo-imperialismo, nessuna forma di resistenza33 alle sue
retoriche: «il progetto coloniale si consolidava come una delle pietre basilari del
nazionalismo portoghese, tendendo a sacralizzarsi»34.
Non è infatti un caso che prima del Congresso di Berlino, i tentativi politico-
diplomatici dei governi regeneradores di negoziare con l'antica alleata, l’Inghilterra,
prima con il Trattato di Lourenço Marques35 (1879), poi con il Trattato del Congo36
32
A. E. Victoria Pereira, op. cit., p. 20.
33
In realtà, esiste tutta una linea anti-espansionista nel Portogallo ottocentesco che, tuttavia, ho
delle riserve a definire anticolonialista. Per un esempio su tutti, si veda il ritratto dello storico Alberto
Sampaio definito «um dos primeiros teorizadores do anti-colonialismo, e isso numa época em que,
ao nível das decisões formais, nos vinhamos empenhando cada vez mais numa política africanista de
nenhuma vantagem», João Medina, Eça de Queirós e a Geração de 70, Lisboa, Moaraes Editores,1980,
pp. 205-219.
34
Jill Dias – Valentim Alexandre, op. cit., p. 47.
35
Il testo prevedeva dal lato portoghese varie concessioni in Mozambico (libertà di transito e
commercio, apertura dei fiumi navigabili), dal lato inglese, invece, la promessa della costruzione
della ferrovia, in seguito allo studio del territorio da parte di una commissione appositamente creata.
36
Venivano in questo testo così ripartite alcune zone strategiche nella provincia del Congo: sovra-
nità portoghese sul litorale africano del fiume (tra 5º e 8º grado di latitudine sud) e sulla sponda sini-
stra, mentre si concedeva agli inglesi il controllo delle tariffe coloniali e la limitazione dell’influenza
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(firmato nel 1884), siano oggetto di feroci attacchi da parte dei repubblicani, che non
si lasciano sfuggire l’occasione di coinvolgere governo e opposizione (con la com-
plicità della Monarchia) nella responsabilità dello smembramento coloniale, della
rovina dello stato, della inevitabile riduzione del Portogallo a provincia spagnola37.
La cultura portoghese finesecolare sarà molto sensibile al richiamo di certe idee
di decadenza, se non proprio escatologiche, relative alla perdita dell’identità nazio-
nale come sinonimo della perdita delle colonie. Il mito della spoliazione straniera
fa pendant con quello della invasione spagnola nell’alimentare quel senso della fine
non solo storica, ma geografica, spirituale, che pervade la letteratura portoghese tra
Ottocento e Novecento.
Quando al congresso di Berlino tra il Novembre del 1884 e il febbraio dell’anno
successivo – vero e proprio snodo simbolico della spartizione dell’Africa –, i diplo-
matici portoghesi prendono la parola, non fanno che ribadire i diritti coloniali di
ordine storico, contro le usurpazioni delle potenze straniere (di volta in volta, defi-
nite mercantiliste, sanguinarie, atee, belliciste, “imperialiste”), potenze con le quali
lo stesso Portogallo convive non di rado in regime di subalternità politica.
Dalle posizioni congressuali, si ricava l’immagine di un Portogallo tentato di
assicurarsi la definitiva protezione “imperiale” sotto l’egida inglese (il Portogallo è
definibile come “colonia informale” dell’Inghilterra)38 dalla quale spera di ricevere
benefici (in nome di un colonialismo per inerzia) e allo stesso tempo, di un paese af-
flitto da una volontà schizofrenica, in bilico tra massimalismo espansionista (a costo
di tradire la vecchia alleanza inglese per nuove relazioni diplomatiche) e velleitario
isolazionismo (come andava difendendo, per esempio, Luciano Cordeiro39).
I diritti storici, si diceva, più che essere i soli universalmente validi (almeno dalla
prospettiva lusitana), diventano – secondo il parere di uno storico ancora nel 1938 – gli
unici: «É costume dizer-se que Portugal só presentava direitos históricos nesta emer-
gência. É claro que ele ao menos tinha uns direitos: os outros não apresentavam nada»40.
portoghese nella zona dello Chire.
37
Ecco la descrizione della sessione di inaugurazione del club repubblicano di Lisbona, da parte di
Eça de Queirós, in A Capital (começo de uma carreira!), p. 297: «Si discuteva, a bassa voce, fumando,
di prossime sessioni, di progetti, delle speranze politiche, delle infamie della Monarchia; e le voci
sommesse, davano un tono di cospirazione, alle accuse, alle ingiurie lanciate contro il Governo: gli si
attribuiva, in modo unanime, la vile decadenza della nazione: e da un circolo di gente da cui saliva un
fumo spesso di sigarette, ognuno esponeva quello che per lui era una “grande vergogna” – la rovina
economica, il basso valore dei salari, i favoritismi, gli impieghi, l’abbandono delle colonie».
38
Boaventura de Sousa Santos, «Entre Prospero e Caliban: Colonialismo, pós-colonialismo, e
inter- identidade», in Maria Irene Ramalho – António Sousa Ribeiro (eds.), Entre ser e estar. Raízes,
percursos e discursos da identidade, Porto, Afrontamento, 2001 p. 26.
39
Cfr. Luciano Cordeiro, Questões Coloniais, selecção de textos e prefácio por A. Farinha de Car-
valho, Lisboa, Vega, s.d. Dopo il Congresso di Berlino, lo statista e padre fondatore della Società di
Geografia di Lisbona, difendeva la necessità di abbandonare le negoziazioni con le altre potenze
imperiali e confidare appena nell’appoggio del “negro” africano, il «nostro solo fedele alleato».
40
Ora citato in Isabel Castro Henriques, Percursos da Modernidade em Angola. Dinâmicas comer-
ciais e transformações sociais no século XIX, Lisboa, IICT/ICP, 1997, p. 90.
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Nel computo globale, nonostante certe proiezioni catastrofiste interne, il risul-
tato del Congresso stabiliva per il Portogallo la sovranità sulla sponda sinistra del
Congo (la destra era attribuita allo Stato Libero del Congo) e quella sui territori di
Cabinda e Molembo. Frustrata la pretesa di appropriarsi della zona del Congo infe-
riore, a vantaggio del Belgio, nazione senza tradizioni coloniali, come la propaganda
coloniale di quel tempo non si stancava di ripetere, gli anni successivi furono di
ripensamento strategico-militare (il sognato e ancora una volta frustrato mapa cor-
de-rosa che avrebbe dovuto collegare la costa angolana con quella mozambicana) e
diplomatico: l’avvicinamento alla Germania e alla Francia (1886) sarebbe stato, con
la rivendicazione appunto di un suo corridoio sudafricano, il primo passo in funzio-
ne anti-britannica (il mapa cor-de-rosa avrebbe costituito uno dei maggiori ostacoli
al progetto Cape-to-Cairo, tradizionalmente attribuito a Cecil Rhodes, ma in verità
già sottoscritto da Johnston).
Nel quarto periodo (1890-1910), che inizia con la cesura forte rappresentata
dall’Ultimatum inglese dell’11 Gennaio 1890 e dalla conseguente reazione portoghe-
se, il discorso coloniale tende a “sacralizzarsi” intorno a miti che vengono dal passa-
to come appunto la vocazione coloniale dei portoghesi. L’Ultimatum innesca tutto
un nuovo e articolato investimento ideologico sull’impero fondato tanto su retori-
che nazionaliste quanto colonialiste: è il periodo post-Ultimatum il vero momento
del Prospero portoghese, che dopo l’affronto della “perfida Albione”, si preoccupa di
legittimare i suoi territori ultramarini tanto attraverso l’occupazione militare e le va-
rie campagne contro i regni indigeni (come quella contro il re africano Gurgunhana
del 1895) quanto anche attraverso la realizzazione delle condizioni più favorevoli
all’installazione di una popolazione bianca capace di sostituire il “selvaggio”, al fine
di trasformare i territori che vanno dalla metropoli alle colonie (dal Minho a Timor,
dirà qualche decennio più tardi Salazar) in territorio nazionale. Come un vero e
proprio impero centrale, le guerre di occupazione sono indispensabili al Portogallo
per la valorizzazione del territorio africano, benché l’azione bellica, nel linguaggio
colonialista dell’epoca, fosse esclusivamente provocata dalla selvajaria dell’Altro: la
stessa violenza dei “civilizzatori”, per un attimo (auto)proclamatisi Prospero, è solo
la conseguenza della furia selvaggia degli africani.
Os heróis portugueses, perante esta situação, procuram enfrentar esta
selvajaria desaustinada com a serenidade, altivez e confiança que lhes
é conferida pelo «orgulho da raça». Foi este traço particular dos Portu-
gueses que os empurrou para a «perigosa loucura que constitui hoje a
obra imortal do nosso génio colonizador»41.
La sacralizzazione dell’Impero era totalmente compiuta, almeno sul piano ideo-
logico: sebbene già presente nei decenni antecedenti, il mito dell’eredità sacra diven-
ta predominante, sconfiggendo quasi del tutto le correnti più pragmatiche che pre-
41
Isabel Castro Henriques, op. cit., p. 91.
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dicavano la ricomposizione o addirittura la riduzione del territorio coloniale (voci
queste che ebbero la loro massima espressione alla fine degli anni ’70 e che perdura-
rono per esempio all’interno della stessa Società di Geografia). Ma le conseguenze
della crisi dell’Ultimatum non si limitarono al piano strettamente ideologico, ma
investirono il piano economico, geo-politico e socio-culturale. In campo strategico-
militare e politico le campagne africane di occupazione portarono in quest’ultimo
decennio alla definizione dei confini del Mozambico e alla fine della disputa sul-
le frontiere fra Angola e Stato libero del Congo. Anche il discorso coloniale nella
rappresentazione dell’Altro africano subì un forte irrigidimento disciplinare da par-
te di quei saperi (antropologia, sociologia, etnografia) che sostituirono la retorica
dell’umanitarismo liberale (che risaliva a Andrade Corvo), ormai ritenuto ingenuo
se non proprio utopico, e davvero poco adatto alla realtà attuale della nuova con-
quista, con il razzismo di tipo “scientifico” che si impose negli anni novanta come
l’ideologia predominante. Basato sul “darwinismo sociale”, ideologia che mutuava
da Darwin i concetti di “selezione naturale”, di “sopravvivenza delle specie più favo-
rite”, usati in biologia per introdurli nello studio delle società umane, la riduzione
sistematica dell’africano operata dal discorso coloniale portoghese – lungi dall’es-
sere l’unico in Europa – contribuisce a giustificare la sua pratica colonialista. Come
è stato da molti dimostrato, appare significativo che proprio nell’opera di Oliveira
Martins sia visibile il passaggio da un paradigma ermeneutico di tipo filantropico-
umanitarista a un regime dominato invece dal darwinismo sociale nella visione por-
toghese dell’Altro:
O plano poético da educação dos pretos seduz hoje em dia os ânimos
entusiastas que, não podendo conceber já como as velhas religiões, fun-
dam novos cultos filantrópicos. A história prova que a educação dos
povos “bárbaros” só pode ser feita pela força. Mal-grado isso, a filantro-
pia persiste em esperar que a Bíblia, traduzida em bundo ou em banta,
acabe por converter “os selvagens”; que a férula do mestre-escola fará
deles homens como nós […] [Mas] abundam os documentos que nos
mostram no negro um tipo antropologicamente inferior, não raro pró-
ximo do antropóide e bem pouco digno do nome de homem42.
Lo storico portoghese repubblicano e progressista non si accorge di usare, come
molti altri in Europa, il discorso della scienza (in questo caso dell’antropologia fisi-
ca) per ridurre drasticamente la rappresentazione culturale dell’Altro. Pur essendosi
affermate in tempi di euforia coloniale, di affermazione anche culturale del Prospero
portoghese finalmente riflesso nell’Impero africano, le tesi del darwinismo socia-
le che riducevano l’africano colonizzato alla stregua della scimmia perdureranno
nell’ideologia e nella politica coloniale almeno fino agli anni Trenta del Ventesimo
42
Oliveira Martins, O Brasil e as Colónias Portuguesas, (1ª ed. 1880), Lisboa, Guimarães e C.ª
Editores, 1953, p. 263.
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secolo portoghese. A livello di immaginario culturale – appare quasi scontato dir-
lo – la visione europea dell’africano “animalizzato” codificata a fine Ottocento dalla
rappresentazione antropologica continuerà a ricadere in mille variazioni lungo tutto
il Novecento.
R i f e r i m e n t i b i b l io g raf ic i
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"Description": "El artículo que se presenta a continuación propone una aproximación a la lírica de Alejandra Pizarnik a partir del análisis estilístico computacional del corpus de su poesía completa. En particular, aprovechando algunas aportaciones críticas sobre la obra de la autora argentina, se indagan las formas de la representación de un sujeto poético dominante, que se construye a través de la colisión entre las dimensiones lacerantes de la muerte y la corporeidad para engendrar la imagen fragmentada de una individualidad escindida y contradictoria. Las modalidades discursivas mediante las cuales se lleva a cabo dicha representación se exploran a raíz de indicios reveladores como el uso peculiar de los pronombres personales o de las localizaciones espaciales, observados según un enfoque diacrónico que permita contemplar la evolución poética de una autora cuya obra oscila constantemente entre el impulso autorreferencial y la sublimación estética.\r\n\r\nThe following paper proposes an approach to Alejandra Pizarnik’s poetry based on the quantitative stylistic analysis of the corpus of her complete poetical works. In particular, exploiting some critical studies about the work of the Argentinian poet, it investigates the forms of the representation of a prevailing poetic subject, that is built through a collision between the painful conditions of death and corporeity in order to breed the fragmented image of a split and contradictory individuality. The discursive modalities through which this representation is pursued are explored through the study of a distinctive use of personal pronouns and spatial localizations, that are observed in a diachronic perspective with the intention of considering the poetic evolution of a writer whose work constantly wavers between the autobiographical urge and the aesthetic sublimation.",
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Fragmentación y descorporización del yo
en la poesía de Alejandra Pizarnik
N ATALIA C ANCELLIERI
Università degli Studi di Milano
[email protected]
La obra de Alejandra Pizarnik1 ha sido estudiada exhaustivamente por numero-
sos especialistas y según múltiples niveles de análisis, que se tratara de sus coleccio-
nes de poemas o de su obra en prosa, o también, sobre todo en tiempos recientes, de
sus diarios, publicados integralmente por Lumen junto a la totalidad de sus escritos2.
Con este artículo me propongo examinar el conjunto de su poesía a través de un
método experimental, que pretende sondear las potencialidades de un instrumento
utilizado por los estudiosos de lingüística computacional y que últimamente ha co-
menzado a ser empleado también por los críticos literarios para estudiar los textos
más a fondo desde un punto de vista estilístico. Se trata de un software3 que permite
detectar la frecuencia de palabras, metáforas o giros sintácticos típicos de un dado
autor o texto y que consiente obtener resultados muy apreciables también en los
trabajos de corte literario o cultural.
1
Para las finalidades de este trabajo, no me parece preciso detenerme en la trayectoria bio-biblio-
gráfíca de la poeta, de la cual existen por lo menos dos reconstrucciones minuciosas a las que remito:
César Aira, Alejandra Pizarnik, Barcelona, Ediciones Omega, 2002; Cristina Piña, Alejandra Pizarnik,
Buenos Aires, Planeta, 1991.
2
Estas, las referencias exactas: Poesía completa, Barcelona, Lumen, 2000; Prosa completa, Barcelo-
na, Lumen, 2002; Diarios, Barcelona, Lumen, 2003. La edición de los tres volúmenes es de Ana Becciu.
3
Me refiero a WordSmith Tools, Oxford, OUP, creado por Mike Scott en 1997, sobre cuyo fun-
cionamiento se pueden obtener informaciones en el siguiente enlace: http://www.lexically.net/
wordsmith (fecha de consulta: 25/05/2011).
Natalia Cancellieri
Fragmentación y descorporización del yo en la poesía de Alejandra Pizarnik
212
Valiéndome de la ayuda de este programa, analizaré la obra poética de Alejan-
dra Pizarnik centrándome en el aspecto que más me ha interesado entre los muchos
que se destacan en los ensayos sobre su labor literaria, el de la representación del su-
jeto, tema sobre el que razonaré integrando dichos estudios con los datos sacados de
la computación telemática4, basada en la versión digitalizada de su Poesía completa.
Si para una operación de este tipo es imprescindible poseer ya unas cuantas nocio-
nes sobre el texto que es objeto de estudio y sobre la poética de su autor, también
es cierto que de esta forma se pueden averiguar en detalle estas nociones y hallar
unos cuantos elementos más que sería difícil obtener sin el auxilio del ordenador.
En particular, en el caso de la obra de Pizarnik, ya estudiada según las más variadas
perspectivas, me parece un nivel de investigación enriquecedor, sobre todo por-
que permite trabajar en el conjunto de sus textos poéticos desarrollando el análisis
lingüístico-estilístico según un enfoque diacrónico5.
Uno de los elementos más significativos que detectan muchos críticos a la hora
de analizar los poemas pizarnikianos es la fragmentación6 que sufre el yo lírico,
que a nivel lingüístico se da bien en el uso de los pronombres, bien en el empleo de
nombres y metáforas detrás de las que se esconde el sujeto poético7. De hecho, toda
la poesía de Pizarnik resulta caracterizada por binomios contrapuestos que buscan
la fusión y que son expresados en la mayoría de los casos a través del oxímoron que,
4
Para abordar el estudio de los textos literarios a través de los softwares creados para los análisis
computacionales, he consultado el volumen de John Sinclair, Corpus, concordance, collocation, Ox-
ford, OUP, 1991. Como muestra de los excelentes resultados a los que se puede llegar en estudios de
este tipo, véase el artículo de Michael Stubbs, «Conrad in the computer: examples of quantitative
stylistic methods», Language and Literature, 14, 1 (Febraury 2005), pp. 5-24, del que me he servido
para aventurarme en este análisis, aunque mi trabajo aproveche tan sólo algunas de las copiosas po-
sibilidades ofrecidas por la estilística cuantitativa, siendo un primer acercamiento llevado a cabo de
manera bastante empírica.
5
La edición utilizada para este análisis sigue sólo parcialmente un criterio cronológico, ya que
recoge todas las colecciones poéticas publicadas en vida por Pizarnik, incluyendo también, al final
del libro, poemas sueltos o enteros poemarios inéditos. Por lo tanto, a la hora de digitalizar el corpus,
he variado el orden de los poemas, colocándolos, en la medida de lo posible, según sus fechas de
composición, para estudiarlos en una perspectiva estrictamente diacrónica.
6
A este respecto, véase el estudio de Enid Álvarez, «A medida que la noche avanza», Debate Femi-
nista, 15 (abril 1997), pp. 3-34. Y sobre todo el ensayo de Ana María Rodríguez Francia, La disolución
en la obra de Alejandra Pizarnik. Ensombrecimiento de la existencia y ocultamiento del ser, Buenos
Aires, Corregidor, 2003, donde la estudiosa analiza la disolución del ser en la obra según un enfoque
filosófico y psicoanalítico.
7
Las máscaras con las que se disfraza de manera más recurrente el sujeto pizarnikiano ya han
sido estudiadas por la mayoría de los críticos, por eso he privilegiado el análisis de los pronombres
personales, que en todo caso se asocian muy a menudo a dichas máscaras. Sin embargo, cabe al
menos señalar que las metáforas utilizadas por Pizarnik al construir su propio personaje poético
suelen remitir a dos campos semánticos distintos: el de la errancia, con el que siempre se representan
estados transitorios, pasajeros y al que pertenecen los siguientes lemas: la <loca> (5 ocurrencias),
la <niña> (28), el <pájaro> (29), la <sonámbula> (10), la <viajera> (5); y el de la identidad negada,
indefinida, al que pertecen el <ángel> (11), el <fantasma> (6), el <maniquí> (4), la <muñeca> (7), la
<sombra> (88), etc.
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como ha puesto de relieve Anna Soncini8, es la figura clave de este discurso poético,
del que determina decididamente el ritmo estílistico. En cuanto al uso peculiar de
los pronombres personales, cabe hablar incluso de trinomios, los que construye la
poetisa para representar a una misma persona, es decir aquel sujeto preponderante
a partir del cual erige sus poemas. Si el pronombre “yo” es el que, por obvias
razones, más reitera a lo largo de toda su producción9, a este la poeta yuxtapone,
distribuyéndolos de una forma bastante significativa a nivel cuantitativo10, los de
“ella” y “tú”, que por un lado adquieren unas connotaciones que los equiparan al
pronombre de primera persona y por otro se diferencian de este desempeñando
papeles distintos.
Para empezar, cabe señalar que la representación del sujeto según esta triparti-
ción pronominal cambia en una perspectiva diacrónica: si la preponderancia del
pronombre “yo” es constante a lo largo de todo el corpus, se nota una mayor fre-
cuencia del pronombre de segunda persona en la primera mitad del poemario res-
pecto al de tercera persona, que sí aumenta de manera notable en la segunda mitad11.
Cual primer dato cuantitativo, esta relación puede hacernos suponer que, según se
desarrolla la poética de Pizarnik, se registra una mayor tendencia a la despersonali-
zación. Dicho de otra forma, cuánto más evoluciona el discurso poético, tanto más
se desdobla y fragmenta el sujeto de la enunciación.
El uso de un pronombre u otro determina ante todo unos cambios reveladores
en el tono del discurso poético, ya que cada lema, aunque sirva para representar un
mismo ser, presupone una percepción distinta de este ser por parte de la poeta. En
lo que concierne el empleo del lema “yo”, notamos en seguida la preponderancia
de oraciones de tipo aseverativo, caracterizadas por un tono desgarrador de cla-
mor y protesta, como si el pronombre de primera persona fuera el más adecuado
para las proyecciones más concretas de la autora, como si conllevara una especie de
aceptación, aunque no pasiva, de lo que está encarnando. Veamos algunos de los
innumerables ejemplos de este uso: en un poema temprano, el que cierra La última
8
Anna Soncini, «Itinerario de la palabra en el silencio», Alejandra Pizarnik – Violeta Parra, Cua-
dernos Hispanoamericanos – Los complementarios, 5 (mayo 1990), p. 10.
9
Se registran 188 ocurrencias del lema <yo> en todo el corpus poético, a las que hay que sumar
las 252 del lema <me>, las 67 del pronombre personal <mí> más las 26 de <mío/a/s> y las 458 de los
adjetivos posesivos <mi/s>.
10
Las ocurrencias del pronombre <tú> cuando se refiere al mismo sujeto poético a lo largo de
todo el corpus son 28, a las que cabe añadir las 83 del lema <te>, las 76 de los adjetivos posesivos <tu/
s>, las 18 del lema <ti> y las 8 de los lemas <tuyo/a/s>. En cuanto al pronombre <ella>, se han regi-
strado 37 ocurrencias, mientras que las de los adjetivos posesivos correspondientes, <su/s>, son 153.
11
Gracias al auxilio de WordSmith Tools, es muy inmediato observar la distribución de cada lema
a lo largo del corpus de referencia: utilizando la herramienta denominada “plot”, se nota una mayor
ocurrencia del lema <tú> entre el 41% y el 55% del texto, mientras que el lema <ella> recurre mucho
más entre el 76% y el 97% del texto. En cuanto al lema <yo>, su distribución es decididamente unifor-
me aunque aumenta considerablemente a partir del 20% del texto.
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inocencia12 y que se titula emblemáticamente Sólo un nombre, encontramos estos
tres versos: «alejandra alejandra / debajo estoy yo / alejandra»13. Aquí hallamos una
de las primeras escisiones que sufre el sujeto lírico, que, como ha evidenciado Alicia
Genovese, «queda enfrentado a su manifestación múltiple y fragmentada, represen-
tada por simple repetición del nombre propio»14.
Otro rasgo fundamental que hay que destacar al hablar del uso de “yo”, es que
siempre aparece en construcciones escuetas, adosado a imágenes sintéticas e inten-
sas como si se quisiera devolver una impresión, exacta y circunstancial, de cierto
tipo de esencia. El verso recién citado es un buen ejemplo de ello y si lo comparamos
con otro posterior de dos años, procedente de Las aventuras perdidas15, comproba-
mos el mismo efecto: «Yo lloro debajo de mi nombre. / Yo agito pañuelos en la noche
/ […] Yo oculto clavos / para escarnecer a mis sueños enfermos. / Afuera hay sol. / Yo
me visto de cenizas»16. Otra vez, encontramos un tipo de representación que oscila
entre la protesta vehemente y la aceptación de lo que se está enunciando, aceptación
que casi parece lindar con la autoconmiseración. El quiasmo final, y toda la cadena
de contrastes en los que se rigen estos versos, nos ofrecen una muestra significativa
de lo que se ha llamado tono de protesta: el “yo” siempre se define en oposición
a algo adverso, que se encuentre fuera o dentro del mismo sujeto. Así, el descen-
tramiento del “yo” no sólo se produce a través de la construcción de sus alter ego
pronominales, sino que se da también a partir del mismo pronombre de primera
persona, bien en antagonismo a la realidad, a la “escena”17, a la que el sujeto no se
conforma, bien en desacuerdo con su propia manera de ser.
Veamos más ejemplos de lo dicho hasta aquí: uno tomado de Extracción de la
piedra de locura18, largo poema de la colección homónima, donde leemos: «Cada
hora, cada día, yo quisiera no tener que hablar. Figuras de cera los otros y sobre todo
yo, que soy más otra que ellos»19. Y otro sacado de El infierno musical20, significati-
vamente titulado Piedra fundamental:
12
Alejandra Pizarnik, La última inocencia, Buenos Aires, Ediciones Poesía Buenos Aires, 1956.
13
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 65.
14
Alicia Genovese, «La viajera en el desierto», Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), p. 10.
15
Alejandra Pizarnik, Las aventuras perdidas, Buenos Aires, Altamar, 1958.
16
Alejandra Pizarnik, «La jaula», en Poesía completa, p. 73.
17
Cristina Piña, en su artículo «La palabra obscena» [en Alejandra Pizarnik – Violeta Parra, Cua-
dernos Hispanoamericanos – Los complementarios, 5 (mayo 1990), pp. 17-38], define la palabra y el su-
jeto pizarnikianos como obscenos, siguiendo la etimología de este término, es decir “fuera de escena”,
“que no se puede representar en la escena”, para analizar el desdoblamiento y la fragmentación del yo
lírico a partir de esta metáfora.
18
Alejandra Pizarnik, Extracción de la piedra de locura, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1968.
19
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 251.
20
El infierno musical, Buenos Aires, Siglo XXI, 1971.
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Una vibración de los cimientos, un trepidar de los fundamentos, drenan
y barrenan, y he sabido donde se aposenta aquello tan otro que es yo,
que espera que me calle para tomar posesión de mí y drenar y barrenar
los cimientos, los fundamentos, aquello que me es adverso desde mí,
conspira, toma posesión de mi terreno baldío, no, he de hacer algo, no,
no he de hacer nada, algo en mí no se abandona a la cascada de cenizas
que me arrasa dentro de mí con ella que es yo, conmigo que soy ella y
que soy yo, indeciblemente distinta de ella21.
El mecanismo de contradicción aquí llega a su cumbre y la fragmentación del sujeto
se propaga siguiendo por lo menos dos direcciones: una indefinida, representada
por la reiteración del concepto de otredad junto al pronombre de primera persona, y
otra más concreta, ejemplificada por la aparición del lema “ella”, en una de sus pocas
ocurrencias al lado de “yo”. Nótese, en el último fragmento citado, la diferencia de
ritmo respecto a los poemas anteriores, algo que ocurre evidentemente por tratarse
de un poema en prosa, pero, a pesar de esto, cabría preguntarse si la dispersión que
se registra a nivel de significados, en particular en lo que concierne las connotacio-
nes asumidas por el lema “yo”, no afecte también a la forma en que aparecen dichas
connotaciones. Es decir, si por un lado todo aparece más implícito en cuanto al
sentido de lo enunciado, por otro se nota una dilatación, avalada por la repetición
de unos mismos sintagmas relacionados con el pronombre de primera persona, que
vuelve explícitas las metáforas que representan el sujeto, algo que no ocurría en las
anteriores concordancias del lema analizado, donde las imágenes que se le asocia-
ban resultaban condensadas y casi impresionistas. Es, en definitiva, como si una
representación del sujeto a través del lema “yo”, en la etapa final de la producción
pizarnikiana, se tornase imposible, se hiciese ella misma tan fragmentaria y alusiva
como el ser al que se refiere.
Pasemos ahora a las ocurrencias del lema “tú”, un pronombre cuyo utilizo supo-
ne un constante acto acusatorio por parte del yo lírico hacia sí mismo y un enfrenta-
miento directo a sus propias contradicciones que no encontrábamos en las proyec-
ciones relacionadas con el pronombre de primera persona. Una de las modalidades
discursivas que se acompaña a este pronombre es la oración interrogativa, que pue-
de implicar o no una respuesta en primera persona dando lugar a unos monólogos
en forma dialogal, a través de los cuales el sujeto indaga en su propia esencia: «En el
eco de mis muertes aún hay miedo. ¿Sabes tú del miedo? Sé del miedo cuando digo
mi nombre. […] Sí. En el eco de mis muertes aún hay miedo»22. Se percibe aquí un
tono semejante al que caracterizaba las concordancias del lema “yo”, y eso se debe
a que, en las ocurrencias del lema “tú” en enunciados interrogativos, no hallamos
una diferenciación sustancial entre los dos polos en que se escinde el sujeto poético,
mientras sí hay un desdoblamiento más tangible en otros tipos de enunciados. La
21
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 264.
22
«El miedo», en ibíd., p. 87.
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tipología más frecuente y relevante es la de la oración exclamativa, mediante la cual
se formula todo tipo de recriminación dirigida al sujeto que se representa a través
del “tú”. Veamos unos cuantos ejemplos, empezando por Hija del viento, un poema
procedente de Las aventuras perdidas:
Han venido. / Invaden la sangre. / Huelen a plumas, / a carencia, / a
llanto. / Pero tú alimentas al miedo / y a la soledad […] Pero tú te abrazas
/ como la serpiente loca de movimiento / que sólo se halla a sí misma /
porque no hay nadie. / Tú lloras debajo de tu llanto, / tú abres el cofre de
tus deseos23.
Nótese, en primer lugar, la comparación del “tú” a la imagen de la serpiente, un símil
bastante peculiar24 en el panorama semántico pizarnikiano, sobre todo consideran-
do que se refiere al mismo sujeto, que sí suele ser representado a través de las me-
táforas más originales, pero que nunca adquiere unas connotaciones tan negativas
como en este caso. Este elemento nos ofrece una primera clave para descodificar los
valores atribuídos al lema “tú”. Si en el caso del “yo”, como se ha dicho, encontrá-
bamos una actitud de aceptación e incluso de autoconmiseración que siempre se
acompañaba a un afán de protesta, en las proyecciones del sujeto a través del “tú”
hallamos en cambio una actitud acusatoria que proyecta en el ser representado por
el pronombre de segunda persona todo lo negativo que el yo lírico rastrea en sí
mismo. Y precisamente gracias al uso de la segunda persona, el sujeto cumple un
primer acto de distanciamiento de sí que se completará, como veremos, al utilizar la
tercera persona. Otro elemento en el que hay que fijarse es el diferente efecto que se
obtiene con la repetición anafórica del pronombre personal. Si con la reiteración del
“yo” al principio del verso el resultado que se obtenía era una afirmación-confirma-
ción de lo que se postulaba, el “tú” anafórico no hace otra cosa que acentuar la carga
recriminatoria, el tono de acusación que conlleva su uso. Veamos dos diferentes
pasajes de Extracción de la piedra de locura, donde eso se hace patente: «Yo relato mi
víspera, ¿Y qué puedes tú? Sales de tu guarida y no entiendes. Vuelves a ella y ya no
importa entender o no. Vuelves a salir y no entiendes. No hay por donde respirar y
tú hablas del soplo de los dioses»25. Y más adelante: «Visión enlutada, desgarrada,
de un jardín con estatuas rotas. […] Tú te desgarras. Te lo prevengo y te lo previne.
Tú te desarmas. Te lo digo, te lo dije. Tú te desnudas. Te desposees. Te desunes. Te
lo predije»26. Este fragmento es emblemático de las dos diferentes representaciones
del sujeto a través de los dos pronombres: aquí el “yo” se ubica en una posición de
superioridad en la que, permaneciendo en su actitud lapidaria, juzga a su alter ego,
valiéndose de la aliteración obsesiva construida a través de verbos que sólo expresan
23
Ibíd., p. 77.
24
Tan peculiar que esta es la única ocurrencia registrada a lo largo de todo el corpus.
25
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 251.
26
Ibíd., p. 253.
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negatividad. Ya no hay aceptación ni piedad o conmiseración: el sujeto se construye
no ya en oposición, sino destruyendo lo que le es adverso.
Con el uso del pronombre de tercera persona, el proceso de fragmentación y de
distanciamiento de sí mismo por parte del “yo” alcanza su ápice. En la mayoría de las
ocurrencias del lema “ella”, encontramos unas imágenes que revelan unas proyeccio-
nes ideales del sujeto. Es como si el “yo” se mirara desde fuera y describiese lo que
ve, como si una vez cuestionado y destruído lo que le es adverso, pudiera apartarse
de lo que era y concebir una nueva forma de ser. Ya a partir de los primeros poemas,
hallamos estas características asociadas al uso del lema “ella”, que siempre recurre en
enunciados de tipo descriptivo. Poema para Emily Dickinson27, de La última inocen-
cia, nos ofrece una muestra de lo que acabamos de decir: «Del otro lado de la noche
/ la espera su nombre, / su subrepticio anhelo de vivir / […] Algo llora en el aire, /
los sonidos diseñan el alba. / Ella piensa en la eternidad»28. Como se puede notar, la
actitud del sujeto poético aquí es contemplativa, casi ensoñada y el verso es concen-
trado, vuelve a transmitir las imágenes a través de impresiones fugaces, y eso no sólo
se debe al hecho de que pertenece a una colección temprana. En efecto, casi todos
los fragmentos en que aparece el pronombre de tercera persona resultan marcados
por la concisión, así como ocurría con el de primera persona, y es interesante notar
cómo, en el caso de “ella”, esta característica se mantenga hasta el final, mientras que
en el caso de “yo”, como se ha visto, hay un cambio muy pronunciado en los poemas
más tardíos. Por otra parte, hay que destacar otra afinidad entre los dos lemas, que
en cambio resultaba menos evidente en la construcción del pronombre de segunda
persona, y es la mencionada oposición del sujeto a la realidad que le rodea. La di-
ferencia reside, como ya se ha esbozado, en el mayor grado de distanciamiento de
sí mismo por parte del ser que se registra en el uso del lema “ella”, es decir que el
tono descriptivo que caracteriza el empleo de este pronombre sitúa el sujeto en una
dimensión contemplativa y distante, de ahí que su oposición a los elementos que le
circundan resulte menos traumática.
Veamos un ejemplo más del recurso a este pronombre para llegar a la reitera-
ción que sufre en la parte final del corpus: «Ella canta junto a una niña extraviada
que es ella: su amuleto de la buena suerte. Y a pesar de la niebla verde en los labios y
del frío gris en los ojos, su voz corroe la distancia que se abre entre la sed y la mano
que busca el vaso. Ella canta»29. Estas líneas, que proceden de Cantora nocturna, la
prosa poética que abre Extracción de la piedra de locura, nos indican una vez más
como la representación del sujeto a través del pronombre de tercera persona su-
ponga y asevere un distanciamiento que infunde a los versos un tono más sereno,
a pesar de que las imágenes sean tan negativas como las que aparecían en muchas
27
Emily Dickinson, como otras poetisas o mujeres “malditas”, entre las que hallamos por ejemplo
a Janis Joplin o Silvina Ocampo, se configuran como alter ego de la poeta en varios poemas.
28
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 64.
29
Ibíd., p. 203.
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de las concordancias del lema “yo”. Y eso tiene mucho que ver con el proceso de
despersonalización que sufre el sujeto: aunque se dé aquí la misma construcción
por oposición que se registraba en el análisis de “yo”, el hecho de representarse a tra-
vés de la tercera persona origina un alejamiento y una despreocupación que dejan
reproducir unos valores positivos: ella piensa en la eternidad, ella canta, en vez de
luchar en contra de lo que le es adverso.
Todo eso lo encontramos también en la etapa final de la producción poética pi-
zarnikiana, en particular en el conjunto de poemas Textos de sombra30, donde el yo
lírico se desdobla en el alter ego de la protagonista de estos textos, Sombra:
Ella se abandona en la tregua originada por la noche. Dentro de ella todo
hace el amor. […] Ella se abandona a un pensar desmesurado y al hechizo
por un espacio definido: un lugar que obra como llamamiento. […] Ella
no espera en sí misma. Nada de sí misma. Demasiado ensimismada. […]
Todo ha sido demasiado y ella se irá. Y yo me iré31.
El “yo” del fragmento final, que no podría ser más emblemático, reestablece la co-
nexión entre sujeto poético y alter ego en tercera persona después de una larga su-
cesión de imágenes positivas asociadas al personaje de Sombra. Son aquellas pro-
yecciones ideales a través de las que el sujeto ha logrado salir de sí mismo para
construirse a partir de su propia fragmentación y representarse de manera diferente.
Sin la carga comprometedora que llevaba consigo el pronombre de primera persona,
pueden reaparecer todos los atributos, positivos y negativos, asociados al ser que se
ha ido formando a lo largo del corpus, un ser que, una vez despersonalizado, puede
volver a encarnar el yo que le permitirá dar el paso al que ha aspirado desde el prin-
cipio, tal como se aclarará a continuación.
La fragmentación del sujeto lírico, en efecto, no es representada sólo mediante
el uso de diferentes pronombres personales, sino que se da también a través de des-
plazamientos espaciales que remiten a una oposición entre dos tiempos distintos en
los que se ubica, descentrándose, la voz de la poeta.
Una de las contraposiciones más notables que se registra a nivel de adverbios de
lugar es la que Pizarnik construye a partir del enfrentamiento de un “aquí”, donde
se encuentra el yo lírico sin poder transcenderlo en la realidad, y un “allá” anhelado
y alcanzado en el espacio poético32. Estos adverbios encubrirían, según ha notado
Enid Álvarez, dos fases de la vida que coexisten en el yo lírico, y la segunda fase re-
presentaría aquella muerte que, como se verá más adelante, no sólo es deseada por
30
Se trata de un grupo de textos, fechables entre 1971 y 1972, que han sido publicados póstumos
junto a otros poemas: Textos de sombra y últimos poemas, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1982.
31
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 407, 418, 433.
32
Las ocurrencias del adverbio <aquí / acá> registradas en todo el corpus poético son 24, mientras
que las del adverbio <allí / allá> son 14, es decir poco más de la mitad. Esta relación numérica haría
aventurar que se otorgue más importancia a los primeros que a los segundos. Sin embargo, como se
verá más adelante, siempre adquiere más importancia la dimensión no presente, no circunstancial.
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el sujeto a lo largo de todo el corpus, sino que es un estado ya existente: «el yo se
desdobla y desde una orilla de la vida se observa a sí mismo desplazarse a la otra»33.
Repasemos algunas ocurrencias de estos adverbios para rastrear las connota-
ciones que adquieren respecto a lo dicho hasta aquí. La oposición entre el “aquí” y
el “allá”, la encontramos ya en un poema temprano, Noche, que procede de La tierra
más ajena34, donde se nota una indefinición que se aclarará en las composiciones
posteriores, pues los adverbios adquirirán en ellas unos significados concretos y es-
pecíficos. En esta, la contraposición sólo se da a nivel absoluto: «Correr no sé dónde
/ aquí o allá / singulares recodos desnudos / basta correr!»35. La clave está en aquellos
recodos que podrían constituir un amparo para el yo lírico, pero que en realidad
son desnudos, no ofrecen protección, así que el sujeto se verá obligado a asumir su
condición bipolar, entre un “aquí” y un “allá”, y a dejar de correr.
En Árbol de Diana36, siete años más tarde, vuelve el mismo contraste y con la
misma indefinición: en el poema 21, un fragmento de tan sólo tres versos, se nos
dice: «He nacido tanto / y doblemente sufrido / en la memoria de aquí y de allá»37.
Recordemos que dicha colección es la que consolida el estilo pizarnikiano, de ahí en
adelante los temas serán los mismos y, de hecho, las connotaciones de los adverbios
analizados, a partir de este momento no cambiarán sino que irán precisándose. Es
interesante fijarse en la colocación de dichos adverbios al lado del lema “memoria”,
una palabra nada casual en el universo semántico pizarnikiano, ya que la memoria38
siempre remite a una época pasada, la de la niñez, etapa de una inocencia difícil de
recobrar, y que, en el caso de este poema, sería representada por el “allá” final. Va-
mos adentrándonos en otro binomio típico de toda la producción, no sólo poética,
de Pizarnik, o quizá sería mejor hablar una vez más de trinomio: la mencionada
etapa de la infancia vuelve una y otra vez en contraposición al tiempo presente, pero
también se contrapone a la presencia de la muerte para finalmente fundirse e identi-
ficarse con ella. Es decir que, siendo la muerte un estado anhelado, pues es un estado
de paz y de vuelta a la inocencia perdida, resulta que ésa y la infancia vienen a ser lo
mismo, dos polos que rodean el sujeto en su etapa presente, igualmente deseados e
inalcanzables. De ahí que el “allá” del poema 21 remitiría bien a la infancia de que se
tiene memoria, bien a la muerte que sigue siendo presente al lado del sujeto.
La misma colocación la encontramos en Crepúsculo, un poema que pertenece
a Los trabajos y las noches39, donde encontramos los siguientes versos: «El viento se
33
Enid Álvarez, op. cit., p. 17.
34
Alejandra Pizarnik, La tierra más ajena, Buenos Aires, Botella al Mar, 1955.
35
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 20.
36
Alejandra Pizarnik, Árbol de Diana, Buenos Aires, Sur, 1962.
37
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 123.
38
Carolina Depetris reflexiona sobre los mecanismos de la memoria como forma para construir
la identidad en su Aporética de la muerte: estudio crítico sobre Alejandra Pizarnik, Madrid, Canto-
blanco, UAM Ediciones, 2005, pp. 70-75.
39
Alejandra Pizarnik, Los trabajos y las noches, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1965.
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lleva el último gesto de una hoja / El mar ajeno y doblemente mudo / en el verano
que apiada por sus luces / Un deseo de aquí / Una memoria de allá»40. Otra vez la
memoria se asocia a un “allá”, mientras al presente, al “aquí”, se le yuxtapone algo
concreto, el deseo. He aquí una ecuación bastante esclarecedora de las sinuosas con-
tradicciones del universo pizarnikiano: por un lado un deseo, que es presente, tangi-
ble, y que no aspira a otra cosa sino que a aquel “allá” del que se tiene memoria; por
otro, dicha memoria, igualmente presente, aunque sea precisamente la memoria de
algo que no existe, ya que es el objeto del deseo, algo que no se posee. El “allá” vuelve
entonces a representar un estadio inaccesible, mientras que el “aquí” sigue teniendo
su valor adverso, reduciéndose a puro deseo.
Y justo en el uso del adverbio “aquí”, que siempre supone un “allá” aunque no se
le nombre explícitamente, quiero detenerme para realzar su percepción negativa por
parte del yo lírico. En Lamento, un poema suelto fechable entre 1956 y 1960, leemos
lo siguiente: «poemas / versos / no tienes nada que decir / nada que defender / sueña
sueña que no estás aquí / que ya te has ido / que todo ha terminado»41. Lo primero
que cabe destacar es que el adverbio de lugar en este caso simboliza las dificultades
relacionadas con el escribir, algo que recurre en toda la obra pizarnikiana como una
obsesión por encontrar las palabras exactas con las que manifestar lo que atormenta
el sujeto. El irse a un “allá” no mencionado supone entonces alcanzar aquella etapa
de la existencia presente sólo a nivel de pensamiento pero no en la vida real, para en-
contrar alivio del infierno de esta vida. Y en efecto, aquella huida del horror del “aquí”
se relega a la dimensión del sueño, la única donde se pueda concebir y experimentar.
Veamos más ejemplos de esta connotación del “aquí”, que, aunque acoja en sí ma-
tices diferentes, siempre remite a un mismo significado, simbolizando un lugar que
no es propio del sujeto poético, sino que lo hace versar en una condición en la que no
puede ser lo que querría. En el poema 29 de Árbol de Diana tenemos un íncipit muy
interesante en este sentido: «Aquí vivimos con una mano en la garganta. Que nada
es posible ya lo sabían los que inventaban lluvias y tejían palabras con el tormento de
la ausencia»42. Es significativo que el “aquí”, en este fragmento, se arrime a la imagen
de la garganta, un lema que aparece sólo diez veces en todo el corpus poético y que
sin embargo es de importancia capital en el firmamento semántico pizarnikiano. Tal
como ha señalado Enid Álvarez43, las referencias a la asfixia, como la que acabamos
de citar, abundan en toda la obra de la poeta y se configuran como un tema de raíz
autobiográfica, porque aluden al asma de la que sufría Alejandra en la vida real.
Así que el “aquí” asume en el fragmento un significado que se relaciona una vez
más con un estado psico-físico concreto e indeseado: en el “aquí” se vive sin poder
respirar, en el “aquí” nada es posible, que se trate de escribir o simplemente de vivir.
40
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 204.
41
Ibíd., p. 306.
42
Ibíd., p. 131.
43
Enid Álvarez, op. cit., p. 12.
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La connotación negativa del adverbio de lugar se mantiene a lo largo de todo el
corpus44 hasta llegar a un poema en prosa tardío, otra vez de corte autobiográfico,
donde el lema “aquí” alcanza su valor más concreto, remitiendo a un espacio físico
real, el del hospital psiquiátrico en el que estuvo internada Alejandra en sus últimos
días. Se trata de Sala de psicopatología, procedente del ya citado Textos de sombra,
donde se puede leer lo siguiente:
Como he soñado tanto que ya no soy de este mundo, aquí estoy, entre las
inocentes almas de la sala 18, persuadiéndome día a día de que la sala,
las almas puras y yo tenemos sentido, tenemos destino […] Sí, aquí en
el Pirovano45, hay almas que NO SABEN por qué recibieron la visita de
las desgracias46.
El poema habla por sí solo, el campo semántico del adverbio de lugar se completa
tiñéndose de real y trágico, puesto que el “aquí” ya no es el espacio de la vida cotidia-
na que no permite respirar, sino que se ha convertido en un infierno bien definido:
ya no existe yo lírico ni las proyecciones ficticias que daban lugar a un personaje,
sino que la voz autorial irrumpe en el universo poético en un impulso mucho más
autobiográfico que en el resto del corpus.
Para seguir analizando el desdoblamiento espacial que sufre el sujeto pizarni-
kiano, cabe pasar en revista ciertas ocurrencias de uno de los dos lemas que consti-
tuyen otro binomio muy significativo, el formado por la contraposición entre “des-
de” y “hacia”47. Como pasaba con los adverbios de lugar analizados hasta aquí, lo que
resulta más interesante es notar las connotaciones que adquiere el lema selecciona-
do48, según se combine con imágenes diferentes a lo largo del corpus, para originar
sin embargo un mismo significado.
Empecemos por un poema titulado Desde esta orilla, procedente de Las aventu-
ras perdidas: el título ya resulta emblemático, porque contiene una de las imágenes
44
Reproduciré a continuación algunas concordancias del lema <aquí> registradas con el auxilio
de WordSmith Tools y que son entre las más relevantes para el discurso desarrollado hasta ahora pero
que por razones de espacio no he podido reseñar en detalle: <No hay silencio aquí sino frases que
evitas oír> [Poesía completa, p. 232]; <aun si el poema (aquí, ahora) no tiene sentido, no tiene desti-
no> [Ibíd., p. 223]; <Golpean con soles. Nada se acopla con nada aquí> [Ibíd., p. 268]; <¿Hablan las
imágenes de papel? Solamente hablan las doradas y de ésas no hay ninguna por aquí> [Ibíd., p. 269].
45
Es el nombre del hospital psiquiátrico donde Alejandra escribió este poema.
46
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 411-412.
47
He aquí la relación numérica de los dos lemas: <desde>, 25; <hacia>, 15.
48
Como ocurría con los adverbios de lugar recién considerados, el “desde” siempre implicará un
estado presente, en el que se encuentra y se define el sujeto poético, mientras que el “hacia” siempre
supondrá un “allá” ansiado por dicho sujeto, una suerte de proyección ideal. Por ser los dos lemas
en evidente contraposición, considero suficiente detenerme solamente en uno de los dos, en este
caso el más relevante en términos numéricos, ya que los valores otorgados al otro se pueden intuir
fácilmente por constraste.
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pizarnikianas más interesantes y obsesivas, la de la orilla49: «Desde esta orilla de
nostalgia / todo es ángel. / La música es amiga del viento / amigo de las flores / amigas
de la lluvia / amiga de la muerte»50. Los dos extremos del fragmento nos indican la
connotación que asume “desde”: tanto en su colocación al lado de “orilla” y, sobre
todo, de “nostalgia”, como en la palabra “muerte” situada al final de la cadena anafó-
rica de los versos posteriores, encontramos otra contradicción del mundo lírico de
la poeta. El “desde” remite a un “aquí” que implica nostalgia y que alude a valores
positivos, de serenidad y amistad, que al mismo tiempo se acompañan a la presencia
de aquella muerte que es algo que el sujeto pizarnikiano ansía constantemente. Si
se relaciona el lema “nostalgia” con el lema “muerte” que cierra el verso, se puede
hablar, utilizando un sinónimo, de añoranza de esa muerte, que se encuentra en la
otra orilla, en el “hacia” ideal al que alude el primer verso y que es “amiga” de los
elementos enumerados, se sitúa cerca de ellos y por lo tanto también está cerca del
sujeto. Vamos a anticipar algo que se verá en detalle más adelante para que este dis-
curso quede más claro. La muerte, en todo el corpus poético, es representada por lo
menos en dos formas que se mantienen hasta el final: por un lado es una presencia,
concreta y presente para el sujeto lírico, y por otro siempre se encuentra en otro
lado, en la mencionada otra orilla, como algo deseado e inalcanzable. Volviendo al
verso que se está analizando, la muerte es representada en ambos modos: se encuen-
tra en el lugar desde el que está hablando el yo poético y a la vez está en otra parte,
como hace inferir la colocación de “nostalgia” al lado de “orilla”. Para completar el
cuadro, hay que centrarse precisamente en el lema “orilla”, que remite a un estadio
transitorio y es símbolo por excelencia del desplazamiento. Si se observan las demás
concordancias de “orilla”, hay que fijarse por lo menos en las dos que, por oposición,
nos aclaran el significado que asume el lema en nuestro verso. Me refiero a El sueño
de la muerte o el lugar de los cuerpos poéticos, de Extracción de la piedra de locura:
«Hablo del lugar en que se hacen los cuerpos poéticos […] Y es en ese lugar donde
la muerte está sentada, viste un traje muy antiguo y pulsa un arpa en la orilla del río
lúgubre»51. Y también al poema XVII de Los pequeños cantos, una colección estem-
poránea publicada por Alejandra en la revista venezolana Árbol de fuego en 1971, en
el que se lee: «Instruidnos acerca de la vida / suavemente / imploraban los pequeños
seres / y tendían sus brazos / por amor de la otra orilla»52. La otra orilla, la orilla del
río lúgubre, es evidentemente el lugar apto para la muerte, es decir un sitio, una
49
Estimando que el estudio de palabras funcionales como las que hemos visto hasta ahora pudie-
ra ofrecer datos más variados, no he incluído en esta parte algunas palabras lexicales perteneciente
al mismo campo semántico y que son íconos espaciales del mundo poético pizarnikiano. Entre ellas
quiero señalar por lo menos las que siguen: <bosque> (13 ocurrencias), <casa> (21),<fondo> (13),
<jardín> (39), <mundo> (31), <muro> (17) y la mencionada <orilla> (8), en la que sí me detendré al
hablar de su colocación con <desde>.
50
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 98.
51
Ibíd., pp. 254-255.
52
Ibíd., p. 395.
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dimensión que quiere alcanzar el yo lírico (y sus múltiples alter ego, como vienen a
ser, por ejemplo, los pequeños seres) desde su propia orilla. Es más, si retomamos
nuestro verso inicial a la luz de los que acabamos de repasar, veremos otro matiz
relacionado con el lema “desde”: si por un lado implica y representa un estado de
nostalgia, por otro proyecta todo lo que viene a continuación en la otra orilla, donde
“todo es ángel”, es decir todo es muerte. Una vez más, entonces, el “aquí” expresado
por el “desde” simboliza un estadio de la vida no grato, del que el yo quiere apartarse
cruzando un río que le ha de llevar al otro estadio, concebido a partir de metáforas
positivas y de imágenes reiteradamente oximóricas.
En un poema de 1963 no recogido en libro y titulado En honor de una pérdida,
volvemos a encontrar una imágen perteneciente al campo semántico de la asifixia,
cuando el yo lírico nos dice: «Feroz alegría cuando encuentro una imagen que me
alude. Desde mi respiración desoladora yo digo: que haya lenguaje en donde tiene
que haber silencio»53. Otra vez nos encontramos con un “aquí” donde la respiración,
sinónimo de vida, es desoladora, y donde se hacen patentes las dificultades oca-
sionadas por el escribir, algo, esto último, que hallamos también en un poema sin
título, procedente de Textos de sombra, donde se nos presenta otro elemento funda-
mental de la poética pizarnikiana, la espera, la tensión hacia otro lugar inaccesible,
representado de manera muy parecida a las diferentes imágenes de la muerte vistas
hasta aquí: «Algo en mí me castiga / desde todas mis vidas: / – Te dimos todo lo ne-
cesario para que comprendieras / y preferiste la espera, / como si todo te anunciase el
poema / (aquel que nunca escribirás porque es un jardín inaccesible […])»54.
La aparición del concepto de espera cierra el círculo que se ha trazado a partir
del lema “desde”: en el lugar en el que se encuentra el sujeto, sólo se puede esperar
o soñar con aquella otra etapa de la vida tan codiciada. La otra orilla donde sentaba
la muerte y el jardín inaccesible que es el poema ideal jamás escrito vienen a ser lo
mismo y nos devuelven a un mismo punto de partida, aquella realidad insomne, de
espera constante que constituye una de las dos caras opuestas en las que se desdobla,
o mejor dicho, se desplaza el sujeto poético.
Abordemos entonces, para concluir el discurso, otro aspecto aludido varias ve-
ces a lo largo de este trabajo, el de la frecuente aparición de la muerte55 en la poesía
de Pizarnik, para observar cómo este motivo afecta la imagen del yo lírico que cons-
53
Ibíd., p. 345.
54
Ibíd., p. 431.
55
La muerte es un tema delicado en el universo pizarnikiano, ya que, come es sabido, Alejandra
se suicidó a la edad de 38 años. Casi no existe artículo sobre su obra en que no se puntualice que hay
que aproximarse con mucho cuidado a aquel umbral que media entre su existencia y su poesía. Al
respecto ha surgido todo tipo de polémica, ya que la tentación de leer muchos motivos de su poesía
según una perspectiva autobiográfica es frecuente, siendo este un caso peculiar de incorporación
recíproca de vida y literatura. Sobre esta cuestión, véanse en particular los artículos que registran
el debate surgido en los Ochenta entre dos críticos que además eran amigos de la poetisa: Antonio
Beneyto, «Alejandra Pizarnik ocultándose en el lenguaje», Quimera, 34 (diciembre 1983), pp. 23-27;
Ana Becciu, «Alejandra Pizarnik: un gesto de amor», Quimera, 36 (febrero 1984), p. 7.
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truye la poetisa. La dimensión de la muerte, presente de manera obsesiva56 en todo
el corpus, no sólo poético, de Alejandra Pizarnik, es encarnada por un personaje
femenino con gran capacidad de seducción, tal como le define Enid Álvarez, «que
irrumpe […] en el escenario y dialoga o intenta dialogar con la voz poética, quien
asume un papel activo frente a ésta»57. Como ya se ha anticipado, se trata de un es-
tadio que el sujeto lírico anhela constantemente y se configura entonces como algo
que parece inalcanzable. Son varios los pasajes en los que se registra esta tensión por
parte del yo poético: «La muerte está lejana. / No me mira. / ¡Tanta vida Señor! / ¿Para
qué tanta vida?»58, leemos en el segundo poemario pizarnikiano, y «mi corazón está
loco / porque aúlla a la muerte / y sonríe detrás del viento / a mis delirios»59, en Las
aventuras perdidas, o más adelante, en Adioses del verano: «Quisiera estar muerta y
entrar también yo en un corazón ajeno»60, para citar solamente algunos casos. Pero al
mismo tiempo, este elemento se define en otros pasos como algo presente, tangible,
familiar para el sujeto, que, en La jaula, nos dice: «Sé gritar hasta el alba / cuando la
muerte se posa desnuda en mi sombra»61 y, en Extracción de la piedra de locura, repite:
«Miserable mixtura. Yo restauro, yo reconstruyo, yo ando así rodeada de muerte»62.
Si todo lo dicho resulta avalado por los ejemplos mencionados y por los demás
desdoblamientos presentes en el corpus, hay que considerar otro aspecto para exa-
minar la relación entre el sujeto y la dimensión fúnebre con la que se asocia constan-
temente. Como ya se ha esbozado, una de las etapas fundamentales de la trayectoria
poética de Pizarnik se centra en la asociación de la muerte con la superación y pérdida
de su condición infantil, tanto que, según Tamara Kamenszain, «la precocidad de su
vocación literaria consistió en desplegar el poema como un relato post-mortem»63.
Esta interpretación me parece la más acertada para describir la relación entre muer-
te y sujeto lírico en todo el corpus, o al menos a partir de un determinado momento
del discurso poético. Si en los primeros poemas prevalece la dimensión del deseo y
de la tensión hacia una muerte inaccesible, según avanzamos en el corpus nos damos
cuenta de que las ocurrencias del lema “muerte” se asocian cada vez más a imágenes
y sintagmas que la sitúan al lado del sujeto. Es decir que el sujeto se expresa desde
una condición de difunto, o, dicho de otra forma, encarna la muerte en sí mismo.
56
Para tener una idea de la frecuencia de este elemento en la obra pizarnikiana, baste saber que el
lema <muerte> es la tercera palabra lexical más frecuente (92 ocurrencias) en todo el corpus poético
aquí analizado, precedida sólo por <silencio> (101) y <noche> (185), dos lemas que por otro lado
pueden considerarse parte del mismo campo semántico.
57
Enid Álvarez, op. cit., p. 14.
58
«Noche», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 57.
59
«El despertar», en ibíd., p. 92.
60
En Extracción de la piedra de locura, en ibíd., p. 236.
61
Ibíd., p. 73.
62
Ibíd., p. 247.
63
Tamara Kamenszain, «La niña extraviada en Pizarnik», Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), pp.
11-12.
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Veamos unos cuantos ejemplos de esta representación: en Silencios, pertene-
ciente a Los trabajos y las noches, encontramos una ecuación que nos enseña precisa-
mente la personificación de la muerte por parte del yo: «La muerte siempre al lado.
/ Escucho su decir. / Sólo me oigo»64; en un poema posterior, la muerte es percibida
como madre: «Abrazada a la tierra. Tierra o madre o muerte, no me abandones aun
si yo me he abandonado»65; y aún, en La mesa verde, de Textos de sombra, aparece
aquella muerte de la niña a la que se ha aludido66, y esto sirve a la poeta para esta-
blecer un enlace entre muerte y vida, que vienen a (con)fundirse: «Me rememoro al
sol de la infancia, infusa de muerte, de vida hermosa»67. Ahora bien, si es verdad que
el sujeto asimila la muerte acogiéndola en sí mismo y volviéndose cadáver, eso hace
suponer que su propia representación será afectada por este hecho. En este sentido,
es útil detenerse en la representación del cuerpo68, analizando en particular el cam-
po léxico corporal en su relación con el de la muerte.
Lo primero en que quiero centrarme es precisamente la ocurrencia de ciertos
lemas que pertenecen al universo somático y que se asocian constantemente, como
veremos, a la construcción del yo poético como cadáver. Empecemos por el mismo
lema “cuerpo” que, en dos ocasiones, nos ofrece una buena muestra de lo que hemos
venido diciendo: «Mi cuerpo se pobló de muertos / y mi lengua de palabras crispa-
das, / ruinas de un canto olvidado»69, se nos dice en un poema sin título, no recogido
en libro y fechable entre 1956 y 1960. El campo léxico de los tres versos remite evi-
dentemente a una dimensión mortuoria, que no afecta solamente el cuerpo citado
de forma explícita sino que atañe también a lo que sale de ese cuerpo, es decir las
palabras, que son crispadas y son ruinas. Y en Amantes, de Los trabajos y las noches,
leemos lo siguiente: «no lejos de la noche / mi cuerpo mudo / se abre / a la delicada
urgencia del rocío»70. Aquí el cuerpo cobra un valor vital, ya que se abre para recibir
estímulos externos, sin embargo, su colocación al lado del adjetivo “mudo” lo vuelve
inerte. Además, no deja de ser emblemático el utilizo de un adjetivo perteneciente
al campo léxico del silencio, es decir en oposición a la posibilidad de la palabra, tal
como ocurría en los versos citados anteriormente. Esto se debe al hecho de que en
toda la poesía de Pizarnik siempre hay una relación muy estrecha entre el decir, o
mejor dicho, el escribir, y el cuerpo, que lucha para que de él pueda salir la palabra
esencial y exacta. Véanse, a este repecto, las siguientes líneas, sacadas de un poema
64
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 188.
65
«Escrito en “Abahuac” (Talitas)», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 442.
66
Sobre este motivo, véase también Delfina Muschietti, «Alejandra Pizarnik: la niña asesinada»,
La voz del otro. Homenaje a Enrique Pezzoni, Filología, 1-2 (1989), pp. 231-241.
67
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 449.
68
Sobre las representaciones del cuerpo en la poesía de Alejandra Pizarnik, véase ante todo el
estudio de David W. Foster, «The representation of the Body in the Poetry of Alejandra Pizarnik»,
Hispanic Review, 62, 3 (Summer 1994), pp. 319-347.
69
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 316.
70
Ibíd., p. 159.
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en prosa titulado emblemáticamente El deseo de la palabra: «Ojalá pudiera vivir so-
lamente en éxtasis, haciendo el cuerpo del poema con mi cuerpo, rescatando cada
frase con mis días y mis semanas»71. El “ojalá” inicial nos aclara esta imposibilidad
de la palabra a partir del cuerpo, que de hecho es mudo y origina palabras muertas72,
además de aspirar él mismo a morir, como podemos leer en el ya citado En honor
de una pérdida: «El dorado día no es para mí. Penumbra del cuerpo fascinado por
su deseo de morir»73. Asimismo, la línea inicial de El deseo de la palabra nos habla
de un éxtasis negado, que es el éxtasis del cuerpo, el goce que se torna imposible,
precisamente por la condición mortífera del sujeto.
Sigamos repasando más ocurrencias corporales relacionadas con la dimensión
de la muerte. Otra vez encontramos la mudez asociada al cuerpo, en un poema
amoroso de Los trabajos y las noches en el que el sujeto lírico se describe de esta
forma: «Recibe este rostro mío, mudo, mendigo. / Recibe este amor que te pido. / Re-
cibe lo que hay en mí que eres tú»74. También abundan en todo el corpus referencias
explícitas a partes del cuerpo sin vida, que nos confirman una vez más la condición
de difunto, de cadáver, del sujeto lírico, como en el siguiente ejemplo: «Adentro
de su canción hay un vestido azul, hay un caballo blanco, hay un corazón verde
tatuado con los ecos de los latidos de su corazón muerto»75. Es significativo que sea
precisamente el corazón, fuente de vida por antonomasia, el lema al que se asocia el
adjetivo “muerto”, y aún más si lo comparamos con el “corazón verde” que le precede
en las líneas citadas, ya que este color76, en todo el corpus poético, siempre remite a
dimensiones sombrías y fúnebres. Otro ejemplo de esta asociación lo encontramos
en el ya citado Desde esta orilla: «Aun cuando el amado / brille en mi sangre / como
una estrella colérica, / me levanto de mi cadáver / y cuidando de no hollar mi sonri-
sa muerta / voy al encuentro del sol»77. Aquí no sólo nos encontramos frente a una
sonrisa muerta, otro oxímoron que bien ejemplifica la representación del sujeto de
la que hemos hablado hasta ahora, sino que vemos dicho sujeto salir de su condi-
ción de difunto e ir hacia una dimensión que nos parece luminosa, positiva, siendo
encarnada por el sol del verso final. Sin embargo, como hemos visto al analizar la
preposición “desde”, el lugar adonde se dirige el yo lírico es aquella otra orilla en la
71
En El Infierno musical, en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, pp. 269-270.
72
Sobre las palabras y los textos como cadáveres de la representación reflexiona María Negroni
en un ensayo dedicado a la prosa tardía de Pizarnik: El testigo lúcido: la obra de sombra de Alejandra
Pizarnik, Rosario, Beatriz Viterbo, 2003.
73
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 345.
74
«En tu aniversario», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 157.
75
«Cantora nocturna», de Extracción de la piedra de locura, en Alejandra Pizarnik, Poesía com-
pleta, p. 213.
76
Sobre la simbología de los colores en la obra pizarnikiana véanse el citado estudio de Enid
Álvarez y el de María Negroni, «Alejandra Pizarnik: melancolía y cadáver textual», Inti. Revista de
Literatura Hispánica, 52-53 (verano 2001), pp. 169-178.
77
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 98.
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que se encuentra, de nuevo, la muerte. A través de este tránsito de una condición
mortuoria a otra, queda aún más clara la construcción de un sujeto que se concibe
dentro de un universo fúnebre, del que participa la vida misma.
Todo lo postulado hasta aquí se nos hace más patente si lo situamos dentro de
un esquema, trazado por Enid Álvarez, que lee la representación del cuerpo precisa-
mente como un tránsito desde una condición inicial de sacrificio hasta la descorpo-
rización propiamente dicha. Según la estudiosa, el cuerpo pizarnikiano «sufre por
los castigos que le infligen los otros o por la propia compulsión autopunitiva»78 y, por
eso, se sacrifica. Son varias las alusiones al sacrificio a lo largo del corpus, un sacrifi-
cio en que el cuerpo se ofrece para que hagan de él lo que quieren. «Todos los gestos
de mi cuerpo y de mi voz para hacer de mí la ofrenda, ramo que abandona el viento
en el umbral»79, leemos por ejemplo en Caminos del espejo, de Extracción de la piedra
de locura, y «he sido toda ofrenda / un puro errar / de loba en el bosque / en la noche
de los cuerpos»80, en Los trabajos y las noche, del poemario homónimo. Ahora bien,
este cuerpo que es don para el sacrificio, según Álvarez, se descorporiza, se presenta
como cuerpo puro, asexuado y sin señas de identidad, lo cual nos remite al proceso
de desdoblamiento y despersonalización trazado. Pero sobre todo nos remite a ese
éxtasis negado al que se ha aludido a propósito de El deseo de la palabra y que nos de-
vuelve un cuerpo muy pocas veces erotizado, deseante, siendo, en la mayoría de los
casos, inerte, el cuerpo de un cadáver. De hecho, otra ocurrencia interesante del lema
“éxtasis” nos confirma lo que acabamos de decir: «La vía del éxtasis entre las piernas.
[…] Las verdaderas fiestas tienen lugar en el cuerpo y en los sueños»81. Compárese
este fragmento con el que viene a continuación, sacado de Los pequeños cantos: «los
deterioros de las palabras / deshabitando el palacio del lenguaje / el conocimiento
entre las piernas / ¿qué hiciste del don del sexo?»82. En los tres ejemplos menciona-
dos, el momento del placer se ubica en el cuerpo de manera fugaz, y, según Álvarez,
es desplazado rápidamente al poema, ya que los verdaderos espacios de la satisfac-
ción están en la imaginación. El éxtasis se consigue entonces a través de la sublima-
ción, que remite una vez más al tránsito de una condición presente a otra inmaterial.
Porque, al mismo tiempo, como se ha visto, lo que se configura y es anhelado
como el espacio del placer —es decir de la vida con sus estímulos corporales, físi-
cos— es paradójicamente la muerte tan ansiada, que es también «sublimada en el
sueño y en la poesía» y que sobre todo se convierte en «productividad textual»83
dentro del mismo texto. El poema, por lo tanto, puede nacer sólo dentro de ese en-
torno fúnebre, donde el sujeto, a través de su propia descorporización, así como de
78
Enid Álvarez, op. cit., p. 12.
79
Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 241.
80
Ibíd., p. 171.
81
«Extracción de la piedra de locura», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 253.
82
«En esta noche en este mundo», en Alejandra Pizarnik, Poesía completa, p. 399.
83
Enid Álvarez, op. cit., p. 14.
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la fragmentación y la encarnación de la muerte analizadas en el trabajo, se construye
y representa siempre en el umbral entre dos estados, naciendo y muriendo a la vez
dentro del espacio poético: «Yo, asistiendo a mi nacimiento. Yo, a mi muerte»84.
R E F ERENCIAS BIBLIO GR ÁFICAS
Fuentes primarias citadas
Pizarnik, Alejandra, Diarios, ed. de Ana Becciu, Barcelona, Lumen, 2003.
—, Prosa completa, ed. de Ana Becciu, Barcelona, Lumen, 2002.
—, Poesía completa, ed. de Ana Becciu, Barcelona, Lumen, 2000.
—, Textos de sombra y últimos poemas, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1982.
—, El infierno musical, Buenos Aires, Siglo XXI, 1971.
—, Extracción de la piedra de locura, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1968.
—, Los trabajos y las noches, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1965.
—, Árbol de Diana, Buenos Aires, Sur, 1962.
—, Las aventuras perdidas, Buenos Aires, Altamar, 1958.
—, La última inocencia, Buenos Aires, Ediciones Poesía Buenos Aires, 1956.
—, La tierra más ajena, Buenos Aires, Botella al mar, 1955.
Fuentes secundarias citadas
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Álvarez, Enid, «A medida que la noche avanza», Debate feminista, 15 (abril 1997), pp. 3-34.
Becciu, Ana, «Alejandra Pizarnik: un gesto de amor», Quimera, 36 (febrero 1984), p. 7.
Beneyto, Antonio, «Alejandra Pizarnik ocultándose en el lenguaje», Quimera, 34 (diciembre
1983), pp. 23-27.
Depetris, Carolina, Aporética de la muerte: estudio crítico sobre Alejandra Pizarnik, Madrid,
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Foster, David William, «The representation of the Body in the Poetry of Alejandra Pizarnik»,
Hispanic Review, 62, 3 (Summer 1994), pp. 319-347.
Genovese, Alicia, «La viajera en el desierto», Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), pp. 10-11.
Kamenszain, Tamara, «La niña extraviada en Pizarnik, Feminaria literaria, 16 (mayo 1996), pp.
11-12.
Muschietti, Delfina, «Alejandra Pizarnik: la niña asesinada», La voz del otro. Homenaje a Enrique
Pezzoni, Filología, 1-2 (1989), pp. 231-241.
84
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"Description": "Lo studio prende le mosse dalla contemporanea apparizione di due traduzioni della Divina Commedia nella Penisola Iberica: la prima in prosa castigliana, per opera di Enrique de Villena, nel 1428, la seconda in endecasillabi catalani, firmata da Andreu Febrer nel 1429. Dopo aver analizzato la genesi delle due versioni, sono stati messi in evidenza i metodi impiegati dai due traduttori, che risultano strettamente dipendenti dal diverso obiettivo che si erano prefissati: Febrer pare intenzionato a creare un’opera letteraria in qualche modo autonoma, mentre lo scopo della traduzione spagnola sembra essere stato quello di fornire un testo a fronte per facilitare la lettura dell’originale con un \"supporto\". Il confronto delle soluzioni via via adottate permette di far emergere i possibili contatti tra Villena e Febrer durante l’elaborazione delle loro opere, ipotizzabile a partire dalla comune formazione giovanile nell’ambito della corte catalana. Data la vastità delle opere, lo studio è stato condotto prendendo come punto di riferimento il canto III dell’Inferno e, più in generale, la prima cantica. Alla luce di quanto analizzato, sembra plausibile ipotizzare che la versione castigliana poté servire in qualche caso a Febrer e non viceversa.\r\n\r\nThe first translations into a vernacular language of Dante’s Divina Commedia were carried out in 1428 and 1429: the first, in Castilian prose, signed by Enrique de Villena; the second in Catalan verse, that is, hendecasyllabic tercets as in the original text, by Andreu Febrer. My aim in this study is to outline a short depiction of the cultural moment where they both dwelled in order to understand the relationship between their versions, so as to subsequently undertake an approach to both texts to assess the modus operandi they followed. Finally, I try to substantiate the hypothesis of a possible contact between both writers while each of them was at work on his translation. As far as Febrer is concerned, his aim seems to have been to create a somehow autonomous literary work, while the purpose of the Spanish translation appears to have been to present a parallel text as a support for an easier reading of the original one. Since their aims are not the same, it follows that the outcome of their work cannot be compared from the stylistic point of view. Nevertheless, if we do compare them, we may understand more clearly the creative stance of both authors and, lastly, identify out the possible contacts between Villena and Febrer while they were at work on their versions. At the end of a first appraisal of the texts under examination it is possible to assume that, even if the Catalan poet knew Italian better, his translation was probably of no use to Villena precisely because of the excessive liberties the former took with the text and also due to his reiterated resorting to Italianisms and Occitanisms. On the contrary, the text in Spanish, precisely due to its different purpose, is far more likely to have been of some use to Febrer’s work. My impression, supported by a few examples, is that Febrer somehow managed to read his colleague’s work and that he in some instances drew on it. Given the extent of their work, to carry out my study I have decided to take the Third Canto of the Inferno, and especially the first stanza, as my point of reference.",
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
A B
NNA ENVENUTI
Università degli Studi di Milano
[email protected]
Nel 1428 e nel 1429 furono portate a termine le prime traduzioni in lingua volga-
re della Divina Commedia: in castigliano e in prosa, almeno in apparenza, la prima,
firmata da Enrique de Villena; in catalano e in versi, terzine di endecasillabi come
nell’originale, la seconda, ad opera di Andreu Febrer. Cercherò di tracciare un breve
quadro del momento culturale in cui si collocano per capire la concomitanza delle
due versioni e in seguito proverò un’approssimazione ai due testi per valutare i di-
versi modus operandi; infine, tenterò di sottoporre a prova l’ipotesi di un possibile
contatto tra i due scrittori durante l’elaborazione delle rispettive traduzioni. A tal
fine, data la vastità delle opere, mi è parso necessario operare una scelta e ho indivi-
duato come punto di partenza per l’analisi il canto III dell’Inferno, frammento assai
noto, ovvero, la soglia della città dolente1, e, più in generale, la prima cantica.
1
La traduzione di Febrer si trova conservata in un unico manoscritto, nella Biblioteca dell’Escorial
(II L 18). Oggi si può leggere facilmente grazie all’edizione completa realizzata da Anna Maria Gallina,
pubblicata qualche anno fa dall’editorial Barcino (Dante Alighieri, Divina Comèdia, versió catalana
d’Andreu Febrer, a cura di Anna Maria Gallina, 6 voll, Barcelona, Editorial Barcino, 1989); il testo di
Villena, invece, si trova manoscritto nella Biblioteca Nacional di Madrid (MS 10186). Pascual ha por-
tato a termine l’edizione critica dell’Inferno, dotandola anche di un corposo studio introduttivo (José
Antonio Pascual, La traducción de la «Divina Comedia» atribuida a D. Enrique de Aragón, estudio
y edición del Infierno, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1974), ma l’intera versione si può con-
sultare anche nelle Opere complete di Villena dell’edizione della Turner (Enrique de Villena, Obras
completas, ed. de Pedro Cátedra, Madrid, Turner, 1994). Il manoscritto, non autografo, fu scoperto e
studiato da Mario Schiff («La première traduction espagnole de la «Divine Comédie», in Homenaje
Anna Benvenuti
Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
232
Com’è risaputo, i primi decenni del ‘400 in Spagna rientrano generalmente sotto
le ampie etichette di Humanismo o Prerrenacimiento2. Si tratta di un periodo in cui
avviene un mutamento di influenze, dal momento che la letteratura italiana scalza
quella francese, divenendo modello e autorità riconosciuta, grazie anche alla già
collaudata relazione della Corona d’Aragona con le terre italiane, che aveva favori-
to una precoce introduzione delle istanze culturali del Bel Paese. Esiste un divario
culturale, o se vogliamo, di mentalità, tra la Catalogna e la Castiglia, proprio per
l’apertura della prima alle novità europee e alla mobilità dei suoi uomini, per motivi
economici, politici o militari. Andreu Febrer viaggiò lungo l’arco della sua intera
esistenza, come diplomatico al servizio di tre successivi sovrani aragonesi, e vis-
se lungamente anche in Italia, dove appunto intraprese la traduzione della Divina
Commedia3; Enrique de Aragón, invece, si presenta come un personaggio molto più
complesso, in virtù del suo essere in qualche modo un uomo di transizione, a metà
tra la mentalità proto-umanistica degli intellettuali catalani – era catalano lui stesso,
dal lato paterno – e il radicamento nelle tradizioni castigliane che aveva assorbito
dalla famiglia materna. Pedro Cátedra nel suo saggio Enrique de Villena y algunos
humanistas4, sottolinea, infatti, il suo ruolo di tramite culturale tra il regno d’Ara-
a Menéndez y Pelayo. Estudios de erudición española con un prólogo de Juan Valera, Madrid, Libreria
general de Victoriano Suarez, 1899, pp. 269-307).
2
Si veda, ad esempio, tra gli altri, Concepción Salinas Espinosa, «Dos obras del siglo XV: Hu-
manismo versus retraso cultural», in José M. Maestre - Joaquín Pascual Barea (ed.), Humanismo y
Pervivencia del mundo clásico, I.2, Actas del I Simposio sobre humanismo y pervivencia del mundo
clásico (Alcañiz, 8-11 de mayo de 1990), Instituto de Estudios Turolenses (CSIC) - Servicio de Publi-
caciones de la Universidad de Cádiz, 1993, pp. 899-1002. Si vedano, inoltre, i lavori di alcuni studiosi,
tra cui Jeremy Lawrance e Peter Russell, che denominano «Humanismo vernáculo» il periodo in cui
si procede alla «translation and adaptation of classical works for the entertainment and instruction
of noble and unprofessional readers» (Jeremy Lawrance, «Humanism in the Iberian Peninsula», in
A. Goodman – A. Mackay, The Impact of Humanism on Western Europe, London, Longman, 1990, p.
222).
3
La biografia di Febrer è stata ricostruita con precisione da Martí de Riquer (Martí de Riquer,
«Andreu Febrer, castellano di Catania, primo traduttore della Commedia in catalano, in Dante e la
Magna Curia. Atti del Convegno di Studi Palermo, Catania, Messina, 7-11 novembre 1965, Palermo,
Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1966, pp. 2-11). Nato a Vic, tra il 1375 e il 1380, dal
1418 fu al servizio di Alfonso V il Magnanimo, che lo nominò governatore del castello Ursino di
Catania, come ricompensa dei servizi resi ai suoi predecessori. Nel 1419 il poeta figura nei docu-
menti come algutzir e cavallerís di re Alfonso, nel regno di Sicilia, col relativo ufficio di esecutore di
giustizia. Con questo titolo compare nei prologhi alle cantiche e nell’explicit del manoscritto della
traduzione della Commedia. Nel 1420 prese parte ad un’altra campagna militare, una spedizione in
Sardegna e Corsica per reprimere una sollevazione. Insieme con lui troviamo impegnati anche alcuni
tra i più illustri poeti catalani del tempo, come Jordi de Sant Jordi e Ausiàs March. Nel 1426 gli fu tolta
la castellania di Catania, ma in compenso fu istituita a suo favore una rendita annuale di 40 once d’oro
sul porto di Trapani. Morì tra il 1440 e il 1444.
4
Pedro Cátedra, «Enrique de Villena y algunos humanistas», in Academia literaria renacentista.
III. Nebrija, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1983.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 231-242. issn: 2240-5437.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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gona e la Castiglia5. Le sue disavventure lo portarono ad alternare la sua dimora
tra la Catalogna e le terre castigliane: dopo un periodo, in gioventù, che potremmo
chiamare “di formazione” trascorso presso la corte catalana, Villena pensò di fare il
proprio interesse trasferendosi in Castiglia e, dopo gli esordi in catalano, si dedicò
alla scrittura esclusivamente in castigliano. Il periodo speso in Catalogna, tuttavia,
gli fece respirare lo stesso clima di entusiasmo culturale di Febrer6, dal momento che
ebbero la possibilità di vivere nel culmine del cosiddetto “Umanesimo catalano”7.
Grazie all’interesse di alcuni sovrani che potremmo chiamare “illuminati”, come
Joan I e, soprattutto, Alfonso il Magnanimo, si assiste nella corte catalana (non solo
a Barcellona o Valencia, ma anche in Sicilia e più tardi, a Napoli) ad un fermento
culturale senza precedenti che dà i suoi frutti concreti, oltre che in alcune opere
originali, soprattutto nel campo delle traduzioni, che rappresentarono un ingente
sforzo di assimilazione del sapere circolante in Europa e di recupero della tradizione
classica8. I sovrani promuovevano la creazione artistica e la circolazione del sapere
ed è in questo ambiente che si forgiano personalità come quella di Bernat Metge o
degli stessi due autori di cui ci stiamo occupando. In un primo momento si privile-
giarono i volgarizzamenti di testi classici, ma progressivamente si aggiunsero versio-
ni di opere redatte nelle diverse lingue volgari. Anche in questo caso l’origine della
tendenza va ricercata in Italia, e lì, infatti, nascono altresì le prime approssimazioni
teoriche «moderne», come il De interpretatione recta redatta dal Bruni, per giustifi-
care la sua versione dell’Etica Nicomachea.
Enrique de Villena non si sottrasse alla «moda» delle traduzioni latine, cimen-
tandosi dapprima con una Retorica ad Herennium, per poi accettare la sfida di vol-
gere l’Eneide al castigliano, incitato da Don Juan II di Navarra, fratello del futuro
5
Pedro Cátedra, «Sobre la obra catalana de Enrique de Villena», in Homenaje a Eugenio Asencio,
Madrid, Gredos, 1988, pp. 127-140.
6
«La personalidad intelectual de don Enrique se diferencia radicalmente de la de los escritores
castellanos, sus contemporáneos, y sólo se puede calibrar y comprender plenamente desde el medio
cultural y cientifico de la corte catalana» (Elena Gascón Vera, «Enrique de Villena: ¿Castellano o
catalán?», in Vilanova, Antonio (ed.), Actas del X Congreso de la Asociación Internacional de Hispa-
nistas, Barcelona, 21-26 de agosto de 1989, Barcelona, PPU, 1992, pp. 195-206, p. 196).
7
Si veda Lola Badia, «L’humanisme català: formació i crisi d’un concepte historiogràfic», in Ac-
tes del V Col·loqui Internacional de la Llengua i Literatura Catalanes, Andorra, 1-6 d’octubre de 1979,
Montserrat, PAM, 1980, pp. 41-70; Martí de Riquer, L’humanisme català, Barcelona, Barcino, 1934;
Rico, Francisco, Petrarca y el humansimo catalán, in Actes del sisè col·loqui internacional de Llengua i
Literatura Catalanes, Roma 28 setembre-2 octubre 1982, Montserrat, PAM, 1983.
8
Esiste una vastissima bibliografia su tale argomento. In particolare si veda Peter Russell, Traduc-
ciones y traductores en la Península Iberica, 1400-1550, Bellaterra, Universidad Autónoma de Barce-
lona, 1985; José Francisco Ruiz Casanova, Aproximación a una historia de la traducción en España,
Madrid, Cátedra, 2000; Margherita Morreale, «Apuntes para la historia de la traducción en la Edad
Media», Revista de Literatura, XV, 29-30 (enero-junio 1959), pp. 3-10; Roxana Recio, La traducción
en España ss. XIV-XVI, León, Universidad de León, 1995,; Guillermo Serés, La traducción en Italia y
España durante el siglo XV. La «Iliada en romance» y su contexto cultural, Salamanca, Universidad de
Salamanca, 1997.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Alfonso il Magnanimo. È da sottolineare la sicurezza che ostenta, esplicitata in più
punti, sulle sue capacità di traduttore, andando decisamente controcorrente rispetto
alle dichiarazioni della maggior parte dei suoi colleghi contemporanei, che si la-
mentano dell’incapacità delle lingue volgari di rendere la complessità e la bellezza
dell’originale latino. Sul versante delle lingue romanze, lo stesso Villena aveva già
compiuto un esperimento particolare, traducendo un suo scritto catalano, Els dotze
treballs d’Hercules, in castigliano, nel 14179.
Il fenomeno delle traduzioni interessò ben presto gli autori che provenivano
dall’Italia, in primo luogo Petrarca, poi Boccaccio e, infine, Dante. La Divina Com-
media iniziò a circolare agli inizi del Quattrocento, soprattutto tra notai e cancellieri
e ben presto godette di straordinaria fortuna, a giudicare dalle molteplici citazio-
ni presenti nelle opere catalane del periodo10, prima fra tutte Lo Somni di Bernat
Metge. Poco tempo dopo la conoscenza del capolavoro dantesco si estese anche in
Castiglia dove, nell’arco di un secolo compaiono ben tre traduzioni, benché solo
quella di Villena sia completa11, e numerose testimonianze e citazioni anche nei testi
castigliani.
I due traduttori, dunque, condividevano una mentalità di “proto-humanistas”,
che si basava su un comune patrimonio culturale condiviso nell’ambiente della corte
catalana. Le fonti del loro sapere, fondamentali per sorreggere la faticosa operazione
che decisero di intraprendere, erano le stesse e possono essere individuate per lo più
nei grandi nomi della letteratura catalana medievale, da Ramon Llull, a Francesc
Eiximenis a Bernat Metge.
Naturalmente un confronto puntuale tra le due versioni si presenta come un
lavoro ampio e, al momento, non ancora concluso. L’aspetto relativo al comune pa-
trimonio culturale, tuttavia, risulta uno dei più interessanti, poiché la letteratura ca-
talana precedente si presenta in più di una occasione come sostegno alla compren-
9
Si veda Enrique de Villena, Los doze trabajos de Hércules, ed. Margherita Morreale, Madrid, Real
Academia Española, 1958.
10
Testimoniano la diffusione della Divina Commedia nel XV secolo alcuni autori come l’umanista
Ferran Valentí, discepolo di Leonardo Bruni, che cita Dante e la sua opera nel prologo della sua tra-
duzione dei Paradoxa ciceroniani, o lo stesso Ausiàs March. Riferimenti a Dante compaiono anche
nel Curial e Guelfa e nel Tirant lo Blanch di Martorell, nello Spill di Jacme Roig e in altre operette
minori moralistiche, come le Sentencias Catholicas del diví poeta Dant florentí di Jaume Ferrer de
Blanes. Esistono anche commenti e glosse del poema in catalano, come il Tractat de les penes par-
ticulars d’infern del frate francescano Joan Pasqual del 1436, tratto in parte dal commento di Pietro
Alighieri. Il culmine del «dantismo» catalano sembra segnato da un componimento di Bernat Hug
de Rocabertí, scritto intorno al 1467, La gloria d’amor, che riproduce la terzina dantesca ed imita il
contenuto della Commedia (H. C. Heaton, The Gloria d’Amor of Fra Rocabertí, New York, Columbia
University Press, 1916, pp. 49-98).
11
Pubblicata a Burgos nel 1515, abbiamo La Traducción del Dante de lengua toscana en verso cas-
tellano, che comprende l’Inferno, opera di Pedro Fernández de Villegas, nativo di Burgos (1453-1536).
Ne esiste una seconda edizione, del 1868, il cui prologo è di Hartzenbusch. Il metro impiegato è la
copla de arte mayor, con le stesse rime del Laberinto de Fortuna (ABBA, ACCA); abbiamo, inoltre, una
versione anonima del Purgatorio, in quintillas, praticamente sconosciuta.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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sione del testo o come fonte per la resa della traduzione. Spicca, tra tutti, il magistero
di Raimon Llull, che oltre ad offrire una vasta bibliografia, fornisce anche un sup-
porto teorico per la giustificazione del plurilinguismo, così tipicamente dantesco12.
Tornando, però, alla rapida presentazione generale delle due opere, si è già det-
to che la versione di Villena è in prosa e quella di Febrer in versi. Tale distinzione
rimanda immediatamente alle intenzioni dei due traduttori: benché il risultato sia
assai diverso, è probabile che entrambe le versioni siano state il frutto di una com-
missione esterna, “dall’alto”13; ma, mentre nel caso di Febrer, pare che l’obiettivo sia
stato quello di creare un’opera letteraria in qualche modo autonoma, scopo della
traduzione spagnola sembra essere stato quello di fornire un testo a fronte per facili-
tare la lettura dell’originale con un “supporto”. Corrobora l’ipotesi il fatto che il testo
a noi pervenuto sia scritto letteralmente a margine delle pagine di un volume con
l’opera dantesca originale, e la segua verso per verso14. Inoltre, spesso l’impressione è
che il lavoro di Villena a noi pervenuto sia una prima stesura, che ancora necessitava
di una revisione, poiché spesso il copista inserisce più varianti per un vocabolo.
Da un lato Febrer si impone di tradurre la Divina Commedia in modo totale,
rispettando la versificazione originale e il sistema rimico, dall’altro, Villena traduce
per permettere la comprensione del testo italiano, come se, mutatis mutandis, met-
tesse i sottotitoli15.
Data la disparità di intenti, è evidente che si può parlare di cosciente scelta di
metodo soprattutto per Febrer, che di fatto accetta il più collaudato – e medievale –
metodo verbum verbo, benché talvolta si lasci prendere la mano – per nostra fortuna
– da ventate di modernità e provi a elaborare una traduzione che privilegia il senso
e non stravolge la lingua d’arrivo.
Una conseguenza immediata di ciò che si è appena detto è che mentre nella
versione catalana abbondano gli italianismi, utili per mantenere una fedeltà assoluta
12
Conoscitore di numerose lingue, tra cui arabo, latino, catalano, italiano e castigliano, Llull teo-
rizza la necessità di rendere la sua lingua capace di esprimere i concetti più alti della teologia, utili ai
fini della sua opera missionaria: giustifica, pertanto, l’inclusione di barbarismi, calchi, neologismi che
possano dare maggiore vigore e capacità espressiva all’idioma.
13
Nel caso di Villena, è lo stesso autore a spiegarci che la traduzione è stata portata a termine
contemporaneamente al ben più faticoso lavoro riguardante l’Eneide: «[…] durante este tiempo fizo
la transladaçion de la Comedia de Dante –a preçes de Ynigo López de Mendoça– e [la] Retórica de
Tulio Nueva, para algunos que en vulgar la querién aprender […] tomando esto por solaz, en com-
paraçión del trabajo que en la Eneyda pasava […]» (cito da Enrique Villena, Obras completas, Glossa
116, p. 59).
14
Il testo di Villena si presenta, come detto, a margine di quello dantesco e, graficamente, va a
capo ad ogni verso, ma non ha una struttura metrica.
15
Che la traduzione non abbia intenzione letteraria e che non sia considerata dal suo autore opera
rilevante lo deduciamo dalle parole stesse di Villena già citate, che ne parla come di un “divertisse-
ment” mentre lavorava alla assai più impegnativa traduzione dell’Eneide. Possiamo, però, arguirlo
anche dall’evidente disparità che c’è tra la citata versione del poema virgiliano e quella che qui esa-
miniamo: la prima è condotta secondo i dettami dell’esegesi medievale, la seconda privilegia una
traduzione letterale, che talvolta non tiene conto del senso complessivo delle frasi.
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Anna Benvenuti
Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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al modello e facilitati dalla somiglianza tra le due lingue, la versione castigliana li
rifugge, proprio perché lo scopo è rendere comprensibile il testo a chi l’italiano non
lo sa o lo conosce poco. Lo stesso non si può dire dei latinismi, però, che entrambi
mostrano di amare, dal momento che, com’è risaputo, danno prestigio alla lingua.
Ho già specificato che le intenzioni dei due traduttori non sono uguali e di con-
seguenza i due testi non possono essere paragonati dal punto di vista della riuscita
stilistica. Il confronto delle due traduzioni, tuttavia, ci consente di capire più chiara-
mente l’iter creativo dei due autori e, infine, permette di far emergere i possibili con-
tatti tra Villena e Febrer durante l’ elaborazione delle loro versioni. Una prima lettura
ç
esclude che i due lavorassero a stretto contatto. Febrer non capisce versi che invece
Villena traduce senza difficoltà (almeno apparente) e viceversa. È ovvio supporre
che i due non si trovassero nello stesso luogo, ma questo dato non ci impedisce di
ipotizzare che avessero contatti sporadici o, ancora meglio, che in questi contatti
(personali o meno) avessero la possibilità di dare un’occhiata al lavoro in fieri.
Come ho anticipato, data la vastità delle opere in esame, ho deciso di iniziare
l’ approccio a partire dal canto terzo dell’Inferno. Esso presenta l’ entrata “ufficiale”
ç ç
di Dante nella città dolente e l’incontro con Caronte che lo traghetta oltre il fiume
Acheronte. Osserviamo, quindi, le terzine iniziali del canto III16:
Dante, If. III, 1-6 Villena Febrer
«Per me si va ne la città Por mí se va a la cibdat do- «Per mi va hom a la ciutat
dolente, liente dolent,
per me si va ne l’etterno
ç por mí se va en el eternal per mi va hom a la eternal
dolore, dolor dollor,
per me si va tra la perduta por mí se va entre la perdi- per mi va hom vers la perdu-
gente. da gente da gent.
Giustizia mosse il mio alto el mi fazedor movió la ju- Justícia moch lo meu alt
fattore; sticia factor;
fecemi la divina podestate, la divinal potestat me fizo Féu a mi la divinal potestatz,
la somma sapienza e ‘l pri- la alta sabiduria e el primer L’alta sapiència e.l primer
ç
mo amore. amor amor.
>convien saber Padre e Fijo
e Spíritu Sancto<
Si può notare che la vicinanza delle tre lingue fa sì che senza eccessivi sforzi i due
traduttori si trovino con tre endecasillabi (la prima terzina) in rima, praticamente
uguali al modello. La seconda terzina, invece, comincia a darci un’idea del diverso
tipo di sforzo cui sono costretti i due autori, poiché Villena, non interessato (per lo
meno nella fase di prima stesura) allo schema rimico, non deve forzare la sintassi.
Per il testo italiano cito a partire da Dante Alighieri, La Divina Commedia a cura di S. Jaco-
16
muzzi, A. Dughera, G. Ioli, V. Jacomuzzi, Torino, S.E.I, 1990, che riproduce l’edizione Petrocchi.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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Anzi, come appunto per una comprensione più sicura, aggiunge la spiegazione degli
ultimi due versi, esplicitando il riferimento alla Trinità che poteva risultare oscuro.
Un esempio assai più evidente ci è offerto dalla terzina ai vv. 121-123:
Dante, If. III, 121-123 Villena Febrer
«Figliuol mio», disse il ma- Fijo mío dixo el maestro «Fillol meu», dix lo mestre
estro cortese cortés ensenyats
«quelli che muovo ne l’ira aquellos que mueren en la «cells qui moren en la ira de
di Dio yra de Dios Déu,
tutti convegnon qui d’ogne Todos vienen aquí de toda tots pervenen ací de tots re-
paese parte gnats
Febrer è costretto a sostituire l’aggettivo cortès, pur presente in catalano, con
ç
un “improbabile” ensenyats, in modo da avere una parola-rima per il verso 123, in
cui usa regnats, diverso dall’originale, ma pertinente per senso. Villena, invece, non
ç
essendo “schiavo” della rima, può essere lineare nella sua traduzione.
La terzina ai versi 130-132, invece può fornire uno spunto riguardo al testo ori-
ginale su cui i due autori condussero la traduzione:
Dante, If. III, 130-132 Villena Febrer
Finito questo, la buia cam- Aquesto fenesçido la oscura Ffenit açò, cella scura com-
pagna conpaña >tierra< pagna
tremò si forte, che lo spa- tremió así fuerte que del tremà tan fort, que de gran
vento espanto espavent
la mente di sudore ancor el entendimiento e la volun- la pensa encara de suor me’n
mi bagna tad aún agora de suor me banya
baña
È da segnalare, innanzitutto, che l’opera di Villena non è stata sicuramente con-
ç
dotta sul testo su cui è copiata: l’autore dettò la sua versione a un copista, che la scris-
ç
se su un volume pulito, che riporta, però, una versione diversa del capolavoro dan-
tesco. Febrer, come ho già anticipato, iniziò il suo immane lavoro quando si trovava
in Italia. La sua, però, non era una vita sedentaria: il suo ruolo di diplomatico lo co-
stringeva a frequenti spostamenti. È presumibile che non avesse sempre sottomano
la stessa versione della Divina Commedia (il che spiegherebbe numerosi passi dis-
seminati lungo tutta la traduzione). Febrer, però, che porta a termine un lavoro con
pretese di autonomia artistica, deve fissare le scelte via via effettuate. Villena, invece,
si tiene aperta la porta delle varianti, e, così facendo, ci da modo di supporre che, se
non sempre, qualche volta avesse la possibilità di consultare più di un testo di Dan-
te. Il verso 130, in cui Villena riporta due accezioni ugualmente documentate nei
codici danteschi, “campagna” e “compagna” sembra un indizio piuttosto evidente.
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Villena e Febrer sulle soglie dell’Inferno
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L’ipotesi che vorrei proporre a questo punto è la seguente: per quanto probabil-
mente fosse proprio il poeta catalano a conoscere meglio la lingua italiana (consi-
derando che aveva vissuto in Italia durante anni) sembra che la sua traduzione non
sia stata utile a Villena proprio a causa dell’eccessiva libertà e dell’insistito ricorso a
italianismi e occitanismi. Al contrario, è più probabile che fosse il testo in castiglia-
no, proprio in virtù della sua diversa funzione, a poter offrire qualche sostegno al
lavoro di Febrer. L’impressione è che Febrer abbia avuto modo di leggere il lavoro
del collega e che in qualche caso lo abbia sfruttato. Certo non sempre gli fu possibile
servirsene, proprio perché Villena spesso fraintende il modello in passi che a Febrer
risultavano invece chiarissimi. In effetti, è plausibile che il contatto sia stato a senso
unico e che abbia favorito solo il traduttore catalano. Non è possibile escludere che
si tratti di coincidenze – suffragate dalla vicinanza dei codici linguistici – eppure
sembra chiara la vicinanza di versi come If., V, 22:
Dante Villena Febrer
Non impedir lo suo fatal Non enpaches el su andar No m’empatxes lo seu fadal
andare: fadado anar,
O, sempre nello stesso canto, il verso 33, che descrive l’ azione della “bufera
infernale” sulle povere anime dei lussuriosi, in cui il secondo verbo impiegato da
Febrer sembra suggerito proprio dalla traduzione proposta da Villena:
Dante Villena Febrer
Voltando e percotendo li Rebolviéndolos e firiendo Que remenant e firent los
molesta los enoja molesta
Febrer vuole tradurre Dante senza perdere di vista il valore letterario della nuo-
va opera in catalano: si tratta, in effetti, di un aspetto per molti versi sottovalutato, se
teniamo conto dei numerosi giudizi negativi che si è meritato17. Dobbiamo, invece,
considerare che in quegli anni i poeti catalani, tra i quali Febrer si annoverava, usa-
vano come lingua poetica il provenzale e solo con Ausias March, qualche anno più
tardi, il catalano sarà definitivamente usato come codice poetico. Per questo motivo,
la traduzione di Febrer mi sembra possa ritenersi un’opera moderna: non solo per
l’uso del catalano, ma anche per il coraggioso impiego del verso endecasillabo, anco-
ra non acclimatato nelle terre iberiche. Ho già cercato di evidenziare altrove gli sfor-
17
Si vedano Modest Prats, «Per a una valoració de la versió catalana de la Divina Comèdia de An-
dreu Febrer», in Studia in honorem Prof. Martí de Riquer, III, Barcelona, Quaderns Crema, 1988, pp.
97-107; Antoni Badia I Margarit, «La versione della «Divina Commedia» di Andreu Febrer (secolo
XV) e la lingua letteraria catalana», in Atti del VIII congresso internazionale di studi romanzi (Firenze
3-8 aprile 1956), Firenze, 1960, pp. 3-36; Anna Maria Gallina, «Una traduzione catalana quattrocente-
sca della “Divina Commedia”», Filologia Romanza, IV, 1957, pp. 235-266.
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zi che Febrer compie per cercare di rielaborare il testo dantesco, cercando sempre
di mantenersi fedele all’originale18. Febrer rielabora, e ottiene così i versi migliori, i
passi in cui non ha difficoltà nella comprensione dell’originale, che sono, in ultima
analisi, i passaggi in cui non ha neppure avuto bisogno dell’ipotizzato supporto del
testo di Villena. Un esempio può essere fornito dalla terzina seguente, in cui sono
descritti i dannati avari e prodighi che, incontrandosi, si insultano a vicenda:
Dante, If. VII, 28-30 Villena Febrer
Percoteansi ‘ncontro; e po- Firíense en encontrando e Urtaven-se uns ab altres,
scia pur lì después solamente aquellos cridant:
Si rivolgea ciascun, voltan- Se rebolvían cada uno bol- «Tu fuist avar» e «Tu fuist
do a retro, tando atrás guastador».
gridando: «Perché tieni?» e Gridando por qué tienes e E puys cascú se girava, tor-
«Perché burli?» por qué burlas nant
Febrer ha compreso perfettamente la situazione mostrata da Dante e grazie a
questo, riesce a ricostruire una terzina perfettamente coerente e aderente, ma in-
dipendente dal solito legame parola per parola che è, di fatto, cifra stilistica della
traduzione.
Di fronte alla mancata comprensione dell’originale, i due traduttori reagiscono
in modo diverso: Febrer cerca una soluzione, talvolta ricorrendo ai commenti, tra
cui sembra predominare quello di Benvenuto da Imola19, talvolta cercando supporto
nel lavoro di Villena, infine provando a trovare un senso a partire dal contesto; Don
Enrique, invece, meno preoccupato della coerenza globale del suo lavoro, che forse
intendeva rivedere in un secondo momento o che semplicemente gli interessava
meno, lascia i passi oscuri così come li trova, giustapponendo una parola dietro
l’altra nell’ordine i cui compaiono nel modello. Si veda a questo proposito la terzina
del canto VI, 67-69, in cui Dante parla della situazione drammatica della sua amata
Firenze e si riferisce all’odiato Papa Bonifacio VIII, in un passo assai complesso e
discusso anche dai commentatori della Divina Commedia:
18
Anna Benvenuti, «Hay serva Ytàlia, de dol castell»: traduzione e interpretazione dei canti poli-
tici della Divina Commedia nella versione di Andreu Febrer», in La Catalogna in Europa, l’Europa in
Catalogna. Transiti, passaggi, traduzioni, Associazione italiana di studi catalani, Atti del IX Congresso
internazionale (Venezia, 14-16 febbraio 2008), http://www.filmod.unina.it/aisc/attive/Benvenuti.pdf
(ultima consultazione: 22/06/2011).
19
Ibidem.
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Dante, If. VI, 67-69 Villena Febrer
Poi appresso convien che Después de aquesto con- Aprés un poch, cové que
questa caggia vién que aquésta caya aquesta cage
Infra tre soli, e che l’altra Dentro de tres <años> soles Entre tres sols, e que l’altre
sormonti e que la otra sobrepuje remont
Con la forza di tal che testé Con la fuerça de tal que Ab la força d’aquell que té
piaggia plagará cabeças esta plaga.
Mentre è probabile che Febrer sia ricorso a qualche commento per interpretare
le parole di Ciacco, benché poi si sia orientato verso una soluzione lontana dal testo
dantesco, Villena legge l’ultimo verso in modo errato, ma non si pone il problema:
“testé” diventa “teste”, ossia “cabeças”. Di fondo, sembra chiaro che l’obiettivo prin-
cipale del lavoro di Don Enrique sia di rendere leggibile la Commedia, non di inter-
pretarne i passi oscuri.
Un indizio di un possibile contatto tra i due traduttori giunge, infine, da un testo
esterno, ma strettamente legato alla versione di Villena, ossia una traduzione di un
sonetto di Petrarca, il CXLVIII del Canzoniere che si trova sullo stesso manoscritto
della Biblioteca Nacional di Madrid, MS. 10186, ff. 196r-199r in cui si trova la Divina
Commedia20 e che presumibilmente è opera dello stesso autore. La traduzione del
sonetto è corredata da un commento tipicamente medievale che manifesta soprat-
tutto l’interesse di Villena per la cosmografia e la geografia, argomento della poesia
stessa di Petrarca, che verte su un’enumerazione di fiumi assai “prosaica”. È possibile,
però, confrontare un’analoga enumerazione di fiumi presente proprio nella Comme-
dia, nel VI canto del Paradiso, vv. 58 sgg.:
Dante, Pd., VI, 58-60 Villena Febrer
E quel che fé da Varo infino Sabes aquello que fizo de E ço que féu de Varro fins al
a Reno, Varo fasta Reno, Ren,
Isara vide ed Era e vide Istra vió e Era e vido a Sena Yzera viu e Lera e viu Senna
Senna
E ogne valle onde Rodano E todos los valles onde el E tota vall d’on lo Rose s’em-
è pieno. Roinne es llieno. plèn.
Nel quarto verso del sonetto (Rodano, Hibero, Ren, Sena, Albia, Era, Hebro),
che rimane invariato nella traduzione, compaiono quattro fiumi presenti anche in
20
Si veda Derek C. Carr, «A fifteenth century castilian translation and commentary of a Petrar-
chian sonnet: Biblioteca Nacional, MS. 10186, folios 196r-199r», Revista Canadiense de Estudios His-
pánicos, 5 (1981), pp. 123-143, e Anna Bevenuti, «La traduzione e il commento del sonetto CXLVIII del
Canzoniere di Petrarca attribuiti a Enrique de Villena», La Parola del testo, X, 2 (2006), pp. 351-367.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Dante. A proposito del fiume Era (Loira), nel commento leggiamo: «Era se entiende
por el río de Lera. E nasçe en los campos de Françia e passa por la çibdad de Lliera
[…]»21. La corretta identificazione del fiume Era con la Loira è quantomeno sorpren-
dente, dal momento che tale interpretazione è stata a lungo dibattuta dalla critica
dantesca e petrarchesca, e Villena nel commento non si dimostra particolarmente
acuto nella descrizione e individuazione geografica dei fiumi. Il singolare riconosci-
mento del fiume, può essere, però, spiegato attraverso la traduzione della Commedia
di Febrer, che traduce direttamente “Era” con “Lera”, forse suggerendo a Villena la
corretta interpretazione per il suo commento al sonetto. D’altra parte, la concomi-
tanza dei due lavori di Villena pare plausibile dal momento che si trovano entrambi
sullo stesso manoscritto.
In conclusione, Villena e Febrer intraprendono negli stessi anni un’impresa
davvero imponente, in linea, comunque, con quanto stava avvenendo negli am-
bienti culturali più moderni. La motivazione che li spinge è simile, riconducibile a
quell’esigenza di assimilazione e recupero delle opere più importanti del panorama
europeo, da quelle classiche a quelle volgari. Che il risultato finale sia, per tanti ver-
si, così differente, dipende senza dubbio dalla funzione diversa che i due traduttori
perseguono con la loro opera che, in ultima analisi, incide sul valore che essi stessi
attribuiscono alle loro produzioni e, forse, anche sui possibili contatti che intercor-
sero tra loro.
R I F E R I M E N T I B I B L IO G R A F IC I
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Badia I Margarit, Antoni, La versione della Divina Commedia di Andreu Febrer (secolo XV) e la
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Benvenuti, Anna, «“Hay serva Ytàlia, de dol castell”: traduzione e interpretazione dei canti poli-
tici’della Divina Commedia nella versione di Andreu Febrer, in La Catalogna in Europa, l’Eu-
ropa in Catalogna. Transiti, passaggi, traduzioni, Associazione italiana di studi catalani, Atti
del IX Congresso Internazionale (Venezia, 14-16 febbraio 2008), http://www.filmod.unina.it/
aisc/attive/Benvenuti.pdf (data consultazione: 22/06/2011).
—, «La traduzione e il commento del sonetto CXLVIII del Canzoniere di Petrarca attribuiti a
Enrique de Villena», La Parola del testo», X, 2 (2006), pp. 351-367.
21
Cito a partire dall’edizione delle opere di Villena: Enrique de Villena, Obras completas.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 143-163. issn: 2240-5437.
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La vita è sogno o La vita è un sogno?
Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
F AUSTA A NTONUCCI
Università Roma Tre
[email protected]
Vorrei innanzitutto ringraziare, in apertura di queste pagine, i colleghi ed amici
responsabili di Tintas per avermi offerto la possibilità di esporre, offrendole alla di-
scussione della comunità scientifica, le ragioni che mi hanno mosso nello scegliere
il titolo italiano della mia traduzione de La vida es sueño, pubblicata nel 2009 nella
collana Dulcinea della casa editrice Marsilio.
Questo breve articolo vuole infatti essere una risposta il più possibile
argomentata alle obiezioni che da più parti mi sono state formulate, ora in modo più
aperto ora in modo più velato, a proposito della scelta di tradurre La vida es sueño
con La vita è un sogno, invece che La vita è sogno. Scelta, quest’ ultima, adottata in
modo unanime da tutti i traduttori che più recentemente si sono misurati con il
grande testo calderoniano, e in particolare dai tre che sono stati per me un punto di
riferimento per la qualità della loro proposta traduttiva e/o per la consapevolezza
critica che aveva presieduto al loro lavoro di traduzione: Luisa Orioli, Enrica
Cancelliere e Dario Puccini, citati nell’ordine cronologico di apparizione della loro
fatica (rispettivamente 1967, 1985 e 1990)1.
1
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno. Il dramma e l’«auto sacramental», a cura di Luisa
Orioli, Milano, Adelphi, 1967 (consultata nella 9a ed., 2005); Pedro Calderón de la Barca, La vita è
sogno, traduzione di Enrica Cancelliere, Palermo, Edizioni della fondazione Andrea Biondo – Teatro
stabile di Palermo, 1985 (consultata nell’ed. successiva, Palermo, Novecento, 2000); Pedro Calderón de
Fausta Antonucci
La vita è sogno o La vita è un sogno? Storia e ragioni della traduzione di un titolo classico
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Riservandomi di tornare più avanti sulla storia della traduzione italiana del
titolo de La vida es sueño, mi limiterò per ora a dire che la decisione di adottare,
per la mia traduzione, il titolo La vita è un sogno ha obbedito, in primo luogo, a
un’esigenza di coerenza. Infatti, tutte le volte che, nel testo, mi ero trovata a tradurre
i sintagmi «es sueño», «fue sueño», «como sueño», li avevo resi con «è un sogno», «è
stato un sogno», «come un sogno»; e poiché il titolo di un’opera di teatro nel Siglo
de Oro si trova sempre variamente menzionato nel testo, mi è sembrato opportuno
che il titolo italiano riflettesse fedelmente le scelte traduttive che avevo operato nel
testo su sintagmi analoghi.
Naturalmente, se si questiona la bontà della traduzione La vita è un sogno per La
vida es sueño (problema questo che non voglio affatto eludere, ma che affronterò più
avanti), si questionerà allo stesso modo la bontà delle traduzioni sopramenzionate
per i sintagmi «es sueño», «fue sueño», «como sueño»; e allora varrà la pena di
leggerli nel loro contesto, e di osservare come li hanno tradotti Luisa Orioli, Enrica
Cancelliere e Dario Puccini.
La prima occorrenza si ha al v. 2109, quando Segismundo, appena risvegliatosi
nella torre dopo la breve parentesi a palazzo, risponde a Clotaldo che gli chiede di
raccontargli quale sia stato il suo sogno:
Clotaldo Lo que soñaste me di
Segismundo Supuesto que sueño fue,
no diré lo que soñé, 2110
lo que vi, Clotaldo, sí.
Sia Orioli, sia Cancelliere, sia Puccini, traducono il v. 2109 come segue:
«Ammesso che un sogno fu mai» (Orioli, p. 139), «Anche se fosse stato un sogno»
(Cancelliere, p. 181), «Ammesso che fosse un sogno» (Puccini, p. 157).
La seconda, e ben più famosa, occorrenza si ha al v. 2186, alla fine del lungo
monologo di Segismundo che chiude il secondo atto:
¿Qué es la vida? Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño; 2185
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.
Se Cancelliere («perché tutta la vita è sogno», p. 185) e Puccini («ché tutta la vita
è sogno», p. 161) scelgono di non inserire l’articolo indeterminativo, non così Luisa
Orioli, che, in contraddizione con la titolazione scelta, traduce «la vita è un sogno»
(p. 143).
la Barca, La vita è sogno, traduzione di Dario Puccini, in Teatro del «Siglo de Oro», tomo III: Calderón,
Milano, Garzanti, 1990 (consultata nell’ed. singola, Milano, Garzanti, 2003).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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E vediamo l’occorrenza seguente, in tutto analoga a questa appena commentata,
anche nelle divergenze fra i traduttori. Si tratta di una parte della risposta che
Segismundo dà ai soldati che sono entrati nella torre per liberarlo, all’inizio del terzo
atto:
Y pues sé 2320
que toda esta vida es sueño,
idos, sombras, que fingís
hoy a mis sentidos muertos
cuerpo y voz, siendo verdad
que ni tenéis voz ni cuerpo; 2325
Orioli traduce il v. 2321 con «che la vita è solo un sogno» (p. 153); Cancelliere
e Puccini con «che tutta la vita è sogno» (rispettivamente p. 199 e p. 173). E ancora,
poco più avanti, sempre Segismundo:
Ya os conozco, ya os conozco,
y sé que os pasa lo mesmo
con cualquiera que se duerme. 2340
Para mí no hay fingimientos,
que, desengañado ya,
sé bien que la vida es sueño.
Adesso Orioli traduce il v. 2343 con «so già che la vita è sogno» (p. 155); «so
bene che la vita è sogno» (p. 199), Cancelliere; «ben so che la vita è sogno» (p. 175),
Puccini. Ma quando, poco dopo, a «la vida» come soggetto si sostituisce «aquesto
mesmo», ecco che di nuovo sia Orioli sia Puccini ritornano a inserire l’ articolo
indeterminativo:
Segismundo Ya
otra vez vi aquesto mesmo
tan clara y distintamente 2350
como agora lo estoy viendo,
y fue sueño.
Orioli: «e fu un sogno» (p. 155); Puccini: «Ma era un sogno» (p. 175); Cancelliere,
più coerente, traduce «e fu sogno» (p. 201). Stessa situazione sintattica e stesse scelte
al v. 2964: è sempre Segismundo che parla, quando sta per cedere al desiderio nei
confronti di Rosaura.
Esto es sueño, y pues lo es,
soñemos dichas agora, 2965
que después serán pesares.
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Orioli: «Se è vero che questo è un sogno» (p. 193); Puccini: «se questo è davvero
un sogno» (p. 215); mentre Cancelliere: «questo è sogno; e poiché lo è» (p. 245).
E arriviamo infine alla chiusura del dramma, ancora nelle parole di Segismundo:
[…] Y cuando no sea, 3310
el soñarlo sólo basta;
pues así llegué a saber
que toda la dicha humana,
en fin, pasa como sueño.
In questo caso, sostituendosi all’identificazione («es sueño» o «fue sueño») il
paragone («como sueño») tutti e tre i traduttori introducono senza problemi l’articolo
indeterminativo: Orioli traduce il v. 3314 con «passa infine come un sogno» (p. 215);
Cancelliere: «passa alla fine come un sogno» (p. 271); Puccini: «scorre e passa come
un sogno» (p. 239).
Come si può vedere dalla carrellata di esempi che precede, nessuno dei tre
traduttori adotta sempre la stessa scelta per la resa in italiano dei sintagmi «es
sueño» / «fue sueño», neanche Enrica Cancelliere, che pure è fra i tre la più fedele
alla eliminazione dell’ articolo indeterminativo nel predicato nominale. Queste
oscillazioni dipendono, in gran parte, dal contesto di apparizione del sintagma:
laddove esso rimanda palesemente al titolo (vv. 2186, 2321, 2343) prevale la scelta
di eliminare l’articolo indeterminativo, laddove il soggetto del predicato nominale,
invece di «vida», è un neutro («lo que vi», «esto», «aquesto mesmo»), prevale la
scelta di inserire l’ articolo.
L’oscillazione fra le due scelte traduttive del titolo in italiano ha d’altra parte la
sua radice nel testo originale: se in alcuni casi, quelli che ho citato fin qui, appare
legittimo tradurre il sintagma «es sueño» con «è un sogno», in altri casi questa
opzione non appare possibile. Mi riferisco a quelle occorrenze nelle quali «sueño» si
contrappone a «verdad», entrambi i termini della disgiuntiva senza articolo, tanto in
spagnolo come, correttamente, in italiano. Vediamole:
A rabia me provocas 1680
cuando la luz del desengaño tocas.
Veré, dándote muerte,
si es sueño o si es verdad.
Mas, sea verdad o sueño,
obrar bien es lo que importa:
si fuere verdad, por serlo, 2425
si no, por ganar amigos
para cuando despertemos.
Luego fue verdad, no sueño;
y si fue verdad, que es otra 2935
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confusión y no menor,
¿cómo mi vida le nombra
sueño?
Tradurre La vita è sogno trasporta dunque fin nel titolo la contrapposizione
essenziale che si manifesta in questi versi; è una scelta interpretativa giustificatissima,
che tuttavia, mi pare, esercita una certa forzatura rispetto all’ uso corrente italiano;
forzatura che emerge nelle menzionate oscillazioni nel tradurre, internamente al
testo, il sintagma «es sueño» / «fue sueño». A riprova, si veda come l’introduzione
dell’articolo indeterminativo nella traduzione del nome del predicato scivoli «a
tradimento» perfino nella traduzione del v. 1683 da parte di Enrica Cancelliere, che
pure fra i tre traduttori che, come ho più volte detto, sono stati per me un punto di
riferimento, è la più constante nell’evitare l’uso dell’articolo: «Ma ora, uccidendoti,
vedrò / se è realtà oppure solo un sogno» (p. 141).
In queste pagine, come ho già detto, non mi propongo affatto di difendere la
scelta traduttiva del titolo La vita è un sogno per La vida es sueño come la migliore
possibile, ma solo di mostrarne le ragioni. Come ha affermato Umberto Eco, tradurre,
cioè «dire quasi la stessa cosa» in un’altra lingua, «è un procedimento che si pone […]
all’insegna della negoziazione»2; non sempre il traduttore ha a disposizione un’unica
traduzione accettabile, molto più spesso ha davanti a sé diverse opzioni e deve
necessariamente sceglierne una, dopo averne soppesato svantaggi e benefici. Nel
mio caso, la scelta di tradurre il titolo come La vita è un sogno ha obbedito a diverse
considerazioni. La prima è stata, come ho già detto, l’ esigenza di mantenere una
coerenza traduttiva fra tutti i sintagmi analoghi presenti nel testo. Il fatto che molti
di questi sintagmi siano stati tradotti (soprattutto da Orioli, ma anche da Puccini e,
anche se in minor misura, da Cancelliere) con l’articolo indeterminativo prima del
nome del predicato, ha rafforzato una mia convinzione linguistica (sarebbe meglio
chiamarla «percezione», poiché non è esplicitata in nessuna grammatica italiana
da me consultata): che cioè in italiano, se la parte nominale del predicato è un
sostantivo, si tenda a farla precedere da un articolo, determinativo o indeterminativo
a seconda dei casi. Naturalmente è possibile anche la scelta contraria, però mi pare
che la tendenza maggioritaria sia all’uso dell’articolo prima del nome del predicato.
Porterò a supporto un esempio che mi pare in tutto analogo, sia nella struttura
sintattica sia nel significato apotegmatico, al sintagma che ci interessa: la frase biblica
«Militia est vita hominis super terram» (Giobbe, 7:1, versione della Vulgata). La
cosiddetta Bibbia Riveduta di Luzzi (revisione della gloriosa traduzione del Diodati,
Ginevra, 1607) traduce la frase con «La vita dell’uomo sulla terra è una milizia»3. Il
2
Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, p. 10.
3
La Sacra Bibbia. Versione riveduta, a cura di Giovanni Luzzi. Testo consultabile alla pagina web
http://www.intratext.com/IXT/ITA0169/ (data consultazione: 22/05/2011). Le traduzioni più recenti,
condotte sui testi originali oppure sulla cosiddetta Nuova Vulgata, hanno versioni diverse, e invano
vi cercheremmo un corrispondente traduttivo funzionale al caso esemplificato.
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Vocabolario Treccani4, alla voce milizia, all’accezione 3a, sotto l’indicazione «fig.»
(‘accezione figurata’) scrive: «la vita è una m[ilizia]. (cfr. Giobbe 7:1: militia est vita
hominis super terram), frase, questa, adoperata anche estens., a significare che la vita
è in genere una lotta o che essa va spesa al servizio di un nobile ideale». Se si cerca in
Internet la frase latina, si troveranno una quantità di siti (articoli religiosi, citazioni
latine, ecc.) nei quali la traduzione è correntemente «La vita dell’ uomo sulla terra
è una milizia»5, «La vita per l’ uomo sulla terra è un combattimento»6. Ma è giusto
dire anche che una delle traduzioni storiche della Vulgata in italiano, la Bibbia di
Antonio Martini (1769), traduce la stessa frase con «Milizia ell’ è la vita dell’ uomo
sopra la terra»7, dunque senza articolo.
Ma torniamo al titolo del dramma calderoniano e alla storia della sua traduzione
in italiano. L’affermarsi dell’opzione La vita è sogno è un fenomeno esclusivamente
novecentesco, sulle cui dinamiche vale la pena di soffermarsi, non senza prima
aver fatto una breve carrellata sulla storia traduttiva precedente, che è invece quasi
unanimemente orientata a tradurre il titolo con La vita è un sogno, sulla stessa
linea peraltro dell’ inglese, del francese e del tedesco, lingue nelle quali il titolo
del dramma calderoniano si è sempre tradotto (e tutt’ oggi viene tradotto senza
eccezioni) rispettivamente con Life is a dream, La vie est un songe, Das Leben ist ein
Traum. Nel XVII secolo, delle sette traduzioni-adattamenti in italiano censite da
Carmen Marchante, tra cui la più volte ristampata e riadattata La vita è un sogno
attribuita a Giacinto Andrea Cicognini, solo una si intitola La vita è sogno8. Nel
XIX secolo, le due traduzioni di Pietro Monti (1855) e Giovanni La Cecilia (1857)
si intitolavano entrambe La vita è un sogno9. La vita è un sogno intitolava Arturo
Farinelli nel 1916 il suo erudito saggio sulle fonti del dramma10; così intitolavano le
4
http://www.treccani.it/vocabolario/milizia/ (data consultazione: 14/05/2011).
5
http://retescuole14-15.it/prodotti/02_03/classeL/motti.htm (data consultazione: 22/05/2011);
http://www.efira.it/locuzioni_latine/index_m.htm (data consultazione: 22/05/2011).
6
http://www.salpan.org/ARTICOLI/Militia_hominis.htm (data consultazione: 22/05/2011).
7
Vecchio Testamento secondo la Volgata tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato da
mons. Antonio Martini, vol. X. Consultata nell’edizione di Venezia, 1831, digitalizzata sotto la direzio-
ne di Vittorio Volpi e disponibile nel sito http://www.utopia.it/allegati/bibbia_martini_online_testo.
htm (ultima consultazione: 22/05/2011).
8
Si tratta di una commedia del “repertorio di Eulalia”, attrice di una compagnia al servizio del
duca di Modena, repertorio copiato in calce a una lettera del 1681 conservata nell’Archivio di Stato
di Modena e menzionata da Carmen Marchante, «Calderón en Italia: traducciones, adaptaciones,
falsas atribuciones y scenari», in Maria Grazia Profeti (a cura di), Tradurre, riscrivere, mettere in sce-
na, Firenze, Alinea, 1996, p. 57; poi rivisto in Calderón en Italia. La Biblioteca Marucelliana Firenze,
Firenze, Alinea, 2002, p. 86.
9
Pietro Calderón de la Barca, Teatro scelto, con opere teatrali di altri illustri poeti castigliani, vol-
garizzamento con prefazioni e note di Pietro Monti, Milano, Società Tipografica dei classici italiani,
1855, II; Teatro scelto spagnuolo antico e moderno […] versione italiana di Giovanni La Cecilia, Torino,
Società Unione Tipografico-Editrice, 1857, III (La vita è un sogno vi viene attribuita a Lope de Vega).
10
Arturo Farinelli, La vita è un sogno, Torino, Bocca, 1916, 2 voll.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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loro traduzioni Angelo Monteverdi nel 192011, Camillo Berra nel 193112 e Corrado
Pavolini nel 194313.
Proprio il 1920, anno nel quale si pubblica la traduzione di Monteverdi, è da
considerarsi il terminus a quo per l’ affermazione, sempre più consistente, del titolo
alternativo che traduce letteralmente lo spagnolo. Il 1920 è infatti l’ anno nel quale
Gherardo Marone pubblica a Napoli la prima edizione della sua traduzione, poi più
volte ristampata da Bompiani, con il titolo La vita è sogno14. Lo seguono in questa scelta
Gerolamo Bottoni (1927)15, Gian Francesco Malipiero (1944)16, Antonio Gasparetti
(1957)17, Francesco Saba Sardi (1970)18, oltre ai tre traduttori che ho menzionato fin
dall’inizio, Orioli, Cancelliere e Puccini. Può aver pesato sull’adozione di questa scelta,
via via più unanime con lo scorrere degli anni, la statura culturale del suo iniziatore,
l’ italo-argentino Gherardo Marone, intellettuale di rilievo negli anni a cavallo fra
prima e seconda guerra mondiale, amico personale di Ungaretti, antifascista attivo
e coerente, italianista e ispanista molto prolifico? E’ impossibile rispondere con
certezza, ma a me pare probabile che la scelta di Marone abbia influito con forza sul
circolo di intellettuali che in un modo o in un altro entrarono in contatto con lui;
un circolo assai ampio che può essere stato determinante nell’imporre questo titolo
al mondo della cultura italiana del secondo dopoguerra19. Sarà il caso di ricordare
a questo proposito che Salvatore Quasimodo scelse proprio questo titolo per una
raccolta di sue poesie composte tra il 1946 e il 1948, caratterizzate da una vena di
consapevolezza civile e di impegno etico: La vita non è sogno (1949). Il titolo La vita
è un sogno viene così progressivamente abbandonato, fino al punto di perdere le sue
risonanze “alte”, connesse con la citazione intertestuale del dramma calderoniano;
a riprova, nel 1993 venne utilizzato per tradurre il titolo di un film americano di
seconda categoria, la commedia Dazed and confused di Richard Linklater.
11
Drammi di Pedro Calderón de la Barca, tradotti da A. Monteverdi, La Vita è un Sogno, Il Mago
Prodigioso, Firenze, Luigi Battistelli, 1920, vol. I.
12
Pedro Calderón de la Barca, La vita è un sogno, Il principe costante, a cura di Camillo Berra,
Torino, Tipografia Sociale-UTET, 1931 (più volte ristampata negli anni successivi).
13
Pedro Calderón de la Barca, La vita è un sogno. Dramma in tre atti e sette quadri, versione [dallo
spagnolo] di Cesare Vico Ludovici, Giulio Pacuvio e Corrado Pavolini, Torino, Set-Soc. Ed. Torinese
(edizioni de Il dramma), 1943.
14
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno, con un commento di Gherardo Marone, Napoli,
l’Editrice italiana, 1920.
15
Pietro Calderón de la Barca, La vita è sogno, prefazione e traduzione di Gerolamo Bottoni,
Milano, C. Signorelli, 1927.
16
La vita è sogno (da Calderón de la Barca): tre atti e quattro quadri, libera traduzione [dallo
spagnolo] di G. Francesco Malipiero. Milano, Tip. A. Cordani, 1944.
17
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno, traduzione [dallo spagnolo e nota di] Antonio
Gasparetti, Milano, Rizzoli, 1957.
18
Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno - L’alcade di Zalamea - Il gran teatro del mondo,
introduzione e traduzione a cura di F. Saba Sardi, Milano, Fabbri, 1970.
19
Sulla figura e l’opera di Marone si veda almeno Nancy L. D’Antuono, Avventura intellettuale e
tradizione culturale in Gherardo Marone, Salerno, Laveglia, 1984.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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Ma che la scelta traduttiva La vita è sogno sia una scelta in gran parte
intellettualistica, non del tutto introiettata a livello linguistico spontaneo, lo
dimostrano a mio modo di vedere i casi di oscillazione traduttiva, nel corpo del
testo, dei sintagmi «es sueño», «fue sueño»; oltre a quelli già menzionati più sopra,
relativi alle traduzioni di Orioli, Cancelliere e Puccini, sarebbe davvero interessante
controllare quanti ne esistano nelle traduzioni di Marone, Bottoni, Malipiero,
Gasparetti e Saba Sardi. In attesa di questa verifica, vorrei aggiungere alla casistica
sopra riportata altri due esempi, che mi sembrano specialmente interessanti. Il
primo è tratto dalla voce La vita è sogno redatta da Mario Casella per il Dizionario
letterario Bompiani delle opere e dei personaggi; nonostante il titolo scelto per l’opera
di cui dà conto, Casella nel testo scrive, a proposito del risveglio di Segismundo
nella torre alla fine del secondo atto:
E allora il problema della vita, in rapporto alla vana fantasmagoria del
mondo sensibile, gli si illumina di una luce nuova. Tutta la vita è un
sogno, che bisogna vivere con la coscienza che essa è un sogno dal quale
dovremo un giorno svegliarci, portando con noi soltanto la somma del
bene compiuto20.
Il secondo caso è a noi più vicino, ed è tratto dal manifesto per la rappresentazione
del dramma calderoniano messa in scena dal Piccolo di Milano (Teatro Strehler)
per la regia di Luca Ronconi nella stagione teatrale 1999-2000: il titolo scelto è La
vita è sogno, ma sul manifesto, in sovrimpressione al titolo, compaiono in caratteri
grandi i versi di chiusura del secondo atto, riadattati dalla traduzione di Luisa
Orioli: «Tutta la vita è un sogno e i sogni son sogni»21.
R i f e r i m e n t i b i b l io g r a f ic i
[le traduzioni de La vida es sueño sono elencate seguendo l’ ordine alfabetico del nome del traduttore]
http://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?tipo=4&ID=117&imm=1&contatore=0&
real=0 (data consultazione: 15/05/2011).
http://retescuole14-15.it/prodotti/02_03/classeL/motti.htm (data consultazione: 22/05/2011).
http://www.salpan.org/ARTICOLI/Militia_hominis.htm (data consultazione: 22/05/2011).
http://www.efira.it/locuzioni_latine/index_m.htm (data consultazione: 22/05/2011).
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è un sogno, Il principe costante, a cura di Camillo Berra,
Torino, Tipografia Sociale-UTET, 1931.
20
Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Milano,
Bompiani, 1951, VII, p. 834.
21
http://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?tipo=4&ID=117&imm=1&contatore=0
&real=0 (data consultazione: 15/05/2011).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253. issn: 2240-5437.
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Calderón de la Barca, Pietro, La vita è sogno, prefazione e traduzione di Gerolamo Bottoni,
Milano, C. Signorelli, 1927.
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno, traduzione di Enrica Cancelliere, Palermo, Edizioni
della fondazione Andrea Biondo – Teatro stabile di Palermo, 1985 (ed. successiva, Palermo,
Novecento, 2000).
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno, traduzione [dallo spagnolo e nota di] Antonio
Gasparetti, Milano, Rizzoli, 1957.
Vega, Lope de [Calderón de la Barca, Pietro], La vita è un sogno, in Teatro scelto spagnuolo antico
e moderno […] versione italiana di Giovanni La Cecilia, Torino, Società Unione Tipografico-
Editrice, 1857, III.
La vita è sogno (da Calderón de la Barca): tre atti e quattro quadri. Libera traduzione [dallo
spagnolo] di G. Francesco Malipiero. Milano, Tip. A. Cordani, 1944.
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno, con un commento di Gherardo Marone, Napoli,
l’Editrice italiana, 1920.
Drammi di Pedro Calderón de la Barca, tradotti da A. Monteverdi, La Vita è un Sogno, Il Mago
Prodigioso, Firenze, Luigi Battistelli, 1920, I.
Calderón de la Barca, Pietro, Teatro scelto, con opere teatrali di altri illustri poeti castigliani,
volgarizzamento con prefazioni e note di Pietro Monti, Milano, Società Tipografica dei classici
italiani, 1855, II.
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno. Il dramma e l’ «auto sacramental», a cura di Luisa
Orioli, Milano, Adelphi, 1967 (9a ed., 2005).
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno, traduzione di Dario Puccini, in: Teatro del «Siglo
de Oro», tomo III: Calderón, Milano, Garzanti, 1990 (ed. singola, Milano, Garzanti, 2003).
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è sogno - L’ alcade di Zalamea - Il gran teatro del mondo,
introduzione e traduzione a cura di F. Saba Sardi, Milano, Fabbri, 1970.
Calderón de la Barca, Pedro, La vita è un sogno. Dramma in tre atti e sette quadri, versione [dallo
spagnolo] di Cesare Vico Ludovici, Giulio Pacuvio e Corrado Pavolini, Torino, Set-Soc. Ed.
Torinese, 1943.
D’Antuono, Nancy L., Avventura intellettuale e tradizione culturale in Gherardo Marone, Salerno,
Laveglia, 1984.
Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Milano,
Bompiani, 1951, VII.
Eco, Umberto, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003.
Farinelli, Arturo, La vita è un sogno, Torino, Bocca, 1916, 2 voll.
Marchante, Carmen, «Calderón en Italia: traducciones, adaptaciones, falsas atribuciones y
scenari», in Maria Grazia Profeti (a cura di), Tradurre, riscrivere, mettere in scena, Firenze,
Alinea, 1996, pp. 17-63 (ora anche in Calderón en Italia. La Biblioteca Marucelliana Firenze,
Firenze, Alinea, 2002, pp. 43-93).
La Sacra Bibbia. Versione riveduta, a cura di Giovanni Luzzi, http://www.intratext.com/IXT/
ITA0169/ (data consultazione: 22/05/2011).
Vecchio Testamento secondo la Volgata tradotto in lingua italiana e con annotazioni dichiarato
da mons. Antonio Martini, X. http://www.utopia.it/allegati/bibbia_martini_online_testo.htm
(data consultazione: 22/05/2011).
Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/ (data consultazione: 14/05/2011).
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 245-253.
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"Description": "Recorrido bio-bibliográfico sobre la obra de la autora catalana Mercè Rodoreda (1908-1983).\r\n\r\nBio-bibliographical survey on the works of the Catalan writer Mercè Rodoreda (1908-1983).",
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La dura belleza
En torno a la obra de Mercè Rodoreda
C LARA J ANÉS
Gabriel García Márquez en un artículo publicado en El País con motivo de su
muerte, dijo de Mercè Rodoreda: «una mujer invisible que escribe en un catalán
espléndido unas novelas hermosas, duras, como no se encuentran muchas en las
letras actuales»1.
El empleo de esos dos adjetivos, duras y hermosas, es tan acertado que puede
aplicarse a toda la producción de nuestra escritora y probablemente también a su
persona y su vida. Nacida en 1908, durante su infancia vive en el barrio de San Ger-
vasio de Barcelona, y su mentor es su abuelo, que le lee a Verdaguer y a los poetas
catalanes más importantes y la lleva a pasear y a ver los jardines de los vecinos. De
estas dos experiencias nacen los dos grandes intereses de Rodoreda: la literatura y
las flores. Pero cuando ella cuenta doce años muere su abuelo, se descubre la preca-
ria situación económica de la familia y regresa el tío rico de América, para ayudar.
Al año —Rodoreda tiene entonces trece—, el tío expresa su deseo de casarse con
ella. Tendrán que esperar a que cumpla los veinte para contraer matrimonio. Cinco
años después de ese matrimonio forzado, Mercè empieza a escribir. Estamos ya en
1933. Escribe cuatro novelas donde satiriza costumbres y estereotipos literarios, y,
además, colabora en revistas. En 1937, con una nueva novela, Aloma, gana el Pre-
mio Creixells. Acontece la guerra y parte a París. Cuando París es ocupado por los
nazis, deja la capital francesa. Para entonces su matrimonio se ha deshecho y se
1
Las citas con página remiten al «Cartapacio: Mercé Rodoreda», publicado en la revista Turia
(Teruel), 87 (junio-octubre, 2008).
Clara Janés
La dura belleza. En torno a la obra de Mercè Rodoreda
256
ha consolidado su relación con el escritor y crítico Armand Obiols (seudónimo de
Joan Prat). Es un periodo difícil. La joven de San Gervasio se gana la vida como
costurera, ha intentado la pintura y escrito algún cuento. En 1954 parte con Obiols
a Ginebra —donde él es traductor de Naciones Unidas—, y allí se entrega del todo
a la literatura. De hecho ya en París, proyectando su futuro regreso, había escrito a
su amiga Anna Murià: «Pienso escribir cuentos que harán temblar a Dios». Así en
1958 aparecen Veintidós cuentos, libro al que, años después, seguirán Mi cristina y
otros cuentos (1967), Parecía de seda y otras narraciones (1978) y Viajes y flores (1980).
En 1962 publica La plaza del Diamante, que los críticos consideran la mayor novela
catalana escrita en el período 1939-1963; en 1966, La calle de las camelias, en 1967
Jardín junto al mar. Tras la muerte de Joan Prat (1971), se traslada a Romanya de la
Selva. Escribe Espejo roto (1974). Una nueva novela, Cuanta, cuanta guerra, aparece
en 1980. Muere en 1983 dejando inacabada La muerte y la primavera. En el año 2002
se reúne toda su poesía con el título Agonía de la luz.
Esta mujer invisible, pues, se va haciendo intensamente visible a través de su
escritura. Y, con todo, sigue absolutamente oculta, porque Rodoreda, como todo
escritor, en cuanto escribe, se parapeta en esa belleza y esa dureza, seguramente las
que le ha impuesto la vida, para proteger su intimidad. Rodoreda se empeña en la
escritura generando una construcción de tal potencia que acaba por convertirse en
dicha escritura. En cierto modo lo desvela en el prólogo de Espejo roto, cuando dice:
«Escribo porque me gusta escribir. Si no pareciese exagerado diría que escribo para
gustarme a mí. Si de rebote lo que escribo gusta a los demás, mejor, Quizá es más
profundo. Quizá escribo para afirmarme. Para sentir que soy…»
Dejemos sus primeros intentos literarios, que ella no considera, y tracemos un
arco desde La plaza del Diamante a su novela póstuma. De plasmar el ambiente po-
pular de barrio de Gracia, a través, tanto de La plaza del Diamante como de La calle
de las camelias, con tan espléndido realismo que las páginas se llenan de ecos vivos
para el que lo ha conocido, pasa Mercè Rodoreda a proponernos los espacios y per-
sonajes fruto de su fantasía en libros como Viajes y flores, Cuanta, cuanta guerra y La
muerte y la primavera. Nos ofrece así un mundo de sutilezas, de intenso colorido, de
singulares movimientos, de inesperadas mutaciones y de tal belleza estilística que si
las demás obras la colocaban a la cabeza de los narradores catalanes de posguerra,
ésta la singulariza absolutamente dentro del panorama literario de toda la península.
¿Cuál es el intento real de Rodoreda en La plaza del Diamante o Espejo roto, y
cuál el de estos otros libros oscuros y misteriosos? ¿Se trata, como han afirmado, del
fruto de dos personalidades, o de dos voluntades? Yo creo que la escritura de Rodo-
reda es una escritura que nace de la pasión, pero sobre todo de la voluntad. Ella sabe
perfectamente por dónde se mueve. Por este motivo niega sus primeras novelas y
después de Espejo roto puede decir (en entrevista hecha por Soler Serrano): «tengo
tres novelas y media». Y sobre esa media afirma:
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Clara Janés
La dura belleza. En torno a la obra de Mercè Rodoreda
257
[…] va corriendo por la casa porque hay unos capítulos que quiero arre-
glar y no encuentro nunca el momento. […] Cuando yo escribí La plaza
tenía la sensación de que escribía una buena novela. En ésta ya no me
pasó tanto. Y si tenía muchas dudas con Espejo roto, en esta novela aún
es peor. No sé verla, ya digo, me parece que es genial o me parece que
es un desastre.
Autocrítica rigurosa, pues, la de Rodoreda, que, a la vez no oculta sus maestros
ni sus intenciones. En la misma entrevista confiesa haber leído «[…] mucha literatu-
ra francesa y los escritores franceses tienen un estilo muy diáfano, con una claridad
extraordinaria. Me fue muy útil. Escribí un cuento que se llamaba Una tarde de cine.
Es de una chica tonta que explica que va con su novio al cine. Son un par de páginas.
La plaza del Diamante, cuando empecé a escribirla, cogí el estilo del cuento ese,
Una tarde de cine, y entonces me sentí segura. Bueno, también había leído Viaje a la
Alcarria de Cela y, especialmente, Memorias de un cazador, de Delibes. Y esto me
lanzó a escribir La plaza».
En otras ocasiones habla de Dostoievski, Tolstoy, K.Mansfield, Kafka, Chejov,
Carver, Proust, Celine o Poe. Pero hay algo más importante: cuando Soler Serrano
le pregunta por los años de la guerra y afirma que ésta «le proporcionó nuevos enfo-
ques y un conocimiento mucho más directo de la realidad humana», ella dice:
Mire, yo he ido muy poco a la escuela […] pero he ido a una escuela
muy buena, que es la escuela de la vida […] y se aprende mucho. Como
el Buscón, como el Lazarillo de Tormes, yo digo: «Señor, yo soy de San
Gervasio y he recorrido medio mundo.
Es de San Gervasio, y también ha vivido en Gracia, y por ello conoce esos detal-
les que considera tan importantes: «si usted explica el interior de una casa, es más
fácil que retrate el dueño de la casa que si usted habla del dueño de la casa», dice.
Esto es lo que más le interesa durante esta etapa, y por ello cuando le preguntan si
cree con Joaquim Molas que la suya es una versión personal de la novela de análisis
psicológico, responde: «no sé…». Es decir, sabe que no es exactamente eso, que su
propósito confesado es otro. Carme Arnau nos recuerda, por lo que se refiere a La
plaza del Diamante, que dijo querer: «escribir una obra kafkiana en la cual las pa-
lomas, de tantas, se convirtiesen en una pesadilla». Y además, en ella, las palomas
reflejarían también «las transformaciones, las metamorfosis, que experimenta su
protagonista». Resalta también la estudiosa el gusto de Rodoreda por el cine y con-
cretamente menciona a Hitchcock, autor de Rebeca, Psicosis, Vértigo, Los pájaros…
La belleza y la dureza —las dos caras de la invulnerabilidad de la inteligencia de
Rodoreda— se manifiestan también en sus propias afirmaciones. Dice, por ejemplo,
en el prólogo a Espejo roto: «Una novela se hace con una gran cantidad de intuicio-
nes, con una cierta cantidad de imponderables, con agonías y resurrecciones del
alma, con exaltaciones, con desengaños, con reservas de memoria involuntaria […]
toda una alquimia […] una novela son palabras».
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Enric Bou matiza que Rodoreda, a través de su trabajo con el idioma: «[…] con-
sigue crear una lengua literaria de apariencia realista y de un gran efecto simbólico.
[…] Sus grandes novelas pueden ser leídas en clave histórica y política, después de
obligar al lector a un ejercicio de desmontaje». Se trata de «una aproximación a los
misterios de la realidad en apariencia cotidiana despejando las incógnitas de una
vida misteriosa».
Respecto a este doble aspecto, lo cotidiano y lo misterioso, el primero domina
en La plaza del Diamante y Espejo roto —novela tan compleja y con tantos persona-
jes que tuvo que ser escrita con fichas—, mientras que el segundo va cobrando fuer-
za a medida que pasan los años. Esta sucesión tiene una lógica no sólo histórica sino
escritural. A Espejo roto que es una novela panorámica de la Barcelona de principios
del siglo XX, del mundo de la burguesía catalana, con la cual acabará la guerra, si-
guen, como hemos visto, Cuanta, cuanta guerra y La muerte y la primavera.
Rodoreda, en la entrevista mencionada, califica la salida de París de apocalípti-
ca. Soler Serrano comenta: «Además, entre la muerte y las bombas». Y ella replica:
«Pero le diré una cosa, era exaltante, yo era joven y todo aquello fue una aventura
tan enorme que no me ha sabido mal. Estuvimos tres días sin comer por ejemplo. El
día que empezamos a comer algo parecía que comíamos madera…».
Lo apocalíptico, sin duda, le lleva a escribir Cuanta, cuanta guerra, pero ese
sabor a madera, esa sensación extraña, puede muy bien ser el desencadenante de
su libro más terrible: La muerte y la primavera, acaso aquel al que Carme Arnau se
refiere cuando dice: «Después de publicar Cuanta, cuanta guerra, su última novela,
una de sus obras más oscuras, manifestó el deseo un poco malévolo de escribir un
libro que no gustase a nadie».
Estas dos últimas novelas, como decía, junto al libro de cuentos Viajes y flores,
son a mi juicio las obras cumbres e inigualables de Rodoreda. Enric Bou resume así
la primera:
Narra la aventura del joven Adrià Guinart que pasa tres años recorrien-
do un paisaje de gran belleza huyendo de los desastres de la guerra. El
atavismo, un mundo onírico y nocturno presiden la mínima acción,
en la que se yuxtaponen imágenes de una belleza misteriosa: «un rayo
de luna como una espada me cayó encima, el río lo repitió». La guerra
es metáfora de la existencia, presidida por el absurdo que implican la
muerte, la destrucción».
Pero no hay que olvidar que justamente la obra empieza de un modo análogo al
Lazarillo de Tormes: «Nací a medianoche, en otoño, con una mancha en la frente…»
Ese tono sitúa de inmediato el texto, digamos, en una “onda literaria”, que no tarda
en ampliarse, hasta que la vemos irse transformando, abarcando también la tradi-
ción popular, la literatura fantástica o los cuentos contados junto al hogar durante
las frías noches de invierno, cuentos crueles y de miedo, pero llenos de poesía y, de
pronto, situados en un panorama cinematográfico de paisaje después de la batalla o
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en un bosque encantado con animales y personas hermosísimas o perversas y malé-
ficas. El lector sigue de sorpresa en sorpresa sin respirar hasta el final.
En cuanto a La muerte y la primavera, de atmósfera semejante a alguno de los
cuentos de Viajes y flores, se trata de una obra llevada a cabo después de La plaza
del Diamante, y, como ésta, presentada sin éxito al premio Sant Jordi, ahora en 1961.
Veinte años después, Rodoreda sigue trabajando en ella, «luchando —dice— como
si me fuera la vida». Pocas semanas antes de morir afirmaba: «Antes que nada aca-
baré La muerte, falta poquísimo». Armand Obiols (Prólogo a la obra), con todo, ya
en el ‘61 le escribía:
No creo que en toda la prosa catalana exista un personaje tan vivo como
Colometa ni un pueblo tan alucinante y real como el de La muerte… La
impresión que La muerte deja de ambiente es más fuerte que Colome-
ta, no sé por qué. No me puedo quitar de la cabeza el pueblo, la mon-
taña partida, el ruido del río, el herrero… como si se tratara de aquellos
sueños inexplicables de los que te acuerdas mucho tiempo después.
Obiols tenía razón. La misma fuerza tienen los cuentos de Viajes y flores.
El mero título de la obra, Viajes y flores, destaca, de entrada, dos polos contra-
puestos: el movimiento del trayecto por un lado y, por otro, la quietud de la planta.
En los viajes la atmósfera y el ambiente humano son algo más generalizado; a través
de las flores, en cambio, se diría que se nos ofrecen retratos de un carácter. Así se nos
transmite una amenaza de violencia en el pueblo de la guerra, las mujeres son vícti-
mas en el pueblo de las mujeres abandonadas y en el de los ahorcados, hallamos alto
surrealismo en el pueblo de la brujería y en el igualmente inquietante y enigmático
pueblo de las niñas perdidas donde el misterio de los bosques les induce el deseo de
no moverse de allí. Por el contrario, entre las flores, hay una, la flor caballero, que
es inquieta, «está en guerra con el viento», mientras en el pueblo de las dos rosas se
establecen dos orientaciones: la buena y la mala noticia.
En esa aldea, del lado del poniente todo está horadado de madrigueras, del de
levante, lleno de vegetación; en poniente no llueve; en levante no deja de llover. Los
habitantes no tienen interés por el futuro: en la pared de su comedor, cuando va a
darse una buena noticia, crece una rosa azul y se queda un día; si la noticia es mala
aparece una rosa negra. Este es un cuento donde se borran los límites entre poesía
y prosa. Todo en él es poético y está polarizado por esa flor azul que representa
siempre lo imposible. La rosa negra, en cambio, nos introduce con intensidad en
las inmediaciones de ultratumba. Nos hallamos ante el cruce de dos mundos, del
tiempo al no tiempo. Así llegamos al pueblo de vidrio a través de la transparencia. En
él los hombres no necesitan libros, «saben encontrar en el espacio, grabado para la
eternidad, todo lo que ha pasado en el mundo». Es la transparencia de la sabiduría,
que no necesita materia para producir el conocimiento.
Muy cerca de la sabiduría se halla la felicidad, que, en cambio, surge simboliza-
da a través de un color sutil y plural, el del arco iris en el pueblo de la felicidad. Pero
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la felicidad no es para el hombre, la alegría (flor de fuego) lo incendia todo y muere
en el fuego sin comprender; y, a veces, la existencia depende exclusivamente de la
existencia ajena (la flor sombra: «sólo vive cuando viven los que dan luz»). Y ya es-
tamos en los rasgos humanos: la flor saltamontes «se te echa encima»; la atrevida flor
delirio pone el pie en el suelo; la flor disfraz es seductora y engañadora, «cuando eres
completamente suyo, de una sacudida se desarraiga y desaparece»; la flor caminante
es «caprichosa, vagabunda»; la flor saeta va y viene, y no se sabe de dónde sale. Sí,
claramente todo es posible en ese mundo, las flores se mueven. Todo está vivo. Hay
que estar inmensamente alerta, no sucumbir a las llamadas; hay que estar atento a
la verdad de uno mismo. El viaje —sea cual sea el panorama— tiene que ser una
peregrinación al propio centro, al centro de la flor.
Sin duda por una peregrinación al centro, que en eso consistía el intercambio
amistoso más importante de mi vida, leí yo por primera vez a Rodoreda. La leí im-
pulsada por Rosa Chacel, que la admiraba profundamente. Con Rosa nos leíamos
todo lo que escribíamos prácticamente cada día por teléfono, y luego hacíamos reca-
pitulación juntas en su casa, y también leíamos libros a la vez. Rodoreda admiró La
sinrazón y Rosa, por su parte, le escribió sobre La plaza del Diamante:
Empezaré por decirle que el encanto que tiene para mí su libro es —por
paradójico que parezca— el de una cosa dificilísima. Me sume en una
especie de contemplación interrogante: ¿Cómo se puede hacer una cosa
tan sencilla?... Claro que hay que añadir y tan perfecta. […] Digo una
cosa tan sencilla porque se hace difícil ver en qué consiste su eficiencia
poética, la fuerza de su veracidad.
Poesía y veracidad, belleza y dureza… Todo concretado, encarnado en palabras,
convertido en realidad inapelable, siempre envuelta por un enigma. Después de leer
a Rodoreda, sobre todo estas últimas obras, siento como muy certeras las palabras
de Breton: «tan sólo la imaginación me permite llegar a saber qué puede ser».
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 255-260. issn: 2240-5437.
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Los olvidados e La aventura del Muni
Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
G IULIANA C ALABRESE
Università degli Studi di Milano
[email protected]
La Guinea Equatoriale ha così tanti volti da non poter essere osservata da un
solo punto di vista. Il violento regime dittatoriale in cui il paese vive da oltre qua-
rant’anni non può che essere studiato a partire dalle differenze etniche e ripercor-
rendo a ritroso la storia di quei territori almeno fino al periodo delle prime colo-
nizzazioni spagnole. Il tutto si muove sullo sfondo di una natura aggressiva e ben
poco accogliente, in cui nessuno degli altri attori presenti sulla scena ha un ruolo
secondario: le organizzazioni internazionali, i petrolieri senza scrupoli e le potenze
europee più o meno conniventi. È intuibile, perciò, che un solo viaggio in Guinea
Equatoriale non sia sufficiente a comprenderla tutta: per quante esperienze sia di-
sposto a vivere il viaggiatore, la realtà equatoguineana è così complessa che diventa
necessario assumerla (e poi narrarla) in piccole dosi.
Questo tratto emerge con chiarezza dai due libri di viaggio di cui si intende par-
lare qui, Los olvidados. Revelaciones de un viaje a la dramática realidad de Guinea
Ecuatorial (Madrid, Foca Ediciones, 2004), di Eduardo Soto-Trillo, e La aventura
del Muni (Vitoria, Ikusager Ediciones, 2010) di Miguel Gutiérrez Garitano, com-
plementari l’uno per l’altro e tuttavia ancora visioni parziali sulla poliedrica realtà
equatoguineana.
«Uno debe intentar conocer siempre el porqué de contar ciertas cosas, la inten-
ción que subyace en el que delata. […] Hay personas cuya única función es trans-
Giuliana Calabrese
Los olvidados e La aventura del Muni. Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
262
mitir» (Los olvidados, p. 193). Queste parole sintetizzano bene il ruolo che Eduardo
Soto-Trillo ha voluto assumere nel suo libro: la missione che si impegna a compiere
è quella di raccontare, senza cadere nella trappola di perdersi in troppe considera-
zioni personali o preamboli retorici che attutiscano il colpo che andrà a sferrare.
Eduardo Soto-Trillo (1972) è un avvocato internazionalista esperto in diritti
umani e con un’ampia esperienza, anche sul campo, di aree colpite da conflitti inter-
nazionali. A due anni dal suo primo libro Voces sin voz (Bogotá, Intermedio, 2002),
libro di viaggio sullo sfondo della guerriglia colombiana delle farc, con Los olvida-
dos accompagna il lettore in Guinea Equatoriale, facendogli scoprire la cruda realtà
che la contraddistingue.
La scelta di questa meta non è casuale: il padre di Soto-Trillo, infatti, è un me-
dico ormai in pensione che lì aveva esercitato la sua professione quando il paese era
ancora sotto il dominio coloniale spagnolo, ma era stato costretto a scappare con
tutta la sua famiglia nel 1969, quando si instaurò il regime di Macías Nguema. Tra
il 2003 e il 2004, a più di trent’anni di distanza dalla sua fuga dal paese, è proprio il
padre dell’autore a proporgli un viaggio in Guinea per vedere come vanno le cose,
adesso che la Spagna non ha più molta voce in capitolo e una nuova e più violenta
dittatura, quella di Obiang, ha sostituito quella di Macías Nguema. L’autore, perciò,
del tutto ignaro della situazione equatoguineana se non per i frammentari racconti
dei suoi genitori, decide di partire, spinto dal più autentico, forse, tra i motori del
viaggio: la curiosità.
Fin dalle prime pagine, Soto-Trillo stabilisce che il suo vero compagno di viag-
gio sarà il lettore, e così decide di accompagnarlo in un processo di conoscenza
graduale di questa piccola area del pianeta: prima di partire, l’autore si documenta
più che può consultando biblioteche, siti web, amiche della Commissione Europea
dei Diritti Umani e amici dottorandi, e così facendo, in realtà, riporta senza alcuna
pedanteria le informazioni acquisite, riuscendo a preparare al viaggio insieme a lui
anche il lettore, che tra le righe può recuperare perfino una breve bibliografia sulla
Guinea. Nonostante la sua genuina sete di conoscenza, l’autore non nega che la sua
curiosità sulla meta del viaggio inizia ad essere stimolata quando è ormai certo che
il periodo che lui e suo padre hanno scelto per partire è tra i più delicati:
En aquellos días, ya del mes de abril, en los periódicos se daba cuenta
de lo que estaba sucediendo en la Comisión de Derechos Humanos re-
unida en Ginebra. Este organismo de la onu, encargado de denunciar a
los Estados que violaban sistemáticamente derechos tan fundamentales
como la prohibición de la tortura, el derecho a un juicio justo o, simple-
mente, el derecho a la vida, acababa de asolver al régimen de Obiang de
todos sus pecados (p. 16).
In realtà, Soto-Trillo spiega che le premesse per la partenza si fanno ancor meno
rosee quando, una volta smorzatasi l’attenzione dell’Europa sulla Guinea, Obiang
progetta di liberarsi dei suoi rivali politici con presunte accuse di colpi di stato e
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Los olvidados e La aventura del Muni. Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
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ordina l’arresto dei suoi due principali oppositori, Plácido Mikó e Felipe Ondó, oltre
a un centinaio di altre persone (compresi minorenni e donne incinte), per i quali il
processo si sarebbe tenuto proprio durante la permanenza dell’autore e di suo padre
in Guinea. A questo proposito, riferendosi alle numerose informazioni che reperisce
in ogni dove, Soto-Trillo riconosce che «yo mismo estaba cayendo en la trampa de
mi padre, hacerme con una red propia de informadores» (p. 28).
L’acquisizione della conoscenza sarà il filo conduttore, sebbene piuttosto sotter-
raneo, del viaggio: Soto-Trillo riferisce puntualmente ciò che impara o quello che gli
viene raccontato da chi invece la Guinea l’ha vissuta in prima persona. Il suo, quindi,
si preannuncia come un vero e proprio viaggio di ricerca, forse fatto anche di inge-
nuità – resta da capire se trasmessa volontariamente oppure no – e di totale assenza
di pregiudizi. Il giovane Eduardo, all’epoca del viaggio ancora studente di dottorato,
si lascia pervadere dallo spirito del ricercatore (anche universitario, se vogliamo)
e riesce a immetterlo nel racconto con suggestione: qualsiasi informazione viene
acquisita con un’innocente aria di stupore e riportata non lasciandosi andare mai a
commenti personali o considerazioni frettolose e superficiali, tanto che nel testo si
fa ampio uso discorso diretto dei personaggi incontrati.
Sicché il viaggio avviene più che altro attraverso gli incontri di chi vive ancora
in Guinea, soprattutto diplomatici e uomini con cui il padre aveva intrecciato rap-
porti più o meno stretti durante la sua permanenza: tramite le loro parole e la loro
prospettiva, Soto-Trillo ordisce un racconto che prende forma a poco a poco e che
assume i tratti di denuncia di una realtà così misera e ricca al tempo stesso.
A onor del vero, va riconosciuto che qualche pregiudizio viene riservato al pa-
dre, il vecchio medico: la sua mentalità “coloniale” è rimasta invariata nonostante il
passare dei decenni, tanto, per esempio, da interessarsi affinché un boy possa accom-
pagnarli dappertutto una volta arrivati a destinazione. Ma anche questa tara viene
trattata con dolcezza da Soto-Trillo, che spesso prova addirittura tenerezza per il
vecchio padre che, anch’egli ingenuamente agli occhi del figlio, crede di ritrovare
una Guinea diversa da com’è in realtà.
I colori del viaggio assumono così almeno due sfumature: è il viaggio del figlio
– e insieme a lui del lettore – che guarda e scopre, ed è anche il viaggio di riscoperta
del padre, i cui occhi sono invece velati di nostalgia e senso di inadeguatezza per
una realtà che lo fa sentire impotente e di cui, forse, si ostina a non volersi rendere
conto pienamente.
Con due percorsi paralleli lungo la stessa traiettoria, quindi, padre e figlio si
addentrano sempre più nei territori equatoguineani. Descrivendo le procedure per
ottenere i visti per raggiungere il paese o per superare i posti di blocco al suo in-
terno, cosa sempre paradossalmente troppo facile o troppo difficile, i viaggiatori si
spostano da Malabo a Bata, diretti infine verso Evinayong, dove il medico vuole ren-
dere omaggio spiritualmente al suo vecchio amico Bonifacio, oppositore del regime.
È originale il modo di bilanciare il procedere del viaggio e la conoscenza che
via via l’autore – e di conseguenza il lettore – acquisisce. Mentre padre e figlio per-
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corrono il cammino che li porterà nel cuore della Guinea spagnola, si stabilisce una
proporzionalità inversa tra le informazioni che al giovane Eduardo vengono fornite
da chi incontra lungo la strada e la sua capacità di rendersi conto da solo di quanto
lo circonda, e in seguito di inserirlo con giudizio critico nel racconto.
All’inizio del viaggio, mentre i due si trovano a Malabo, ciascuna delle persone
incontrate (per caso o su appuntamento) dà il suo contributo con una denuncia fe-
roce – anche se pronunciata spesso a denti stretti – su uno dei molti aspetti negativi
del paese. Così succede con le parole di un vecchio collega del padre che racconta
loro della mancanza di luce e acqua corrente nelle città – figurarsi nei villaggi – e del
divieto da parte del regime di parlare di prostituzione o, peggio ancora, di aids. O
ancora, quando un giornalista locale spiega che criticare il presidente e la sua fami-
glia sarebbe un crimine e come le notizie non possano né entrare né uscire dal paese.
Questi sono tutti discorsi che l’autore riporta in presa diretta, senza retorica né com-
menti personali, e con rispetto massimo per la sua dichiarazione di fede: «Nosotros
no podíamos emitir ningún juicio. El viaje nos daría la respuesta» (p. 56). L’esatto e
inferocito riassunto della situazione economica e politica in cui versa la Guinea, per
esempio, viene fornito da un giovane insegnante in cui l’autore si imbatte nel Centro
di Cultura Spagnola:
La cooperación española es la peor que pueda haber, descontrol y más
descontrol; mientras tanto, los americanos se están llevando todo el pe-
tróleo a cambio de nada, y los franceses son los dueños de Getesa, la
telefónica guineana, y del Ministerio de Economía; ellos se quedan con
todos los grandes contratos (p. 59).
In questa prima tappa insulare del viaggio, anche gli incontri con i diplomatici
e i funzionari spagnoli si rivelano fruttuosi per l’autore: in essi non trova ricche
fonti di informazione, ma nelle loro figure Soto-Trillo può incarnare la critica verso
la cooperazione spagnola, ormai inerme, indolente e fatiscente come i palazzi che
ospitano gli enti spagnoli o le segretarie, poche e annoiate, che vi lavorano.
Più si addentra nel cuore dell’Africa (nominata direttamente solo una volta at-
terrati sul continente), maggiore è la capacità di giudizio critico di Soto-Trillo, men-
tre le parole delle persone che lui e suo padre incontrano diventano via via meno
preponderanti per lasciare spazio alle impressioni di viaggio. Di certo anche a Bata,
capitale della zona continentale, non mancano racconti che suscitano sdegno, come
quello del responsabile della federazione di religiosi nella zona continentale che li
guida nell’ospedale della città, spiegando che adesso sono le famiglie dei pazienti a
dover provvedere con biancheria e medicine. È toccante l’ immagine dell’anziano
medico coloniale che crede nella sua missione e si sente responsabile in prima per-
sona per aver lasciato il paese in balia di se stesso:
Mi padre no hizo ningún comentario cuando salimos del hospital.
Aquel desastre no le hacía sentirse mejor por representar él mismo una
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época en la que las cosas funcionaban. Estaba triste, enfermedades con-
tagiosas antes controladas se expandían ahora libremente; otras, en otro
tiempo olvidadas, se habían hecho habituales en la Guinea del petróleo.
En cierta forma, se sentía responsable de toda esa gente a la que, un día,
sintió que abandonaba; ese panorama de desolación le dolía y ya era
demasiado mayor para plantearse un retorno, una nueva lucha (p. 108).
Sempre a Bata, l’incontro con un vecchio sconosciuto e le parole di quest’ulti-
mo creano addirittura l’attesa di un lieto fine, facendo acquistare al libro per un mo-
mento le caratteristiche di un romanzo: «Los que matan deben morir, y esto ocurrirá
tarde o temprano, todos estamos preparados para cuando llegue el momento. Dios,
la Virgen y todos los santos lo saben» (p. 112). Nel frattempo, l’autore non manca
di fornire rapidi e crudi cenni al processo che si sta portando avanti nei giorni del
suo viaggio: «Seguro que los del juicio han empezado a hablar. Las torturas siempre
funcionan; al final, uno es capaz de acusar a su padre y a su madre con tal de que
acaben» (p. 129).
Evinayong, patria dell’amico del vecchio medico, Bonifacio, e meta finale del
viaggio, si avvicina, ed è proprio in questo ultimo tratto che il racconto assume
anche qualche aspetto più tipico del reportage, soprattutto man mano che i due
viaggiatori si addentrano nella foresta tropicale, mentre la cultura ancestrale africa-
na diventa poco alla volta protagonista di quest’ultima tappa. La condizione della
donna, leggermente più emancipata in città, per paradosso grazie alla possibilità di
prostituirsi, nei villaggi più interni è rimasta invariata da millenni, se non addirit-
tura peggiorata con l’introduzione progressista del divorzio; la stregoneria sembra
essere l’unica alternativa alla mancanza di ospedali e medici preparati, e la povertà
in cui è costretto il paese – nonostante la ricchezza di petrolio – quasi giustifica l’an-
tropofagia, in mancanza di altra carne di cui cibarsi. L’autore mantiene il consueto
atteggiamento anche a contatto con questi ultimi e più misteriosi volti della Guinea:
«Las conclusiones podían ser erróneas, llenas de prejuicios, pero admitían muy po-
cas objeciones, especialmente por mi parte, un ignorante; se basaban en un contacto
íntimo con esa realidad tantas veces mal interpretada desde la distancia» (p. 196).
Con un sentimento di profonda codardia e vergogna che lo accomuna al padre,
perché si sente come se stesse abbandonando a se stessa la Guinea Equatoriale, Soto-
Trillo lascia il paese, e lascia anche il lettore, riassumendo per lui gli ultimi avveni-
menti politici riguardanti il processo:
Pocos días después de nuestra salida, después de un juicio lleno de irre-
gularidades y en el que nada se pudo demonstrar fehacientemente, el tri-
bunal condenó por el supuesto intento de magnicidio y de golpe de Esta-
do a 68 de los acusados, 12 de los cuales a veinte años de prisión (p. 262).
Le ultime parole dell’epilogo, infine, non possono che lasciare anche nel lettore
un profondo senso di amarezza e impotenza:
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A principios del año siguiente, los Estados Unidos reabrieron su emba-
jada en Malabo para reforzar sus relaciones con el presidente Obiang y
proteger así los intereses de sus compañías petroleras. Meses más tarde,
el gobierno de Aznar decidió impulsar la cooperación con el régimen
de Obiang, y las ministras Ana Palacio, de Asuntos Exteriores, y Ana
Pastor, de Sanidad, visitaron Guinea Ecuatorial sin realizar ningún co-
mentario crítico sobre la situación del país (p. 262).
Ben diverso è lo sguardo di Miguel Gutiérrez Garitano, che si sposta in Africa
con lo spirito dell’ esploratore-naturalista, decidendo di tralasciare gli spinosi ar-
gomenti d’attualità, salvo menzionarli di sfuggita in pochissime righe, paragrafetti
davvero brevi per un libro di quasi cinquecento pagine.
Nel libro La aventura del Muni (Vitoria, Ikusager Ediciones, 2010) Miguel Gu-
tiérrez Garitano (Galdakao, 1977) racconta la cronaca di due viaggi in Guinea Equa-
toriale da lui realizzati tra il 2002 e il 2005. Il giovane scrittore e giornalista basco,
da sempre appassionato di letteratura di viaggio e affascinato dalle esotiche avven-
ture degli esploratori ottocenteschi, nel suo libro, il secondo dopo Voces fronterizas:
poemas y reflexiones (Vitoria-Gasteiz, Psikor, 2008), dichiara di aver ripercorso il
cammino per terre guineane del grande pioniere suo conterraneo Manuel Iradier y
Bulfi (Vitoria, 1854 – Valsaín, 1911). È grazie a quest’ultimo che la regione africana
poté entrare effettivamente a far parte dei possedimenti coloniali spagnoli, e proprio
all’esploratore di Vitoria è dedicata la ONG Asociación Africanista Manuel Iradier,
altra presenza costante nell’opera di Gutiérrez Garitano. L’associazione umanitaria,
con sede a Vitoria ma presente anche a Cogo con una base operativa, venne fondata
nel 1988 da Álvaro Iradier, pronipote dell’esploratore Manuel, e dal medico Enrique
Gutiérrez Fraile, zio del nostro giovane scrittore. È stata proprio la ONG ad avere
un ruolo chiave nella mediazione tra le autorità equatoguineane e Miguel Gutiérrez
Garitano, permettendogli di recarsi nel paese africano in cambio di un reportage
fotografico.
Come spiega anche lo scrittore Javier Reverte nel suo prologo al libro, la struttu-
ra tematica dell’opera è divisa in tre parti: alle vicende dell’autore in Guinea si alter-
nano da un lato la storia e l’etnografia del paese e dall’altro il continuo riferimento
alle esplorazioni di Iradier e al suo diario di viaggio África. Viajes y trabajos de la
Asociación Euskara la Exploradora (1887), fedele compagno e guida di Gutiérrez
Garitano, come lui stesso dichiara subito:
En mi equipaje cargué siempre con África, el libro que recoge la hazaña
de Iradier. Sus páginas, en comunión con los bellos paisajes de Guinea,
me permitieron insuflar una noción de realidad a las fantasías ateso-
radas desde mi infancia. Sus fascinantes líneas, sus grabados llenos de
animales y bosques, me hicieron constatar, sobre el terreno, que el país
tropical todavía conserva su encanto fronterizo, su atractivo como tierra
de acción y aventura (p. 14).
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Gutiérrez Garitano si mette in cammino dichiarando di trovarsi nello stato o
“momento letterario” definito come iniziale per i viaggiatori dallo scrittore Arturo
Pérez-Reverte, il quale
sostiene que todo viajero pasa por tres fases en su devenir por los cami-
nos del mundo: la primera es la etapa Stevenson, en la que uno es joven,
está lleno de energía y todavía cree en un mundo dividido en buenos y
malos donde existen mapas que conducen a tesoros fabulosos (p. 23).
E Gutiérrez Garitano ha intravisto nella Guinea di Iradier la sua personale isola
del tesoro.
Nei primi capitoli del libro le vicende dell’autore assumono tratti diaristici, la-
sciando poco spazio allo spirito di avventura che il titolo lascia presagire; con den-
sità di dettagli, Gutiérrez Garitano racconta il suo arrivo in Africa, con un volo da
Madrid a Malabo, tessendo costanti parallelismi tra le parole di chi ha visto la Gui-
nea prima di lui o dell’ormai fraterno Iradier e il riscontro della realtà africana in cui
si sta immergendo:
Mi amigo Álvaro Iradier dice que Malabo es una ciudad de espaldas al
mar. Y yo estoy de acuerdo. Pero añadiría que es una urbe cerrada sobre
sí misma, volcada en un amor proprio sin ventanas al mundo circun-
dante. Al viajero le produce una sensación de ahogo, de claustrofobia
acentuada por el estado ruinoso y sucio que toda ella presenta (p. 38).
Con lunghe panoramiche cinematografiche sugli esotici paesaggi in cui si ad-
dentra e con una minuziosa tecnica quasi da naturalista, il giovane scrittore ac-
compagna il lettore nella regione continentale della Guinea: sempre sulle orme di
Manuel Iradier, da Malabo si dirige a Bata e da lì verso la città di Cabo San Juan,
intenzionato a trovare la tomba dell’antico re benga Bonocoro III (incontrato a suo
tempo dall’esploratore Iradier) con il beneplacito delle autorità locali.
Poco alla volta, tra i cenni alla pirateria contemporanea che infesta il Golfo di
Guinea e le difficoltà nel navigare il fiume verso l’isola di Elobey Chico (dove Iradier
aveva fissato la sua dimora), l’avventura di Gutiérrez Garitano inizia a diventare av-
vincente, soprattutto da quando l’autore decide di intraprendere l’impresa di scalare
il Monte Mitra. Sono suggestive e accattivanti le leggende che vengono raccontate a
proposito del Mitra, così come vivace è il racconto dell’ascesa al monte attraverso la
foresta equatoriale in compagnia di due guide locali, di un cacciatore di elefanti e di
voraci formiche carnivore. A questo proposito, va detto che non mancano passaggi
ironici o addirittura umoristici: è questo il caso del raggiungimento dell’agognata
cima del monte, che l’autore dichiara essere il Mitra più per stanchezza che per con-
vinzione. In casi come questo Gutiérrez Garitano si sente particolarmente vicino al
«caballero de la Mancha, el más ilustre viajero de ficción» (p. 128).
Dopo una breve permanenza nel villaggio di Cogo, con compagni di viaggio
sempre nuovi, il giovane scrittore si sposta verso la zona più “turistica” della Guinea,
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il Parco Nazionale del Monte Alén. Del ricco apparato paratestuale riferiremo in
seguito, ma vale la pena fare fin d’ora un breve cenno alla preziosa cartina della Gui-
nea che Gutiérrez Garitano inserisce tra le pagine finali del suo libro: grazie a questa
risorsa, gli spostamenti dell’autore si possono seguire con più facilità e confrontare
con i percorsi dei pionieri dell’Ottocento.
A guidarlo tra la selvaggia vegetazione del parco c’è Jesús Elá, il vecchio caccia-
tore nero più famoso della Guinea, ormai a capo delle guide del parco. L’entusiasta
Miguel non può fare a meno di provare un brivido di piacere quando l’anziana guida
gli mostra la cartina del territorio del Monte Alén: la zona che si apprestano a esplo-
rare è abitata dai gorilla.
I giorni che il nostro scrittore si prepara a trascorrere nella foresta equatoriale
gli servono da pretesto per inserire nel suo racconto una digressione storico-natu-
ralistica sui progetti di salvaguardia dell’ambiente equatoguineano, fino ad arrivare
al programma con cui negli anni Novanta dello scorso secolo venne istituito l’unico
parco nazionale presente in Guinea, appunto quello che sta per visitare. Puntualizza
a tal proposito:
Estas medidas, de aprobación relativamente reciente, o han fracasado o
están en vías de hacerlo. No es que los proyectos estén mal planteados;
no es que la gente que hay detrás esté mal preparada; simplemente, están
hechos por europeos con mentalidad europea. Todas estas siglas suenan
muy bien en los despachos de Bruselas, pero en el Muni son papel mo-
jado (p. 286).
Il cammino sulle trace di Iradier è quasi concluso, ma prima di lasciare la Gui-
nea Equatoriale Gutiérrez Garitano torna a Cogo perché «pretendía iniciarme y
convertirme en un bandijo o adepto de la secta secreta del bwiti» (p. 407). Grazie a
un’abbondante dose di iboga, la pianta allucinogena che permette di raggiungere il
“Más Allá”, l’intrepido scrittore intraprende l’ultima e più pericolosa tappa del suo
viaggio, quella che gli permette di conoscere il Secreto, la conoscenza mistica de-
stinata ai pochi iniziati del bwiti, un culto sincretico che intreccia cristianesimo e
animismo:
El Secreto era la base ideológica y mística, al tiempo que el nexo de
unión de las antiguas sociedades secretas africanas. Los iniciados en
el Secreto poseían conocimientos espirituales que hermanaban a sus
miembros y los diferenciaban del resto de los simples mortales (p. 402).
Se la cerimonia iniziatica e le quattordici ore di trance, oltre al battesimo con
cui termina l’iniziazione (e che sancisce il passaggio a una nuova vita come persona
che può vedere más allá) non hanno ancora messo a rischio l’incolumità del giovane
Miguel, lo stesso non si può dire dell’indignazione suscitata tra le autorità guineane
per la sua iniziazione al culto bwiti. Quando all’autore, ormai sospettato di essere
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Los olvidados e La aventura del Muni. Due viaggiatori spagnoli in Guinea Equatoriale
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una spia spagnola, viene “suggerito” di recarsi al commissariato di Bata per alcune
“domande”, non gli resta che prendere il primo volo per Madrid e scappare prima di
trovarsi in pericolo sul serio.
Nonostante predomini il viaggio, La aventura del Muni va oltre questa sola di-
mensione. Le dense e approfondite digressioni storiche ed etnografiche e i ricchi
apparati bibliografici e fotografici fanno del libro un’autentica opera enciclopedica,
tanto che Javier Reverte nel suo prologo scrive: «El libro tiene un valor muy sencil-
lo: cubre un vacío importante cual es la carencia de textos históricos sobre Guinea
Ecuatorial, tanto en los tiempos de la exploración, como en los de la colonia y en la
siguiente andadura desde la independencia del país» (p. 9).
Tuttavia, è per le sue indiscutibili qualità di reportage che lo scorso 3 maggio
2011 il libro è stato inserito tra gli otto finalisti della quarta edizione del Premio de
Literatura de Viajes Camino del Cid.
I due libri qui commentati raccontano dunque il diverso approccio di due gio-
vani viaggiatori spagnoli verso lo stesso luogo, le stesse persone e la stessa atmosfera.
Le storie che hanno raccontato, più socialmente impegnata e forse più coinvolgente
quella di Soto-Trillo, più esaustiva dal punto di vista storico e geografico quella di
Gutiérrez Garitano, si completano a vicenda e potrebbero addirittura formare un
primo piccolo corpus del nuovo millennio di letteratura di viaggio verso la Gui-
nea Equatoriale. Infatti, i pochi libri di viaggio recenti su questo paese risalgono
al periodo tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, quando il
passaggio dalla dittatura di Macías Nguema a quella di Obiang comportò una lieve
riapertura delle frontiere e qualche ostacolo in meno per i viaggiatori (in gran parte
diplomatici e giornalisti).
Soto-Trillo e Gutiérrez Garitano mostrano che cosa è cambiato negli ultimi
anni, ma soprattutto che cosa in Guinea Equatoriale è rimasto pressoché immutato
dall’epoca coloniale o addirittura dai tempi ancestrali.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 261-269. issn: 2240-5437.
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Tintas. Quaderni di letteratura iberica e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Romancero. Canti narrativi della Spagna che ogni antologia è una sfida persa in
medievale, introd. e note di Giuseppe Di partenza: mancherà sempre, a detta dei
Stefano, trad. di Enrico Di Pastena, con testo lettori avvisati, qualche brano merite-
a fronte, Venezia, Marsilio, 2011, 443 pp. vole o addirittura imprescindibile, e ce
ne sarà sempre qualcuno a cui si poteva
rinunciare. Ci sottrarremo, dunque, alla
Rilanciata con vigore da qualche anno consuetudine di stendere l’inventario
sotto la direzione di Marco Presotto, la delle presenze e delle assenze, e ci dedi-
collana “Dulcinea” della Marsilio propo- cheremo ad altro, ossia a valutare il pos-
ne un nuovo titolo di sicuro interesse. Si sibile impatto del volume sul pubblico a
tratta di un’impresa rischiosa, per certi cui è diretto: in prima istanza al lettore
versi, ma opportunamente affidata alla colto che s’interessa di cose ispaniche
sapienza di Giuseppe Di Stefano, che ha (rara avis, ancor oggi), e poi a quelli che
potuto fare scorta di precedenti espe- saranno, presumibilmente, i principali
rienze titaniche in editoriali spagno- consumatori del libro, vale a dire gli stu-
le, affrontate sempre col giusto piglio. denti universitari.
L’impresa è quella, immancabilmente Fin dal sottotitolo (con l’indicazione
insidiosa, di realizzare un’antologia; e in “canti narrativi”), il volume vuole espli-
questo caso è ancor più spinosa, dal mo- citare un aspetto sovente dimenticato,
mento che l’obiettivo del volume di cui e comunque assai poco presente allo
parliamo è quello di offrire un florilegio studente medio di letteratura spagnola,
(necessariamente non ampio, ma spera- o d’altra area: il profondo legame che
bilmente significativo) di un corpus dal- si stabilisce, almeno in età medievale e
le dimensioni tanto estese da non essere rinascimentale, tra la dimensione del
controllabili. testo, che fluttua tra l’oralità e parziali
Possono, dunque, i 72 testi selezionati forme di scrittura, e quella dell’accom-
per il libro, e poi messi nelle mani di En- pagnamento in musica, a volte semplice
rico Di Pastena, felicemente gravato dal e popolaresca, talora raffinata e cortigia-
compito di approdare a una traduzione na. Su questo vincolo insiste, opportuna-
(mai come in questo caso di nobile ser- mente, la bella introduzione di Di Stefa-
vizio), rappresentare un'immagine dav- no, che si apprezza per l’estrema chiarez-
vero affidabile dell'immensa tradizione za espositiva, la linearità esemplare della
romanceril? Certamente no, verrebbe struttura organizzativa, e la densità dei
da dire, e d’altro canto è ben risaputo contenuti e dei temi affrontati. Il risulta-
RECENSIONI
274
to è un insieme di poco più di trenta pa- pico del traduttore che si dichiara scon-
gine, che costituiscono nel loro insieme fitto nello scontro con il testo d’origine è
un ottimo avvicinamento al romancero da tempo moneta corrente, e non poteva
nel suo complesso e alle sue mille sfac- mancare nemmeno nella breve nota che
cettature. La snellezza dell’introduzione antecede la raccolta dei romances. Enrico
non fa a pugni con la completezza della Di Pastena, non nuovo a prove tradutti-
rassegna delle principali questioni, mol- ve insidiose (penso alla Teoría y juego del
te delle quali ancora oggetto di dibattito, duende lorchiana), sceglie un cammino
che definiscono la dimensione proble- transitato e indubbiamente consiglia-
matica di questo corpus: le origini del bile, quello di evitare la forzatura della
romance, la sua struttura metrica, la cen- rima assonante e della specularità metri-
trifuga trasmissione, le ricreazioni con- ca nella versione italiana rispetto all’ori-
tinue, l’andamento dialogico e talvolta ginale spagnolo. Tuttavia non manca di
quasi teatrale di molti testi, il loro rag- esercitare una scelta personale, che ci
grupparsi (certo più per nostra comodi- sembra del tutto condivisibile, quale è
tà che non per esplicita volontà dei testi quella di riprodurre nella lingua d’arri-
stessi) in filoni tematici. Si aggiunga, poi, vo le imprevedibili alternanze dei tempi
a completamento dell’apparato, l’ampia verbali che caratterizzano molti roman-
annotazione (sono circa 60 pagine) che ces, e che senz’altro ne costituiscono una
accompagna, in fondo al volume, ogni delle cifre stilistiche più peculiari.
singolo romance scelto, e la sua indub- Un ottimo strumento didattico e di
bia utilità per il lettore meno avvezzo ai mediazione culturale ci sembra, in de-
personaggi e alle leggende della cultura finitiva, questa antologia, che riesce a
ispanica, e si avrà un quadro del valore vincere la battaglia con le pagine a di-
complessivo del volume. sposizione (sempre troppo poche) e a
Forse risulta lievemente sbilanciata la offrire un percorso di lettura valido, ben
distribuzione dei testi in categorie, tra organizzato, e di sicura comprensibili-
cui spicca quella dei romances novelle- tà anche per un pubblico, duole dirlo,
schi (ben 33 brani sui 72 complessivi). sempre meno abituato al testo poetico
Si tenga conto, però, come correttamen- medievale.
te ricorda Di Stefano, che l’etichetta di
novelesco si è sempre applicata a una Alessandro Cassol
vastissima congerie di testi, anche sen-
sibilmente diversi fra loro, che presen-
tano elementi di non facile collocazione
in altre categorie, dai contorni ben più
definiti. Né sarà da trascurare l’indub- Juan de Robles, Tardes del Alcázar. Doctrina
bia fascinazione di gran parte di questi para el perfecto vasallo, a cura di Antonio
romances, come quello, celeberrimo, del Castro Díaz, Ayuntamiento de Sevilla, 2011,
Conde Arnaldos e del suo incontro con 328 pp.
il vascello incantato, significativamente
posto ad apertura della silloge.
Quanto alla versione italiana, è chia- Tardes del Alcázar si conserva in un
ro che della traduzione di testi poetici è manoscritto autografo custodito nel-
sempre oltremodo difficile parlare. Il to- la Biblioteca Capitular y Colombina di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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to è un insieme di poco più di trenta pa- pico del traduttore che si dichiara scon-
gine, che costituiscono nel loro insieme fitto nello scontro con il testo d’origine è
un ottimo avvicinamento al romancero da tempo moneta corrente, e non poteva
nel suo complesso e alle sue mille sfac- mancare nemmeno nella breve nota che
cettature. La snellezza dell’introduzione antecede la raccolta dei romances. Enrico
non fa a pugni con la completezza della Di Pastena, non nuovo a prove tradutti-
rassegna delle principali questioni, mol- ve insidiose (penso alla Teoría y juego del
te delle quali ancora oggetto di dibattito, duende lorchiana), sceglie un cammino
che definiscono la dimensione proble- transitato e indubbiamente consiglia-
matica di questo corpus: le origini del bile, quello di evitare la forzatura della
romance, la sua struttura metrica, la cen- rima assonante e della specularità metri-
trifuga trasmissione, le ricreazioni con- ca nella versione italiana rispetto all’ori-
tinue, l’andamento dialogico e talvolta ginale spagnolo. Tuttavia non manca di
quasi teatrale di molti testi, il loro rag- esercitare una scelta personale, che ci
grupparsi (certo più per nostra comodi- sembra del tutto condivisibile, quale è
tà che non per esplicita volontà dei testi quella di riprodurre nella lingua d’arri-
stessi) in filoni tematici. Si aggiunga, poi, vo le imprevedibili alternanze dei tempi
a completamento dell’apparato, l’ampia verbali che caratterizzano molti roman-
annotazione (sono circa 60 pagine) che ces, e che senz’altro ne costituiscono una
accompagna, in fondo al volume, ogni delle cifre stilistiche più peculiari.
singolo romance scelto, e la sua indub- Un ottimo strumento didattico e di
bia utilità per il lettore meno avvezzo ai mediazione culturale ci sembra, in de-
personaggi e alle leggende della cultura finitiva, questa antologia, che riesce a
ispanica, e si avrà un quadro del valore vincere la battaglia con le pagine a di-
complessivo del volume. sposizione (sempre troppo poche) e a
Forse risulta lievemente sbilanciata la offrire un percorso di lettura valido, ben
distribuzione dei testi in categorie, tra organizzato, e di sicura comprensibili-
cui spicca quella dei romances novelle- tà anche per un pubblico, duole dirlo,
schi (ben 33 brani sui 72 complessivi). sempre meno abituato al testo poetico
Si tenga conto, però, come correttamen- medievale.
te ricorda Di Stefano, che l’etichetta di
novelesco si è sempre applicata a una Alessandro Cassol
vastissima congerie di testi, anche sen-
sibilmente diversi fra loro, che presen-
tano elementi di non facile collocazione
in altre categorie, dai contorni ben più
definiti. Né sarà da trascurare l’indub- Juan de Robles, Tardes del Alcázar. Doctrina
bia fascinazione di gran parte di questi para el perfecto vasallo, a cura di Antonio
romances, come quello, celeberrimo, del Castro Díaz, Ayuntamiento de Sevilla, 2011,
Conde Arnaldos e del suo incontro con 328 pp.
il vascello incantato, significativamente
posto ad apertura della silloge.
Quanto alla versione italiana, è chia- Tardes del Alcázar si conserva in un
ro che della traduzione di testi poetici è manoscritto autografo custodito nel-
sempre oltremodo difficile parlare. Il to- la Biblioteca Capitular y Colombina di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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Siviglia con segnatura 56-4-48. La sua l’analisi di testi ispanici in prosa tardo-
storia editoriale risale al 1635, quan- medievali e rinascimentali.
do viene composto da Juan de Robles Dopo alcune pagine di biografia su
(1575-1649), ecclesiastico originario di Juan de Robles, brevi ma molto effica-
San Juan del Puerto (Huelva) trasferitosi ci come inquadramento per l’oggetto di
a Siviglia da giovanissimo. Nel 1636 Ro- studio, Antonio Castro Díaz, prolifico
drigo Caro, censore e amico dell’autore studioso di letteratura spagnola medie-
fin dai tempi dell’università, firma l’ap- vale e rinascimentale e autore di notevo-
provazione per dare il libro alle stampe. li edizioni critiche come Los Coloquios
Tuttavia, l’opera rimane in forma di ma- de Pedro Mexía (Sevilla, Diputación
noscritto fino al 1948, quando la Dipu- Provincial, 1977), Silva de varia lección
tación Provincial di Siviglia la pubblica (Madrid, Cátedra, 1989-1990) e Diálogos
in una trascrizione di Manuel Justinia- o Coloquios di Pedro Mexía (Madrid,
no e con il prologo di Miguel Romero Cátedra, 2004), si addentra in un’accu-
Martínez. Spiega Antonio Castro Díaz, rata descrizione del manoscritto auto-
curatore del volume qui recensito, che grafo di Juan de Robles.
l’edizione del ‘48 «adolece de ciertos È molto precisa (e sempre chiara,
defectos que el tiempo ha acrecentado, qualità mai scontata per le edizioni
como su carácter casi paleográfico, su critiche) la nota che spiega i criteri fi-
escasa tirada —que la convierte en pieza lologici seguiti dal curatore nella sua
de bibliófilo, difícil de encontrar— y los nuova edizione: per esempio, la moder-
fallos de carácter técnico en la repro- nizzazione di Castro Díaz riguarda gli
ducción del texto, ya sea por erratas o accenti e l’utilizzo delle lettere maiusco-
por errores de interpretación en la tran- le e minuscole, che vengono adattati in
scripción textual» (pp. 19-20). Tuttavia è base alle regole ortografiche della Real
a quest’ultima che Castro Díaz fa riferi- Academia Española. Spiega inoltre il
mento nella sua nuova edizione, soprat- curatore come siano stati modernizzati
tutto per l’interpretazione problematica e uniformati alcuni grafemi in prece-
di alcuni termini del manoscritto, ma denza equivoci per il loro valore voca-
sempre con le dovute riserve, come egli lico o consonantico, e prosegue dicendo
stesso dichiara, a causa delle numerose che «para facilitar la lectura, hacemos
lacune che presenta. un uso discrecional y moderado de los
La riedizione di Tardes del Alcázar, paréntesis, de los que el manuscrito usa
spiega Castro nella pagina dei ringra- con profusión y, a veces, abusa. Respe-
ziamenti, rientra nel Proyecto de Inve- tamos las contracciones de palabras
stigación FFI2009-08070 del Ministerio usuales en el Siglo de Oro (deste, dellas,
de Ciencia e Innovación, un lavoro di dél), pero adaptamos al uso moderno la
ricerca sul dialogo ispanico diretto da unión o separación de otras según su
Ana Vian Herrero, professore ordina- sentido o por imposición de las normas
rio presso la Universidad Complutense; actuales» (p. 64).
come si può leggere sulla pagina web del Di indubbia utilità per il lettore
progetto (cosultabile all’indirizzo http:// odierno risulta il ricchissimo appara-
www.ucm.es/info/dialogycabddh/in- to di note fornite dal curatore, sempre
dex.html), il lavoro comprende l’inven- ben equilibrate ed esaustive, e soprat-
tario, la descrizione, l’edizione critica e tutto l’indice tematico e onomastico che
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RECENSIONI
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Castro Díaz inserisce in coda alla sua battito) che si svilupperà nella seconda
edizione come «un glosario de las vo- tarde. Quest’ultima, che ha luogo il gior-
ces arcaicas o insólitas catalogadas, un no successivo, ha infatti come oggetto i
repertorio de los principales nombres y principi teorici sui quali si va imper-
asuntos documentados en el libro y co- niando il dialogo: la forma di stato della
mentados en nota, y un inventario de los monarchia assoluta, l’addottrinamento
fenómenos lingüísticos y literarios ob- degli individui affinché la loro condotta
servados en la obra de Robles» (p. 277). si adegui ai principi di tale assolutismo
Dice Castro Díaz di aver rispettato le e la politica del Conde-Duque de Oliva-
ultime volontà dell’autore, che aveva ri- res, a cui Juan de Robles dedica la sua
toccato il testo in attesa che venisse stam- opera. Si può notare facilmente, perciò,
pato, cosa che purtroppo non venne mai che Tardes del Alcázar appartiene al ge-
realizzata quando l’autore era ancora in nere del dialogo dottrinale, caratteriz-
vita. Aggiunge il curatore che ha pre- zato da temi e insegnamenti universali
ferito lasciare traccia delle due fasi del che un maestro trasmette a un allievo,
processo di elaborazione con un’apposi- il cui ruolo dev’essere quello di assenti-
ta lista di varianti in appendice al libro. re o porre domande affinché il maestro
L’accuratissimo studio introduttivo possa riproporre con fermezza i suoi
di Castro Díaz prosegue con una spiega- precetti.
zione del genere del dialogo dottrinale, Come succede nella maggior parte
entro il quale rientra il libro, e con un’il- delle opere dialogiche, l’autore ha optato
lustrazione della struttura e dell’argo- per un tipo di dialogo drammatico o di-
mento dell’opera. Il curatore è attento a retto, ovvero i personaggi parlano senza
dare solo i giusti cenni storici e stilistici che l’autore li introduca previamente nel
del genere letterario e a suggerire in nota discorso. La presenza dell’autore si nota
gli approfondimenti. Avrebbe potuto es- soltanto nella dedica al Conde-Duque
sere rischioso fare riferimenti più speci- de Olivares, a cui Juan de Robles chiede
fici a un genere così diffuso e studiato e di insegnargli a raggiungere la perfezio-
invece Castro Díaz riesce a menzionarlo ne del perfecto vasallo, e nel prologo al
con il giusto equilibrio senza mettere in lettore, in cui l’autore, oltre a dichiara-
ombra le Tardes rispetto all’antico gene- re l’utilità dell’opera ai fini di educare
re dialogico a cui appartiene. i suoi lettori come buoni vassalli e cit-
L’opera è divisa in due parti (tardes) tadini, sottolinea l’umiltà del suo stile
di diversa lunghezza e lascia spazio a in modo che possa essere compreso e
un’eventuale conclusione che tuttavia interiorizzato da tutti e cerca inoltre di
non venne mai prodotta, caratteristica, accattivarsi l’attenzione e l’indulgenza
questa di avere un finale aperto con un del pubblico con il topico della captatio
possibile ampliamento successivo, tipica benevolentiae.
dei dialoghi di quell’epoca. La struttura interna dell’opera è quel-
La prima parte, più breve rispetto alla la del dialogo classico: la prima tarde
seconda, serve per inquadrare il con- serve come praeparatio prologale; nella
testo dell’azione: vengono presentati i seconda tarde si sviluppa la contentio,
personaggi che dialogano, si precisano la vera e propria discussione che a sua
lo spazio e il tempo e si specifica l’ar- volta si divide in propositio, in cui si ri-
gomento della conversazione (o del di- propone il tema, e probatio o resolutio,
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in cui si apportano argomentazioni per sta edizione critica si è ormai abituato,
consolidare la tesi proposta e offrire una Castro Díaz accenna alla contestualiz-
sintesi finale. zazione storica e urbana dell’Alcázar e
Anche in questa illustrazione delle spiega come questo assuma la funzione
parti che compongono il dialogo clas- topica di locus amoenus.
sico, Antonio Castro Díaz evita di dare Il curatore approfondisce con intelli-
nozioni troppo manualistiche: i cenni genza come il tempo, lo spazio, l’aspetto e
teorici che fornisce sono quelli necessari il carattere dei personaggi possano essere
a inquadrare l’opera nel suo contesto sto- studiati nell’opera attraverso una varietà
rico ed entro il genere a cui appartiene e di elementi deittici e cinesici inseriti nella
il lettore sente di non aver bisogno di al- conversazione. Così spiega, per esempio,
tro per apprezzare l’edizione che leggerà. come l’amenità dei giardini dell’Alcázar
I personaggi che dialogano nell’opera serva da sfondo al dialogo; o ancora,
sono soltanto due: il licenciado Sotoma- come le indicazioni sull’aspetto fisico e la
yor, maestro e palese alter ego dello stes- condizione sociale di don Juan permet-
so autore, e il suo giovane allievo don tano di comprendere le sue aspirazioni.
Juan de Guzmán, già protagonisti di un Secondo Castro Díaz, questi elementi
altro dialogo di Juan de Robles ne El cul- suppliscono bene alla mancanza di tratti
to sevillano (uno dei trattati di retorica drammatici delle Tardes, in genere fre-
di maggior successo in quegli anni). Se quenti nei dialoghi per conferire dinami-
la figura del maestro è facilmente iden- smo all’opera e sostituiti in questo caso
tificabile con Juan de Robles, più diffi- da brevi didascalie a margine del testo;
cile è invece trovare una corrisponden- come è avvenuto nelle altre parti teoriche
za reale al personaggio di don Juan de dell’introduzione al testo, anche la profu-
Guzmán: Castro Díaz suggerisce che si sione di inserti deittici e cinesici viene il-
potrebbe trattare di Gaspar de Guzmán, lustrata da Castro Díaz, sempre in modo
VII Duque di Medina Sidonia, oppure piuttosto «didattico», attraverso esempi
di una personificazione dei difetti della chiarificatori tratti dal testo.
famiglia dei duchi di Medina – con cui Sono frequenti invece i procedimenti
il Conde-Duque de Olivares non aveva narrativi utilizzati per animare la con-
buoni rapporti – o ancora si potrebbe versazione e al tempo stesso alleggerirla
trattare di un simbolo della nobiltà più della serietà che impone l’argomento. È
giovane, che deve prepararsi dal punto molto meticolosa la descrizione proposta
di vista intellettuale e politico al ruolo a per tali argomenti: in primo luogo risal-
cui era destinata. tano per la loro frequenza e varietà gli
Qualche accenno al tempo dell’opera exempla, di derivazione classica, biblica
è stato fatto in precedenza – il dialogo o di opere moderne, che consolidano i
si sviluppa in due tardes di due giorni concetti esposti nella conversazione. Con
successivi – mentre lo spazio è quello l’identico proposito di tamponare l’aridi-
dei giardini dell’Alcázar di Siviglia, dove tà espositiva della teoria, Juan de Robles
maestro e allievo si danno appuntamen- inserisce anche detti e proverbi di autori
to e il cui carattere paradisiaco e quasi classici o estratti da repertori moderni,
bucolico propizia la conversazione. Con oppure ancora racconti di derivazione
il consueto atteggiamento di essenzia- folclorica, aneddoti storici che «por su
lità e precisione, a cui il lettore di que- carácter insólito, sorprenden al lector y
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retienen su atención acerca de lo que se soluto come rappresentante divino dello
está argumentando» (p. 32), episodi sivi- Stato, e tale atteggiamento porta Oliva-
gliani vissuti dai due personaggi, o usi e res a promuovere una serie di riforme
costumi dell’epoca che apportano all’ope- amministrative, economiche e sociali al
ra un indiscutibile valore documentale e fine di garantirsi uno stato pacifico ma
che, afferma Castro Díaz, senza le Tardes, forte al tempo stesso, e su questo clima
sarebbero sicuramente caduti nell’oblio. di esaltazione della monarchia assoluta
Poco alla volta, quindi, il curatore si si imperniano le Tardes. La politica di
addentra nell’argomento e nel contenu- Olivares inizia a vedersi attaccata dalla
to più specifico dell’opera, descrivendo Francia attorno al 1635, quando Luigi
con minuzia le battute che i due per- XIII e Richelieu si preparano a dichia-
sonaggi si scambiano nelle tardes e il rare guerra alla Spagna di Felipe IV: «es,
contesto storico e politico sul quale si sin duda, en este ambiente de eferve-
imperniano. scencia nacionalista en el que se fraguan
È molto apprezzabile la decisione di las Tardes del Alcázar, por lo que tam-
Antonio Castro Díaz di spiegare il con- poco resulta casual que Robles dedique
testo storico e politico dell’opera soltan- su obra al Conde-Duque, pues con ella
to dopo averla presentata con profusio- pretendió defender y propagar de forma
ne di dettagli nella prima parte della sua rotunda la política que el valido estaba
introduzione. Questo brillante modo di llevando a cabo por aquellos mismos
organizzare le informazioni fa sì che Tar- años en que la redactó» (p. 44).
des del Alcázar si affermi con incisività e Conclude Castro Díaz questa parte
non soltanto come un esempio tra molti sul contesto in cui vengono scritte le
della sua epoca di letteratura dottrinale. Tardes dicendo che l’opera propone me-
È intelligente e ben studiata anche l’idea todi per la rinascita dello Stato di fronte
di far procedere di pari passo i fatti sto- alla crisi politica, economica e morale
rici della Spagna del XVII e XVII secolo che si era manifestata dalla fine del XVI
e la storia della letteratura didattica e secolo con intensità crescente: «Así, las
della trattatistica così diffusa all’epoca e Tardes podrían entenderse como un
così influente per le Tardes: «La expre- antídoto —entre otros muchos y cada
sión más acabada de la teoría político- cual con su particular orientación— que
jurídica medieval en nuestro suelo fue- procuraba atajar el problema de España,
ron las Partidas de Alfonso X el Sabio, de clamando por la participación de todos
las que Robles extrajo tan abundantes y los ciudadanos para que se congregasen
jugosos pasajes para sus argumentacio- en torno a su rey, a fin de colaborar en
nes en las Tardes del Alcázar» (p. 42). un esfuerzo común para salvar a la pa-
Oltre alla finalità pedagogica che tria malherida» (p. 45).
Juan de Robles aveva ereditato dal- Non si può dimenticare, tuttavia, che
lo spirito umanista, è evidente che gli Juan de Robles ha concepito le Tardes
esempi letterari da cui trae ispirazione innanzitutto come Doctrina para el
vengono da lui modellati in base alla perfecto vasallo, e cioè, «como un ma-
contingenza storica: il Conde-Duque nual para que el vasallo se comporte
de Olivares, a cui, ricordiamo ancora de manera sumisa y obediente con las
una volta, Robles dedica le sue Tardes, autoridades públicas, cuya cúspide es el
lotta per irrobustire la figura del re as- rey, sin que, en contrapartida, los gober-
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nados puedan exigir responsabilidades tre il lavoro di Puccini come suo tradut-
a los gobernantes ni preguntarse por el tore e diffusore sulla stampa, alla radio
sentido de las órdenes que reciben de e presso gli editori italiani: nel solo 1961
ellos» (p. 47). Ciò nonostante, Castro escono per Parenti di Firenze Milizia-
Díaz vede l’opera di Robles così collega- ni a Ibiza e per il Saggiatore di Milano
ta alla realtà politica entro la quale viene Ritratti di contemporanei e la tragicom-
scritta, che considera lo smembramento media Il trifoglio fiorito. L’amicizia tra i
della Spagna iniziato nel 1640 a causa due è scandita da notizie sulle vicende
della guerra contro i francesi e la caduta familiari, pacchetti affidati alle poste o
di Olivares nel 1643 come i motivi prin- ad amici comuni in visita, nonché im-
cipali che impedirono la pubblicazione pressioni di viaggio e cenni a riflessioni
delle Tardes del Alcázar a quel tempo, politiche, come in occasione del “Mani-
inconveniente a cui pone rimedio con festo dei 101” del 1957, firmato da Puc-
grande maestria riscattando l’opera cini, che prende spunto dai fatti d’Un-
dall’oblio e arricchendo il genere dei gheria per condannare lo stalinismo,
dialoghi rinascimentali, proposito im- provocando la repressione togliattiana.
plicito del progetto di Ana Vian Herrero Puccini è infatti un intellettuale di sini-
in cui rientra l’edizione di Castro Díaz. stra e «il rapporto che lo unisce al poeta
si fonda su una comune vocazione let-
Giuliana Calabrese teraria ed è alimentato dalla stessa fede
negli ideali di giustizia e libertà» (anco-
ra Morelli, p. 17). Costante è lo scambio
di pubblicazioni e consigli: Puccini non
manca di chiedere dritte per il suo fon-
Dario Puccini e Rafael Alberti, Corrispon- damentale Romancero della resistenza
denza inedita (1951-1969), a cura di Gabriele spagnola (1960), Alberti invia testi e cor-
Morelli, con una testimonianza di Stefania regge bozze. Si seguono anche casi mi-
Piccinato Puccini, Milano, Viennepierre, nuti, rivalità o incertezze, perfino guai
2009, 163 pp. pratici come la pretesa da parte della
Società degli Autori spagnola (franchi-
sta) di incassare i diritti dell’esule Alber-
Il carteggio tra il grande poeta e pit- ti, che fa fatica a cancellarsi. Insomma,
tore gaditano Rafael Alberti (1902-1999) la variegata testimonianza di un senti-
e il noto ispanista Dario Puccini (1921- to dialogo personale e professionale.
1997) è «una tessera fondamentale di Nel 1963, Rafael si trasferisce con
quel ricco mosaico di relazioni umane María Teresa León in Italia, dove tra l’al-
e letterarie che i rappresentanti più si- tro affondano le sue radici familiari, rea-
gnificativi della cultura italiana hanno lizzando un desiderio più volte espresso
costruito intorno alla figura di Alberti», da Buenos Aires. La scelgono tra vari
come sottolinea il curatore Gabriele Mo- Paesi, oltre che per i rapporti editoriali
relli (p. 39). L’epistolario, fitto soprattut- in corso, perché più mediterranea, più
to tra gli inizi del 1951 e la fine del 1963, vicina all’Andalusia. E optano per Roma
ci informa sull’evoluzione della scrittura in quanto più divertente di Milano. Vi
di Alberti in Argentina e sullo stato della resteranno 14 anni, fino al rientro nella
sua ricezione in Italia. Testimonia inol- Spagna della transizione nel 1977. Il poe-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
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nados puedan exigir responsabilidades tre il lavoro di Puccini come suo tradut-
a los gobernantes ni preguntarse por el tore e diffusore sulla stampa, alla radio
sentido de las órdenes que reciben de e presso gli editori italiani: nel solo 1961
ellos» (p. 47). Ciò nonostante, Castro escono per Parenti di Firenze Milizia-
Díaz vede l’opera di Robles così collega- ni a Ibiza e per il Saggiatore di Milano
ta alla realtà politica entro la quale viene Ritratti di contemporanei e la tragicom-
scritta, che considera lo smembramento media Il trifoglio fiorito. L’amicizia tra i
della Spagna iniziato nel 1640 a causa due è scandita da notizie sulle vicende
della guerra contro i francesi e la caduta familiari, pacchetti affidati alle poste o
di Olivares nel 1643 come i motivi prin- ad amici comuni in visita, nonché im-
cipali che impedirono la pubblicazione pressioni di viaggio e cenni a riflessioni
delle Tardes del Alcázar a quel tempo, politiche, come in occasione del “Mani-
inconveniente a cui pone rimedio con festo dei 101” del 1957, firmato da Puc-
grande maestria riscattando l’opera cini, che prende spunto dai fatti d’Un-
dall’oblio e arricchendo il genere dei gheria per condannare lo stalinismo,
dialoghi rinascimentali, proposito im- provocando la repressione togliattiana.
plicito del progetto di Ana Vian Herrero Puccini è infatti un intellettuale di sini-
in cui rientra l’edizione di Castro Díaz. stra e «il rapporto che lo unisce al poeta
si fonda su una comune vocazione let-
Giuliana Calabrese teraria ed è alimentato dalla stessa fede
negli ideali di giustizia e libertà» (anco-
ra Morelli, p. 17). Costante è lo scambio
di pubblicazioni e consigli: Puccini non
manca di chiedere dritte per il suo fon-
Dario Puccini e Rafael Alberti, Corrispon- damentale Romancero della resistenza
denza inedita (1951-1969), a cura di Gabriele spagnola (1960), Alberti invia testi e cor-
Morelli, con una testimonianza di Stefania regge bozze. Si seguono anche casi mi-
Piccinato Puccini, Milano, Viennepierre, nuti, rivalità o incertezze, perfino guai
2009, 163 pp. pratici come la pretesa da parte della
Società degli Autori spagnola (franchi-
sta) di incassare i diritti dell’esule Alber-
Il carteggio tra il grande poeta e pit- ti, che fa fatica a cancellarsi. Insomma,
tore gaditano Rafael Alberti (1902-1999) la variegata testimonianza di un senti-
e il noto ispanista Dario Puccini (1921- to dialogo personale e professionale.
1997) è «una tessera fondamentale di Nel 1963, Rafael si trasferisce con
quel ricco mosaico di relazioni umane María Teresa León in Italia, dove tra l’al-
e letterarie che i rappresentanti più si- tro affondano le sue radici familiari, rea-
gnificativi della cultura italiana hanno lizzando un desiderio più volte espresso
costruito intorno alla figura di Alberti», da Buenos Aires. La scelgono tra vari
come sottolinea il curatore Gabriele Mo- Paesi, oltre che per i rapporti editoriali
relli (p. 39). L’epistolario, fitto soprattut- in corso, perché più mediterranea, più
to tra gli inizi del 1951 e la fine del 1963, vicina all’Andalusia. E optano per Roma
ci informa sull’evoluzione della scrittura in quanto più divertente di Milano. Vi
di Alberti in Argentina e sullo stato della resteranno 14 anni, fino al rientro nella
sua ricezione in Italia. Testimonia inol- Spagna della transizione nel 1977. Il poe-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
RECENSIONI
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ta, che ha già passato i sessant’anni, vive di Alessandra Riccio (Roma, Iacobelli,
in Italia una grande fioritura creativa, 2009). Nel 1956 María Teresa León man-
nello stimolante clima romano dell’epo- da a Puccini un soggetto cinematografi-
ca, entrando in contatto con interlocu- co, ambientato in un paesino di scultori
tori del calibro di Ungaretti, Pasolini, del carrarese, che ritiene adatto a De Sica,
Guttuso, Gatto, Gassman, Carlo Levi, e una raccolta di racconti, Las peregrina-
Aligi Sassu e tanti altri. Nel folto gruppo ciones de Teresa (uscita nel 1950 a Buenos
di ispanisti amici (come Vittorio Bodi- Aires e ora disponibile nella ricca edizio-
ni, Angela Bianchini, Elena Clementelli, ne curata da María Teresa González de
Ignazio Delogu e Mario Socrate, oltre Garay nel 2009 per l’Instituto de Estudios
al fedele traduttore Eugenio Luraghi), Riojanos), che è un po’ l’embrione della
Dario Puccini, che traduce nel 1976 per sua indimenticabile autobiografia, Me-
Editori Riuniti il primo volume dell’au- moria de la melancolía (1970).
tobiografia di Rafael, L’albereto perduto,
è un riferimento costante, anche se le Danilo Manera
missive naturalmente si riducono, per
via del contatto diretto. La casa degli
Alberti diventa inoltre un punto d’in-
contro per gli esuli repubblicani e arti-
sti di ogni latitudine. Rafael si dedica in Vicente Luis Mora, La luz nueva. Singulari-
particolare alla grafica, studiando nuove dades en la narrativa española actual, Córdo-
tecniche d’incisione, che perfezionano ba, Berenice, 2007, 255 pp.
la sua poetica pittorica. In Italia espone,
i suoi versi si leggono, le sue opere tea-
trali si rappresentano. All’urbe che ama, Vicente Luis Mora (Córdoba, 1970),
viscerale, belliana e trasteverina dedica critico letterario irrequieto e scrittore
Roma, pericolo per i viandanti (trad. di poliedrico – ha pubblicato le raccolte di
Vittorio Bodini, Firenze, Passigli, 2000). poesie Nova (2003), Construcción (2005)
Su tutta quella stagione, si veda il docu- e Tiempo (2009); il libro di racconti Sub-
mentato studio di Maira Negroni, Rafa- terráneos (2005); due volumi miscella-
el Alberti: l’esilio italiano (Milano, Vita e nei dal titolo Circular (2003) e Circular
Pensiero, 2002). 07. Las afueras (2007); il romanzo Alba
Speriamo che questo volume, in cui Cromm (2010) –, in questo studio ri-
respira l’impulso eternamente giovane prende il discorso iniziato con l’apertura
di Rafael Alberti, possa servire anche a del blog Diario de lecturas (2005) e pro-
ricordare una sensibile assenza nel no- seguito con i saggi Ética y poética de la
stro panorama editoriale, quella di María literatura española actual (2006) e Pan-
Teresa León (1903-1988), straordinaria gea. Internet, blogs y comunicación en un
scrittrice con al suo attivo romanzi, rac- mundo nuevo (2006). In prima battuta,
conti, sceneggiature, teatro e biografie. La Mora cerca di districare le direttrici del-
sua voce fa capolino tra queste pagine e le correnti estetiche che nel panorama
viene rievocata in un piccolo libro, uscito delle lettere spagnole odierne si sfiora-
da poco, della figlia della coppia, Aitana no, si intersecano o si respingono in un
León Alberti, Memorie inseparabili. Ma- intreccio di fili multicolori che a un oc-
ria Teresa León e Rafael Alberti, a cura chio miope, poco avvezzo alla dissezio-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
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Dario Puccini, che traduce nel 1976 per sua indimenticabile autobiografia, Me-
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la sua poetica pittorica. In Italia espone,
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http://riviste.unimi.it/index.php/tintas/
RECENSIONI
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ne, potrebbero apparire come un tessuto nel Zabala, Félix Romeo, Antonio Oreju-
ben ordito e quasi omogeneo, complici do, Francisco Casavella, Lolita Bosch,
anche la versatilità e la permeabilità che Ismael Grasa, Sergi Pàmies, etc. L’autore
caratterizzano un buon numero di auto- del saggio li definisce «mutantes» (p. 31)
ri. La mappa tracciata dalla penna dello perché il fattore scatenante della muta-
studioso individua quattro linee portan- zione che li ha allontanati dalla temperie
ti attorno alle quali si concentra la pro- tardomoderna sarebbe stata l’onnipre-
duzione romanzesca contemporanea. senza ossessiva dei mass media nella vita
La rotta più battuta e maggiormen- quotidiana delle generazioni nate negli
te sottoposta a una mappatura da parte anni ’60 e ’70. La “no-modernidad” in-
della critica sarebbe quella “tardomo- vece, concetto ripreso da Bruno Latour,
derna”, ancorata a una concezione “tra- non è chiaro se debba essere considera-
dizionale” del narrare, in cui soprav- ta un’alternativa alla postmodernità (p.
vivono l’idea di un tempo lineare, la 71), oppure come uno spazio interstizia-
presenza di un soggetto scisso immer- le, difficile da definire, tra quest’ultima e
so in un ambiente urbano, la fiducia un’ulteriore proiezione estetica che Mora
nell’esistenza di una verità assoluta; il ha chiamato “Pangea”, in un chiaro rife-
tutto articolato rispettando lo schema rimento alla primordiale unione tra le
tripartito – premessa, nodo, epilogo – terre emerse del nostro pianeta. La cifra
del romanzo del XIX secolo. Tra gli scrit- di questa nuova narrativa sarebbe infatti
tori che si muovono a loro agio nelle rappresentata da un’ampia visione glo-
acque stagnanti di questo modello vi sa- bale, sfaccettata e capace di riprodurre
rebbero Luis Magrinyá, Juan Manuel de sulla pagina, sia essa cartacea o digitale,
Prada, Ignacio Martínez de Pisón, Juan i sistemi di reti in cui viviamo: «Pangea
Bonilla, Belén Gopegui, Lorenzo Silva, se constituye como un sistema-red, más
Alan Pauls, Jorge Volpi, Fernando León, rizomático que modular […], único ca-
Ignacio Padilla, Care Santos, José Ángel paz de aprehender de un modo complejo
Cilleruelo, Joaquín Pérez Azaústre, An- la sociedad-red (Castells) en que nos en-
drés Neuman, etc. Un possibile supera- contramos, dejando los menos resquicios
mento di quest’approccio è offerto, ovvia- posibles» (p. 74). Le coordinate che defi-
mente, dal canone postmoderno, il quale nirebbero tale letteratura, ancora in fie-
prevede il sorgere di un testo atomizzato, ri, sono una continuità temporale che si
sia dal punto di vista spaziale che tempo- risolve nella figura del cerchio e che ha la
rale, in cui il protagonista indossa svaria- consistenza di un fluido; l’impalpabilità
te maschere e si agita in maniera convulsa dell’“io” al riparo di nicknames, avatars,
in un universo plurisensoriale, generato etc.; l’aspirazione a riflettere una totalità
dall’amalgamarsi di alta e bassa cultura non assoluta ma globalizzata; l’esistenza
in un ironico sovvertimento di qualsiasi di non-luoghi situati tra le maglie eteree
appiglio epistemologico. I nomi ascrivi- di Internet o sospesi nella realtà virtuale;
bili a questo orientameno estetico sareb- l’impossibilità della veridizione e, infine,
bero quelli di Rodrigo Fresán, Eloy Fer- a livello strutturale, un’ibridazione tra la
nández Porta, Robert Juan-Cantavella, scrittura e le modalità espressive proprie
Javier Calvo, Juan Francisco Ferré e, pur delle moderne tecnologie.
con qualche strascico modernista, Isaac Una volta delineata la cornice teorica
Rosa, Diego Doncel, Jorge Carrión, Ma- all’interno della quale ci si vuole muo-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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vere e dopo aver suggerito una possibile Vicente Luis Mora ritiene dunque
via d’uscita per l’esercizio letterario stan- che grazie a un approccio critico e let-
tio, Mora prova a stilare un decalogo per terario a 360 gradi si potrà produrre e
un nuovo paradigma critico, a suo giu- analizzare il romanzo del futuro – «In-
dizio più flessibile e democratico, che formación y comunicación, lectura y
trova nel blog un’agorà in cui dare vita a escritura son una en el ciberespacio, y
un confronto costruttivo, teoricamente esto está alterando nuestra capacidad de
perfettibile all’infinito, poiché concede observación y, en consecuencia, nuestro
il diritto di replica immediata al lettore modo de narrar lo observado» (p. 77)–,
e all’autore del libro recensito. Seguono ma forse il suo entusiasmo cibernetico
quindi varie riflessioni su alcuni scritto- non gli permette di rendersi pienamente
ri appartenenti alle categorie estetiche conto che la maggior parte delle carat-
definite in precedenza (Eduardo Lago, teristiche elencate nel definire l’estetica
Enrique Vila-Matas, José María Merino, di “Pangea” sono tangenziali all’atto del-
José Ángel González, Rodrigo Fresán, lo scrivere poiché non presuppongono
Diego Doncel, Juan Francisco Ferré, nessuno stravolgimento radicale dello
Manuel Vilas, Salvador Gutiérrez Solís, strumento letterario – i nicknames o gli
Javier Fernández, Javier Moreno, Agu- avatars paiono più un debito dell’infor-
stín Fernández Mallo, Julián Jiménez matica nei confronti delle lettere, sebbe-
Heffernan) in un tentativo di offrire una ne sia doveroso ammettere che Internet,
dimostrazione pratica del taglio valu- paradossalmente, crei una maggiore
tativo auspicato, sebbene tra le pagine, aspettativa di corrispondenza tra iden-
secondo un’impostazione tradizionale, tità reale e fittizia; inoltre, l’irrompere
si oda solo la voce dello studioso e non sul foglio di sistemi comunicativi non
quella dei bloggers. necessariamente legati alla sfera di una
Gli ultimi bagliori emanati da La luz letteratura canonica aveva già raggiunto
nueva sono invece una manciata di con- una sua teorizzazione con le avanguar-
siderazioni riguardo all’intromissione die storiche –, semmai ne confermano
diuna realtà globalizzata e tecnologi- l’estrema duttilità nel raccogliere e nel
ca nell’opera di vari poeti e prosisti: gli restituire gli umori di una società sem-
hamburger di McDonald’s divengono pre più liquida che – e qui sta il merito
simbolo dell’alienazione dell’inividuo; il del libro di Mora – dev’essere descritta
telefono e il cellulare invece, così come e studiata a partire da un coacervo ete-
le mail, costringono a cambiare le regole rogeneo di conoscenze enciclopediche
delle conversazioni, forgiando dialoghi capaci di passare con agilità il confine,
meticci e franti; in un mondo con una ormai liberato da anacronistici pregiu-
geografia rattrappita dai trasporti veloci e dizi settoriali o specialistici, che separa
dalla World Wide Web, ecco che gli aero- la cultura accademica da quella “pop”
porti da non-luogo di transizione diven- (il problema era già stato sollevato, tra
gono territori di conquista per complesse gli altri, da Germán Gullón, Gonzalo
trame narrative, mentre la terminologia Navajas, José María Pozuelo Yvancos),
informatica e la navigazione virtuale “afterpop” (Eloy Fernández Porta) o
mettono a disposizione un inedito oriz- “techno-pop”.
zonte metaforico e simbolico da cui at-
tingere a piene mani, ecc. Simone Cattaneo
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
283
Eduardo Mendoza, Riña de gatos. Madrid Anche quest’opera, dunque, presen-
1936, Barcelona, Planeta, 2010, 427 pp. ta una condensazione di tecniche della
postmodernità che rimane la tendenza
estetica dominante dello scrittore catala-
«Es como las viejas películas de Dis- no nella quale ironia, parodia e autoparo-
ney, en las que se entremezclaban imá- dia sono gli elementi di maggior spicco.
genes de actores reales y personajes de Il protagonista di Riña de gatos è
dibujos animados»: così Eduardo Men- Anthony Whitelands, un critico d’arte
doza ha definito in alcune recenti inter- inglese esperto di pittura spagnola, il
viste la sua ultima opera che ha suscitato quale, giunto a Madrid nella primavera
opinioni generalmente favorevoli (pre- del ’36 per stimare il patrimonio artisti-
mio Planeta 2010). In effetti, lo scrittore co del duca de la Igualada e soprattutto
torna ad offrire ai suoi lettori un testo per certificare l’autenticità di un quadro
brillante e accattivante, di sicuro valore misterioso (un presunto Velázquez),
letterario, definito da molti il suo mi- rimane coinvolto in una serie di avve-
gliore lavoro dell’ultimo decennio, forse nimenti imprevisti che lo trasformano
alla pari con le sue opere più riuscite e in una specie di detective e allo stesso
tradizionalmente riconosciute dalla cri- tempo in un perseguitato costretto ad
tica e dal pubblico. adottare espedienti insoliti per salvar-
Oltre alla novità dello sfondo madri- si la vita. La trama, dunque, prevede
leno (dopo tanti romanzi ambientati a l’inserimento repentino del protagonista
Barcellona) e dei molteplici riferimenti in un contesto che gli è quasi totalmen-
storici a persone e vicende politiche nei te estraneo e dentro al quale dovrà, suo
mesi che precedono lo scoppio della malgrado, imparare velocemente a des-
guerra civile, è opportuno mettere in treggiarsi: lo sguardo dello straniero è lo
risalto forti parallelismi con La verdad sguardo dell’altro che avidamente assi-
sobre el caso Savolta (1975), soprattutto mila con tutti i sensi protesi e immedia-
per alcuni procedimenti narrativi e per tamente restituisce un’immagine nuda,
ciò che concerne i diversi generi a cui si priva di condizionamenti, e per questo
ispira il romanzo: principalmente poli- folle, di un mondo che è in procinto di
ziesco, storico e sentimentale. Inoltre, deflagrare. La fine del romanzo coincide
sono evidenti anche molte somiglian- con l’imminenza della partenza del pro-
ze con la straordinaria trilogia del folle tagonista, deciso, anzi obbligato, a fare
investigatore protagonista de El mis- ritorno al suo paese di origine.
terio de la cripta embrujada (1979), El La narrazione, interamente eterodie-
laberinto de las aceitunas (1982) e La getica, mano a mano che avanza assume
aventura del tocador de señoras (2001) un andamento sempre più incalzante,
per l’ironia (anche nei nomi dei per- moltiplicando i colpi di scena e le situa-
sonaggi), per lo sfondo metropolitano, zioni inaspettate che, in maniera don-
per una trama brillante e ricca di colpi giovannesca, assorbono totalmente il
di scena e per le situazioni paradossali tempo del protagonista costretto ad un
che ricordano esplicitamente la pocha- andirivieni frenetico tra una molteplici-
de e il vaudeville, oltre a riformulazioni tà di luoghi diversissimi che includono
di strategie narrative cinematografiche il palazzo del duca e i bassi fondi della
e fumettistiche. capitale, la sede della Falange Españo-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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la e l’appartamento di una prostituta, derazioni suggestive e resoconti ricchi
l’ambasciata inglese e la cella di una di passione: una specie di oasi rassere-
prigione, oltre a ristoranti, bar, alberghi nante nel turbinio frenetico e delirante
e altre case sconosciute. Luoghi, questi, dell’intreccio.
nei quali Whitelands rimane implicato in Il protagonista, di trentaquattro anni,
avvenimenti sorprendenti: diatribe e dis- viene descritto fin dall’inizio come una
cussioni sull’arte, coinvolgimenti amoro- persona estremamente distinta, educata,
si con varie donne, faccende diplomati- in grado di adoperare con estrema abili-
che con rappresentanti dell’ambasciata, tà una lingua che non è la sua. Un vero
dispute politiche che vedono coinvolti gentiluomo, dunque, colto e raffinato an-
personaggi storici realmente esistiti, epi- che nel modo di vestire, il cui comporta-
sodi di ordine pubblico e di delinquenza, mento non può che essere, in apparenza,
casi di spionaggio e sparatorie. perfettamente adeguato e pertinente alle
Sono molteplici i riferimenti alla sto- circostanze. Ma questa caratteristica di-
ria della Spagna nei mesi che hanno di viene, soprattutto nella seconda parte del
poco preceduto lo scoppio della guerra testo, fonte di spunti comici e situazioni
civile. José Antonio Primo de Rivera, che paradossali poiché lo stile britannico di
ha un ruolo da comprimario, Manuel Anthony Whitelands contrasta forte-
Azaña, Niceto Alcalá Zamora, lo stesso mente con gli ambienti squallidi che a
Franco e altri generali complottisti come volte è costretto a frequentare. Mentre,
Mola e Queipo de Llano, diventano per- al contrario, egli finisce per trovarsi, in
sonaggi del romanzo e sono coinvolti alcune occasioni, in luoghi eleganti e lus-
in accadimenti e dialoghi fittizi, sovente suosi in condizioni del tutto sconvenien-
gustosissimi, a volte, considerati retros- ti: ebbro, privo di soldi e di documenti o
pettivamente, inquietanti. Il narratore si senza che si sia potuto lavare e cambiare
inserisce negli interstizi irrisolti o igno- d’abito per diversi giorni.
rati e rimasti misteriosi specialmente de- Vi è, quindi, un evidente contrasto
lle biografie di Velázquez e, soprattutto, (che riguarda anche altri personag-
di José Antonio, sfruttando quelle zone gi) tra le modalità del sentire e quelle
d’ombra che offrono discreti margini di dell’apparire, tra le modalità del dire e
speculazione sul gioco delle possibilità, quelle dell’agire. Schizofrenia emble-
creando una serie di episodi non docu- matica, tipica di Mendoza, dai risvolti
mentati e sui quali non vi è alcuna testi- apertamente comici e sottilmente iro-
monianza, ma che sono spesso verosimi- nici, attraverso la quale si rappresenta
li (nonostante, a volte, il tono farsesco). un mondo allo stesso tempo esilarante
Qui, i futuri protagonisti della guerra e drammatico, in cui la logica e la re-
non sono visti solo in quanto rappresen- lazione causale vengono smentite dalle
tanti di ideologie o forze socioeconomi- molteplici incongruenze che appaiono
che, ma anche nella loro dimensione sia sul piano linguistico (dato, per esem-
più intima che nasconde sentimenti pio, l’uso aulico della lingua spagnola a
contrastanti e sfuggenti, a volte meschi- cui è costretto il protagonista anche nei
ni, eppure difficilmente riconducibili a momenti in cui è in pericolo di vita, o
uno stereotipo. Le pagine dedicate a Ve- per i toni giocosi e guasconi con cui i
lázquez, invece, affidate principalmente generali golpisti predispongono le loro
alla voce di Whitelands, offrono consi- losche trame), sia sul piano degli eventi,
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RECENSIONI
285
dal momento che molte delle azioni dei forse spia tedesca) Pedro Teacher e del
personaggi risultano inadatte, imprevis- capitano Coscolluela della Dirección
te, controproducenti o non conseguenti General de Seguridad. Non è svelato
alle intenzioni annunciate. l’enigma del fantomatico Kolia: pro-
Il protagonista, sempre più smarrito, babile spia sovietica ma la cui identità
non può far altro che assecondare il flus- potrebbe coincidere con quella dello
so sorprendente ed imprevedibile degli stesso José Antonio (o forse di Pedro
eventi con lo scopo di salvarsi. Gli obiet- Teacher, secondo l’ambasciata britanni-
tivi iniziali, infatti, sfumano a favore del ca), le cui trame occulte, prima del suo
desiderio di ritornare a Londra sano e arresto, rimangono comunque in gran
salvo e quanto prima sia possibile. parte misteriose. È incerto il destino de-
La prima parte del titolo (Riñas de lla prostituta Toñina, ragazza madre, in
gatos) può rappresentare la fase prepa- procinto di partire per Barcellona, dopo
ratoria alla guerra, non ancora la catas- una breve relazione con il protagonista.
trofe generale: una lotta intensa, vio- Infine, nelle ultime pagine, si anticipa
lenta, ma breve e occasionale (come le il destino di alcuni membri della fami-
zuffe tra gatti) che percorre minacciosa glia del duca, in particolare delle due
le strade di Madrid. La seconda parte, figlie Paquita e Lilí, a turno innamorate
invece (Madrid 1936), evocando lo sco- dell’inglese. Ma sono emblematiche, a
ppio della guerra, getta un’ombra scura questo proposito, le rivelazioni di Pa-
sull’intero testo. Possibilità però ines- quita, la figlia maggiore, la quale, nel
pressa, tragedia che rimane latente (il congedarsi da Whitelands, confessa che
tempo del romanzo termina nell’aprile in un solo giorno è passata dalla convin-
del ’36), ma che si percepisce attraverso zione di essere innamorata proprio del
discorsi avvelenati che frequentemente protagonista a quella di amare invece
girano intorno a complotti, trame os- José Antonio per decidere infine di en-
cure ed episodi di violenza: vibrazioni trare in convento, aggiungendo, però,
funeste che scuotono l’aria e turbano maliziosamente, di non volere prende-
l’apparente futilità di alcune vicende re subito i voti per non fare una scelta
narrate. La tragedia è lì, imminente, e avventata.
i personaggi che la evocano sembrano Riña de gatos è pertanto un romanzo
rassegnati o noncuranti (e in alcuni casi di intrighi complessi e bizzarri, prodi-
ignari) dell’orrore che li attende. giosamente elaborati, ma volutamente
Ma in quest’opera tutte le storie ri- incompleti o dal finale incerto. La tra-
mangono in sospeso, non solo quella ma, nelle ultime pagine, sembra disper-
della guerra annunciata. dersi anziché raccogliersi, le rivelazioni
Se viene suggerito che il quadro mis- e le spiegazioni che vengono proposte
terioso, inizialmente attribuito a Veláz- confondono invece di chiarire. Non
quez, forse fu dipinto da un allievo del vi sono soluzioni pacificatrici e viene
grande pittore, crea perplessità il dub- meno anche la possibilità di un punto
bioso racconto prima di Lord Bumble- di vista comprensivo che risulta, inve-
bee e di Paquita poi sull’incendio che ce, estremamente frammentato e con-
ha provocato la distruzione dello stesso traddittorio. Ciò lascia spazio ad una
quadro. Non vengono risolti, inoltre, gli molteplicità di interpretazioni e di pos-
omicidi del losco trafficante d’arte (e sibili soluzioni.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Il fatto che molti episodi, discorsi e Pombal; la guerra dei Sette anni, che
personaggi della trama romanzesca sia- vede l’ingresso del Portogallo nel 1762.
no referenziali alla storia della Spagna Per la stesura del romanzo l’autrice
prima dello scoppio della guerra, ampli- ha tratto ispirazione da una sua visita
fica l’effetto del caos e dell’impossibilità a Inverness, nel 1999, in occasione delle
di una visione ordinata, progettuale, cerimonie commemorative della batta-
risolutiva. Con l’epilogo del viaggio del glia di Culloden. Attraverso la memoria,
protagonista termina il romanzo, ma ricostruisce la descrizione dei combatti-
rimangono i funesti presagi e il caos menti e instaura un gioco temporale in
esilarante nei quali coincidono storia e cui il passato si confonde con il presente.
finzione. Hélia Correia, fondendo splendidamen-
te prosa e poesia in uno stile reso egre-
Luigi Contadini giamente da Guia Boni, incanta, seduce
e introduce il lettore in un tempo sto-
rico lontano ed ermetico, collocandosi
nella posizione privilegiata di chi ana-
lizza il passato attraverso dati posteriori.
Hélia Correia, Lillias Fraser, traduzione dal «Mi capita di pensare che, nell’oscura
portoghese di Guia Boni, Roma, Cavallo di alba che precedette l’esecuzione, si sa-
Ferro, 2010, 254 pp. ranno visti, sullo spiazzo di Belém, dove
risuonava il martellare del catafalco e il
popolo prendeva posto, sguardi uguali
Vincitore del premio P.E.N. club nel a quelli delle donne che, a Parigi, alcuni
2001, Lillias Fraser è il primo romanzo decenni più tardi, sferruzzavano scialli
di Hélia Correia ad apparire in tradu- con affanno domestico, mentre guarda-
zione italiana. Hélia Correia (Lisbona, vano la ghigliottina all’opera» (p. 196).
1949) è riconosciuta come una delle Ciò nonostante Lillias Fraser non
rivelazioni della narrativa portoghe- va considerato un romanzo storico. La
se della “Geração de 1980”. Laureata in stessa autrice, in un’intervista rilasciata
Filologia romanza, è autrice di una va- nel 2009 a Marisa Torres da Silva, af-
sta opera, di cui ricordiamo i romanzi ferma che «Lillias Fraser não é um ro-
più famosi: O separar das Águas (1981), mance histórico. O romance histórico
Soma (1987), A fenda erótica (1988), A parte da história para o romance e aqui
Casa Eterna (1991). a história veio por arrasto, aliás muito
Il romanzo si snoda nell’arco di sedici violentamente». Se è vero infatti che gli
anni ed è suddiviso in tre parti, scandi- eventi storici citati nel testo sono minu-
te da altrettanti avvenimenti storici che ziosi e puntuali, la lettura che se ne fa si
hanno segnato il XVIII secolo: la batta- allontana però dall’interpretazione con-
glia di Culloden del 1746, in cui il Duca venzionale, privilegiando la sfera priva-
di Cumberland (“il Macellaio”), alla gui- ta e personale. Utilizzando il termine
da dell’esercito inglese, sconfigge defini- coniato dalla canadese Linda Hutcheon,
tivamente gli scozzesi del rivale al trono potremmo definire il romanzo una “me-
Charles Stuart; il terremoto di Lisbona tafinzione storiografica”, dal momento
del 1755 e la conseguente ricostruzio- che, rielaborando la Storia attraverso la
ne della città ad opera del Marquês de finzione, offre una nuova prospettiva di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
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Il fatto che molti episodi, discorsi e Pombal; la guerra dei Sette anni, che
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Hélia Correia, Lillias Fraser, traduzione dal «Mi capita di pensare che, nell’oscura
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Ferro, 2010, 254 pp. ranno visti, sullo spiazzo di Belém, dove
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2001, Lillias Fraser è il primo romanzo decenni più tardi, sferruzzavano scialli
di Hélia Correia ad apparire in tradu- con affanno domestico, mentre guarda-
zione italiana. Hélia Correia (Lisbona, vano la ghigliottina all’opera» (p. 196).
1949) è riconosciuta come una delle Ciò nonostante Lillias Fraser non
rivelazioni della narrativa portoghe- va considerato un romanzo storico. La
se della “Geração de 1980”. Laureata in stessa autrice, in un’intervista rilasciata
Filologia romanza, è autrice di una va- nel 2009 a Marisa Torres da Silva, af-
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più famosi: O separar das Águas (1981), mance histórico. O romance histórico
Soma (1987), A fenda erótica (1988), A parte da história para o romance e aqui
Casa Eterna (1991). a história veio por arrasto, aliás muito
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hanno segnato il XVIII secolo: la batta- allontana però dall’interpretazione con-
glia di Culloden del 1746, in cui il Duca venzionale, privilegiando la sfera priva-
di Cumberland (“il Macellaio”), alla gui- ta e personale. Utilizzando il termine
da dell’esercito inglese, sconfigge defini- coniato dalla canadese Linda Hutcheon,
tivamente gli scozzesi del rivale al trono potremmo definire il romanzo una “me-
Charles Stuart; il terremoto di Lisbona tafinzione storiografica”, dal momento
del 1755 e la conseguente ricostruzio- che, rielaborando la Storia attraverso la
ne della città ad opera del Marquês de finzione, offre una nuova prospettiva di
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
287
costruzione della memoria collettiva. forme. Sembra che si tramandi da una
A differenza dei romanzi storici tradi- generazione all’altra con fatalità geneti-
zionali, le metafinzioni storiografiche ca. C’è chi, come me, crede che si tratti
postmoderne non muovono dalla storia di saggia resistenza alla frenesia. Ogni
ufficiale, ma scelgono i silenzi del passa- uomo seduto filosofeggia, conversando
to come materia di indagine. Il passato con la zappa che ha poggiato» (p. 167).
può essere conosciuto soltanto attraver- Il Portogallo è visto dunque come una
so nuove riscritture e riletture: «The past frontiera tra l’Europa e l’Africa, Prospe-
really did exist, but we can only know ro nelle colonie ma Calibano in Europa,
that past today through its texts, and secondo la proposta teorica di Boaven-
therein lies its connection to the litera- tura de Sousa Santos, un paese «che gli
ry» (Linda Hutcheon, Metafiction, Lon- stranieri visitavano con la stessa dispo-
dra, Longman, 1995). sizione alla curiosità con cui avrebbero
L’evocazione del passato rende im- osservato i selvaggi» (pp. 192-193).
possibile la certezza di una storia ogget- Hélia Correia evoca il passato ma sen-
tiva e imparziale, quindi la narrazione za la pretesa di una veridicità assoluta: il
è una finzione che si riconosce come tempo storico è il tempo di una bambi-
tale e che si appropria della Storia an- na esiliata, dotata di uno sguardo magi-
che attraverso l’ironia. È da notare, in co e a cui viene proibita la parola in vari
questo senso, lo sguardo ironico con cui momenti della vita. La Storia viene vista
si fa riferimento alla situazione politica attraverso gli occhi di Lillias, vero filo
e sociale del Portogallo di quegli anni. conduttore del romanzo; il suo sguardo
Dalle pagine di Lillias Fraser, emerge dorato suscita timore in chi le sta attor-
l’immagine di un paese «tanto pigro e no e, unito al silenzio, è indice della sua
caldo in cui bastava schioccare le dita marginalità (una marginalità che è du-
perché le arance si ammonticchiassero plice, in quanto donna e in quanto do-
e gli schiavi africani, con i loro collari tata di un dono straordinario). Lillias ha
infetti, servissero grandi pesci d’acqua la capacità di prevedere eventi nefasti e
dolce» (p. 165). I portoghesi vengono le sue visioni, anticipando avvenimenti
rappresentati come un popolo retrogra- futuri, determinano continui salti cro-
do, superstizioso, pigro, ignorante, vani- nologici che spezzano la linearità del-
toso, soffocato dalla tirannia dello Stato la narrazione. Lungi dall’apprezzare il
e della Chiesa: «Riconobbe il Portogallo suo dono, Lillias lo considera una ma-
per il disordine che all’improvviso per- ledizione. «Vedeva morire quelli che la
turbava la vista. Spine e boscaglia pre- circondavano, li vedeva soffrire quando
dominavano, ferendogli lo sguardo, abi- si divertivano e non sospettavano nulla
tuato al tracciato geometrico delle siepi del futuro. Ma aveva imparato a sviare
e alla pulizia dei campi coltivati. […] La lo sguardo. Ormai conosceva la natura
sonnolenza, che lo spagnolo aveva di- delle visioni che anticipavano la disgra-
sciplinato, qui ricopriva tutto come un zia senza che nulla si potesse fare per
olio che impedisce all’ossigeno di passa- impedirlo. Era una grazia da cui comin-
re. Si dice che una debolezza ereditaria, ciava a difendersi come da una maledi-
non soltanto dell’anima, ma del sangue, zione» (p. 185).
dissuada le persone dal combattere la Questo dono premonitore sembra
natura. L’hanno chiamata anemia falci- concentrarsi negli occhi della ragazza
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RECENSIONI
288
e il suo aspetto, così come il mutismo, nell’invisibile, ma le due donne cono-
funge da barriera tra lei e il mondo, in scono quello che agli altri uomini non è
particolare il mondo degli uomini, por- permesso vedere. Il loro sguardo magico
tatori di violenza. «Gli uomini le faceva- sottolinea l’impossibilità di una Storia
no cenni, avanzando il basso ventre in unica, oggettiva e imparziale, le visioni
sua direzione. […] Eppure, il modo in donano una nuova dimensione alla re-
cui li guardava, vedendoli tutti morti, li altà. La storia è un prodotto dell’uomo
dissuase. Tornavano al buon senso, rag- e, come tale, è soggetta a interpretazioni
gelati dalla malinconia che si sprigiona- personali e particolari. I limiti tra Storia
va dalle iridi della ragazza» (p. 112). e finzione, tra realtà e immaginazione si
Nelle pagine conclusive del roman- confondono, si moltiplicano le voci e i
zo entra in scena Blimunda Sette-Lune, punti di vista.
il famoso personaggio creato da José Alla fine del romanzo, le due donne
Saramago nel Memoriale del Conven- si incamminano verso sud, attraversano
to. Ecco come ci viene presentata: «La il Tago, in direzione contraria rispetto
donna rise. Aveva un riso così cristalli- al percorso fatto da Lillias sino a quel
no che Lillias, per un attimo, pensò di momento. Blimunda insiste affinché il
essere circondata da bambini. Eppure, bambino che Lillias porta in grembo na-
nonostante i capelli, ancora molto scu- sca «in terra di nessuno, in uno spazio
ri, e il viso, liscio e bruno, dove brillava tra frontiere, che non sia né Portogallo
una leggera suggestione di emulsioni né Spagna» (p. 251). Blimunda appare
orientali, proveniva da lei una splendida inaspettatamente e gode di un ruolo im-
vecchiaia. Aveva attraversato il tempo e portante: è un personaggio eterno, che
lo aveva convinto a separarsi da lei per risveglia la memoria letteraria del letto-
sempre» (p. 251). re. L’autrice ha spiegato di aver inserito la
Anche Blimunda è, come Lillias, una figura di Blimunda per offrire un nuovo
visionaria: vede che la ragazza è incinta destino alla protagonista del romanzo e
e glielo rivela. «Lillias sentì gli occhi di per concludere il suo ciclo di esperien-
Blimunda e si svegliò. Le sorrise un’altra ze. Lillias, che fino a quel momento era
volta. —Il bambino sta bene. D’oggi in destinata a vivere in un mondo ostile
poi mi occuperò io di voi due. —Qua- alla sua condizione di donna, di orfana
le bambino, signora? —Quello che tu, e di visionaria, viene salvata da Blimun-
Lillias Fraser, partorirai. —Come fa a da, che la guarda «con fermezza, come
saperlo? —Vedo dentro il corpo delle chi dà l’ultimo ritocco a un’opera che ha
persone quando sono digiuna — spiegò meritato l’attesa» (p. 251) e la conduce al
Blimunda. —Io vedo la morte — disse di fuori del tempo storico. La narrazio-
Lillias. Blimunda Sette-Lune si chinò e ne si sposta così dal piano della realtà a
le sfiorò con le dita la camicia. —Allora quello della finzione e l’autrice si serve
sono più felice di te. D’oggi in poi vedrò della memoria letteraria per fuggire da
solo questo bambino» (p. 252). quella storica. Il sentimento utopico che
Lillias e Blimunda sono accomunate unisce le due donne confonde passato e
dallo stesso sguardo: in una società so- presente, e il tempo lineare, cronologico
praffatta dalla paura dell’Inquisizione, della storia cessa di essere importante.
solo la Chiesa Cattolica aveva la possi-
bilità di autorizzare o negare la credenza Michela Bennici e Ada milani
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
289
Armando Baptista-Bastos, José Saramago. Un sta e intellettuale, compagna del premio
ritratto appassionato, traduzione di Daniele Nobel e Presidenta della fondazione che
Petruccioli, Roma, L’ Asino d’Oro Edizioni, porta il suo nome.
2011, 162 pp. «Un libro di Baptista-Bastos con Sa-
ramago sullo sfondo» (p. 10), scrive
Pilar del Río, di questo testo denso e
Quando, oltre quindici anni fa, José agile, nel suo passo da reportage nar-
Saramago accolse l’amico, giornalista e rativo, che prende il via come cronaca
scrittore Armando Baptista-Bastos nel- affettuosa di un viaggio d’amicizia, in
la sua casa fatta di libri, nella vulcanica cui riflessioni e poesia accompagnano il
Lanzarote, forse non era ancora imma- viaggio dell’autore verso l’isola ardente.
ginabile il giorno in cui, ormai un anno Lisbona-Madrid-Lanzarote. Un viaggio
fa, avrebbe lasciato per l’ultima volta che, attraverso il primo capitolo, sembra
quell’isola, salutato dagli abitanti che voler accorciare le distanze, quelle fisi-
leggevano ad alta voce brani della sua che e quelle del vissuto, tra il Portogallo,
opera, e forse nemmeno che a Lisbo- la Spagna e le Canarie, l’Oceano. Un pri-
na, a dargli l’ultimo addio sarebbe stata mo capitolo preparatorio, che si soffer-
una folla di libri e garofani rossi alzati ma volutamente sull’incontro di Bapti-
al cielo per lui dalla gente. E se, nell’an- sta-Bastos con l’amico regista Pablo del
niversario della sua scomparsa, in Italia Amo, a Madrid, conversazione che dà il
si traduce, si rivede e si pubblica un suo la, che dà l’intonazione generale al libro:
ritratto appassionato, è senza dubbio un quella dell’intimità data dall’amicizia,
segno dell’affetto, ma anche e special- dalla condivisione di un passato fatto
mente una manifestazione dell’interes- di idee, di persone. Si crea da subito, in
se, della passione, che Saramago conti- modo esemplare, l’atmosfera della con-
nua a suscitare fra i lettori più diversi. versazione tra vecchi amici che prelude
Un’assenza tutt’altro che silenziosa, la a quella che avverrà sull’isola: «Una-
sua, vista la vitalità delle iniziative e del- muno è stato in esilio lì, […] sull’isola
le pubblicazioni che ne ripropongono e di fronte. Vai a trovare Saramago ovvia-
rielaborano il pensiero e l’opera. Come mente» (p. 14). E poi l’arrivo, Lanzarote,
questa edizione, uscita il 12 maggio il mare, i vulcani, la casa, la luce, i libri,
2011, con il titolo José Saramago. Un ri- le conversazioni, la giornata dello scrit-
tratto appassionato, traduzione accurata tore, le emozioni di un paesaggio fisico
del testo originale portoghese che inclu- che riflettono e si riflettono in quelle
de tre capitoli con al centro la trascrizio- del paesaggio interiore: Saramago come
ne dell’intervista registrata a Lanzarote, motore della riflessione, Lanzarote
dell’ apparato critico che comprende le come motore poetico.
testimonianze – tra i vari nomi, Maria Sull’isola cantata da Rafael Alberti si
Alzira Seixo, Luciana Stegagno Picchio, parla innanzitutto di letteratura, come
Eduardo Lourenço, Luis de Sousa Re- rispecchia la grafica scelta nell’edizione
belo – e una cronologia, qui aggiornata, italiana per il secondo capitolo, dedicato
della vita e delle opere. Ad introdurre alla Conversazione a Lanzarote, grafica
la lettura è stata inserita una premessa che lascia bianche le pagine a sinistra
dal titolo L’umanità vista dal cuore della perché al centro spicchi un’unica, breve
terra firmata da Pilar del Río, giornali- citazione tratta dall’opera di Saramago.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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Il reportage del viaggio d’amicizia si tra- all’epoca, né di quanto è successo dopo,
sforma in dialogo, senza interventi del ma di quello che era stato prima. Quin-
narratore: il testo dell’intervista scorre di con sguardo storico» (p. 27). Il suo
sulle pagine a destra in un dialogo rapi- rapporto con la letteratura portoghese
do, intervallato da brevi citazioni inter- del passato, che lo porta ad attraversare
ne, richiami al testo stesso, anticipazioni trasversalmente le epoche e gli stili nel
didascaliche, in corsivo, che catturano i trarre ispirazione, e la sua non-contem-
concetti essenziali e rinviano continua- poraneità con le generazioni che hanno
mente l’attenzione ai contenuti del testo, attraversato la sua vita – modernismo,
ai temi della riflessione. Per Baptista- neorealismo, surrealismo – ne hanno
Bastos, che dedica il terzo capitolo al fatto uno scrittore isolato. Baptista-Ba-
ritratto critico e analitico della figura stos s’interroga anche sulla questione
e dell’opera dell’amico scrittore dalla del romanzo portoghese, e interroga
Mano ardente, i romanzi di Saramago Saramago, che dice: «il romanzo credo
possiedono molte più idee, espongono sia per me oggi il modo di trasmettere
un corpo dottrinario molto più affa- una serie preoccupazioni o […] anche
scinante della stragrande maggioranza ossessioni. Certe volte sono portato a
dei saggi e testi pubblicati in Portogallo. chiedermi se sono davvero un roman-
Baptista-Bastos esamina l’eredità lette- ziere o se i miei libri sono trattati in cui
raria presente in Saramago, il problema ho inserito personaggi» (p. 53). Confer-
della sua posizione nel panorama dei mando così l’eccentricità, la specificità
generi letterari e nel contesto portoghe- del romanzo in Portogallo, genere che
se, cattura in questo libro la sua peculia- Saramago ha interpretato attraverso una
rità di scrittore che vive, sia fisicamente, soluzione personalissima. E forse per la
sia letterariamente, su un’isola. Lo con- sua forte specificità questo autore non
sidera un erede del moderno romantici- ammette per sé neanche il genere più
smo, ma capace di fondere la tradizione classico della biografia: sono decine le
affabulatoria di Camilo Castelo Branco interviste, i dialoghi, le conversazioni, i
(l’uso dei verbi, la soppressione degli ritratti, le critiche, gli articoli, le edizioni
aggettivi) con il naturalismo di Eça de in cui attraverso le sue parole, Saramago
Queirós (i personaggi ben delineati, i si racconta, e meno le biografie, anche
particolari), unendola al barocchismo postume, della sua vita. «Chiuso ma tra-
di António Vieira (costruzione sintatti- sparente, bocca a fil di lama, occhi ad
ca, locuzione avverbiale, allitterazione), angolo acuto, lontano e vicino, parlatore
in una conciliazione di dissonanze, che sarcastico, introverso al limite del muti-
secondo Baptista-Bastos, è possibile smo, secco, dal passo svelto, osservatore
attraverso il rinnovo contrattuale fra a tempo perso delle maschere umane,
eredità non rinnegata e ricerca di ori- viaggiatore attentissimo alla geografia
ginalità. Saramago rivendica le sue ra- delle anime, lettore onnivoro, mani agi-
dici neorealiste, ma spiega come il suo tate ad accentuare emozioni nascoste
atteggiamento verso il neorealismo, suo o rabbia manifesta […] non dimentica,
contemporaneo, si avvalga sempre di un non perdona e la sua risata, quando c’è,
filtro temporale, quello della storia: «è è feconda e cristallina» (p. 108).
come se esaminassi il neorealismo […] Nell’opera dell’amico Baptista-Bastos,
alla luce non di quello che succedeva a tracciare il ritratto è una mano delica-
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RECENSIONI
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ta, che guarda alla persona e alle sue idee, al quale Saramago ha dedicato il suo rin-
capace di quella discrezione, di quella graziamento attraverso le ultime parole
sensibilità spesso misconosciuta fra i scritte sulle pagine del blog. Se, come
biografi che puntano sul pettegolezzo, scrive Pilar del Río, «questo è un libro
per scrivere quelle che qui Saramago de- dell’umanità migliore», è proprio perché,
finisce biografie mancate. A Lanzarote, i per questi due intellettuali che conversa-
due amici degli anni della militanza con- no della vita, della religione, della politi-
tro il regime salazarista, del tempo in cui ca, della letteratura, dell’intimità o della
entrambi, da giornalisti, scrivevano die- felicità, per questi «figli dell’Illuminismo,
tro pseudonimo, registrano un’intervista le parole Libertà, Uguaglianza e Frater-
che, a leggerla oggi, ci ricorda tutto quel nità, hanno ancora un senso», un signi-
che Saramago avrebbe ancora da dire. ficato, che, si potrebbe aggiungere, loro
E dice. Nell’affermare che l’utopia, per stessi continuano a costruire. Tuttavia, i
antonomasia, non sta da nessuna parte, protagonisti di questa chiacchierata san-
afferma, tutt’altro che pessimisticamente, no bene... che non siamo del tutto uma-
che la speranza c’è solo quando noi la ri- ni, ed è per questo che, due anni dopo,
empiamo di contenuti concreti. E senten- nel ’98, alla consegna del premio Nobel,
dosi chiedere se la sua scrittura non abbia di fronte all’accademia di Svezia, José
un pessimismo di fondo più o meno ce- Saramago vorrà per prima cosa denun-
lato dietro un progetto umanistico, inte- ciare, nel giorno del cinquantesimo anni-
so come progetto di trasformazione del- versario della Dichiarazione Universale
la società con il fine di rendere l’umano dei diritti dell’Uomo, il perpetrarsi delle
più umano, Saramago risponde di essere disuguaglianze e delle ingiustizie e i pa-
ormai uscito dall’idea di progetti umani- radossi della nostra «schizofrenica uma-
stici affrontati con l’ottimismo finalistico nità» (José Saramago, Discorso al Nobel,
che è proprio delle religioni salvifiche e Stoccolma, 10 dicembre 1998).
delle ideologie rivoluzionarie. Ma anche «Restiamo umani», riutilizzando pa-
se i progetti politici muoiono, quello che role che in questi anni sono diventate
resta è sempre il terreno fertile: «c’è una in Italia uno slogan, e che invece rap-
fertilizzazione continua. Il terreno dove presentano una costante non solo della
piantiamo il seme perché nasca l’albe- vita di attivista e dell’opera di scrittore
ro è nutrito continuamente dalla storia, di Saramago, ma anche di questo libro
ne è irrigato e a volte persino distrutto; nella sua totalità, in cui l’essere umano
è un tipo di suolo in costante mutamen- è sempre al centro. «Credo che l’opera
to, dove le idee mettono radici» (p. 67). di José Saramago ci restituisca il gusto
Attualità di Saramago. Uno scrittore che dell’avventura e della fantasia, il piacere
all’età di ottantasei anni ha cominciato del sogno, la sensazione di non essere
a tenere un blog, attivista al quale solo soli. Racconta la storia, sempre rinnova-
la salute ha impedito di partecipare alla ta e incompiuta, di un flagrante delitto.
spedizione di solidarietà diretta verso Quel delitto monumentale che è la con-
la striscia di Gaza, la Freedom Flotilla, dizione umana» (p. 115).
colpita da un attacco israeliano che, il 31
maggio 2010, uccise nove dei partecipan- Marianna Scaramucci
ti. A bordo c’era anche l’amico e scrittore
svedese Henning Mankell, sopravvissuto,
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
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Marcio Veloz Maggiolo, La verdadera histo- sis, que despierta la curiosidad del sultán
ria de Aladino, Santo Domingo, Alfaguara —él también muy joven y aficionado a la
Juvenil y Editora Nacional, 2008, 112 pp.; Las crianza de mariposas gigantes y a la ca-
bodas de Caperucita, Santo Domingo, Funda- cería de luceros— y de su linda hermana
ción Educarte - Mediabyte, 2008, 52 pp. Halima. Además, la coqueta Asisa reco-
bra, gracias al genio que sirve a su hijo,
su impresionante belleza de muchacha,
Son muchos y originales los aciertos que años atrás había hechizado al padre
de la narración de Marcio Veloz Mag- del actual sultán, y éste último concibe
giolo La verdadera historia de Aladino, el deseo de realizar el sueño del difunto
ilustrada por Jovanny Silberberg, que sultán y atraer por fin a Asisa al harén.
la hacen muy merecedora del Premio Tras varias visitas entre los dos pala-
Anual de Literatura Infantil 2007 «Au- cios, el joven sultán, que había fingido
rora Tavárez Belliard» otorgado por el buscar alianza con los acaudalados ve-
Ministerio de Cultura de la República cinos, se encierra con la lámpara para
Dominicana. disfrutar de sus poderes mágicos, pero
No es la primera vez que el autor de- no lo consigue, porque el astuto Aladino
dica fascinantes páginas a los lectores había ordenado al genio que no saliera
más jovenes. Como muestra, basta re- de su escondite durante varios días. En-
cordar De dónde vino la gente, de 1978, tre Aladino y Halima florece el amor,
El jefe iba descalzo, de 1993, y Ladridos pero en su noche más feliz, el trampo-
de luna llena, de 2008. Pero aquí el mae- so mago de la corte, Ibrahim, el mismo
stro dominicano se enfrenta con una de que había robado el secreto de Aladino
las leyendas más poderosas y arraigadas penetrando en sus sueños, le arrebata la
de la imaginación literaria universal, el lámpara y la alfombra voladora. Cuando
amplio mundo que se suele reunir bajo los dos enamorados, tras un largo y di-
el membrete de las Mil y una noches, fícil camino, llegan al lugar donde antes
aun cuando filológicamente no siempre se extendía el palacio de Aladino, sólo
correspondan a la compilación más an- encuentran el desierto. Asisa también
tigua. Y lo hace con gran inventiva, ba- vuelve, a lomos de mula, vieja otra vez.
rajando todos los naipes de las tramas Nada queda del esplendoroso pasado,
tradicionales hasta crear un argumento salvo el amor de Halima, la de los siete
enredado y novedoso, con no pocos gol- velos con los colores del arco iris.
pes de teatro. Ibrahim decapita al sultán y usurpa el
Al veinteañero y apuesto Aladino le trono, devolviendo la juventud a la irre-
da una compleja genealogía, al hacerle sistible Asisa y ofreciendo un puesto de
hijo de un camellero discípulo de Alí escriba a Aladino, para vigilarlo de cerca
Babá y nieto de un sultán derrocado por con la esperanza de que le indique el ca-
beduinos fanáticos. Criado casi en or- mino hacia la inencontrable caverna de
fandad por su madre Asisa, vendedora Alí Babá. Pero los designios de Alá son
de mieles y dátiles, Aladino alcanza una otros. Una tarde en que sopla el simún,
fabulosa riqueza gracias al hallazgo de la el viento caluroso y polvoriento de los
consabida pequeña lámpara de plata co- arenales, el halcón amaestrado de Ha-
briza. Su pobre carpa se transforma en lima quita la lámpara de las manos del
un palacio maravilloso rodeado de oa- malvado mago, que acaba convertido
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RECENSIONI
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en mono saltarín, ejerciendo de paya- Y el viaje de Aladino es en buena medi-
so para la misma Halima, nueva dueña da una búsqueda de la memoria, junto
del genio. Los últimos deseos con que con la felicidad. Y es un itinerario de
éste tiene que cumplir son devolver el la escritura. Porque, como precisa muy
sultanato a Aladino y Halima, y la edad pronto el narrador: «Ésta es una parte
correcta a Asisa, y luego despedirse para de la historia que corre entre los bedui-
siempre de su oficio. nos de hoy. Pero no es la única, porque
Marcio Veloz Maggiolo conduce la las tradiciones surgen y se modifican si
narración con un gran derroche de ima- no son asentadas en los libros» (p. 23).
ginación: caballos alados que se tran- Cuando Ibrahim sube al trono, sor-
sforman en trozos de cristal de roca presivamente (quizás sea aficionado a
para descansar, camellos de tres jorobas cierta literatura de régimen dictatorial),
llamados «trimedarios», piratas con dos brinda a Aladino tinta y papel egipcio
mil esposas, girasoles azules o mejor di- para que escriba su historia y la lea du-
cho «giralunas» nocturnas que buscan rante las fiestas del palacio. Y Aladino
reflejos lunares, elefantes que produ- accede a «escribir una historia que Ibra-
cen colmillos de marfil como frutas... him revisaría cada día para acomodarla
Y tampoco faltan guiños afectuosos a la de manera tal que lo presentara como el
lejana patria chica, por ejemplo cuando mejor de los sultanes y que borrara los
se dice que sobre la cabeza de Aladino hechos negativos que pudieran colar-
«se asentaban palomas verdes y azules, se en la memoria de la gente» (p. 105).
como las que inventara el pintor Cándi- Pero en la última página del libro el nar-
do Bidó cuando reencarnó en la isla de rador revela que la definitiva y auténti-
Santo Domingo luego de sus vidas ante- ca historia escrita por Aladino es la que
riores en Bagdad» (p. 69). acaba de contarnos, luego especifica con
Pero más allá todavía de la sabia y ironía que nadie conoce el texto porque
sabrosa construcción intertextual y del se perdió. Y borra toda pista aseguran-
estado de gracia de la expresividad, lla- do que «es la misma historia que, con
ma la atención en este entrañable libro variaciones, repiten los beduinos» a los
el constante asomar de la inspiración turistas «que atraviesan el desierto en
profunda y característica de Marcio Ve- busca de cuentos, historias, aventuras y
loz Maggiolo, casi un sello de fábrica, agua» (p. 109).
aquí en su dimensión arábiga y juvenil. Es tal vez en la figura del genio donde
Desde la mismísima primera pági- más se concentra la poética del escri-
na, el libro está lleno de referencias a la tor. Cuando rejuvenece a Asisa, el genio
poética de la «memoria fermentada», puntualiza que no puede borrar de su
plural y vicaria, desarrollada lozana y mente el pasado, pero sí «fabricarle una
cabalmente en sus obras mayores. To- falsa memoria que puede usar a su an-
das las historias son variantes relativas. tojo» (p. 26). A él recurre Aladino para
Esta, que jura ser la «verdadera historia» conocer la historia de su padre, porque
de Aladino, empieza con la más terrible «el genio es un archivo de sombras y de
de las prohibiciones: en el cambio de luces, lee en el viento lo que se ha que-
dinastía se prohibe «fabular historias, dado flotando en la bruma de la memo-
escribir y comentar» buscando así «eli- ria» (p. 48). La mayor riqueza del genio,
minar para siempre la memoria» (p. 7). son, al parecer, sus biografías. En su pri-
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mer encuentro con Aladino le cuenta presenta el lobo, llamado cariñosamen-
una, luego añade: «También tengo otras te Don Feroz, en relaciones familiares
[…] y a cada uno de mis dueños les he con la abuela y Caperucita, desde que
dado la oportunidad de oírlas. Tendrás ésta última lo sacó de un barranco don-
que ver con cuál te quedas, señor Ala- de lo había encontrado agonizando,
dino» (p. 77). Y aclara todavía más en malherido por los perdigones. Caperu-
otro pasaje: «Esta biografía que te he cita conoce la historia del lobo de Gu-
narrado, no es la única, a cada dueño le bia, domesticado por San Francisco de
narro una biografía diferente. Todas son Asís, y se propone hacer de Don Feroz
en parte mentira y en parte verdad. Por un lobo bien educado, a través del afec-
lo tanto, ésta, la de mi aventura marina, to y el cambio de dieta. Así, Don Feroz
podría ser cierta o bien falsa. Los genios vive durante varios años con la abuela
no estamos obligados a decir la verdad y su nieta, y los campesinos le toman
y gozamos mucho, como los poetas, in- confianza. Caperucita cumple los veinte
ventando vidas que no hemos vivido» años y es de una belleza radiante. Tiene
(p. 30). El genio, «esclavo de los deseos un puesto de flores en el mercado y pro-
de otro», es a su manera un fabulador. Y duce en su jardín unas preciosas rosas
al final, su vocecita débil sale por última doradas. Don Feroz, su ayudante, se ha
vez de la lámpara para agradecerle a Ha- vuelto casi vegetariano.
lima la liberación: «Me vuelvo al reino Entonces se desarrolla la segunda
de la fantasía de donde vine. Ningún ser parte del plan de Caperucita: el viejo
terrenal puede matar un genio, pero sí Don Feroz, y su joven prosélito Don Lo-
puede al pedirlo, hacerlo desaparecer y bezno, son los misioneros encargados
volver a su lugar de origen, al eterno de- de convencer a los lobos de que pueden
scanso que necesitamos cuando hemos aprender a comer primero piltrafas y
tenido que sufrir por las ambiciones, luego bollos de maíz, así su vida se hará
maldades y angustias de los seres huma- menos riesgosa. Pero los dos, conver-
nos. Les dejo mis varias biografías para tidos en perros perfumados y gordos,
que cuenten a sus nietos las que cuadren no tienen éxito con la manada salvaje.
a sus temperamentos» (p. 107). Y además, se ponen celosos del Conde
Junto con su incursión en los terri- Florete, un apuesto joven señor de tier-
torios fabulísticos orientales, Marcio ras y ganados que visita a Caperucita y
Veloz Maggiolo reelabora también el le promete matrimonio. El enamora-
cuento tradicional de Caperucita Roja, miento y las bodas, clásico happy end de
en la narración Las bodas de Caperucita, los cuentos de hadas, se tornan aquí en
que forma parte de un curioso libro, Ca- un auténtico desastre: Don Feroz y Don
perucita de ida y vuelta, compuesto por Lobezno se alejan y caen en una celada
el texto que acabamos de citar y la larga de los pastores, la abuela muere lloran-
composición en versos cortos Memorias do y el rosal dorado se seca.
de Caperucita, del poeta dominicano Don Florete le regala a Caperucita
Tomás Castro Burdiez, que ocupa otras dos perros finos y aristocráticos, con
88 páginas. Ambos escritos son ilustra- los cuales va al mercado, imaginán-
dos por el grupo universitario Collage. dose que en ellos viven las almas de
Una vez más, el enfoque de Veloz sus dos amigos. A la heroína no le
Maggiolo es singular y atractivo. Nos queda sino recordar «los años de in-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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fancia, cuando con su cesta de frutas Nacional de Inteligencia per indagare su
y su capa roja visitaba a la abuela, y el un probabile colpo di stato ai danni di
Lobo Feroz la amenazaba de muerte» Obiang Nguema, che da oltre trent’anni
(p. 49), aunque «la vida se encarga de governa incontrastato. D’Awal si trova
convertir el pasado en lejanos recuer- pertanto costretto a compiere un lungo
dos, en lágrimas ya distantes» (p. 50). viaggio nel suo passato, tra altri con-
La vivencia de Caperucita es un poco nazionali anch’essi esuli a Madrid o a
la otra cara de la moneda respecto a Barcellona, a New York o in Camerun,
Aladino. Esta vez la memoria exhibe el cercando di ricomporre il puzzle della
aciago papel de consuelo por el fracaso situazione socio-politica guineana at-
de haberse atrevido a salirse del guión. tuale. Ne emerge l’immagine di una ter-
Pero en cambio también aquí Marcio ra poverissima, anche se incredibilmen-
Veloz Maggiolo consigue hábilmente an- te ricca di idrocarburi, che il governo
dar nuevos pasos por antiguos caminos. svende alle multinazionali straniere, in-
tascando tutti i profitti e lasciando mo-
Danilo Manera rire di fame la popolazione. Un dittatore
appoggiato dalla famiglia, ma anche da
forze molto potenti che provengono da
oltre confine, multinazionali, banche e
governi; un capo spietato verso gli op-
Francisco Zamora Loboch, Conspiración en positori politici e talmente terrorizzato
el green (El informe Abayak), Madrid, Sial / dall’eventualità di un golpe da spedire
Casa de África, 2009, 415 pp. in carcere al minimo pretesto chiunque
sia semplicemente di una etnia diver-
sa dalla sua. Poco a poco si scoprono i
Cosa succederebbe se al Centro Na- tasselli e ogni volta che l’immagine pare
cional de Inteligencia spagnolo arrivasse delinearsi, sopraggiunge un incontro
la soffiata che nei circoli di esuli equato- che rimescola di nuovo le carte. D’Awal
guineani si ordiscono trame per tentare viaggia, interroga, ritrova personaggi
un colpo di stato ai danni del dittatore della propria storia personale, scrittori,
Teodoro Obiang Nguema? Come po- giornalisti, oppositori politici, dissiden-
trebbero reagire i servizi di controspio- ti, prostitute e da tutti ottiene nuovi det-
naggio di quella che fu la madrepatria tagli, nuovi punti di vista, nuove rivela-
coloniale del piccolo stato africano? E zioni su quanto è accaduto negli ultimi
che ruolo hanno in questo scenario da cinquant’ anni di storia equatoguine-
romanzo poliziesco e spionistico un li- ana e su quanto continua ad accadere.
banese e un Lord inglese che su un cam- Sono personaggi volatili, che appaiono
po da golf sudafricano progettano a loro e scompaiono nel giro di poche pagine,
volta un colpo di stato? lasciando la testimonianza delle proprie
Ton D’Awal, originario della Guinea ferite. Come Papá Motuda, fuggito dal
Equatoriale, ormai da tempo risiede e carcere di Blay Bich dove era finito per
lavora a Madrid, dopo essere fuggito essere di etnia bubi, o Papá Tío Esono
dal carcere del suo paese natale. Dirige che invece per il carcere ha lavorato a
una piccola agenzia di investigazioni lungo prima di scappare disgustato dal-
privata che viene contattata dal Centro la Guinea di Obiang. O come Rosalía,
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Lobo Feroz la amenazaba de muerte» Obiang Nguema, che da oltre trent’anni
(p. 49), aunque «la vida se encarga de governa incontrastato. D’Awal si trova
convertir el pasado en lejanos recuer- pertanto costretto a compiere un lungo
dos, en lágrimas ya distantes» (p. 50). viaggio nel suo passato, tra altri con-
La vivencia de Caperucita es un poco nazionali anch’essi esuli a Madrid o a
la otra cara de la moneda respecto a Barcellona, a New York o in Camerun,
Aladino. Esta vez la memoria exhibe el cercando di ricomporre il puzzle della
aciago papel de consuelo por el fracaso situazione socio-politica guineana at-
de haberse atrevido a salirse del guión. tuale. Ne emerge l’immagine di una ter-
Pero en cambio también aquí Marcio ra poverissima, anche se incredibilmen-
Veloz Maggiolo consigue hábilmente an- te ricca di idrocarburi, che il governo
dar nuevos pasos por antiguos caminos. svende alle multinazionali straniere, in-
tascando tutti i profitti e lasciando mo-
Danilo Manera rire di fame la popolazione. Un dittatore
appoggiato dalla famiglia, ma anche da
forze molto potenti che provengono da
oltre confine, multinazionali, banche e
governi; un capo spietato verso gli op-
Francisco Zamora Loboch, Conspiración en positori politici e talmente terrorizzato
el green (El informe Abayak), Madrid, Sial / dall’eventualità di un golpe da spedire
Casa de África, 2009, 415 pp. in carcere al minimo pretesto chiunque
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sa dalla sua. Poco a poco si scoprono i
Cosa succederebbe se al Centro Na- tasselli e ogni volta che l’immagine pare
cional de Inteligencia spagnolo arrivasse delinearsi, sopraggiunge un incontro
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guineani si ordiscono trame per tentare viaggia, interroga, ritrova personaggi
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Teodoro Obiang Nguema? Come po- giornalisti, oppositori politici, dissiden-
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naggio di quella che fu la madrepatria tagli, nuovi punti di vista, nuove rivela-
coloniale del piccolo stato africano? E zioni su quanto è accaduto negli ultimi
che ruolo hanno in questo scenario da cinquant’ anni di storia equatoguine-
romanzo poliziesco e spionistico un li- ana e su quanto continua ad accadere.
banese e un Lord inglese che su un cam- Sono personaggi volatili, che appaiono
po da golf sudafricano progettano a loro e scompaiono nel giro di poche pagine,
volta un colpo di stato? lasciando la testimonianza delle proprie
Ton D’Awal, originario della Guinea ferite. Come Papá Motuda, fuggito dal
Equatoriale, ormai da tempo risiede e carcere di Blay Bich dove era finito per
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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ora parrucchiera in un barrio malfama- Tras la operación de cirugía estética que
to di Madrid, ma un tempo moglie di un extirpará a estos analfabetos sentados
membro del clan al potere che abusava sobre medio millón de barriles diarios,
di lei insieme a buona parte della fami- nuestro negocio va a consistir en obtener
glia. O ancora come Thompson Bohó, del nuevo ejecutivo la exclusiva de la ge-
un creolo africano emigrato in New Jer- stión de los mercados de petróleo y, sobre
sey che già in passato aveva preso par- todo, del gas guineano» (p. 394). Questo
te a un tentativo di golpe, come pure lo l’obiettivo dei giocatori di golf: mande-
stesso D’Awal del resto, e che dagli Stati ranno la pallina in buca al primo colpo?
Uniti sta cercando di riunire altri dissi- Per tutta la durata del romanzo il
denti per sferrare quello che spera sarà lettore attende la svolta, l’azione, il
l’attacco finale. Tutti quanti raccontano momento in cui si chiarirà il mistero
al nostro detective la propria storia, una sull’organizzazione del golpe e la sua
delle tante, molto spesso purtroppo si- messa in pratica, ma l’attesa si rivela
mili, che costellano gli ultimi decenni vana. Il romanzo si conclude lasciando
della Guinea Equatoriale. La doman- un velo d’incertezza sul futuro del pa-
da di fondo è sempre: quante ragioni ese e su quello dei protagonisti, quasi a
esistono per tentare un golpe e quante ricordare ancora una volta che il futuro
sono le possibilità di portarlo effettiva- non solo della Guinea Equatoriale ma di
mente a termine? tanti Paesi africani non dipende in re-
Dall’altra parte del mondo, a Città del altà da chi ci vive, ma da chi dall’ester-
Capo, in Sudafrica, un misterioso Lord e no ne gestisce gli interessi economici.
un libanese disputano una memorabile Ne è ulteriore testimonianza il doppio
partita a golf, che per certi versi cambie- punto di vista presente nel testo: da una
rà la vita del britannico, il quale, tra uno parte D’Awal e le altre decine di voci
swing e un drive, tra un birdie mancato che descrivono la situazione del paese,
e un bogey riuscito, verrà a sapere, per le storie di fuga e di prigionia, di po-
bocca del suo compagno, cosa si cela die- vertà e di violenza, senza però arrivare
tro i rapporti internazionali e nelle stan- alla svolta finale; dall’altra il Lord con
ze di governo della Guinea Equatoriale: il suo compagno libanese che analizza-
interessi petroliferi, conti svizzeri, nar- no dall’esterno la realtà socio-politico-
cotraffici tra un’ambasciata e l’altra, stre- economica, trascurando olimpicamente
goneria, appoggi politici di alto rango, il popolo guineano nel loro progetto di
tradimenti familiari e molto altro ancora. golpe. Ma forse proprio in questa poli-
Con un unico filo conduttore: proteggere fonia anche contraddittoria e in questo
i preziosi giacimenti petroliferi del sotto- punto interrogativo sul futuro sta la
suolo guineano che risvegliano moltepli- chiave profonda del romanzo.
ci interessi. Proprio per questo si rende Con Conspiración en el green (El in-
sempre più necessaria l’organizzazione forme Abayak) è stato scritto un nuovo
di un colpo di stato che metta i profitti capitolo della letteratura equatoguinea-
derivati dal petrolio finalmente al sicuro na in lingua spagnola, grazie a una delle
dalle superstizioni tribali e dall’instabilità sue figure più importanti, Francisco Za-
emotiva dell’attuale presidente della Gui- mora Loboch (1948), scrittore, musicista
nea Equatoriale: «No vamos a Guinea a e giornalista in esilio volontario a Ma-
cavar pozos, eso se lo dejamos a otros. drid da oltre trent’anni.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Lungo tutto il romanzo le due trame lo scrittore. Ma Zamora Loboch riversa
parallele si intrecciano senza mai arri- anche nelle pagine del romanzo quello
vare veramente a fondersi, così come si che il lavoro come giornalista gli ha in-
alternano i personaggi storici e quelli di segnato: lo stile da reportage d’inchiesta,
finzione. Da una parte c’è lo sguardo di- l’attenzione al dato e alla fonte, la preci-
sincantato e a tratti cinico di D’Awal che sione nel dipingere i luoghi e le persone.
si confronta con i propri connazionali, Si fa fatica a scindere il reale dal fittizio.
che vive l’esilio come qualcosa di inelut- Poco importa tuttavia che siano real-
tabile e irreversibile e proprio per que- mente esistiti Onkulakong o Atanasio
sto si dedica anima e corpo alla ricerca Ndongo Miyone, ciò che importa sono
di informazioni sull’ipotetico colpo di le sensazioni e i patimenti dell’esilio, le
stato, informazioni che vaglia con scru- torture subite e i futili motivi per cui si
polo e assimila lentamente. Dall’altra c’è finiva in carcere. E fa rabbrividire pen-
l’analisi attenta e asettica, giornalistica e sare che buona parte di quanto raccon-
dettagliata, della Guinea Equatoriale del tato dal libanese al misterioso Lord sul
ventesimo secolo, riassumibile forse nel campo da golf possa essere fondato, che
trinomio «dictadura, petróleo y antro- al di là del tacito appoggio a una dittatu-
pofagia» (p. 227). ra per gli interessi petroliferi, i Paesi del
Tornano i temi cari a Zamora Lo- cosiddetto Primo Mondo siano davvero
boch: il Paese natale visto con gli occhi pronti a chiudere gli occhi su tutto.
dell’esiliato, gli echi di antiche leggende In questo romanzo anche lo stile su-
e riti tribali, la nostalgia per i profumi e bisce una trasformazione rispetto alla
i sapori della sua terra che si intrecciano precedente produzione dell’autore. Il
con lo sguardo critico sulla situazione linguaggio semplice e a tratti colloquia-
politica, sugli interessi economici che le, i periodi dalla struttura lineare, il les-
poco o nulla prendono in considera- sico ricco di termini tratti dalla lingua
zione la difficile situazione del popolo orale e di africanismi, si alternano ora a
equatoguineano. Tornano il panafri- una maggiore articolazione stilistica in
canismo, le critiche all’atteggiamento cui entra in gioco tutta l’esperienza for-
della Spagna durante il colonialismo e, mativa e professionale dell’autore. Ne
soprattutto, lungo le dittature di Macías sono un esempio la terminologia spe-
prima e di Obiang poi: «Suárez, su go- cifica legato al mondo del golf, bagaglio
bierno y su partido, la Unión de Cen- culturale acquisito nella sua carriera di
tro Democrático, incluso el Rey, Juan giornalista sportivo, o le immaginose
Carlos de Borbón, y la Reina, Sofía de descrizioni paesaggistiche, eredità della
Grecia se volcaron en cuerpo y alma con poesia.
su ex colonia, mejor dicho, con Teodoro Con Conspiración en el green (El in-
Obiang» (p. 201). Torna la solitudine a forme Abayak), Zamora sembra aver su-
Madrid, già comparsa in racconti e po- perato la fase di ricerca dell’identità, co-
esie, dell’equatoguineano che cerca la mune a molti scrittori equatoguineani
compagnia di chi vive la sua stessa situa- a cavallo tra il XX e il XXI secolo: dopo
zione per scrollarsi di dosso la malinco- la nostalgia e il silenzio, dopo il ricordo
nia e la sensazione di essere fuori luogo. e la rabbia è arrivato per lui il momen-
Nelle parole e nei pensieri di D’Awal to di voltare pagina e pronunciare una
pare di leggere in controluce quelli del- viva, drammatica e minuziosa denuncia
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sociopolitica. Il racconto lascia al lettore ratori di microstorie di un Paese che,
l’amaro in bocca e il dubbio che vera- oltre ad aver subito per decenni una co-
mente, con così tanto in gioco, il colpo lonizzazione territoriale e culturale, ha
di stato possa essere l’unica soluzione. assistito alla scrittura della propria sto-
ria per mano dell’«altro», figura che può
Alessia Marmonti coincidere in forma ambivalente con il
dominatore coloniale e il missionario
evangelizzatore. La voce della popola-
zione del Paese occupato continua a ta-
cere, mentre la scrittura del dominatore
Donato Ndongo-Bidyogo, Il metrò, traduzio- incide le pagine della Storia ufficiale con
ne di Valeria Magnani, Siena, Edizioni Gorée, la propria conoscenza e le proprie for-
2010, 432 pp. mule di rappresentazione. Attraverso i
suoi romanzi, Ndongo-Bidyogo tenta di
colmare un vuoto di racconto, un’assen-
«Pero no podía dejar de sorprenderse za di parola mai pronunciata, una sto-
cada vez que viajaba hacia el Metro; le ria che solo l’oralità tramandata, ormai,
parecía que se había transformado en può costruire.
un ser extraño, medio animal y medio Il suo ultimo romanzo, il primo ad
humano, como un gigantesco grombif essere tradotto da noi, eredita dai pre-
que cada anochecida buscara su ma- cedenti l’importanza del recupero delle
driguera bajo los túneles de la ciudad. voci di quelli che Frantz Fanon chiama
Pensaba que no era propio de personas I dannati della terra (Torino, Einaudi,
vivas este descenso irremediable hacia 2007), ma accoglie in sé una fase avan-
las profundidades […]» (Donato Ndon- zata della riflessione postcoloniale. Se
go-Bidyogo, El metro, Madrid, El cobre, infatti le sue prime opere si fanno inter-
2007, p. 13). Lo scenario conradiano preti della critica al discorso coloniale
che si apre attraverso le prime righe del in una prospettiva cronologicamente
romanzo di Donato Ndongo-Bidyogo successiva alle colonie, Il Metrò funge
(1950) getta una nuova luce sulla produ- da trait d’union tra un passato di do-
zione letteraria dell’autore della Guinea minazione coloniale europeo e un pre-
Equatoriale, finora contraddistinta da sente caratterizzato da nuove forme di
un particolare interesse nel tracciare il colonialismo, ora di natura finanziaria
profilo della memoria storica collettiva e politica, supportate da una divisione
del suo Paese, ex colonia spagnola in se- sempre più netta tra Nord e Sud.
guito retta da regimi autocratici. Il suo protagonista, Lambert Obama
Le opere fondamentali dell’autore, Ondo, emigra dal Camerun nella spe-
Las tinieblas de tu memoria negra (Ma- ranza di raggiungere l’Europa seguen-
drid, Fundamentos, 1987) e Los poderes do le rotte clandestine. Il miraggio del
de la tempestad (Madrid, Moranti, 1997) Nord comincia a costruirsi nel suo im-
costituiscono le prime due parti di una maginario fin dalle prime tappe di viag-
trilogia che si è conclusa proprio con El gio: dal Camerun al Senegal, da Dakar
metro, pubblicato in Spagna nel 2007. I a Casablanca, e poi ancora da El Aaiun
primi due romanzi si presentano come fino alle Canarie. L’arrivo nell’arcipela-
un baule della memoria rimossa, gene- go spagnolo è una tappa fondamentale
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
298
sociopolitica. Il racconto lascia al lettore ratori di microstorie di un Paese che,
l’amaro in bocca e il dubbio che vera- oltre ad aver subito per decenni una co-
mente, con così tanto in gioco, il colpo lonizzazione territoriale e culturale, ha
di stato possa essere l’unica soluzione. assistito alla scrittura della propria sto-
ria per mano dell’«altro», figura che può
Alessia Marmonti coincidere in forma ambivalente con il
dominatore coloniale e il missionario
evangelizzatore. La voce della popola-
zione del Paese occupato continua a ta-
cere, mentre la scrittura del dominatore
Donato Ndongo-Bidyogo, Il metrò, traduzio- incide le pagine della Storia ufficiale con
ne di Valeria Magnani, Siena, Edizioni Gorée, la propria conoscenza e le proprie for-
2010, 432 pp. mule di rappresentazione. Attraverso i
suoi romanzi, Ndongo-Bidyogo tenta di
colmare un vuoto di racconto, un’assen-
«Pero no podía dejar de sorprenderse za di parola mai pronunciata, una sto-
cada vez que viajaba hacia el Metro; le ria che solo l’oralità tramandata, ormai,
parecía que se había transformado en può costruire.
un ser extraño, medio animal y medio Il suo ultimo romanzo, il primo ad
humano, como un gigantesco grombif essere tradotto da noi, eredita dai pre-
que cada anochecida buscara su ma- cedenti l’importanza del recupero delle
driguera bajo los túneles de la ciudad. voci di quelli che Frantz Fanon chiama
Pensaba que no era propio de personas I dannati della terra (Torino, Einaudi,
vivas este descenso irremediable hacia 2007), ma accoglie in sé una fase avan-
las profundidades […]» (Donato Ndon- zata della riflessione postcoloniale. Se
go-Bidyogo, El metro, Madrid, El cobre, infatti le sue prime opere si fanno inter-
2007, p. 13). Lo scenario conradiano preti della critica al discorso coloniale
che si apre attraverso le prime righe del in una prospettiva cronologicamente
romanzo di Donato Ndongo-Bidyogo successiva alle colonie, Il Metrò funge
(1950) getta una nuova luce sulla produ- da trait d’union tra un passato di do-
zione letteraria dell’autore della Guinea minazione coloniale europeo e un pre-
Equatoriale, finora contraddistinta da sente caratterizzato da nuove forme di
un particolare interesse nel tracciare il colonialismo, ora di natura finanziaria
profilo della memoria storica collettiva e politica, supportate da una divisione
del suo Paese, ex colonia spagnola in se- sempre più netta tra Nord e Sud.
guito retta da regimi autocratici. Il suo protagonista, Lambert Obama
Le opere fondamentali dell’autore, Ondo, emigra dal Camerun nella spe-
Las tinieblas de tu memoria negra (Ma- ranza di raggiungere l’Europa seguen-
drid, Fundamentos, 1987) e Los poderes do le rotte clandestine. Il miraggio del
de la tempestad (Madrid, Moranti, 1997) Nord comincia a costruirsi nel suo im-
costituiscono le prime due parti di una maginario fin dalle prime tappe di viag-
trilogia che si è conclusa proprio con El gio: dal Camerun al Senegal, da Dakar
metro, pubblicato in Spagna nel 2007. I a Casablanca, e poi ancora da El Aaiun
primi due romanzi si presentano come fino alle Canarie. L’arrivo nell’arcipela-
un baule della memoria rimossa, gene- go spagnolo è una tappa fondamentale
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
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del suo viaggio, ma si tramuta imme- gli resta ancora da percorrere. Le viscere
diatamente nell’inizio di una nuova suc- della capitale rappresentano uno spa-
cessione di prove intermedie, necessarie zio di esistenza in itinere. Il movimento
per la realizzazione del suo progetto: circolare del mezzo di trasporto evoca
ottenere un lavoro e il un relativo benes- l’idea di un viaggio non-finito, un pe-
sere economico. Il viaggio verso il sogno regrinare inconcluso che potrebbe non
si tramuta in una discesa nella profon- volgere mai al suo termine, elemento
dità del sé, un percorso parallelo sotter- che caratterizza la natura umana, ma
raneo o sottomarino durante il quale il che contraddistingue per antonoma-
protagonista entra in contatto con l’im- sia colui che “migra”. Il migrante so-
magine della morte o della non-vita. Il gna la partenza, ma la realizzazione di
primo itinerario, verso il Senegal, avvie- quest’ultima cede il passo a nuovi oriz-
ne a bordo di una nave mercantile; Oba- zonti sempre differenti che, spesso, con-
ma Ondo, nascosto nella stiva tra cata- templano la via del ritorno. La Madrid
ste di legname, percepisce la debolezza presentata nell’incipit del romanzo an-
del proprio corpo e la tragicità della sua nuncia una lettura esistenziale dell’espe-
condizione di “invisibile”. Il suo lamento rienza migrante, integrata da una pro-
per la sofferenza fisica si perde nell’oscu- spettiva neo-coloniale. Parafrasando
rità dell’ambiente e nella solitudine della Salman Rushdie in Patrie immaginarie
clandestinità, tuttavia ciò che più lo af- (Milano, Mondadori, 1992), si può dire
fligge è la perdita della consapevolezza che l’immigrato contemporaneo che
e della coscienza. Il sacrificio corporale oggi abita la metropoli occidentale è
porta con sé un imbarbarimento dell’es- ormai una presenza immanente alla so-
sere umano, condizione ancor più tra- cietà del cosiddetto Primo Mondo. La
gica poiché percepita appieno dal pro- sua comparsa entro i confini del mondo
tagonista. industrializzato denuncia non solo l’esi-
Dopo numerose peripezie, Obama stenza di un legame storico pregresso,
Ondo riesce a raggiungere la capita- individuato nelle diverse esperienze di
le spagnola. Si tratta, tuttavia, di una colonizzazione del XIX e del XX seco-
Madrid non convenzionale. In effetti il lo, bensì la persistenza di un intreccio
primo contatto con essa si realizza nei economico che è andato mantenendo-
suoi antri sotterranei, la metropolita- si pur con la risoluzione dei successivi
na, spazio che incarna il simbolo della processi di decolonizzazione. Il richia-
modernità occidentale in opposizione mo di forza lavoro a basso costo dei Pa-
al mondo tradizionale africano e che esi occidentali ne è un evidente segnale,
rappresenta l’intreccio della dimensione ben esemplificato da Ndongo-Bidyogo
sociale collettiva della folla e dell’indi- nel fondamentale episodio ambientato
vidualità del singolo (cfr. Ilaria Rossi- nelle campagne di Murcia. Torre Pache-
ni, «Modernità migranti e interstizi di co, località di campagna in provincia
potere: “El Metro” di Donato Ndongo», di Albacete, attira ogni anno numerosi
Confluenze, 3, 1 (2011), pp. 126-138). Il lavoratori stranieri per attività agricole.
metrò, nell’esperienza del personaggio Obama Ondo riesce a partecipare come
di Ndongo-Bidyogo, diviene anche una bracciante rurale, ma fin dal suo arrivo
metafora del viaggio, a metà strada tra percepisce le condizioni disumanizzan-
quello che ha già realizzato e quello che ti del suo prossimo futuro. L’oscurità
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
300
ricorre con frequenza nelle descrizioni sua natura eccedente, l’equatoguineano
della sua esperienza: il buio della notte esprime il proprio potere eversivo pro-
favorisce l’uscita dei migranti clande- ponendo una rappresentazione alterna-
stini dalle baracche nelle quali abitano, tiva del mondo.
ai margini dei centri abitati, spesso in
prossimità degli stessi campi coltiva- Sara chiodaroli
ti. La notte avvolge come un manto le
esistenze silenziose e silenziate dei la-
voratori irregolari, la cui presenza è le-
gittimata dalla comunità locale solo se
connessa all’incontestabile lavoro diur- Elena Landone, Los marcadores del discurso
no. Il giorno e la notte decidono delle y la cortesía verbal en español, Berna, Peter
loro vite, metabolizzate nella coscienza Lang, 2009, 390 pp.
dei locali solo attraverso l’utilità dei loro
corpi operosi.
Il luogo sotterraneo della metropo- De los numerosos campos que se han
litana si ripropone sul finire della nar- desarrollado en los últimos tiempos en
razione, offrendo un’ultima preziosa el ámbito de la lingüística pragmática, el
opportunità di riflessione intorno al de los marcadores del discurso y el de la
legame tra la condizione della clandesti- cortesía verbal son sin duda dos de los
nità e le possibilità di esistenza ai margi- más fecundos y dinámicos: por el núme-
ni dei circuiti urbani principali. Obama ro de estudios realizados en torno a es-
Ondo, ormai insediatosi stabilmente tos temas, en constante aumento, por el
a Madrid, propone una topografia ur- nivel de especialización que han alcan-
bana alternativa a quella normalmente zado y por su difusión en toda la comu-
conosciuta da un abitante della capita- nidad científica del hispanismo. Pocos
le o da un turista. Il suo lavoro di top son, en cambio, los trabajos que enfren-
manta, ovvero di venditore ambulante, tan un estudio sobre las relaciones entre
richiede un’attenta e meticolosa ricerca marcación discursiva y cortesía verbal,
di spazi entro i quali sia possibile espor- a pesar de que en sendas investigaciones
re la propria merce, nonché la capacità, fuera evidente que existen vínculos en-
in caso di controlli della Guardia Civil, tre los dos campos. ¿Qué posibilidades
di trovare una via di fuga. I corridoi la- tienen los marcadores del discurso de
birintici del metrò di Madrid non rap- actuar como índices de regulación inte-
presentano solo un luogo di passaggio raccional y social para conseguir el éxito
funzionale agli utenti della metropoli- de la acción comunicativa?
tana, ma acquistano un valore aggiunto El poderoso estudio de Elena Lan-
nella prospettiva di Obama Ondo, per done, Los marcadores del discurso y la
il quale l’unica possibilità di mantenere cortesía verbal en español, intenta col-
vivo il proprio sogno passa attraverso la mar este vacío mostrándonos, ya desde
necessità di nascondere il proprio lavo- las premisas, las principales dificultades
ro e il proprio corpo. La forza narrativa que entraña dicha tarea. La abundante
del protagonista si situa nel suo essere literatura que se ha venido ocupando
clam-intestinus: parte integrante di un de la marcación del discurso aún carece
sistema che non può accettarlo per la de una definición compartida sobre sus
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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no. Il giorno e la notte decidono delle y la cortesía verbal en español, Berna, Peter
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Il luogo sotterraneo della metropo- De los numerosos campos que se han
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Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
301
funciones pragmáticas, lo que represen- clase semántico-pragmatica y se presen-
ta un escollo para el análisis en cuanto a ta una síntesis de los diferentes enfoques
su valor de cortesía verbal. Y de manera de investigación que han sido adoptados
paralela en el campo de la cortesía ver- por los especialistas en lengua española.
bal, todavía se manejan nociones poco Se descubre así, que prevalecen los en-
precisas, externas a la lingüística y defi- foques basados en el análisis de las par-
niciones con confines borrosos. Es por tículas que prototípicamente abundan
ello que, antes de dar una respuesta a en situaciones enunciativas monológi-
la pregunta de fondo, la autora hace un cas. Esto se debe a que los trabajos cien-
largo y exhaustivo recorrido sobre el tíficos en ámbito hispánico se han cen-
estado de las investigaciones de los dos trado en textos escritos y han focalizado
campos que se toman en consideración. la conexión lógico-semántica entre las
En el primer capítulo se discute so- partes del texto, prevalentemente en su
bre la noción de cortesía verbal con dimensión conectiva y argumentativa,
relación a las necesidades personales e lo que constituye un evidente límite. La
interpersonales, a las normas grupales y misma denominación terminológica de
sociales y a los procesos cognitivos. El marcadores del discurso parece ligada
trasfondo teórico es la concepción del a esta tradición de estudios y no siem-
lenguaje como acción e interacción, en pre resulta suficientemente precisa para
el sentido de que su existencia se funda- unidades que cumplen funciones como
menta en las funciones de sociabilidad. las de ser indicadores de modalidad y
Tras examinar los modelos de cortesía actitud, señales de intención y relación
verbal dominantes en el mundo hispá- entre interlocutores o instrucciones de
nico, Landone propone el que postula procesamiento. Por esto, la autora con-
la cortesía como un fenómeno con una sidera oportunas otras denominaciones
base cognitiva y con parámetros social- como partículas discursivas, marcado-
mente formados, que se manifiesta lin- res pragmáticos o partículas pragmáti-
güísticamente en un contexto situacio- cas que utiliza en su estudio como sinó-
nal complejo, con recursos más o menos nimos de la denominación más usual.
convencionales. En el capítulo tres se pasa a la dimen-
Siguiendo esta perspectiva de análi- sión dialógica del discurso y se plantea
sis, surge la necesidad de encuadrar un una organización de la materia según
número amplio de variables, pasando prototipos —con funciones nucleares y
del monopolio de la imagen pública o funciones contextuales— y planos del
de las relaciones sociales, a otros aspec- discurso que se pueden activar de for-
tos como el tenor de la comunicación, la ma sinérgica y simultánea. La situación
rutinariedad del acto de habla, el género enunciativa dialógica toma en conside-
textual, el tema y la retórica, la comuni- ración las condiciones psico-físicas de
cación emotiva, el registro, la dinámica la verbalización oral y escrita, junto al
interna del discurso, etc. nivel de la interactividad cara a cara y a
El segundo capítulo se ocupa de los la relación que éste conlleva. Se aborda
marcadores del discurso a los que se el hecho de que la situación enunciativa
asocia la definición de Wierzbicka: ac- dialógica, tanto oral como escrita, im-
ciones de la mente. Ante todo se aborda plica participantes que cumplen actos
el problema de su delimitación como comunicativos en una dimensión rela-
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
302
cional y que ésta influye manifiestamen- Tras haber despejado el campo teó-
te sobre la frecuencia y la tipología de la rico y haber puntualizado el marco ter-
marcación discursiva. La autora destaca minológico y conceptual en el cual se
la dialogicidad como centro de interés mueve, la autora analiza los marcadores
para radicar en ella una propuesta nue- pragmáticos asociados a las dinámicas
va de integración de perpectivas sobre de cortesía verbal. Recoge y describe
los marcadores, ya que si las relaciones todos los marcadores que, según la li-
sociales se despliegan en la interacción, teratura especializada, pueden codificar
ésta parece ser el lugar privilegiado de de forma metalingüística una señal de
la cortesía verbal y de sus dinámicas. regulación cortés en la relación dialó-
De ahí que la dialogicidad se convierta gica. Las categorías adoptadas para su
en un punto de observación privilegia- descripción son las de modulación de
do y permita integrar una tradición de la proximidad, negociación del acuer-
estudios de base textual con una más do y desacuerdo, modulación de la in-
conversacional y añadir la dimensión tensidad y la especificidad, los mismos
menos estudiada acerca de la relación principios organizadores que se han
socio-afectiva, y por ende cortés, entre propuesto a lo largo del libro. Además
los interlocutores. se anotan algunos casos de repetición,
Antes de pasar al estudio empírico combinación y acumulación de marca-
de esta dimensión, Landone considera dores del discurso.
necesario profundizar en las nociones Siendo este un estudio de carácter
psicológicas y en las categorías lingüís- descriptivo la primera conclusión que se
ticas que se han reelaborado a propó- puede apreciar es de tipo cuantitativo: el
sito de la relación entre interlocutores, número de partículas pragmáticas anali-
ya que con frecuencia son nociones zadas resulta ser significativamente alto,
muy similares a las que los estudios de dejando salva la anotación de que éstas,
la cortesía verbal suelen evocar. En el como todo recurso lingüístico, no son
terreno relacional, la dimensión psi- inherentemente corteses o descorteses.
cológica es importante y a ella remiten La segunda conclusión es una consi-
unas cuantas categorías emotivas como: deración de tipo más general; Landone
afiliación, solidaridad, poder, control, observa que la relacionalidad, con su
distancia, responsabilidad, asertividad, extenso dominio psicológico, puede in-
involvement, etc. A éstas se correspon- fluir de forma relevante en las elecciones
den ciertas manifestaciones lingüísticas: lingüísticas que cumplen los hablantes,
intensificar, mitigar, enfatizar, modular, ejercitando una presión que se concreta
etc. Se analizan de manera detenida las en información pragmática. Los mar-
nociones psicológicas de proximidad y cadores del discurso son, en este sen-
negociación del acuerdo así como las tido, señales lingüísticas que vehiculan
categorías pragmalingüísticas de inten- tal presión. Por ello, añade, es relevante
sidad y especificidad, sin olvidar que un la vertiente social de la comunicación;
recurso lingüístico no es propiamente quienes comunican (el tú y el yo ) no son
cortés o descortés por su naturaleza, ya individuos aislados sino miembros
sino porque un hablante lo asocia, más de un grupo social, cultural, étnico, re-
o menos convencionalmente, a inten- ligioso, político, profesional, que hacen
ciones de cortesía verbal. parte de complejas redes de relaciones
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
303
y configuran las estructuras sociales. De sistemática. Por ello mismo, la biblio-
ahí que la perspectiva para el estudio de grafía que presenta es otro instrumen-
la lengua una la pragmalingüística y la to precioso y de gran utilidad: extensa
sociopragmática. Esto significa entrar y completa, está convenientemente se-
a considerar de manera sistemática los leccionada y actualizada, además de ser
factores contextuales y no solamente precisa y bien recopilada.
el código lingüístico, por una parte, y A esta primera consideración co-
por otra, concebir el contexto como un rresponde un gran rigor investigativo.
verdadero lugar social en el que interac- Landone no descuida ningún aspec-
túan identidades, relaciones, comporta- to durante su indagación, no desvía su
mientos, pulsiones, conflictos, etc. atención ante cuestiones cuyo trata-
Para mostrar las implicaciones de miento hubiera sido fácil dejar de lado.
estas últimas reflexiones, la autora las Por el contrario, las enfrenta dejando
proyecta en un horizonte pedagógico hablar y debatir a los autores mismos
y nos recuerda la relevancia de la edu- cuyas constantes citas demuestran el
cación comunicativa entre los varios paciente trabajo que hay detrás de esta
‘saberes’ de la competencia comunica- obra. Todo lo anterior le da la autoridad
tiva. En este ámbito, la cortesía verbal para formular propuestas originales,
ocupa un papel determinante siendo como en el caso de las taxonomías de los
clave en la cooperación conversacional marcadores discursivos o de los cuadros
y relacional. Habiendo demostrado que sintéticos de las relaciones entre fun-
un número significativo de marcadores ciones prototípicas de los marcadores
pueden ser herramientas de la cortesía y su participación en la cortesía verbal.
verbal, resulta claro que su enseñan- En suma, una importante contribución
za deba ocupar un lugar prioritario: para la investigación y la didáctica de la
son indispensables para desarrollar la lengua española.
nexualidad por ser formas sintéticas
que tienen una alta operatividad y ren- María del Rosario
tabilidad a la hora de expresar e inter- Uribe mallarino
pretar los enunciados. En este sentido
el presente estudio constituye un exce-
lente instrumento en el panorama de la
didáctica del español.
Antes de concluir es preciso aña- Nuria Pérez Vicente, Traducción y contexto.
dir que esta obra es el resultado de una Aproximación a un análisis crítico de traduc-
búsqueda exhaustiva en la que los dos ciones con fines didácticos, Urbino, Quattro-
campos de investigación y sus rela- Venti, 2010, 262 pp.
ciones han sido indagados a fondo sin
descuidar ningún aspecto. A lo largo
de la lectura resulta claro que la autora Era da tempo che nel campo degli
está manejando conceptos que ha hecho studi sulla traduzione dallo spagnolo
suyos considerando todas las opciones all’italiano si attendeva un testo come
que la literatura especializada le ofrece. quello scritto da Nuria Pérez, ricercatrice
No era tarea fácil, visto que tales campos dell’università di Macerata che si occupa
no han encontrado aún una definición principalmente di traduzione e ricezione
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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] | RECENSIONI
303
y configuran las estructuras sociales. De sistemática. Por ello mismo, la biblio-
ahí que la perspectiva para el estudio de grafía que presenta es otro instrumen-
la lengua una la pragmalingüística y la to precioso y de gran utilidad: extensa
sociopragmática. Esto significa entrar y completa, está convenientemente se-
a considerar de manera sistemática los leccionada y actualizada, además de ser
factores contextuales y no solamente precisa y bien recopilada.
el código lingüístico, por una parte, y A esta primera consideración co-
por otra, concebir el contexto como un rresponde un gran rigor investigativo.
verdadero lugar social en el que interac- Landone no descuida ningún aspec-
túan identidades, relaciones, comporta- to durante su indagación, no desvía su
mientos, pulsiones, conflictos, etc. atención ante cuestiones cuyo trata-
Para mostrar las implicaciones de miento hubiera sido fácil dejar de lado.
estas últimas reflexiones, la autora las Por el contrario, las enfrenta dejando
proyecta en un horizonte pedagógico hablar y debatir a los autores mismos
y nos recuerda la relevancia de la edu- cuyas constantes citas demuestran el
cación comunicativa entre los varios paciente trabajo que hay detrás de esta
‘saberes’ de la competencia comunica- obra. Todo lo anterior le da la autoridad
tiva. En este ámbito, la cortesía verbal para formular propuestas originales,
ocupa un papel determinante siendo como en el caso de las taxonomías de los
clave en la cooperación conversacional marcadores discursivos o de los cuadros
y relacional. Habiendo demostrado que sintéticos de las relaciones entre fun-
un número significativo de marcadores ciones prototípicas de los marcadores
pueden ser herramientas de la cortesía y su participación en la cortesía verbal.
verbal, resulta claro que su enseñan- En suma, una importante contribución
za deba ocupar un lugar prioritario: para la investigación y la didáctica de la
son indispensables para desarrollar la lengua española.
nexualidad por ser formas sintéticas
que tienen una alta operatividad y ren- María del Rosario
tabilidad a la hora de expresar e inter- Uribe mallarino
pretar los enunciados. En este sentido
el presente estudio constituye un exce-
lente instrumento en el panorama de la
didáctica del español.
Antes de concluir es preciso aña- Nuria Pérez Vicente, Traducción y contexto.
dir que esta obra es el resultado de una Aproximación a un análisis crítico de traduc-
búsqueda exhaustiva en la que los dos ciones con fines didácticos, Urbino, Quattro-
campos de investigación y sus rela- Venti, 2010, 262 pp.
ciones han sido indagados a fondo sin
descuidar ningún aspecto. A lo largo
de la lectura resulta claro que la autora Era da tempo che nel campo degli
está manejando conceptos que ha hecho studi sulla traduzione dallo spagnolo
suyos considerando todas las opciones all’italiano si attendeva un testo come
que la literatura especializada le ofrece. quello scritto da Nuria Pérez, ricercatrice
No era tarea fácil, visto que tales campos dell’università di Macerata che si occupa
no han encontrado aún una definición principalmente di traduzione e ricezione
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RECENSIONI
304
della letteratura spagnola in Italia, come di operare criticamente su due fronti:
testimonia il precedente La narrativa quello testuale, scandagliato soprattutto
española del siglo XX en Italia: traduc- in base ai parametri plasmati da Beau-
ción e interculturalidad (Pesaro, edizioni grande e Dressler quali la coesione, la
studio alf@, 2006), di cui questo può es- coerenza, l’intenzionalità, l’accettabilità,
sere considerato il complemento ideale. l’informatività, la situazionalità e l’in-
Traducción y contexto parte infatti da tertestualità, dei quali il traduttore deve
un approccio di tipo testuale alla tradu- tenere conto per trasferirli correttamen-
zione per offrire un ampio inventario di te dal prototesto al metatesto; e quello
casi di studio, in un’ottica che guarda in- contestuale, inteso in senso linguistico
sieme alla ricerca scientifica e all’appli- (cioè con riferimento alla relazione fra
cazione didattica, coniugando il solido le componenti testuali del discorso), si-
impianto teorico sviluppato nella prima tuazionale (a seconda delle circostanze
parte del lavoro con l’analisi pratica di concrete in cui viene emesso un certo
testi spagnoli contemporanei tradotti in messaggio) e socio-culturale.
italiano. Un elemento che secondo la Pérez
Il risultato è un manuale rivolto sia bisogna tenere in particolare conside-
a docenti che a studenti di traduzione razione, specie per quel che concer-
spagnola, nel quale si segue un artico- ne la didattica della traduzione, è una
lato percorso attraverso strategie e im- pertinente classificazione delle varie
postazioni traduttive diverse, catalogate tipologie testuali, una questione su cui
soprattutto in base al modello di conte- esistono gli approcci teorici più svariati
sto proposto da Hatim e Mason, e quin- e rispetto ai quali nel saggio si predili-
di a partire dalle tre dimensioni fonda- ge sempre la linea di Hatim e Mason,
mentali che configurano un testo, quella imperniata sul concetto di multifun-
comunicativa (che spiega la variazione zionalità, volto ad ammettere che un
linguistica in base all’uso e al tipo di testo possa denotare simultaneamente
parlante), pragmatica (che si riferisce funzioni diverse, riassunte in un model-
all’intenzionalità del discorso e degli lo che a livello macroscopico distingue
atti linguistici) e semiotica (che tratta il semplicemente tra quella espositiva,
testo come un insieme di segni funzio- quella argomentativa e quella esortativa.
nante in un certo sistema culturale). A dispetto di questo, appare molto ap-
E proprio la nozione di contesto che, propriata la prescrizione da parte della
com’è noto, condiziona più di ogni al- studiosa a non incorrere in un utilizzo
tra cosa qualsiasi processo traduttivo, è rigido e aprioristico di tali categorie ti-
il filo conduttore dello studio, anche se pologiche nella prassi didattica, giacché,
nei primi capitoli viene concesso ampio in particolare per quanto riguarda i testi
spazio ai principali esiti della lingui- letterari, possono risultare di scarsa ef-
stica testuale applicata alla traduzione, ficacia, data la natura eterogenea e, ap-
che tuttavia, come precisa da subito punto, multifunzionale degli stessi.
l’autrice, non basterebbero ad analizza- Alla specificità del discorso letterario
re e spiegare la prassi della traduzione è dedicato il terzo capitolo della sezione
senza il riferimento al quadro socio- teorica, nel quale si delineano le impli-
culturale in cui si compie il passaggio da cazioni traduttive inerenti la “letterarie-
una lingua all’altra. Di qui la necessità tà” e la “finzionalità” di un dato testo,
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RECENSIONI
305
concedendo un ruolo di rilievo all’idio- do attenzione al genere, all’autore, alla
letto che lo caratterizza e alla tradizione tecnica narrativa e al contesto storico e
intertestuale a cui si rifà, per concludere culturale dell’uno e dell’altro. Si passerà
che la funzione del traduttore in questi poi allo studio dettagliato del metatesto,
casi è molto simile a quella del critico indagando il tipo di edizione realizza-
letterario, dal momento che ha il compi- ta, la casa editrice, l’eventuale apparato
to di identificare i meccanismi di produ- paratestuale nonché le condizioni della
zione e le strategie comunicative adotta- ricezione e la posizione dell’autore nel
te da un certo autore per poi riprodurle sistema letterario della cultura d’arrivo.
nel testo d’arrivo. In virtù di questo, vie- Infine si realizzerà l’analisi contrastiva
ne sottolineata l’importanza della tradu- dei due testi, osservando gli elementi
zione nel processo della comunicazione più salienti per la valutazione tradutto-
letteraria, a partire dalla premessa che la logica come la resa dei culturemi, delle
letteratura è una «interpretación transi- unità fraseologiche, delle figure retori-
tiva» (p. 32), che non termina in chi la che e dei giochi di parole, al fine di de-
realizza, ma che apre costantemente al terminare il tipo di strategia traduttiva
prolungamento dell’asse comunicativo impiegata, che si orienterà più nel senso
da parte di chi traduce. dello straniamento o della familiarizza-
Per quanto riguarda la didattica della zione (categorie proposte da Lawrence
traduzione, il quarto capitolo offre una Venuti alle quali si affiancano quelle di
serie di spunti utili sia per chi insegna traduzione semantica e comunicativa,
sia per chi studia le tecniche della tradu- rispettivamente, introdotte da Peter
zione. In primo luogo, partendo soprat- Newmark).
tutto dalle riflessioni di Hurtado Albir, Le parti del capitolo che sembrano
si insiste sullo sviluppo della competen- più utili per gli studenti di traduzione
za traduttiva – che è insieme comuni- sono, da un lato, quelle inerenti alle di-
cativa e contrastiva – attraverso un tipo verse tecniche traduttive, che contem-
di pedagogia «activa y heurística» (p. plano i procedimenti indicati sempre da
37), che a livello pratico si articolerà in Hurtado Albir sulla scorta delle teorie
due attività fondamentali: la traduzione di Newmark e che spaziano dalla com-
diretta e l’analisi di traduzioni preesi- pensazione alla generalizzazione pas-
stenti. Nella prima si privilegerà l’ac- sando per i cosiddetti equivalenti cultu-
quisizione della metodologia basilare, il rali, funzionali o descrittivi, e, dall’altro
dominio degli elementi della linguistica quelle dedicate alle fonti di documenta-
contrastiva, la conoscenza degli aspetti zione lessicografica ed enciclopedica, di
più significativi del mestiere nel merca- grande utilità per gli aspiranti traduttori.
to editoriale e delle fonti di documen- L’ultima sezione dell’introduzione
tazione disponibili per il traduttore e, teorica è quella che rimanda più diret-
infine, la padronanza delle strategie ne- tamente alla seconda parte del lavoro,
cessarie ad affrontare la traduzione delle basata, come già accennato, su un cor-
diverse tipologie testuali. Nella seconda, pus di testi narrativi suddivisi in base
si partirà da un approccio descrittivo, alle difficoltà di traduzione che sorgono
comunicativo e funzionale per indivi- a seconda di problemi determinati dal
duare innanzi tutto gli aspetti extra-te- contesto comunicativo, da quello prag-
stuali di prototesto e metatesto, prestan- matico o da quello semiotico. Per quanto
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concerne il primo, gli ostacoli traduttivi base alle esigenze (di solito commer-
analizzati riguardano la resa dell’idiolet- ciali) della cultura ricevente e che qua-
to dei diversi autori affrontati (da Cela si mai, come non manca di sottolineare
a Sánchez Ferlosio passando per Luis l’autrice, dipendono dalla volontà di chi
Martín-Santos), quella del registro col- traduce. Si tratta di quei casi in cui nel
loquiale e dell’argot (dove appaiono di processo traduttivo intervengono con-
grande interesse i casi di Pérez Reverte e dizionamenti dovuti alle convenzioni di
Lucía Etxebarria) e quella degli elementi un certo filone letterario, come succede
appartenenti ad altre varietà geografiche ad esempio con alcuni romanzi di Anto-
(ad esempio, gli indigenismi presenti in nio Muñoz Molina di cui parla la Pérez,
Tirano Banderas di Valle-Inclán o i cul- la cui versione italiana mostra una serie
turemi di origine galega in alcune opere di aggiustamenti che ne accentuano l’ap-
di Cela). partenenza al genere del noir, incidendo
Passando ai problemi che hanno a che sul ritmo della narrazione ma anche sulla
vedere con il secondo tipo di contesto, la completezza nella riproduzione dei testi
studiosa si rifà ai meccanismi di coope- originali, che vengono spesso ridotti. Un
razione testuale introdotti dalla pragma- altro esempio è quello di un romanzo di
tica per soffermarsi sulla resa dell’ironia Llamazares, caratterizzato da una prosa
(usando testi molto diversi fra loro, lirica e da una cadenza lenta che nella
dall’Albero della scienza di Baroja fino a traduzione italiana vengono attenuate
Il meglio che possa capitare a una brio- e semplificate per rendere il testo più
che di Pablo Tusset) e sulla riproduzio- fruibile per qualsiasi tipo di lettore. Un
ne delle metafore (in autori come Juan secondo tipo di manipolazione è quella
Ramón Jiménez, Blasco Ibáñez e Rosa che, secondo la studiosa (che si rifà per
Chacel) e del malinteso (Machado e Pé- tutta questa parte alla linea teorica che
rez de Ayala). Riprende invece la teoria fa capo a Lefevere), dipende dalle con-
della rilevanza di Sperber e Wilson per suetudini ideologiche e morali dell’epo-
esaminare le scelte traduttive riguardan- ca in cui viene tradotto un determinato
ti alcune metafore in un testo in prosa testo. Due casi significativi analizzati nel
di García Lorca o i giochi di parole nelle saggio sono quello del già citato Tira-
greguerías di Gómez de la Serna. Infine no Banderas, tradotto nel 1964 con una
approfondisce il discorso osservando la strategia volta a mitigare la carica vio-
riformulazione di neologismi o giochi lenta di alcuni passi, e Senos di Ramón
metalinguistici in un testo di Millás e Gómez de la Serna, del quale esistono
in un libro scritto da Pedro Almodóvar. due traduzioni, del 1960 e del 1991, che
Le difficoltà traduttive legate al con- denotano, l’una, un approccio che segue
testo semiotico riguardano innanzi tutto da vicino, rimarcandola soprattutto nel-
la resa dell’intertestualità e degli elemen- le scelte lessicale, la visione apertamente
ti culturali (con esempi basati su testi di patriarcale e talvolta maschilista sottesa
David Trueba, Julio Llamazares e altri al testo, e l’altra, un orientamento più
già citati) che in molti casi implicano, neutro e pacato, che non intende fo-
com’è noto, un adattamento al sistema mentare in alcun modo la concezione di
d’arrivo. D’altro canto, hanno a che fare stampo tradizionalista proposta.
con adattamenti meno innocenti, quelli Il tono generale con cui viene portata
che può presupporre una traduzione in a termine l’analisi non fa che accrescere
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RECENSIONI
307
la qualità del manuale, giacché l’autrice Sin embargo, la aplicación de estos
ha il merito, fra gli altri, di non cedere estudios a la enseñanza del español a ex-
un solo istante alla tentazione di emet- tranjeros es todavía bastante reducida y
tere giudizi di valore sulle impostazioni sigue viva la creencia de que el orden de
traduttive esaminate, ma anzi le scom- las palabras en español es bastante libre
pone in modo rigorosamente scienti- y por lo tanto no se necesita una pro-
fico lasciando a chi legge le inevitabili fundización en el ámbito de la lingüís-
valutazioni del caso. Si tratta pertanto tica aplicada y de la didáctica, creencia
di uno strumento fondamentale per lo que deja de lado los problemas que pue-
studio e l’insegnamento della traduzio- den surgir por transferencia a causa de
ne dallo spagnolo all’italiano, che, in las grandes desigualdades que existen
base all’ampiezza dell’impianto critico al respecto entre los diversos idiomas,
e alla varietà degli esempi pratici de- incluso de la misma familia lingüística.
scritti, possono essere affrontati secon- El estudio de Villalba se divide en tres
do molteplici punti di vista, attingendo macrocapítulos: conceptos fundamen-
in modo equilibrato ai diversi ambiti tales, construcciones con orden marca-
– linguistico, letterario e culturale – che do de base gramatical y construcciones
formano il crocevia in cui si colloca la con orden de base informativa (este úl-
pratica traduttiva, terra di frontiera per timo se divide en dos apartados: el foco
eccellenza. y el tema). En el cuarto capítulo (apén-
dices) encontramos las abreviaturas y
Natalia Cancellieri una útil bibliografía comentada.
A lo largo de todo el texto se puede
apreciar un patrón de explicación a tres
niveles:
1. Siempre se empieza por la gramáti-
Xavier Villalba, El orden de las palabras en ca, según un enfoque descriptivo, don-
español, Madrid, Castalia ELE, 2010, Madrid, de se proporcionan normas de uso de la
96 pp. lengua enriquecidas por ejemplos.
2. Sigue una parte de gramática con-
trastiva, en la que se dan breves expli-
El tema de estudio de esta monogra- caciones del funcionamiento de otras
fía de Villalba de 2010 es, como el títu- lenguas. Se ponen ejemplos de frases en
lo sugiere, el orden de las palabras en otros idiomas, con la traducción literal y
la lengua española. Parece ser que este el equivalente italiano.
tema sea de especial interés en los últi- 3. Al final, se pasa a la aplicación di-
mos años: los trabajos clásicos sobre este dáctica de la norma, con sugerencias
asunto se remontan a los años ochenta, para el profesor y ejercicios para practi-
pero es a partir del nuevo milenio que car lo aprendido.
se desarrollan con más frecuencia en el Después de estos tres pasos, para cada
ámbito académico. El orden de las pala- explicación suele haber un recuadro, ti-
bras se convierte en un tema de investi- tulado “conclusión”, que resume en pocos
gación fundamental y se relaciona cada puntos los contenidos recién expuestos.
vez más con los rasgos suprasegmenta- En el primer capítulo se tratan los
les y los factores pragmáticos. conceptos fundamentales relativos al
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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| Unimi Open Journals |
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] | RECENSIONI
307
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ha il merito, fra gli altri, di non cedere estudios a la enseñanza del español a ex-
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valutazioni del caso. Si tratta pertanto tica aplicada y de la didáctica, creencia
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studio e l’insegnamento della traduzio- den surgir por transferencia a causa de
ne dallo spagnolo all’italiano, che, in las grandes desigualdades que existen
base all’ampiezza dell’impianto critico al respecto entre los diversos idiomas,
e alla varietà degli esempi pratici de- incluso de la misma familia lingüística.
scritti, possono essere affrontati secon- El estudio de Villalba se divide en tres
do molteplici punti di vista, attingendo macrocapítulos: conceptos fundamen-
in modo equilibrato ai diversi ambiti tales, construcciones con orden marca-
– linguistico, letterario e culturale – che do de base gramatical y construcciones
formano il crocevia in cui si colloca la con orden de base informativa (este úl-
pratica traduttiva, terra di frontiera per timo se divide en dos apartados: el foco
eccellenza. y el tema). En el cuarto capítulo (apén-
dices) encontramos las abreviaturas y
Natalia Cancellieri una útil bibliografía comentada.
A lo largo de todo el texto se puede
apreciar un patrón de explicación a tres
niveles:
1. Siempre se empieza por la gramáti-
Xavier Villalba, El orden de las palabras en ca, según un enfoque descriptivo, don-
español, Madrid, Castalia ELE, 2010, Madrid, de se proporcionan normas de uso de la
96 pp. lengua enriquecidas por ejemplos.
2. Sigue una parte de gramática con-
trastiva, en la que se dan breves expli-
El tema de estudio de esta monogra- caciones del funcionamiento de otras
fía de Villalba de 2010 es, como el títu- lenguas. Se ponen ejemplos de frases en
lo sugiere, el orden de las palabras en otros idiomas, con la traducción literal y
la lengua española. Parece ser que este el equivalente italiano.
tema sea de especial interés en los últi- 3. Al final, se pasa a la aplicación di-
mos años: los trabajos clásicos sobre este dáctica de la norma, con sugerencias
asunto se remontan a los años ochenta, para el profesor y ejercicios para practi-
pero es a partir del nuevo milenio que car lo aprendido.
se desarrollan con más frecuencia en el Después de estos tres pasos, para cada
ámbito académico. El orden de las pala- explicación suele haber un recuadro, ti-
bras se convierte en un tema de investi- tulado “conclusión”, que resume en pocos
gación fundamental y se relaciona cada puntos los contenidos recién expuestos.
vez más con los rasgos suprasegmenta- En el primer capítulo se tratan los
les y los factores pragmáticos. conceptos fundamentales relativos al
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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orden de las palabras en español. Como ascendente de la entonación (ej: «¿tu
sabemos, el castellano es una lengua hermano ha llegado?») y esto es común
SVO (es decir que su orden básico es: a todas las lenguas indoeuropeas. Sin
sujeto, verbo, objeto). Además, hay un embargo, además de este patrón (que
orden marcado, OVS, que queda restrin- normalmente conlleva un matiz de sor-
gido a algunos contextos y que resulta, presa o incredulidad) en español el tipo
por lo tanto, menos común. Por lo que de pregunta más frecuente utiliza la in-
se refiere a los complementos circuns- versión sujeto-verbo (ej. «¿ha llegado tu
tanciales, según el autor éstos suelen hermano?»).
aparecer en este orden: lugar, tiempo y El mecanismo gramatical de la inver-
modo. Los adverbios de referencia y los sión también se encuentra en las otras
valorativos ocupan la primera posición, lenguas románicas, aunque el francés
aunque éstos últimos también pueden es un caso ligeramente distinto por dos
aparecer al final de la oración. razones: por un lado por la presencia de
En la parte contrastiva descubrimos un pronombre átono en la inversión y
que el orden SVO es común a todas por otro lado por la presencia de otra es-
las lenguas románicas y es habitual en trategia para la formación de la interro-
las lenguas eslavas. Lo mismo pasa en gativa (est-ce que, literalmente ‘es-esto
otros idiomas indoeuropeos (el griego, que’). En lenguas como el chino o el ja-
el letón, el lituano) y no indoeuropeos, ponés, en cambio, se utilizan partículas
como el chino o el indonesio. Son len- interrogativas al final de las oraciones
guas SOV, en cambio, el coreano, el tur- para convertir las afermativas en inte-
co, el vasco y el japonés. rrogativas, mientras que en las lenguas
El inglés es una lengua SVO, pero eslavas existen tanto la inversión como
otras lenguas germánicas llamadas len- unas partículas especializadas.
guas de verbo segundo (como el alemán Las oraciones interrogativas parcia-
o el holandés), no lo son tan claramente, les, al contrario, exigen una respuesta
ya que en las oraciones principales al- abierta y se forman con partículas inte-
ternan este tipo de construcción con el rrogativas. Éstas se sitúan al principio de
orden SOV en presencia de un auxiliar. la oración y normalmente el verbo apa-
En el segundo capítulo se habla de las rece justo después, produciendo como
construcciones con orden marcado de consecuencia una inversión obligatoria
base gramatical, o sea de construcciones con el sujeto (excepto en los dialectos
que alteran el orden habitual SVO del es- caribeños). Según Villalba, después de
pañol para satisfacer los requisitos gra- las partículas por qué, cómo y cuándo se
maticales de ciertas palabras. Este fenó- puede evitar la inversión, aunque, como
meno se da normalmente en oraciones suele pasar, la elección entre utilización
interrogativas. o no de la inversión se debe a una dife-
Las oraciones interrogativas totales rencia de matices pragmáticos.
son las que permiten una respuesta que Otras lenguas románicas, como el
sea simplemente una afirmación o una francés y el portugués, suelen construir
negación (en inglés se habla de yes or las oraciones interrogativas parciales
no questions). En principio, una ora- con una perífrasis de relativo (ej: «¿quién
ción de este tipo se puede diferenciar de es que ha llegado?»), mientras que las
una oración afirmativa solo por el tono lenguas germánicas y eslavas reprodu-
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RECENSIONI
309
cen a grandes rasgos el sistema del espa- sición preverbal. Asimismo hay lenguas,
ñol. En alemán y en holandés el auxiliar como el tagalo, que lo marcan mediante
ocupa la segunda posición y el verbo se una partícula especial.
coloca en posición final; lo mismo pasa La focalización es el desplazamiento
con verbo modal (en segunda posición) del foco a la primera posición, puede
e infinitivo (al final). En inglés el sujeto afectar a un sintagma de cualquier ca-
se suele interponer entre el auxiliar do tegoría, aunque normalmente se trata
(literalmente: ‘hacer’) y el verbo en in- de cuantificadores. Las construcciones
finitivo. Finalmente, hay casos como el hendidas destacan el foco mediante la
del chino, donde la partícula interroga- utilización de frases relativas y son muy
tiva no se encuentra al principio de la frecuentes en todas las lenguas románi-
oración sino en la misma posición en la cas, menos en las germánicas. Lenguas
que se encontraría una palabra no inte- como el chino y el árabe también tienen
rrogativa con la misma función. construcciones hendidas, si bien se for-
El tercer capítulo, que es sin duda man de forma ligeramente distinta (en
el más complejo, trata de las construc- chino se recurre al uso de la partícula
ciones con orden marcado de base in- “de”, intraducible).
formativa y se divide en dos grandes El tema en la mayoría de los casos co-
apartados: el foco y el tema. El tema es incide con el sujeto de la oración (ten-
aquello de lo que hablamos o afirmamos dencia común a muchísimas lenguas),
algo, mientras que el foco es la parte de pero aun así se puede dar el caso de que
la oración que aporta información nue- el tema sea un constituyente distinto y
va. Naturalmente, cuando se habla de en estos casos las diversas lenguas recu-
estos temas, la entonación y la pragmá- rren a mecanismos distintos, los princi-
tica tienen un papel fundamental y a ve- pales son los siguientes.
ces para llegar a la correcta interpreta- 1. la dislocación: desplazamiento de
ción de un enunciado no nos podemos un constituyente al principio de la ora-
basar solo en el orden de las palabras. ción, que no provoca inversión y deja
El foco puede ser contrastivo o infor- una copia pronominal en su lugar. El
mativo. El foco contrastivo se da cuando español (a diferencia del italiano, el
se quiere transmitir un valor de contras- francés y el catalán) carece de copia pro-
te con otro elemento, suele aparecer al nominal en los sintagmas nominales in-
principio de una oración y normalmen- definidos y los sintagmas preposiciona-
te se expresa mediante entonación mar- les, situación del todo habitual en chino
cada. El foco informativo, en cambio, es y en japonés.
el constituyente que aporta información 2. el tema vinculante: parecido a la
nueva y se posiciona al final de la frase, dislocación, pero en este caso la copia
que es el punto donde se asigna el acento pronominal puede ser también un pro-
prominente en español. Lo mismo pasa nombre tónico o incluso un epíteto y
en las otras lenguas románicas excepto puede haber falta de concordancia entre
el francés, que no cambia el orden de el dislocado y la copia. Existe también
las palabras y desplaza el acento tónico, en muchas otras lenguas de distintas fa-
como ocurre en las lenguas germánicas. milias.
En general, las lenguas de orden SOV 3. el tema preposicional: se introdu-
suelen situar el foco informativo en po- ce mediante una locución preposicional
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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RECENSIONI
310
especializada y no tiene necesariamen- los idiomas europeos. Sin embargo, la
te un correlato en la oración. También intención del autor se cumple solo en
existe en otras lenguas, como inglés y parte, ya que las propuestas didácticas
francés. se basan en un enfoque muy estructu-
En conclusión, podemos afirmar que ralista, mientras que se podría haber
El orden de las palabras en español es dedicado más espacio a técnicas más
una obra innovadora por su intención modernas que estimularan en mayor
de llevar temas muy complejos de la medida la reflexión metalingüística y la
gramática al mundo de ELE, ofreciendo interacción entre los alumnos.
una perspectiva contrastiva que muchas
veces es olvidada o restringida solo a Marco Morretta
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 273-310. issn: 2240-5437.
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Clar a
Ja nés
Venga la luz
y diga el árbol
que es falaz su no ser
y lo demuestre
con la función clorífica,
y el cristal
transforme su intangibilidad
en fuego,
y el agua suspendida
la divida en arco de colores
que se filtre
en la mente del que duerme
e intensifique el sueño.
a Antonio Gamoneda
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 313-314. issn: 2240-5437.
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] | ana
hatherly
O DIÁLOGO PENSADO
I
Quem
Neste século
Se atreve a dizer
Que a poesia é útil?
O diálogo pensado
Entre o poeta e o que seja o que for
Simultaneamente existe e não existe.
Por exemplo:
O diálogo com a natureza
É simplesmente impossível
Porque é
Simultaneamente eloquente e mudo:
A natureza é inefável
Reage
Mas só ao que lhe fizermos.
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 315-316. issn: 2240-5437.
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II
Alguns poetas falam do diálogo com o mar.
É mentira.
A natureza não dialoga com ninguém
Embora possa ser eloquente na sua mudez.
Só que
Para o poeta
Existe um diálogo pensado.
Assim
Se o poeta pode pensar
Tudo pode ser.
2009/2011
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 315-316. issn: 2240-5437.
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] | ángela
hernández
núñez
Sudado potro por mente fría
Su música sangra sol
Bajo mi lengua triste y sabia
Bajo mi lengua de carne erótica
Bajo mi lengua, retentiva fruta
Bajo la amorosa arcilla
de mi lengua
Indiferente a la nostalgia
Mi acalorada lengua de biblioteca
(sabores del saber)
Mi lugar de invencible presente
donde dormita mi cosmonauta
y su nave pintada de fresco
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 317-320. issn: 2240-5437.
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Epitafio de Lucrecia Sinsky
Fui bella nunca lo supe
Fui profunda me ocupé de nimiedades
Fui espiritual me entregué a una religión
Fui desgraciada sonreía todo el tiempo
Fui curiosa no crucé ninguna frontera
Poseí lumbres me resigné a que las apagaran
Fui apasionada postergué amigos y amantes
Fui lúcida soslayé mis ideas y mis gustos
Fui cauta morí joven
Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 1 (2011), pp. 317-320. issn: 2240-5437.
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"Description": "«La Regenta» es el fruto de las reflexiones teóricas de Clarín sobre el naturalismo, en las que el escritor reconoce un único dogma: «copiar la vida» en sus complejas relaciones humanas y sociales. Movido por el propósito de presentar un «cuadro general» de la realidad, en su novela compone un amplio retablo y analiza las pasiones de los personajes en sus recíprocas presiones conflictivas, que llevan a una implacable lucha por la autoafirmación, siguiendo un instinto primordial de conquistar, dominar y devorar. Entre las estrategias compositivas del autor, adquiere una particular eficacia la focalización múltiple, que utiliza las miradas de los personajes como importante instrumento narrativo y, al mismo tiempo, las convierte en un motivo esencial de la acción. Destaca, además, el arte del retrato, que explota las convenciones codificadas de la fisiognómica, integrándolas con una gestualidad comunicativa, en la que puede vislumbrarse la influencia de «La expresión de las emociones» de Darwin.",
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"Description": "El trabajo se propone analizar la traducción que Carlo Emilio Gadda hizo de la fábula «La peregrinación sabia» de Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo, sondeando cuáles pudieron ser las motivaciones que espolearon al escritor lombardo a asumir semejante tarea y cómo la llevó a cabo. «Il viaggio di saggezza» es un texto absolutamente barroco, fruto de un proceso traductivo extraordinario y muy personal, que destaca por su originalísimo y chispeante magma lingüístico no exento de algunos deslices interpretativos.",
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| Unimi Open Journals |
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"Description": "L’articolo vuol richiamare attenzione su un drammaturgo minore del tardo barrocco, quasi completamente dimenticato. Francisco de Avellaneda fu un’importante personalità dell’epoca e un autor stimato tra i suoi contemporanei, sia a corte che nei 'corrales', soprattutto come 'ingenio' per il teatro breve, aspetto su cui, infatti, si è maggiormente concetrata la critica moderna. Continua ad esser limitato, invece, l’interesse suscitato dalle su 'comedias'; proprio a questa parte della produzione di Avellaneda si dedicherà particolare attenzione, nel tentativo di delinearne i contenuti e le caratteristiche principali.",
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"Description": "El trabajo se propone analizar la traducción que Carlo Emilio Gadda hizo de la fábula «La peregrinación sabia» de Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo, sondeando cuáles pudieron ser las motivaciones que espolearon al escritor lombardo a asumir semejante tarea y cómo la llevó a cabo. «Il viaggio di saggezza» es un texto absolutamente barroco, fruto de un proceso traductivo extraordinario y muy personal, que destaca por su originalísimo y chispeante magma lingüístico no exento de algunos deslices interpretativos.",
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"title": "«La peregrinación sabia» di Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo e «Il viaggio di saggezza» di Carlo Emilio Gadda: un dialogo a distanza",
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"Description": "L’articolo vuol richiamare attenzione su un drammaturgo minore del tardo barrocco, quasi completamente dimenticato. Francisco de Avellaneda fu un’importante personalità dell’epoca e un autor stimato tra i suoi contemporanei, sia a corte che nei 'corrales', soprattutto come 'ingenio' per il teatro breve, aspetto su cui, infatti, si è maggiormente concetrata la critica moderna. Continua ad esser limitato, invece, l’interesse suscitato dalle su 'comedias'; proprio a questa parte della produzione di Avellaneda si dedicherà particolare attenzione, nel tentativo di delinearne i contenuti e le caratteristiche principali.",
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] | ARTAJERJES, EL RUSTICO Y UN SONETO
DE HERNANDO DE AcuNA
JESUS SEPULVEDA
Son pocos los poetas, 'grandes y pequefios, de los Siglos de Oro que logra-
ron evitar el cultivo del género encomiastico o celebrativo. A menudo se trata
de composiciones circunstanciales cuyo valor supera apenas el de mero ejerci-
cio poéticò y, por elIo, la critica suele afrontar su estudio con un cierto empa-
cho, sobre todo cuando el texto ha·salido de la pIuma de un autor eximio, perC?
los versos en cuesti6n no estan a la' altlira de su Sin embargo, algunas de
estas composiciones presentan un interés que supera lo meramente biografico,
ya que son expresi6n. de estima auténtica, de afeeto profundo e incluso de
entrafiable amistad. Precisamente por elIo parece injusto meter en el mismo
saco un soneto incluido en Ics preliminares de una obra, dedicado al noble de
turno de quien se esperan futuros favores y prebendas, y, por poner un ejem-
pIo, la Elegia I de Garcilaso de la Vega, dirigida a de Toledo, duque
de Alba, con ocasi6n de la muerte de su hermano.
Sea como fuere, independientemente de la naturaleza del impulso que
Ilev6 al poeta a eomponer suobra, al estudioso le cumple examinar el resul-
tado creativo. En este sentido, es de gran interés examinar la capacidad de
los autores para afrontar argumentos manidos, vertebrados a partir de
mddelos ret6ticos archiconocidos y sortear los riesgos de la' reiteraci6n esté-
ril. Para elIo, mas alla de la propia pericia y de la ocasi6n concreta que da
pie .a. la composici6n, los poetasauriseculares tenian a su disposici6n un
arsenal de t6picos procedentes·de la literatura clasica con··losque jugar sutil- .
mente para.otorgar variedad y ornato a composiciones que a veces se diri-'
gfan a un mismo destinatario.
Es el caso, por ejemplo, de Hernando de Acuna 1, quien dedica nada
menos que ,siete sonetos a ensalzar la figura de Alfonso D 'Avalos, marqués
lSobre el autor· recuerdoel clasico ..ensayo de Gabriele Morelli, Hernando de
Acuna. Un petrarchista dell'epoca imperiale" Parma, Università, 1977. Véase también,
7
del Vasto (1502-1546), uno de los mas ejemplos de hombre de
armas y de letras del Renacimiento y protector del poeta 2. Sobrino de
Ferrante d'Avalos, marido de Vittoria Colonna, a sus titulos se anadi6 el de
marqués de Pescara a partir de 1525 y del Vasto en 1535. Fue nombrado
Gobernador de Milan en 1538 y falleci6 a los pocos anos, en 1546. Su con-
dici6n de afamado generaI y de protector de escritores, artistas e intelec-
tuales, ademas, claro esta, de su propia actividad literaria, le granjearon la
adrniraci6n de varios escritores que se tradujo en numerosas alabanzas 3 y,
mas en concreto, en nueve sonetos celebrativos en espanol gue han llega-
do"hasta nosotros y cuyas firmas, ·por si solas, testimonian el prestigio de que
goZ? el Marqués: ademas de los mencionados sonetos escritos por Acuna, de·
hecho, también nos constan otras dos composiciones laudatorias por
Garcilaso de la Vega y Gutierre de Cetina, respectivamente. Recientemente
Antonio Gargano ha analizado con finura extremada los diferentes enco-
mios "tfricos gue los tres dedicaron al Gobernador del Estado de Milan 4; a
través de su ensàyo, el estudioso demuestra como el enaltecimiento de las
virtudes militares y literarias de Alfonso D'Avalos (que, juntas, constituyen
la "doble gloria" del Marqués) refleje las propias aspiraciones de los poetas-
soldados que aél dedicaron sus versos.
Volviendo a nuestro razonamiento inicial, en los sonetos encomiasticos
de Acuna es facil apreciar su empefto por cambiar de perspectiva y por enri-
entre otros estudios, el excelente articulo de Maria Rosso .Gallo, "Le modalità di scrittura
di un poeta soldato: Hernando de Acuna", en La Espada y la Piuma. Il mondo militare
nella Lombardia spagnola cinquecetesca. Atti del convegno internazionale di Pavia - 16,
17, 18 ottobre 1997, Viareggio, Lucca, Mauro Baroni Editore, 2000, pags. 369-384.
2 VéaseGabriele Morelli, "Hernando de Acuna e Alfonso d'Avalos, governatore di
Milano", en La Espada y la Piuma. Il mondo militare ,nella Lombardia spagnola cinque-
cetesca. Atti del convegno internazionale di Pavia - 16, 17, 18 ottobre 1997, Viareggio,
Lucca, Mauro Baroni Editore, 2000, pags. 361-368.
3 Al igual, bien es verdad, que numerosas pullas, entre las que destacan las que 'le
asest6 Pietro Aretino en su pron6stico (Pietro Aretino, Cortigiana, Opera. Nuova,
Pronostico, Il testamento dell'Elefante, Farza,.a cura di Angelo Romano, introduzione di
Giovanni Aquilecchia, Milano, Rizzoli, 1989, pags. 284, 285), en su teatro (Tutte le com-
medie, a cura di G. B. De Sanctis, Milano, Mursia, 1968, pags. 97 y 118), en sus dialogos
(Sei Giornate, a cura di Angelo Romano, Milano, Mursia, 1991, p. 27), etc. Véase al res-
pecto G. Sassi, "Figure e figuri del Cinquecento: Pietro Aretino, Vittoria Colonna e. il
Marchese del Vasto", en Nuova Rivista Storica, XII (sett.-dic. 1928), pags. 554-558.
4 Antonio Gargano, "La «doppia gloria» di Alfonso D'Avalos e i poeti soldati spagnoli
(Garcilaso, Cetina, Actina)", en La Espada y la Piuma. Il mondo militare nella Lombardia
spagnola cinquecetesca. Atti del convegno internazionale di Pavia - 16, ,17, 18 ottobre
1997, Viareggio, Lucca, l\1;auro Baroni Editore, 2000, pags. 347-360.
8
quecer uri objeto poético idéntico en todos los casos. Para elio, entre otros
recursos, se vale en cada caso de circunstancias biograficas diferentes, para
enmarcar y anclar en cada caso, con funci6n diferenciadora, el texto, apro-
vechando ademas la t6pica a la que antes aludfamos.
El soneto que me propongo tornar en consideraci6n es el siguiente:
Si, como de mi mal he mejorado,
se me hubiera doblado el acidente,
yo tengo por cierto que al presente
me hallara, sefior muy aliviado;
que, si de sus congojas y cuidado 5
se alivia todo espiritu doliente,
aliviarase un cuerpo mayormente
al son de un dulce estilo dedicado.
Yo conozco, sefior, doliente o sano,
deberos tanto, que no sé en qué suerte lO
os me pueda mostrar agradeèido:
s6lo tendréis de mi, como en la mano,
a nadiees vuestro mal tan grave y fuerte,
ni vuestro bien de' nadie es tan querido 5.
Evidentemente, el pretexto que sirve de punto de partida del soneto es
la recuperaci6n del autor de alguna enfermedad o, como propone Luis F.
Dfaz Larios, de "alguna herida sufrida en uno de los muchos combates en
que particip6 durante la guerra del Piamonte,,6. En cualquier caso, se trata
de unsimple motivo que da pie al reconocimiento de ladeuda que Acuna
tiene contrafda con su protector y amigo, situaci6n que .conduce necesaria-
mente .a la confesi6n de la imposibilidad de devolver las mercedes recibi-
das. Se plantea asf una situaci6n comun a muchas dedicatorias de obras lite-
rarias y que aflora en multiples anécdotas hist6ricas desde la Antiguedad: si
un personaje de rango elevado favorece en algo a un individuo de
ci6n mas humilde, para éste sera practicamente imposible corresponder. A
no ser, claro esta, ,que la deudase pague no en términos absolutos sino en
5 Cito por Hernando de Acuiia, Varias poesfas, ed. de Luis F. Diaz Larios, Madrid,
Catedra, 1982, p. 257. El soneto es la composici6n XXXIX segun la numeraci6n propuesta
por el editor.
6 Ibidem. A ser aSI, la dataci6n del soneto podria indicatse en los aiios 1536-37 o
inmediatamente siguientes; véase también el citado estudiode Gargano, p. 350, n. 6.
9
proporclon, es decir, en funci6n de lo gue posee cada uno 7. Y en este
marco hay que inscribir forzosamente la posici6n de Acuila, quien afirma
en el primer terceto que dada la dimensi6n de la deuda contraida con el
Marqués, no sabe "en qué suerte" se "pueda mostrar Esta
imposibilidad queda resuelta, como era de esperar, en el ultimo terceto, en
el que el poeta ofrece a su amigo el mayor bien que posee: toda su amis-
tad. La clave del soneto se halla por tanto en esos tres versos en
los gue la declarada impotencia del primer terceto se resuelve en una
correspondencia profunda de los favores recibidos mediante un desplaza-
miento del marco poético desde plano material al espiritual. Y todo ella
caracterizado por una humildad que contrasta con la profundidad del ofre-
cimiento.
No es mi intenci6n comentar el soneto, sino 'simplemente aclarar una
referencia presente en él que contribuye, al descifrarla, a intensificar la rela-
ci6n entre la mencionada humildad y el valor real del ofrecimiento. Empieza
elverso 12 con un adverbio que después de terminar la lectura del poema
se le puede antojar al lector parad6jico. Efectivamente, ese "s6lo" parece
una pobre contrapartida y, sin embargo, pese a que Acuila busque
indudablemente el contraste entre la limitaci6n impuesta por el adverbio y
el afecto sin limites declarados en 10s dos versos finales 8 , no pretende alcan-
zar un efecto parad6jico, en ,el que la posible ironia derivada provocarfa la
pérdida del objetivo deseado: subrayar la magnanimidad de su benefactor
y su completa, aunque humilde si se la compara con la calidad de aquél,
devoci6n hacia él.
Esta lectura queda corroborada por la interpretaci6n del sintagma que
completa el verso 12, "como en la mano", que da la impresi6n de abundar
7 Véase el tratamiento de .este motivo, por ejemplo, en las coplas espafiolas de
Francisco de Guzman (cito P9r Jiménez Pat6n, Epitome de la ortografia latina y castella-
na: instituciones de la gramdtica, ed. de Antonio Quilis y Juan Manuel Rozas, Madrid,
CSIC, 1965, 107): "Onra del onor hispano / (mas ilustre y escelente) / recebit este pre-
sente / pequefio de pobre mano. / Mas ya que no me concede /' la fuerçaque poco
puede / crecer en la cantidad, / recebit la voluntad I crecida de do procede". Por otro
lado, el t6pico se halla enraizado también en la tradici6n cristiana. Bastaria recordar el
episodio evangélico nal:Tado por San Lucas: "Alzando la mirada, vio a unos ricos que
echaban· sus donativos en el arca del Tesoro; via también a una viuda pohre que echa-
ba alli dos moneditas, y dijo: 'De verdad ,os digo que esta viuda pobre ha echado mas
que todos. Porque todos éstos han echado donativo de lo que les sobraba, ésta en
cambio ha echado de lo que necesitaba, todo cuanto tenia para vivir'." (Lucas, 21, 1-4).
8 Contraste que marca el desarrollo de todo el texto, a través de las parejas contra-
puestas mejora / empeoramiento, espirltu / cuerpo, enfermedad / salud.
lO
en la inrnediatez, en la sinceridad y en la nobleza de su ofrecimiento, pero
gue exige una explicaci6n completa para dotar de todo su valor a la estro-
fa. Para elIo es necesario recordar la mencionada tendencia a acudir a moti-
vas y anécdotas recurrentes en la literatura clasica gue se convirtieron en .el
Renacimiento erf monedas de curso corriente entre literatos y lectores cul-
toso Algunas lo fueron tanto gue bastaba una mera alusi6n para traer a cola-
ci6n no s610 una determinada anécdota, sino el ejemplo o la virtud que con
ella se solfa representar en los textos en los gue se recordaba. Este es el
caso del verso de Acuna, gue quedarfa cojo si ese "como en la mano" no
contùviese ninguna alusi6n.
Entre las muchas anécdotas gue transmite Pero Mexfa en su Si/va, una,
referida al rey persa Artajerjes, puede resolver el enigma planteado:
De Artaxerxes, grande rey de Persia, leemos que, passando por un cami-
no y queriéndole hazer algun presente un labradorcico que estava en el campo,
y no teniendo qué, se'lleg6 a una fuente clara que alli estava, y juntando las
manos eque no tenia otro vaso), tomo lo que pudo del agua della y llev61a
apriessa a presentar al rey, que beviesse. Rescibi61a Artaxerxes y bevi6 della
'con mas alegre caraque si .le diera la mas fina piedra del mundo, conoscien-
do que los reyes, en la verdad, ffias necessidad tienen de .que les offrezcan lea-
les coraçones que ricos presentes 9 •
Como recuerda Antonio Castro, la fuente de la anécdota "se encuentra
en la dedicatoria que Plutarcodirigi6 a Trajano en los preliminares de sus
Apotegmas (Reyes, Dedicatoria, I), aunque es posible que Mexfa utilizase
también la versi6n del pasaje recogida por Erasmo en sus Apotegmas (V,
ArtaxerxesAlter, 25),quien lo tomo, a su vez, de Plutarco, Vidas paralelas
CArtajerjes, 5, I)"lo.Que Plutarco empleara la anécdota en dos ocasiones (y
9 Pedro Mexfa,Silva de varia leccion, ed. de Antonio Castro, Madrid, Catedra, 1989,
voI. I, p. 157. El erudito sevillano debi6 de apreciar mucho, la anécdota pues alude de
nuevo a ella al final del pr610go: "Suplico, .pues, a Vuestra Magestad que, como
Artaxerxes se humi1l6 a beber el agua traycIa por el otro en sus manos, assi sea servido
de entrar algUna vez en esta Sill!a que las mfas plantado" (ibid., p. 159).' Las manos
sirven aquf, ademas, para' aprovechar el conocido sfmil 'que relaciona el trabajo intelec-
tual con las labores mecanicas· del que deriva, implicitamente, la consideraci6n de su '
froto como alimento del espiritu.
lO ,bidem, p. 157, n. 35. Véase también Maria Pilar Cuartero Sancho, Fuentes clasi-
cas de la literatura paremiol6gica espafiola del siglo XVI; Zaragoza, Instituci6n Fernando
el Cat6lico, 1981, pp. 21-22, donde se demuestra la filiaci6n·plutarquesca de la cita de
Mexfa y donde se recogen tanto el textò de Plutarco como el de Erasmo. '
11'
en concreto en una tan significativa como la dedicatoria al Emperador) y
que luego fuese retomada por Erasmo en una de sus obras mas lefdas debi6
asegurar su amplia difusi6n entre los literatos del siglo XVI, tan dados a
aprovechar materiales parecidos. Como consecuencia, la anécdota se con-
virti6 en una especie de t6pico, especialmente en los pr610gos o dedicato-
rias, como es el caso de Mexfa o el de Diego Gracian, quien la utiliza al
dedicar su traducci6n de las Moralia de Plutarco a Carlos V, insertandola de
nuevo en el ambito del t6pico del servicio:
Resciba pues vuestra majestad este pequefto servicio y trabajo de criado suyo
con aquel animo y voluntad que Artaxerxes rey de Persia rescibi6 la manzana
y el agua de la mano de aquellos rUsticos y jornaleros Il.
Tanto rod6 el cuentecillo, que alla por 1568'Juan de Mal Lara lo recuer-
da, por excesivamente conocido, con un evidente distanciamiento en la de-
dicatoria de su Filosofia vulgar a Felipe II:
[. ..] y desseado ha siempre llegar a términos que con alguna cosa pudiesse yo
servir a Vuestra Magestad. Dexo lo del villano con el poderoso rey Artaxerxes,
por lo que se cuenta del pastorcico, que cri6 dos cabritos para presentar al
. Emperador 12 •
Y tampoco parece exenta de ironia la alusi6n con la que la utiliza, de
nuevo en una dedicatoria, Diego Alfonso Velazquez de Velasco en su come-
dia El Celoso ya a principios del siglo XVII:
Que si se pesan los presentes mas con el animo del que los hace o con la gran-
deza ·de quien los recibe, ni Orsines a Alejandro, ni el rustico a Artajerjesdie-
ron nada en respecto de lo que yo ahora doya V.E., cuyo natural (por acuita
'virtud del alma) es poder penetrar 10s corazones 13.
Siempre como manifestaci6n del t6pico de la voluntad de servicio - si
bien con muy diferente.objetivo - se sirve de anécdota el mismisimo Lope
11 Plutarco, Morales traducidos de lengua griega en castellana, Alcala de Henares, .
Juan de Bracar, 1548, faI. Iv.
12 Juan de Mal Lara, Filosofia vulgar, ed.,pr6Iogo y notas de Antonio Vilanova,
Barcelona, Selecciones Bibli6filas, voI. I, 1958, p. 57).
13 Diego. Alfonso Velazquez de Velasco, El Celoso, edici6n critica, introducci6n y
notas de Jesus Sepulveda, Roma, Bulzoni, 2000, p. 232.
12
de Vega, a princlplos de 1616, nada mas y nada menos que dirigido a
G6ngora en una de las epistolas que los dos se cruzaron con' ocasi6n de la
polémica provocada por la aparici6n de las Soledades en la corte. La carta
esta alifiada con sales de la musa mas sarcastica y agresiva de las que visi-
taban al Fénix, quien" so capa de defender al an6nimo soldado (probable-
mente el propio Lope) que escribi6 una durfsima carta contra el poema gon-
gorino, se prodiga en una larga serie de ataques personales y literarios que
culminano en la calificaci6n de G6ngora de poeta ridiculo, parangonandolo
a Merlfn Cocaio (seud6nimo de Te6filo Folengo), con evidente alusi6n a la
lengua macarr6nica de las Soledades. Concluye Lope pidiendo al cordobés
que siga escribiendo con juicio, abandonando, si es posible, las extrava-
gancias de sus ultimas obras, y afiade: "Éste ha sido mi intento principal, y
si no me he dado a entender reciba V. m. la voluntad, pues dado con ella
hubo un reyque recibi6 y agradeci6 un jarro de agua"14. Pese a la leve alte-
raci6n del motivo, la' alusi6n a Artejerjes es evidente, si bien la finalidad ulti-
ma de la referencia se haya subvertido completamente con respecto a su
valor ejemplar original 15: ya no es e1 autor quien se por e1 escaso
valor material de su oferta, que queda compensada por la voluntad del ofre-
cimiento, sino que recomienda al destinatario de la carta una humildad de
la que evidentemente carece 16.
Seria interesante rastrear la fortuna del motivo a lo largo de todo el
periodo, sin embargo afiadiré s610 una cita mas porque representa una
14 Lope de Vega, Cartas, e.dici6n, introducci6n y notas de Nicolas Marin, Madrid,
Castalia, 1985, p. 166..
15 Véase lo· que dice Eugenio de Bustos en su estudio "Cultismos en' el léxico de
Garcilaso de la Vega", en Academia literaria renacentista. Garcilaso, ed. dirigida por Victor
Garcia de la Concha, Salamanca, Universidad, 1986, pags. 127-163, con respeèto a los que
élllama "cultismos semio16gicos" (pags. 151-161). No es exactamente lo mismo, pero con-
tribuye a aclarar el proceso de. alusi6n a un patrimonio cultural comun entre emisor y
receptores, en el que a una determinarla palabra, a un determinado va asociada
una intensa carga cultural repleta de valor semi6tico tanto por su origen primero (cita de
un autor como por su empleo y especializaci6n en el humanista y en la pri-
mera literatura renacentista, en la que vocaJ?los, imagenes y t6picos reviven y se imponen
con determinadas connotaciones que no siempre coincidian con el valor que poseian en
el texto originaI (por'no hablar de las que fueron adquiriendo conel paso del tiempo, como
esta de la que tratamos, que acab6 por representar una imagen trillada).
t6 Y tampoco se puede descartar una doble intenci6n de Lope quien introduce en
la tradlci6n del motivo un objeto, el jarro, ausente en las demas referencias. Tal vez que-
ria aludir el Fénixal efecto de las numerosas criticas 'que llovieron sobre el autor inme-
después de la divulgaci6n de la Soledad primera, un auténtico "jarro de agua
fria" para sus pretensiones y su arrogancia.
13 .
etapa emblematica de la parabola de su empleo. Bien entrados en el siglo
XVII Giovan Battista Bidelli decide imprimir por cuarta vez una de las obras
mayores del ensayismo militar espanol del Siglo de Oro, la Pllitica manual
de Artilleria dellebrijano Luis Collado 17 • A falta de mejor prologuista, el edi-
tor italiano se decide a introducir el texto él mismo (costumbre, por otra
parte, ampliamente cultivada por los editores de la época, especialmente en
las rei,npresiones de obras anteriores) y en su dedicatoria a Don Valeriano
Sfondrato afirma:
Fu sempre ·costume di grandi personaggi (illustrissimo signore) e consentimen-
to commune approvato da ogn'età l'aggradire al pari de' pretiosi doni de' gran-
di le povere offerte de' men facultosi, misurando saggiamente il dono, non
nella pretiosità della materia, ma dall'affetto di chi lo dona C...). Cosi' quel gran
re della Persia non istimò meno un sorso d'acqua che da un contadino delle
sponde d'un fiume vicino gli fu sporto in bevanda,' che li pregiatissimi doni de
gli altri, 'che gli appresentavano le zolle pià ricche delle peruuane miniere, e le
gemme più luminose che s'accendessero alle rive del Gange 18.
De cita cultà al de pocos, la anécdota alcanz6 una extraordi-
natia difusi6n entre los lectores de y libros de apotegmas, lo
qu.e provoc6 paulatinamente su abandono èntre los eruditos, para acabar
convirtiéndose en manoseada menci6n obligada incluso para 'q'uien, como
el editor lombardo, necesitaba una referencia inmediata y bien conocida por
todos sus posibles lectores.
Volviendo a Acuna, no es dificil advertir en los primeros textos aduci-
dos una coincidencia de', fechas que revelan la intensidad con al que el
cuentecillo debi6 de propagarse entre el circulo de los cultos y literatos: la
primera edici6n de la obra de Mexia es de 1540,' mientras que las traduc-
ciones de Diego Gracian de los Apotegmas y de las Morales de Plutarco san
17 La obra vio la luz en italiano: Prat.ica manuale di artegleria, nella quale si tratta
della inuentione di essa, dell'ordine di condurla, & piantarla sotto a qualunquefortezza,
fabricar mine da far volar in· alto le fortezze ..., Venecia, Pietro Dusinelli, 1586. Para los .
detallesde ,las·' sucesivas ediciones, véase Jesus Sépulveda, "Dialogo y ciencia militar en
la .Platica manual'de arillerta de Luis Collado-, en La Espada y la 'Piuma. Il mondo mili-
tare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del convegno internazionale di Pavia
..... 16, 17, 18 ottobre 1997, Viareggio - Lucca, Mauro Baroni editore, 2000, p. 461.
18 Giovan Battista Bidelli, prologo a Luigi Colliado [sic],· Prattica manuale dell'arti-
glieria: .opera bistorica,: politica, e militare, dove principalmente si tratta dell'eccellenza,
& origine dell'arte militare, e delle macbine usate da gli antichi..., Milano, Filippo Ghisolfi
- Giovan Battista Bidelli, 1641, f. t2r.
14
de 1533 Y de 1548, respectivamente, y la de Juan de Jarava de los Apotegmas
de Erasmo de 1549. Si recordamos que, como ya se ha apuntado, el sone-
to del autor debi6 de escribirse a finales de los anos Treinta del siglo, queda
confirmado - incluso por factores extra-textuales - el valor de alusi6n toda-
via culta, aun.que ya de ampia circulaci6n, del sintagma "como en la mano"
que emplea Acuna en su alabanza de Alfonso d'Avalos.
. 15
| Unimi Open Journals |
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] | A TRAVÉS DE PEIAYO: UNA REFLEXION SOBRE
lA EVOLUCION DE lA TRAGEDIA NEocLAslCA
MARIATERESA CATTANEO
El caracter mas vistoso de la cultura teatral del Dieciocho consiste sin
duda en el debate en torno a las reglas de composicion del texto dramati-
co y en la aplicacion de los modelos clasicistas en 10s diferentes géneros,
sobre todo en la tragedia, siguiendo pautas racionalistas y los ejemplos fran-
ceses e italianos, y rechazando el teatro barroco en bloque - como siempre
pasa en las reacciones rigurosas - también en sus formas mas regularizadas
de finales de siglo (el ultimo Calderon, Bances Candamo) tal vez no tan leja-
nas, como parecia, de los nuevos ideales.
El resultado, como es sabido, fue una biparticion de la producci6n tea-
traI gue ve por un lado el desarrollo de un teatro de éxito popular gue busca
sus halagos en la sorpresa espectacular, en la musica, en las complicaciones
y los embrollos argumentales, en los juegos comicos y farsescos (teatro de
magia, refundiciones de piezas barrocas, zarzuelas y gue utilizan
formas de la commedia dell'Arte, sainetes) yquemas tarde explota también
el. imaginario racionalista, la nueva aficion a lo patético y lo exotico, el gusto
por historias sentimentales, lastimosas, y por la idealizacion de los buenos
sentimientos Cel "patético de CornelIa o "el patético novelesco" de
Zavala y Zatnora). Un teatro facil, tal vez superficial y convencional, que com-
pIace los deseosde evasion y'de busqueda de emociones del publico, a veces
téchicamente débil y de refinamiento linguistico. y retorico, gue solo
recientemente se ha empezado a estudiar con la atencion merecida:' se ha
descubierto asi un panorama muy ricò y variado, aunque sin cumbres, y se
ha podido observar como esta produccion constituye una caja de resonancia
de la vida ·social y politica en las varias décadas y devuelve una imagen vivaz
y cambiante de 108 ideales y de las creencias de una época 'de cipidamuta-
ci6n,en la moral familiar y civica y en el nuevo orden economico y cultura!.
Por otro lado, encontramos ·las propuestas de un teatro "ilustrado", pre-
ocupado por la verosimilitud ,y el decoro" por una distincion radical de
17
comedia y tragedia, y en esta, gue es la en gue centraré mi interés, por la
codificaci6n y la practica de una tragedia pura, estilizada segun la fideli-
dad a las reglas y a los modelos, gue busca una severa compostura y una
artificiosa mesura formaI. En 8US preterisiones, a menudo polémicas y cen-
sorias, de aproximaci6n a la perfecci6n modélica, tentativa tras tentativa,
el género acaba presentando un conjunto bastante homogéneo - guiza
inclusoen el escaso favor del publico, o, bajo otra perspectiva, en la esca-
sa sensibilidad hacia los gustos y los deseos de un publico gue de todos
modos el dirigismo cultural concebia como un grupo privilegiado - y pare-
ce conservar durante casi medio siglo una constante fisonomia propia,
pero no exentade variaciones y modificaciones sutiles, aunque poco evi-
dentes.
Me propongo, a través de una re-lectura de tres textos, construidos
sobre un personaje de especial calado heroico, poner de relieve unos
aspectos de este proceso de diferenciaci6n, al cual concurren no solo mati-
zaciones en las preceptivas o prefèrenclas literarias, sino también simpatias
ideol6gicas y reacciones al cambio de la situacion politica.
Si la tragedia busc6 en ocasiones sus argumentos, de acuerdo con el
ejemplo francés e italiano, en temas de la Antiguedad (Virginia, Lucrecia,
Jahel, Pitaco, tdomeneo) se orient6 pronto también hacia los temas de la his-
toria nacional, con una clara preferencia por los antiguos (Numancia des-
truida, Ataulfo) y los medievales (Guzman el Bueno, Don Sancho Garcfa,
Dona Maria Pacheco), mas convenientes tal vez para la elaboracion heroi-
ca y ejemplar, en cuanto la materia legendaria y el distanciamento tempo-
ral favorecia presentaci6n del asun.to le hiciese coincidir con la acti-
tU9 militante a favor del despotismo ilustrado.
La necesidad de presentar siempre personajes de la fat1?-ilia real o de la
nobleza, de acuerdo con las reglas y también con los destinatarios progra-
mados por el proyecto ilustrado d;e un teatro esencialmentecortesano, y de
ofrecerlos e,n una perspectiva positiva (incluso para evitar problemas de
censura) produce en el uso del tema legendario del fin del reino visigodo
el desplazamiento desde Rodrigo hacia Pelayo, de la "pérdida de Espafia" a
la "reparaci6n por el rey Pelayo", para retomar el titulo del poema
Monteng6n (La pérdida de Espana reparada por et rey Pelayo; publicado en
Napoles en 1820). En esta fecha tardfa Montengon habia vuelto a la Espana
visigoda y a la reconguista - y a la pérdida ffias que a la restauraci6n - con
una evidente desvinculacion respecto a los moldes dieciochescos, que
mite que afloren las "tendenze ossianiche e cesarottiane" que sefiala
18
Fabbri 1: pero ya antes en 1793 se habia centrado en el inestable rey godo
en una novela, o romance épico, El Rodrigo, con una elaboraci6n razonada
y equilibrada de la materia legendaria, gue sin errlbargo no rechazaba· inter-
venciones sobrenaturales y algun togue g6tico de novela hist6rièa.
Pero lo que podia aceptarse en una novela no se permitiria en teatro y
menos aun en los afios sucesivos a la reforma de Aranda, como atestigua la
prohibici6n en 1770 de la comedia heroica de EusebIo Vela, La perdida de
Espafia, probablemente por la representaci6n de la debilidad del rey y de
sus culpables inclinaciones.
Asi cuando Nicolas Fernandez de Moratin (con toda probabilidad a ins-
tancias del mismo Aranda) intent6 contribuir a la renovaci6n de la tragedia
espaftola con una pieza dedicada· a este asunto, escogi6 las mas gloriosas
gestas de Pelayo: aunque su tragedia lIeve como titulo el nombre de su her-
mana, Hormesinda.
Es curioso observar c6mo las dos primeras tragedias neoclasicas sobre
el héroe de Covadonga dan relevancia en el titulo a otro personaje
(Jovellanos, en la segunda versi6ri, como se vera, titul6 Munuza su obra,
mas conocida como Pelayo): sintoma, me parece, de un interés gue mas
que enfocar al héroe se dirige hacia un triangulo (el tirano, el la
heroina inocente) que podia acoger el conflicto de contradictorias pasiones,
de vacilantes incertidumbres y angustiosas necesario para la
cqnstrucci6n tragica segun el modelo francés (Corneille, Racine) o italiano
(Metastasio).
Estrenada en 1770, con un discreto éxito (seis dias de representaci6n)
y violentos· ataques por parte' de los partidarios del teatro tradicional,
llormesinda presenta a Munuza, gobernador arabe en Gij6n, como un trai-
dor: enamorado rechazado por la hermana de Pelayo, aprovecha las rela-·
ciones amistosas con éste para acusarla dehaber manchado·su honra duran-
te la ausencia del hermano. Pelayo, sin pensarselo mucho, cae en la tram- ,
pa, no s610 no escucha a Hormesinda, sino que la injuria y la amenaza de
muerte. Después de casi tres horas 2 de equivocos y sufrimientos, cuando ya
1 Maurizio Fabbri, .11 Settecento, in L'età moderna della letteratura spagnola (a cura
di Milano, La Nuova Italia, 2000, p. 168.
2 Moratin repite en todos sus prologos (Petimetra, Lucrecla, Hormesinda, Guzman
el Bueno).la necesidad de una rigida obsetvancia· de la unidad de tiempo, que deberia
coincidir en la escena con el tiempo real, aunque no rehusa la libertad de utilizar un dia
entero. El amigo italiano Ignacio Bernascòne elogia la observancia estricta de la unidad
de tiempo en el prologo a la edici6n de Hormesindade 1770 (Madrid, Aznar, p. 6): "no
19
Hormesinda se encuentra delante de' la hoguera, t?do se aclara: Munuza
muere en batalla a manos de Pelayo, los hermanos se reconcilian y Pelayo
afirma su decisi6n de continuar en la lucha reuniendo a sus huestes en
Covadonga, hasta rechazar completamente al enemigo, mientras el coro
implora:
jGh, si pluguiese al cielo
Que Pelayo lograse,
Como ha logrado esta feliz hazafia,
La mas gloriosa de librar a Espafia! 3
No entraré en la discusi6n de los méritos y deméritos de la pieza que
ya ha sido analizada atentamente 4: lo que mas me interesa subrayar es cier-
ta dependencia residualdel teatro barroco en la ace1).tuaci6n preferente del
concepto de honor y fama 5 y en el uso de inadvertencias, equivocos, injus-
tificados silencios, para desarrollar y enredar la acci6n, gue vinculan a
Moratfn con el pasado, teatral e ideol6gicamente, a pesar de su estricta fe
ilustrada.
Por él lado contrario, es manifiesta su precisa adhesi6n a los ideales
didacticos de la reforma ilustrada. Se precia por tanto, a través del amigo
Bernascone en el pr610go ya citado, de haber hecho una "tragedia sin amor,
sin episodios extrafios, sin soliloquios, sin apartes... ": la consecuencia es
una herofna simplificada, sin claroscuro ni misterio, voz doliente dividida
entre los recuerdos del pasado (curiosa' es la reticente y a la vez altiva vani-
dad que contiene la alusi6n a la galante admiraci6n del rey Rodrigo y a 10s
solamente no dura mas de lo que tarda en representarse, pero ni puede durar mas por-
que seria inverosimil que no se deshiciese el enredo".
3 Hormesinda, III, 12, p. 101. Cito de: Obras de Nicolds y Leandro Ferndndez,de
Moratin, Madrid 1944 (BAE II). La cifra romana indica el acto, la arabe la escena.
4 D.H. Pageaux, "Le theme de la résistance asturienne dans la tragédie néo-classi-
que espagnole", en: Mélanges a la mémoire de]ean Sarrailb, Paris 1966 (Institut d'Études
Hispaniques), pp. 235-242.1.M. Caso Gonzalez, "El comiènzo de la Reconquista et:! tres
obras dramaticas", en: I Simposio sobre el P. Feij60 y su siglo, Oviedo 1966, val. 3, pp. 499-
509. Véanse también las paginas de D.T.Gies en: G.Carnero·(ed.), Historia de la litera-
tura espafiola. Siglo XVIII, Madrid 1995, pp. 517-519.
5 Hay yersos que parecen directa derivaci6n de textos barrocos: "iOh imprudente /
Legislador, que promulg6 primero / La ley cruel, que el crédito y la fama, / Por la virtud
mil siglos conservadqs /Pendan de los volubles pareceres / De la fragilidad de las muje-
res!" II, 7, p. 92. .
20
celos de Florinda 6: una manera quizas de nominar la corte goda y su des-
orden amoroso, a pesar de que contraste con un personaje pasado por el
tamiz del honor como Hormesinda) y las tristes quejas del presente. Moratin
de tal manera conceder espacio a la pasi6n de la gloria, a una con-
cepci6,n heroica de la existencia, que tendria que representarse en Pelayo,
desafortunadamente dibujado con trazo borroso y fiojo, como héroe dema-
siado crédulo, precipitado e inestable: una delineaci6n gue, si empequefie-
ce al protagonista, deja ver una voluntad de amonestaci6n a 10s potentes
para gue no se dejen cegar por las fingidas amistades, por los avisos y las
promesas de paz y de honores del enemigo. De los dos consejeros de
Pelayo, Trasamundo es el portavoz del gran respeto debido a la autoridad
monarguica: "De los principes siempre reverencia / Los muy altos designios
que emprendieron L.']", "Mas es padre gue rey un rey de Espafia"7;
Ferrandez de la obligaci6n a un aviso virtuoso en caso de ignorancias o des-
conocimiento, como buen politico ilustrado: "L.,] iA los prineipes se debe /
Advertir, cuando acaso se equivocan, / Lo gue es muy cierto gue saber gui-
sieran!, L..l Cuando es preciso / Las vasallos leales de rodillas / Advierten a
su principe llorando, / Y éllo agradece [. ..]"8. .
El resultado teatral, no tan parad6jico, es gue el personaje mas logra-
do es el de Munuza.
Lo mismo se puede repetir para la tragedia de Jovellanos: y el autor
parece ser conscientede la estatura de su personaje, elunieo gue presenta
un eonfiieto emel de pasiones, entre la ambiei6n, la apostasia, el violento
amor por Hormesinda (o Dosinda) y lo pone de relieve con sus perplejida-
des aeerea del titulo (con la oseilaei6n ya sefialada)9 aungue siempre remi-
tiendo a la voluntad de celebraci6n patri6tica:
6 "iAy, c6rno yo me acuerdo del pasado/ Tiempo feliz, en que hasta el rey Rodrigo/
Se via por mi desdén martirizado!/ iCuantas veces de envidia fue tocada/ Con desespe-
raci6n la herrnosa y,linda,/ Aunque .infeliz, bellisima Florinda!" (I, 1, p. '86).
7 Hormesinda, III, 2; IV, 6, pp. 93 Y 97.
8 Ibid., IV, 6, p. 97.
9 Jovèllanos utiliz6 el titulo Pelayo en la primera versi6n de la obra, de la cual prepa-
r6 una edici6n con pr61ogo y notas en, 1772, que por supuesto no se public6. Una segun-
da versi6n, probablemente corregida entre 1789 y 1790, se public6 en Madrid en 1792 con
el titulo de Munuza. Caso Gonzalez afirma que el titulo, habria debido ser La muerte de
Munuza, tornando como testimonio la Nota primera de 1772, en que se lee: "Aunque pudie-
ra intitular esta tragedia la Muerte de Munuza, he querido distinguirla con el ilustre nombre
de Pelayo, tornando el fundamento de su titulo, no de la acci6n, sino de la persona mas
famosa que interviene en ella". Véase, para todos los problemas de edici6n, su introduccion
a "La muerte de Munuza", en: G.M. de Jovellanos, Obrascompletas, Oviedo 1984, voI. l.
21
"La acci6n sobre que escribi mi tragedia es la muerte de Munuza, acci6n la mas
grande y distinguida que contiene nuestra historia, si no por su esencia, a lo
menos por el intimo enlace que tiene con 105 principios de la restauraci6n de
la patria"
yaftade, polémieamente afirmando la poteneialidad de un teatro nacional:
"iPara qué buseamos argumentos en la historia de otras naeiones, si la nues-
tra ofreee tantos, tan oportunos y tan sublimes?" l0.
Las preoeupaeiones del pensamiento ilustrado son preponderantes en
]ovellanosy a pesar de que las fechas de eomposiei6n coincidan practica-
, mente (la pieza se escribi6 en 1769, pero con una versi6n definitiva entre
1789 y 1790) el empefio ideol6gico es mas organie.o y compacto que en
Moratln, asi como la asimilaci6n de los modelos neoclasicos mas profunda.
Jovellanos' confiesa en elpr6logo su continua leetura del teatro francés; y el
influjo de la alta dignidad oratoria raciniana, de la constante demora de los
en la descripci6n de sus sentimientos, se advierte en la insisten-
eia discursiva de sus personajes, que se analizan, se. explican, se· justifican
subrayando Ias razones de su conducta y sus deberes, en un flujo de pala-
bras donde se reflejan los ideales civiles del autor, su humanitarismo y su
interés de jurista por las antiguas leyes godas (las palabras "leyes, fueros" se
reiteran continuamente y se oponen al "destino" y a la "fortuna" que
Munuza invoca). Para dar espacio también a la nobleza goda, introduce el
personaje de Rogundo, novio de Hormesinda, que participa en la lucha con
ei tirano y mata el finai a Munuza, y permite a la mujer alternar Ios infle-
, xibles rechazos al moro con acentos de ternura. Pelayo entra en escena s6lo
mediado ei tercer acta, pero se afirma inmediatamente como el "gran"
Pelayo, el jefe gue posee todas las virtudes, valor, racionalidad, amor a la
patria y a sus amigos y familiares, necesarias para gobernar y triunfar en la
lucha que en el final se anuneia para liberar a la patria.
Pageaux ha obselVado, acertadamente a mi parecer, gue Hormesinda
"ehez ces deux eerivains est identifiée, plus au moins clairement, avee l'Espagne
opprimée. Toutes deux sont menaeéespar Munuza, seide des Maures; toutes
deux opposent la "résistence" noble et fière"11. Pero, al no
estoy. de acuerdo con la afrrmaci6n de que Quintana, modificando el papel de
Hormesinda, haya renunciado a un interesante recurso dramatico.
lO Prologo de 1772, ed. cit., p. 360.
11 Op. cit., p. 239.
22
'Quintana escribe· su tragedia en 1801 (la versi6n definitiva en 1805),
cuando la situaci6n politica ha cambiado mucho y por contra la cultura ilus-
trada ya se ha impuesto como una presencia operante que actua en todos
los niveles.
El tema asturiano,. fuera del bortus conclusus de la alta tragedia, ha teni-
do alguna otra reelaboraci6n, de escasa importancia, como A Espafia die-
ron blas6n las Asturias y Le6n, y Triunfos de Don Pelayo, de ]osé Concha,
representada en 1795, una comedia heroica' rica en cambios de escena y
con batallas en el tablado, que cuenta la historia con variaciones noveles-
cas: por ejemplo, Ortodosia (= Hormesinda) huye a caballo de la torre
donde la ha encerrado Munuza y, después de haber sido derribada, encuen-
tra en un bosque a Pelayo que acaba de ver una visi6n profética, los escu-,
dos de Asturias y Le6n unidos con una cruz. Apariencias, aventuras, amo-
res, hasta una pareja de .graciosos 12: estamos lejos de las reglas, de la urdim-
bre ideol6gica y teatral neoclasica, de la rigurosa educaci6n del publico, al
que aqui al contrario se halaga. Lo mismo, con obvias diferencias, se puede
decir del "bayle heroico pantomimo", en tres actos, Pelayo o la muerte de
Munuza que se ejecut6 en los Canos del Peral en 1790, que recuerdo solo
como confirmacion del interés por el argumento. Nada se sabe de un
supuesto Pelayo de Crist6bal Cortés, fechado en 1774 y perdido; otro
Pelayo, en tres actos, escribi6 Enrique Ramos, amigo de' Iriarte y
. - miembro de la F0t:lda de San Sebastian, en 1780 13 • En 1783, aparece en
Bolonia la Ormisinda del jesuita expulsado Emanuele Lassala 14, escrita en
un italiano llano, pero repleto de resonancias literarias, que ofrece una esti-
lineal (solo seis personajes, ningun desorden afectivo) yaprovecha
la rigurosa unidad de tiempo para construir una pieza dominada por la
angostura temporal, casi cercana lo que sera el "plazo" de 10s romanti-
CQS.15, con un conseguido de intensidad teatrale
12 Pelayo justifica su con el t6pico habitual de la verosimilitud y del des-
canso: "No penseis, Ormiso,que esto / es contra el caracter real; / pues siendo humanos
debemos /. dar por vado a las fatigas, / algun rato· en el propenso / disparatar del Juglar,
/ nos sirva de pasatiempo" (Madrid 1795, sin impresor).
13 No conozco este texto, del cual da noticia J. Herrera Navarro, Catalogo de auto-
res teatrales del siglo XVIII, Madrid 1993. .
14 Ormisinda, "tragedia, con alcune scene liriche", Bologna 1783. Debo la noticia de
la obra y el conocimiento del texto al amigo Maurizio Fabbri y. rernito para mas detalles
a su "Tradizione e rinnovamento nel. teatro tragico dei gesuiti espulsi", en: Vagabondi,
visionari eroi. Appunti su testi 'in minore' del Settecento spagnolo, Abano Terme 1984.
15 Las bodas de Ormisinda y Maurelio (= Munuza) deben celebrarse en pbcas horas,
habiendo expiradoel término fijado por la dama. Pelayo, su ultima esperanza de salva-
23
La otra vertiente del tema asturiano, el ultimo rey godo, ademas de la
Florinda de Maria Rosa Galvez 16 , ha presentado la interesante aparici6n de
una heroina olvidada y poco conocida hist6ricamente, Egilona, viuda de
Rodrigo y después esposa de Abdalaziz, primer emiro de AI-Andalus. En
posici6n intermedia entre los temas de la pérdida y de la reconquista de
Espafta, Egilona parece ofrecer una alternativa mas compleja y novelesca a
Hormesinda. Su ambigua historia conflictiva, dividida entre el amor al moro
y los deberes cristianos y patri6ticos, ofrece muchas posibilidades de dife-
rentes enfoques, casi nunca fieles a la verdad hist6rica, y tuvo éxito, a juz-
gar por las varias piezas que se representaron hasta la primera década del
siglo XIX 17. Ademas, es posible que algo de su situaci6n repercuta en la
Hormesinda quintaniana, asumiendo una perspectiva tragica. Parece sefta-
larlo el mismo Quintana, que recuerda a Egilona al comienzo del drama,
como figura de la debilidad femenina:
Mal pudieran las débiles mujeres
Resistir al halago lisonjero
Del moro veneedor, euarido sus armas
Domaron ya los varoniles pechos.
Mira a la hermosa viuda de Rodrigo
Ganar desde su triste cautiverio
El coraz6n del j6ven Abdalasis,
y ser su esposa· y oeupar su lecho 18 •
cion, tarda en negar, y, cuando nega, es apresado, mientras los partidarios de Zopiro, jefe
moro de la conjura contra Maurelio, estan a punto de atacar...
16 Nunca representada, se publico en Obras poéticas, Madrid 1804. Es una obra bas-
tante discutida por la critica: a través de la culpable pasi6n de Rodrigo, Galvez intenta
demostrar el desamparo y la suerte infeliz de la mujer (Florinda es el unico papel feme-
nino en la pieza) dentro de la sociedad patriarcal. Véase O.S. WWtaker, "Clarissa's Sisters:
The Consequences of Rape in Three Neoclassic Tragedies of Maria. Rosa Galvez", en
Letras peninsulares, V, 5, 2 (1992), pp. 239-251.
17 Recuerdo la Egilona de Candido Maria Trigueros (1768, inedita), La Egilona de
. Pedro Calderon Bermudez de Castro (1770, representada en 1788) La Egilona, viuda del
rry Don Rodrigo de Antonio Valladares (1785, Barcelona s.a.); Abdalaziz y Egilona de
José de Vargas y Ponce (1804). Véase, para una completa informacion, F. Aguilar Piiìal,
Candido Maria Trigueros, Madrid 1987, pp. 193-195, Y P.Garelli, Il tema di Egilona nel
teatro spagnolo della seconda metà del Settecento,en Un bombre de men. Saggi di lingue
e letterature. iberiche in onore di Rinaldo Froldi, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2004,
pp. 557-576.
18 Pelayo, 1, 1, en: M.). Quintana, Obras completas, Madrid 1946 (BAE 19), p. 58.
24
Quintana vuelve a Pelayo, pero en el tema hist6rico busca ahora no
s610 un argumento de historia de su naci6n, o un "oportuno y sublime"
ejemplo de patriotismo, sino la presentaci6n de un héroe grande, que inci-
te a la restauraci6n de la naci6n y de una ,monarquia gue necesita regene-
rarse. La resistencia asturiana se ofrece como un lugar de la memoria, que
hay gue visitar para absorber su savia, importante y necesario al fin de
tornar impulso para un presente gue se advierte oscuro y decepcionante.
Espafia declinando, el despotismo ilustrado se ha empeguenecido en
las manos de Carlos IV y de Godoy: por esto Quintana necesita
la Historia a través de grandes figuras, para provocar sensaciones fuertes y
altas, poniendo en escena el fantasma de la grandeza pasada. Y en un esti-
lo grande. Fiel a su propensi6n juvenil hacia "siempre formas en grande
modeladas" (Las reglas tlel drama) y teniendo presente la sugesti6n de una
pintura como la de Mengs gue habia difundido, junto a la teo-
rica de Winckelmann, Milizia, etc., el ideaI de un arte grandioso y podero-
so, tal vez enfatico.
Asi de la templada geometria de pasiones delcuadrilatero (Pelayo,
Munuza, Dosinda, Rogundo) gue permitia el largo debate éticoy de histo-
riografia patri6tica en Jovellanos, y gue teatralmente, en la escena final, no
resaltaba la figura de Pelayo en el juego - escénicamente dificil - de cuatro
acciones mimicas (Munuza amenaza con el pufial a Pelayo, gue ha perdido
la espada, Rogundo desde el fondo de la escena corre a herir a Munuza por
la espalda,. Acmeth paraestorbarlo se interpone entre Munuza y asi
que sin quererlo le defiende 19) Quintana pasa al aislamiento escénico del
héroe. Modifica por tanto también el esquema de relacìones conflictivas del
triangulo moratiniano - Munuza se opone a Pelayo, Hormesinda a Munuza
y Pelayo a Hormesinda - no ya prescindiendo de esta ultima oposici6n,
como habia hecho Jovellanos, sino presentando a Hormesinda enamorada
de Munuza. Consigue asi aumentar la soledad Pelayo, y logra ademas
una mayor tensi6n conflictiva en elpersonaje femenino, gue ya no es la
mujer altiva e irreprensible de Jovellanos o la victima inocente y quejosa de
Moratin, sino una enamorada por pasiones antag6nicas, y gue pro-
bablemente se ajusta a ZaIre de Voltaire.
19 La acci6n mimica esta acompanada por una simétrica exclamaci6n: MUNUZA y
ROGUNDO (Los dos a un tiempo) Muere, infame. ACMETH y HORMESINDA (Los dos a
un mismo tiempo) iQué haces, traidor? (V, 7). Jovellanos intenta asi estilizar, o regulari-
zar, podriamos decir, la muerte en escena.
25
Se debe subrayar también el cambio de modelos literarios: si Quintana,
como él mismo confiesa, fue un asiduo lector de Corneille en su juventud
para después preferir a Racine (del cual he rastreado muchos ecos en el
Pelayo en un precedente trabajo 20), también se eI?-cuentra muy de
Voltaire en su busqueda de una tragedia moderna que pudiese conciliar la
severidad y la mesura clasica y la fuerza de los caracteres, y que fuera vehi-
culo de las nuevas ideas, politicas y filos6ficas, para un publico renovado.
Por otra parte su pasi6n politica y civil, el impetu antitiranico, la defen-
sa de las virtudes patrias y de la libertad nacional, le ·acercan al teatro alfie-
riano, bien conocido en Espaiia a principios de siglo. Cuando retorna el
motivo, tan presente en Moratin y Jovellanos, de la derrota de los godos
comopunici6n celeste por las culpas de Rodrigo (motivo que le sirve para
realzar la acci6n del protagonista que - solo - alcanza el rescate . de la pa-
tria) propone sin embargo una visi6n de un Dios tiranico y n? providencial .
que une tal vez al deismo quintaniano recuerdos de la ag6nica relacién
hombre y del Saul alfieriano:
iPiedad, piedad! Tiempo es aun; perdona.
Cuando entregada esta regi6n se vea
A la superstici6n abominable
Con que tu nombre. el arabe blasfema,
lSera mayor tu gloria? L..] .iAy! que algun dia
Ha .llegar en que sereno vuelvas
Hacia Espaiia tus ojos, y mirando
Las plagas que tu enojo ech6 sobre ella,
De tan fiero rigor tu mismo llores,
y entonces tarde a la clemencia sea 21.
asi como el comentario' a la muerte de Hormesinda:
,Oh cielo!
lEsta ya tu justicia satisfecha? 22
recuerda las palabras de SauI. muriendo:
20 M. T. Cattaneo, "Eroicita neoclassica e patetismo settecentesco in M.]. Quintana",
en: MJ. Quintana e R. del Valle lncldn, Milano 1971. Véase también A. Dérozier, Manuel
josefQuintana et la naissance du libéralisme en Espagne, Paris 1%8 y 1970 (Annales Ht-.
téraires de l'Université de Besançon).
21 Pelayo, V,l, p. 72.
22 Ibid., p. 73.
26
Sei paga,
D'inesorabil Dio terribil ira?23
Pero donde mas se puede apreciar el influjo alfieriano es en la muerte
de Hormesinda, que leemos en la primera edici6n de 1801. Quintana acoge
la sugesti6n del Oreste de Alfieri y deja a su héroe desenfrenarse en la bata-
Ila hasta un extremo de paroxismo en el cual mata a su hermana sin siquie-
ra verla, ofuscado por su persecuci6n de Munuza. Este final durfsimo y sin
duda desconcertante (también por eierta inadeeuaci6n teatral) obtuvo
muchas crftieas por parte de sus amigos: aeeptando sus consejos, ·en la ver-
si6n definitiva Hormesinda muere a manos de Munuza, lo que afiade ambi-
giiedad al tiranoy purifica la grandeza del héroe en vfsperas del mensaje
de exhortaci6n patri6tica del p4rlamento final:
Muerto el tirano veis: ya no hay reposo;
Siglos y siglos duren las contiendas;
y si un pueblo insolente alla algun dia
Al carro de su triunfo atar intenta
La naci6n que hoy libramos, nuestros nietos
Su independencia asi fuertes defiendan,
Y la alta gloria y libertad de Espaiia
Con vuestro heroico ejemplo eternas sean 24.
Pelayo se refiere al hoy, el heeho hist6rico ya no sirve como evocaci6n
pedag6gica para hacer resaltar virtudes y buenas actuaciones polfticas (el
ideaI deI- buen gobierno ilustrado) sino como exhortaci6n para que se
defienda - hoy -. a Espafta y su libertad.
Si el tema de la desgracia de la patria (las vfrgenes violadas, los tem-
. plos profanados, el yugo inicuo de los vencedores) esta presente en las tres
piezas, en Moratfn y Jovellanos el pueblo aparece oprimido pero prepara-
do para empezar de nuevo la lucha y los n·obles (en Jovellanos) esperan a
Pelayo y el momento propicio para reanudar la resistencia. Quintana acen-
tUa la desesperaci6n y vileza popular, la falta de fuerza para contrastar la
opresi6n:
23 Saul, V, 5; en: V. Alfieri, Le tragedie, Milano 1957, .p. 679.
24 Pelayo, V, 5, p. 73.
27
Quien pierde a Espafta
No es el valor del moro; es el exceso
De la degradaci6n .... 2S
lo que podria también interpretarse como muestra de una posici6n ilustra-
da: la visi6n del pueblo como colectividad amorfa y pasiva, que necesita el
liderazgo de los nobles.
Pero queda claro que Quintana esta pensando en la situaci6n politica
contemporanea y que es la degradaci6n actualla que él condena en la astu-
riana, casi con una anticipaci6n de la pronta y lamentable aceptaci6n por
parte de los animos débiles de la causa de los vencedores, que después él
rechazaria en los afrancesados. .
Aunque los requisitos de la preceptiva neoclasica puedan considerarse
cumplidos, el mensaje ideol6gico ha cambiado completamente: asi como en
la oda A}uan Padilla (1797) la valoraci6n de las Comunidades ha mudado
mucho con respecto a la Dona Maria Pflcheco, mujer de Padilla, de Ignacio
Garcia Malo (1789)26.
A través de la mediaci6n y el magisterio de Quintana, Pelayo y Juan de
Padilla van a convertirse, en la literatura patri6tica, (junto a los héroes de
1808, Daoiz y Velarde) en simbolo de la guerra napole6nica y de la batalla
constitucional. Asi 10s encontramos en La sombra dePelayo o el dia feliz de
Espana, drama aleg6rico en un acto de Zabala y Zamora (1808) y, en 1820,
se representara, en Barcelona, junto a La viuda de Padilla de Martinez de la
Rosa, La libertad restaurada, que pone en escena Pelayo, Daoiz y Velarde
hablando con el Genio Espanoi.
Pero este es ya OtfO asunto.
25 Pelayo, I, 4, p. 60.
26 Véase la edici6n de G. Carnera y su excelente Introducci6n (Madrid, Catedra
1996).
28
| Unimi Open Journals |
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] | PAULINO MASIP E LA AVENTURA DE MARTA ABRIL (1953)
MARCO PANNARALE
Su Paulino Masip, pOCO conosciuto in Spagna e quasi ignoto all'estero
- a eccezione della sua patria adottiva, il Messico - è stato ormai prodotto
sufficiente matet;iale critico per poter enucleare agevolmente, dalle tratta-
zioni a lui dedicate, un luogo comune del tutto condivisibile, che ridotto alle
sue linee fondamentali si articola su due affermazioni: Masip è una perso-
nalità letteraria di assoluto valore, ingiustamente dimenticata nel panorama
culturale spagnolo novecentesco e solo tardivamente riconsiderata; il suo
romanzo più celebre, El diario de Hamlet Garcia, è una delle migliori opere
mai scritte sulla guerra civile nonché una delle più riuscite prove narrative
della Spagna esiliata. Già nel 1977 si esprimeva sostanzialmente in questi
termini Santos Sanz Villanueva, uno dei precoci fautori della riscoperta,
ancora costretto a muoversi alla cieca fra. di informazioni. e presso-
ché totale mancanza di riferimenti critici 1•
Effettivamente, come ribadiva anni dopo lo stesso Sanz Villanueva sulle
colonne di fnsula 2,
parece mentira queuna persona que ocup6 cargos de relieve - director de
. peri6dicos como La Voz, el Sol, La Vanguardia -, que fue dramaturgo de cier-
to éxito en la anteguerra y que, después de la lucha, realiz6 una sostenida acti-
vidadcreativa, pueda pasar a un casi completo anonimato.
1 Cfr. Sanz Villanueva [1977:166-1671 Fra gli studiosi che precedentemente si erano
occupati in modo minimamente approfondito di Masip, segnaliamo soprattutto Nora
[1973:31-331 Corbahln [1987:8] evoca in modo molto efficace l'anomala, imperfetta per-
cezione che per molto tempo si è avuta in Spagna di Masip e del suo maggior romanzo:
"la novela fantasmal ·de un escritor fantasma? envuelto en brumas de tiempo y lejania,
como si se hubiese tratado de un raro poeta medieval".
2 Sanz Villanueva [1987:141
29
Va detto che nell'ultimo ventennio la situazione è notevolmente miglio-
rata e allo 'stato attuale, come segnala Garcia Posada in un recente articolo,
"Masip, si no del todo' recuperado, ha abandonado las amargas aguas del
olvido. El diario se ha convertido en un clasico y otros titulos del escritor
se van abriendo paso, aunque sin excesos"3. Grazie a diverse riedizioni del
Diario e di altri testi, alla pubblicazione della breve monografia di Anna
Caballé 4, agli autorevoli contributi offerti al Congreso Plural "Sesenta aiios
después" del 1999 5 (che ha fra l'altro coinciso col centenario dell'autore), si
è colmato in ottima misura il vuoto critico che ha circondato per tanti anni
lo scrittore riojan0 6 • In partic:olare, gli atti del congresso e l'instancabile lavo-
ro di riedizione e studio dell'opera "minore" a cura di Ma Teresa Gonzalez
de Garay, dellaUniversidad de la Rioja 7, costituiscono dei punti di riferi-
mento di inestimabile valore per un avvicinamento alla figura di Masip nel
suo corhplesso,e ad essi sono infatti largamente debitori questi appunti.
Resta pur vero, però,- che per molto tempo l'indagine su Masip è rimasta
principalmente circoscritta al suo capolavoro, la cui palese superiorità ha a
lungo offuscato-la restante opera narrativa e teatrale dell'autore. La aventu-
ra de Marta Abril, il corpus dei racconti e le piezas di Masip da un lato
vanno sicuramente situate su un livello differente rispetto ai vertici toccati
dal Diario, dall'altro non meritavano di essere aprioristicamente ignorate o
citate solo in relazione alla supposta cattedrale nel deserto eretta con la sto-
ria di Hamlet Garcia. Di certo non sono mancati, anche prima delle recenti
apprezzamenti favorevoli sulle globali doti stilistiche e narra-
tive della prosa di Masip'8; ma è stato anche particolarmente costante l'ac-
3 Garcia-Posada [2003].
4 Il saggio, ormai irreperibile al di fuori dei circuiti bibliotecari, si intitola Sobre la
vida y la obra de Paulino Masip; cfr. bibliografia per i dettagli completi.
5 Congresso che ha luogo in differenti università spagnole: la maggior parte
delle conferenze su Masip si sono tenute all'Universidad de la Rioja, che ha dedicato
all'autore una giornata monografica. Cfr. la bibliografia per i dettagli sui singoli studi.
6 catalano di famiglia e di nascita ma, sin da piccolissimo, cresciuto a
Logrofto (cfr. infra), città che giustamente lo considera a tutti gli effetti un proprio scrittore.
7 A Maria. Teresa Gonzalez de Garay, che ringrazio qui per il suo personale interes-
samento a questo lavoro, si devono, a eccezione di El diario de Harnlet Garcia, tutte le
riedizioni spagnole attualmente disponibili della produzione di Masip, per le quali riman-
do alla
8 Si veda ad esempio Nora [1973:31-33]: "Aunque muy limitada encantidad, la obra
narrativa del periodista y dramaturgo Paulino Masip es digna de la mayor atenci6n.. C..•)
La trampa y Un ladr6n, entre las cuatro novelas cortas que integran el volumen encabe-
zado con la primera (1954), acreditan de nuevo el extraordinario talento narrativo, dobla-
do de un seguro instinto dramatico, de Paulino Masip".
30
cento calcato sulla straordinarietà della sua opera maestra: sul suo carattere
di felice unicum nell'ambito di una produzione altrimenti priva di partico-
lare interesse. Illuminante in questo senso il giudizio di Martfnez Cach'ero
(solo un esempio fra vari), che accomuna Masip ad Arturo Barea e ]osé
Ram6n Arana creando per loro una sorta di etichetta apposita, quella degli
scrittori esuli "gue tuvieron éxito merced a s610 una novela afortunada ( ...),
cuya obra posterior no parece haber superado la excelencia de tales tftu-
los"9; non vi sarebbe in linea teorica nulla da eccepire su questo punto di
vista, fra l'altro corroborato dalla prova dei fatti, se non fosse per il rischio
di legittimare indirettamente il disinteresse verso gli altri lav9ri di un autore
che, per il solo fatto di aver scritto "una de las mejores novelas que produ-
jo la Espafia Peregrina" l0, va di fatto conosciuto nella sua interezza.
Sull'oblio cui è stato relegato Masip si è scritto parecchio; sulle sue cause
anche, e probabilmente non ha torto Pedraza nell'affermare che un peso con-
siderevole abbia avuto la sua "dedicaci6n, pane lucrando, a los guiones de
calidad y aire popular al selVicio de la industria cinematografica mexi-
cana" Il, che ha occupato in modo pressoché esclusivo l'ultimo decennio di atti-
vità dello scrittore. Allo stesso proposito Max Aub, che con Masip condivise
oltre che il paese d'esilio una profonda amicizia, profetizzò nel suo Discurso de
la novela espafiola contemporanea, con lucidità e in tempi non ancora troppo
sospetti, quello che in effetti sarebbe successo: "Si el cine no se lo traga, Masip
puede llegar a ser un clara exponente de la novela de nuestros dfas"12. D'altro
canto, senza voler entrare qui nel merito della complessa e vexata questione
generale, è pur vero che a Masip, fino a epoche molto vicine, non è toccato in
sorte neppure il destino di tanti suoi compagni di espatrio - prosatori, non poeti
evidentemente - che così schiettamente riassume Gu116n:
una vez acomodados nitidamente en Ias bibliotecas, con pIena regalia y esplen-
procedemosa ignorarlos. Sus mensajes a dura pena se incorporan
al haber nacional, quedan para el c;onsumo y disfrute del coleccionista de
raros 13 •
. 9 Martinez Cacbero [1999:703-704]. Anche Corbahln [1987:12] pur in chiave positiva,
non ,fa che" ribadire questo concetto: le altre opere di Masip "Son piézas que, en otro
- escritor que no presentara' el contraste entre una primera novela excepcional y el resto-
.de su producci6n, serian consideradas dignas de toda recordacion".
lÒ Martinez Cachero [1999:705].
11 Pedraza Jiménez [2000:583].
12 Aub [1945:104]. .
13 Gu1l6n [1983:2231.
31
Più melodrammaticamente, Mufioz Molina descrive questa condizione
come
un maleficio que condena a la mayor parte de la prosa de la Republica a no
encontrar a sus lectores C...), una especie de Purgatorio del que no a
salir, (. ..) limbo desconectado por completo no s610 de la inmensa mayorfa del
publico lector, sino del catalogo de la tradici6n de la narrativa espaiiola 14.
C'è da aggiungere che il netto rifiuto dell'autore prima e degli eredi poi
a sottomettere il Diario al vaglio della censura dittatoriale avrebbe comun-
que reso impossibile la pubblicazione del libro in Spagna prima del "'75,
benché, come opportunamente ricorda Cousté, siano molti gli scrittori esi-
liati che hanno saputo raggiungere in un modo o nell'altro il pubblico a cui
la loro opera· era destinata 15.
Di fatto la prima edizione recente del Diario, dopo la princeps messi-
cana per i tipi di Le6n Sanchez del 1944, è comparsa solo nell'87 da
Anthropos, mentre risalgono agli anni '90 le prime edizioni spagnole di altre
opere sue 16. Come si vede quindi - fatti di nuovo salvi i validissimi inter-
venti degli ultimi anni - più che dimenticata sugli scaffali delle biblioteche,
magari con tanto di "esplendor erudito", molta della creazione letteraria di
Masip è stata semplicemente abbandonata alle ridotte possibilità di diffu-
sione delle sue edizioni messicane degli anni '40 e'50.
Anna Caballé, prima biografa dell'autore, ci informa nel 1987, in modo
finalmente attendibile - anche se in diversi punti, per sua stessa ammissione,
lacunoso - delle peripezie vitali, professionali e artistiche di Paulino Masip. Dati
più completi e precisi, forniti da altri studiosi fra i quali Pablo Corbalan, suo
amico d'infanzia, e ancora una volta la professoressa Gonzalez de Garay, hanno
integrato negli anni seguenti il promo biografico dello scrittore.
Nato a La Granadella, Lérida, 1'11 marzo de11899, all'età di sei anni Masip
si trasferisce a Logrofio con i genitori e i fratelli e qui dopo le scuole secondarie
si iscrive alla facoltà di magistero; al 1919 risale la sua prima opera letteraria 17,
la raccolta di poesie Liricos remansos 18. Ultimati gli studi, e dopo un perio-
14Muftoz Molina [1994:8].
15Cfr. Cousté [1989:319].
16 Supra, nota 7.
17 Se eccettuiamo per ovvie ragioni il precocissimo dramma Remordimiento, scritto
a soli Il anni nel 1910 e naturalmente non pubblicato: cfr. Aznar Soler [2001:260].
18 Il libretto, un'ottantina di pagine, fu pubblicato in SO esemplari da Ruiz
Ulecia, amico del giovane Paulino, e "esta en la orbita de los poetas modernistas de sue-
32
· do trascorso a Parigi, grazie. al quale potrà tradurre per Espasa Calpe diver-
se opere di Charles Masip inizia la sua carriera di intellettuale
come socio fondatore e segretario dell'Ateneo Riojano. Con il supporto
finanziario del padre, liberale convinto, Masip ha la possibilità di lanciarsi
nella sua prima avventura giornalistica, peraltro con scarse soddisfazioni,
.fondando e dirigendo fra il '24 e il '25. El Heraldo de la Rioja; maggior for-
tuna incontra il suo continuatore, El Heraldo Riojano, che tuttavia sopravvi-
ve altrettanto poco a causa della sua linea editoriale e ideologica in contra-
sto con la dittatura di Primo de Rivera 20.
Dopo il fallimento dell'Heraldo Masip, che nel frattempo si è sposato
con Fernanda Echafarreta e ha avuto due figlie, lascia Logrofio per la capi-
tale, dove risiede fino agli anni della continuando l'attività giornali-
stica con crescente successo: a Madrid collabora, dal '28 al '34, con la rivi-
sta d'intrattenimento Estampa 21 ; ottiene la nomina a capo redattore di Ahora
e ancora molto giovane, nel 1933, diventa direttore del quotidiano La Voz.
Successivame·nte, per il biennio '35-'36, passa a dirigere El Sol, altro impor-
tante giornale di taglio repubblicano, così come di orientamento filo-repub-
blicano sono le tertuliasche Masip frequenta assiduamente, la Granja del
Henar e il Café Regina. A questo period.() risalgono i legami di Masip con
'!\Ii
diversi intellettuali dell'epoca, da Alejandro ·Casona a Manuel Azafia, da
Josefina Carabias a Juan José Domenchina, e i suoi contatti professionali con
Valle .;.- Inclan e Unamun0 22 •
gunda fila. Las imitaciones mediocres de Rubén Dario saltan a la vista (...)." (Gonzalez de
Garay [1992:20]).
19 Si tratta di La novena de la Candelaria, Recuerdos de Juventud e La sefioritt;l de
Marsan, tutti pubblicati nel 1924.
20 Per ulteriori notizie su queste due imprese giornalistiche, cfr. Bustamante Terroba
[1991 :235-257l.
21 Caballé [1987:21 n. 9], elencando gli articoli di Masip per Estampa, indica come
unico anno di collaborazione il 1930, ma Rivas [2001:199-201] parla di un periodo che va,
.appunto, dal '28 al '34 e Gonzalez de Garay [1996] in uno studio dedicato rende detta-
gliatamente conto di tutte le collaborazioni di Masip con questo settimanale.
22 Valle fu intervistato due volte da Masip per Estampa: "Obregon, el presidente de
Mejico, asesinado,' visto por Valle-Inclan" (Estampa nO 30, 24 luglio 1928) e "El hogar de
Valle-Inclan" (Estampa nO 48, 27 novembre 1928); questa seconda intelVista in particola-
re ebbe grande rinomanza all'epoca (cfr. Ram6n Maria del Valle-Inclan, Entrevistas, con-
ferenciasy cartas, edici6n de ]oaqufn y]avier del Valle-Incléin,Valencia, Pre-textos, 1994,
'pp. 387-391). Unamuno recensì favorevolmente in Abora (23 marzo 1935) "El problema
de la. juventud", articolo di Masip precedentemente apparso nella stessa rivista (cfr.
Miguel de Unamuno, "Otra vez con la juventud", in Obras Completas, edici6n de Manuel
Garcfa Bianco, Madrid, Aguado, 1958, voI. X, pp. 1028-1031).
33
A latere del giornalismo, Masip si dedica, senza troppa prolificità, alla
scrittura drammatica 23: in questi anni sono messe in scena tre sue pièces, che
gli procurano una certa notorietà se non altro presso il pubblico e i critici
teatrali 24: si tratta di Duo (1928) Lafrontera (1932) e El baculo y elparaguas
(1936)25. Durante il conflitto civile .Masip lascia la capitale' per Valencia,
seguendo il governo repubblicano, e quindi passa a Barcellona, dove ormai
all'apice della carriera è edit9re tecnico di La Vanguardia per tutto il '37.
L"anno seguente è a Parigi, .come addetto stampa dell'arrlbasciata spagnola.
Nella primavera de11939, inutile dirlo, si rende inevitabile la decisione
di partire. Inizialmente esiliato in Francia, Masip prende contatti con l'am-
basciatore messicano Narciso Bassols; il governo di Lazaro Cardenas, da
sempre solidale alla Repubblica, patrocina il trasferimento di dodici intellet-
tuali' fra i quali appunto Masip e José Bergamfn, con l'incarico di prepara-
re laggiù il successivo ingresso di altri repubblicani espulsi o fuggiti 26.
Contributo letterario ma allo stesso tempo concreto dello scrittore a questo
compito sono le sue Cartas a un emigrado espanol, che Masip compone già
durante la traversata atlantica a bordo del Veedan:z: gli otto scritti, formal-
mente concepiti come altrettante lettere a un "desconocido amigo y com-
patriota", vademecum per ogni spagnolo strappato alla propria terra, costi-
tuiscono in realtà un diario intimo' delle angosce personali, ma anche dei
propositi nonostante tutto venati di 'ottimismo, dell'esiliato Masip. Il distac-
co è forzato ma assumerlo attivamente e propositivamente è altrettanto
necessario:
Hemosvenido a America - el alma polivalente de Espana lo permite y lo impo-
J;1e - para ser americanos, es· decir mexicanos en México, chilenos en Chile,
colombianos en Colombia, v,enezolanos en Venezuela, cubanos en Cuba, y
23 Su Masip drammaturgo si vedano le sintetiche osselVazioni di Doménech
·,[1977:228-229] e soprattutto Aznar Soler [2001] e Imn Vozmediano [2001].
24 Da notare specialmente le valutazioni, indulgenti prima, decisamente entusiaste
. poi, di Diez-Canedo; cfr. i suoi articoli su Sol del 1 maggio 1929 e del 31 dicembre 1932,
riprodotti in: Enrique Diez-Canedo, Articulos de critica teatral, México, ]oaquinMortiz,
1968, tomo IV, pp. 163-164 e pp. 91-93.
25 Le date si riferiscono alle prime rappresentazioni madrilene, rispettivamente alla
Sala Rex, al Teatro CelVantes e al Teatro della Zarzuela. Duo fu portata in scena dalla
compagnia di Rivas Cherif (cfr. Aznar Soler [2001:260]). Per i dettagli di pubblicazione cfr.
bibliografia.
26 La notizia, successivamente ricordata in molti dei cenni biografici' su Masip, venne
fornita diprima mano da Antonio Sacristan, uno degli intellettuali del gruppo,. a Le6n-
Portilla, che la riporta nel suo saggio [1978:374].
34
rogamos que nos lo dejen ser porque esta es nuestra mejor manera de ser espa-
ftoles y a mi juicio la unica decente 27.
Scrive giustamente Le6n-Portilla che "las Cartas de Masip, escritas no
sin cierta tristeza, terminan orientando a los que llegaban hacia su destino,
pIenamente mexicano"28. In effetti l'allontanamento di Masip dall'orbita cul-
turale peninsulare è in parte dovuto a una traiettoria che, egli stesso percor-
re volontariamente, come fra l'altro dimostra la sua progressiva disaffezione
verso la stampa della Spagna del destierro: se duranti i primi anni '40 il suo
nome appare in numerose riviste dell'esilio, da Romance a Litoral, da
Espafia peregrina a Las Espafias 29 , a· un decennio dallo sbarco 30 sudameri-
cano il suo impegno giornalistico, iniziato e proseguito con risultati tanto
rilevanti, può dirsi definitivamente concluso.
Ai primissimi tempi dell'esilio data l'inizio del rapporto' fra Paulino
Masip e il cinema messicano, destinato come abbiamo visto a crescere e
consolidarsi in modo quasi totalizzante. Per i complessi dettagli di un'attivi-
tà che portò alla produzione di almeno una quarantina di pellicole (adatta-
menti, c91laborazioni o sceneggiature originali: ma il catalogo resta aperto) ,
rimandiamo senz'altro allo studio di Juan Rodriguez 31 ; tuttavia importa ram-
mentare qui che fra melodrammi, género rancbero, commedie borghesi e
grossolane trasposizioni di classici letterari il panorama cinematografico
della Hollywood ispanoamericana degli anni '40 non offriva, in linea di mas-
sima, un felice connubio di quantità e qualità: non c'è da.stupirsi pertanto
del fatto che "apenas se apartaMasip de esa senda trillada por las exigen-
cias de la industria y del publico, algo comprensible si tenemos en cuenta
su profesionalizaci6n (...)"32. Dei film sceneggiati da Masip, allo studioso
non specializzato in cinematografia importerà forse ricordare una manciata
di titoli, fra cui Lq, Barraca (1944), tratto più' che decorosamente dal roman-
27 Paulino Masip, Cartas a un emigrado espanol, México, Junta de Cultura Espafiola,
1939, p. 68.
28 LeDn-Portilla [1978:100]..
29 Per un elenco delle collaborazioni di Masip con le prime tre riviste citate, cfr.
Aznar Soler [2001:263 n. 23, 24, 25]; per la quarta, cfr. Caballé [1987:53].
30 L'espressione non è del tutto corretta, dato che effettivamente Masip sbarcò a New
York e raggiunse México D. f. in pullman, come ricorda la figlia Dolores, allora quattor-
dicenne (cfr. <;Jonzalez de Garay [1992:10]).
31 Rodriguez· [2001].
.32 Rodriguez [2001:235-236].
35
zo di Blasco Ibafiez 33 , e El barbero prodigioso (1941), versione in celluloide
della farsa El hombre.que hizo un milagro 34 , la prima delle tre opere teatra-
li scritte da Masip in Messico (la seconda sarà El emplazado, pubblicato
senza data ma con tutta probabilità risalente al 1949 35 ; si ha notizia di
terza pieza messica.na, El escandalo, adattata da Alarc6n, ma mai pubblica-
ta e il cui manoscritto è andato perduto).
Appartiene all'esilio messicano quasi tutta la narrativa di Masip 36, a
cominciare da El diario de Ramlet Garcia, pubblicato come dicevamo nel
'44 ma datato 1941 e, verosimilmente, concepito ancora in Spagna 37: Juan
Rodriguez, sottolineando proprio la rinuncia dello scrittore a mantenere vivi
i suoi legami con la madrepatria nella vita come nell'opera, nota che que-
sto romanzo
constituira la unica referencia a lo sucedido en la contienda civil de toda la
narrativa de Masip. En lo sucesivo su obra - aun cuando, como La aventura
de Marta Abril, esté situada en los afios de la Republica - se aleja de toda nos-
talgia, C...) y es perceptible en su narrativa una fuerte tendencia a adoptar
como referente la nueva realidad mexicana 38.
La fama che circonda il Diario e la relativa. abbondanza di ricognizioni
critiche esistenti su di non ci esimono dal renderne qui sinteticamente
conto, pur rimandando alla bibliografia per il dovuto approfondimento,
indispensabile premessa ad ogni approccio allo studio dell'autore.
Antirealistico pur nel suo indubbio valore testimoniale, tutto letterario
nella forma quanto nei contenuti, quello di Hamlet Garcia, "metafisica
33 Il critico cinematografico Roman Gubern (cfr. Caballé [1987:39 n. 38]) attesta il
grande successo di questo film, che si aggiudicò dieci' dei diciotto premi Ariel (una sorta
di Oscar messicano) per il 1944.
34 Pubblicato nel 1944.
35 Cfr. Gonzalez de Garay [2002:37].
36 In Spagna Masip aveva già scritto prosa narrativa, tutta pubblicata in Estampa: tre
dei dieci racconti che costituiranno la raccolta Historias de Amor (cfr.infra) e il roman-
zo d'amore a puntate Angélica o un coraz6n de mujer(cfr. Rivas [2001:197 esegg.]).
37 Il primo capitolo del Diario appàrve già nell'ultimo numero di Romance, il XXIV,
nel maggio del '41..Secondo Corbalan [1987:9] "Es todo lo contrario de una obra impro-
visada, y hayque suponer que llevaba ya trazado su esquema cuando arri.bo a América
y que, en seguida, emprendi6 su escritura". Cousté [1989:322] si spinge ancora oltre, ipo-
tizzando "que .haya estado gestandose en c'" interior acaso desde el mismo tiempo hist6- .
rico en el. que transcurre".
38 Rodriguez [2002:243].
36
ambulante" (o più prosaicamente insegnante a domicilio di filosofia), è un
diario ellittico e deliberatamente costruito secondo una parabola senza
punto d'arrivo; la sua redazione, dopo aver coperto discontinuamente il
periodo fra il 1 gennaio del '35 e il '30 ottobre del '36, si interrompe brusca-
mente e del suo autore ferito nei bombardamenti non resta che una laconi-
ca notizia fornita dall'immaginario editore: "Tard6 mucho tiempo,en sanar.
Pero no muri6. Por ahi anda... "39.
Hamlet Garcia (il cui nome improbabile, fusione di aulico e quotidia-
n0 , già da solo basta a collocare tutto il romanzo in una prospettiva non
4O
solo, ma anche, simbolica) è un intellettuale completamente impermeabile
per ferrea vocazione alla realtà concreta che lo circonda: non tanto però
come il saggio nella torre d'avorio, quanto piuttosto come un particolarissi-
mo "hombre - Via Lactea", una costellazione "desparramada sin objeto, ni
contorno en la noche de la vida contemporanea,"41, nebulosa che scivola tra-
sparente sugli eventi senza esserne modificata nella sua intima costituzione
gassosa, priva di contorni e di limiti finiti. Di fatto egli, come ricorda Mufioz
Molina 42, appartiene di diritto' alla famiglia dei tanti uomini senza sostanza
e "senza qualità" che affollano la letteratura' europea delle prime decadi del
novecento; è, a tutti gli effetti, un "héroe fragmentario"43. Il professor Garcia,
che impariamo a conoscere nella prima parte del romanzo, "Definiciones",
è sfiorato solo superficialmente, e soprattutto solo a livello 'intellettuale, dal
grossolano tradimento consumato dalla moglie Ofelia col commesso del
39 Paulino Masip, El diario de Harnlet Garcfa, Madrid, Visor Libros, 2001 (la ed.
1994), p.279. D'ora in avanti citato come Diario".
40 Naharro-Calder6n [1993:227] parla giustamente di "dicotomia patronimica"; Muro
[2001:304] dal canto suo -osserva che "El nombre del protagonista (adelantado al titulo eo
un acto ostensivo) es altamente significativo y anticipador de complejidad. Por clara inter-
textualidad rernite con el nombre al prot6tipo literario de la dueta y la crisis;. con el ape-
lido (decididamente comun, en espanol) se hace colisionar lo literario con lo 'real', lo ele-
vado con lo ras a suelo".
41 Diario, p. 19.
42 Cfr. Munoz Molina [2001:10].
43 La definizione, non serve sottolinearlo, è stata coniata per i protagonisti di tutta
una serie di romanzi fondanti della letteratura novecentesca, da quelli della Woolf a quel-
li di Joyce ,fino ovviamente a Katka, senza tralasciare l'indimenticabile professor Kien di
Auto dafé di Canetti; quanto Garcia Peinado [1998:131J dice di loro ben si applica anche
al nostro Hamlet Garcia: -el universò novelesco en el que se mueven es concebid<:> como
un juego de reiaciones entre 'conciencias fragmentadas e inseguras de si mismas, tanto
como del propio mundo en- el que viven. -Son seres opacos para ,si rnismos, borrosos o
casi invisibles para ellector, son héroes 'sin atributos' como ya defioia la novela de Robert
Musil, e incluso héroes sin nombre, como ocurre en El proceso de Kafka-.
37
negozio di ultramarinos; gli aspetti della vita materiale gli sono indifferen-
ti o addirittura ignoti, se è vero che la mera .preparazione di un c·affè supe-
ra tutte le sue possibilità; la militanza politica, ma anche il semplice inte-
ressamento alle vicende del paese sono quanto di più lontano dalla sua
indole atarassica, la cui maggior aspirazione è quella di essere lasciato in
pace, a tu per' tu con la propria intelligenza speculativa o con le lezioni di
filosofia impartite in privato agli studenti. In un'esistenza basata su tali pre-
supposti, l'atrocità della guerra civile è vissuta e raccontata da Hamlet, nella
seconda parte del Diario intitolata appunto "La guerra", con un misto di per-
tinace indifferenza e di involontaria, quasi osteggiata presa di coscienza: la
catastrofe a quanto sembra non produce in lui nessun cambiamento sostan-
ziale ma, questo sì, lo obbliga al contatto con una realtà fino ad ora costan-
temente esclusa dai suoi orizzonti logici e spirituali. I drammi di una Madrid
assediata e ferita si disegnano con forza e tragica concretezza sul passivo
schermo mentale del filosofo e, ·nonostante la resistenza che egli oppone,
lo penetrano più di quanto sia ad ammettere. Rimasto solo in città
dopo che moglie e figli si sono trasferiti ad Avila per una villeggiatura appa-
rentemente definitiva - dato che essi scompaiono dalla narrazione senza
praticamente lasciare traccia - Hamlet percorre nella fantasmagorica notte
del 18 luglio le strade della capitale in ce'rca della cameriera Cloti, la cui
improvvisa sparizione lo turba più che altro per i suoi risvolti di economia
domestica. Nel suo allucinato peregrinare il filosofo tocca per la prima volta
con mano la sofferenza e la carica vitale di quel mondo che lui ha finora
considerato senza senso di superiorità, ma "con frialdad objetiva y distante,
como una vez me asomé a un microscopio"44. Gli eventi e i personag-
gi - di carne e sangue, tutt'altro che metafisici - si susseguono nei mesi
seguenti in un mulinello che spazza la coscienza di Hamlet senza tuttavia
a fondo e la sua vita continua,pur nella forzosa emergenza che
necessariamente coinvolge tutti, in una lotta per mantenere la maggior
distanza possibile dagli avvenimenti che precipitano. Dalla sua stanza
Hamlet çqnte?1plà la notte su Madrid con un' estraneità che ricorda a tratti.
quella del Meursault camusiano affacciato al suo balcone di Algeri: "Desde
mi balc6n sigo las escet:las comoenuna pantalla de cinemat6grafo. mudo.
44Diario, p. 175. La frase, che Hamlet pronuncia a proposito del garzone con cui
Ofelia lo ha tradito, si adatta· perfettamente a· descrivere in maniera il rapporto
fra il protagonista e la realtà circostante, e continua così: "Si,debe de ser algo parecido,
porque no siento mas necesidad' de comunicarme con él que senti de hablarcon aquel-
las rayitas que pululaban en una gota de agua".
38
En los vanos gue dejan los tranvias, el silencio de la calle es muy grande.
Es un silenciode nevada. Si, parece como si hubiera caido sobre Madrid la
de una extrana clase de nieve roja gue amortigua ruidos de voces y
pisadas"45.
Solo nella terza e ultima parte del Diario, "La discipula", affiorano segni
premonitori di un vero coinvolgimento emotivo del protagonista con il
mondo esterno, ora nella sua giovane alunna Eloisa. La ragazza,
abbandonata a sé stessa dal padre costretto alla fuga per le sue idee rea-
zionarie, trasloca a casa del maestro, occupando il vuoto in cui egli si è
caparbiamente isolato.' Come per il pirandelliano Vitangelo Moscarda di
Uno, nessuno e centomila, anche per Hamlet 'Garcia è la sconvolgente sco-
perta di un anatomico mai notato prima (in questo caso le labbra
carnose, considerate inçlice di un temperamento sensuale che lui stesso non
si capacita di possedere) a innescare il dubbio, a illuminare di una luce dif-
ferente le cose e a scatenare la riflessione' sul proprio modo di rapportarsi
con la realtà. Le ultinle pagine del Diario di Hamlet rivelano, è vero, il fal-
limento, "la ineficacia y la falta de sentido de sus. defensas en el reino de la
,sinraz6n", come scrive Gul16n 46 , ma allo stesso tempo testimoniano final-
mente l'amara presa di posizione del protagonista. Se egli non si è mai pro-
nunciato apertamente per l'uno o l'altro bando (per quanto l'antipatia per
gli insorti e per l'ambiente militare sia sempre trapelata), lo fa ora, in manie-
,ra netta, nei Confronti di una tragedia assurda scaturita dalla comune
responsabilità degli uomini:
Estoy pariendo. Todos estamos pariendo. La guerra es el parto gigantesco de
. un utero multiple y monstruoso C, .. ).El 18 de julio a se le rompi6 la
bolsa de las S1, esto fue, esto es lo que sucedi6. Y comenz6 parto con
sus estertores y su marcha bestialhacia atras, y susalucinaciones y. sus dolores
ysu quedarnos ateridos de estupor y sus cruentbs azares y nuestros mugi-
dOS ... 47
Un anno prima del Diario, nel '43, la Editorial Stylo
cava la raccolta Historias de Amor. Dietro -a un titolo apparentemente gene-
rico si cela in realtà una descrizione quanto mai precisa e lineare del con-
tenuto di questo libro di racconti, che sono esattamente ciò che dichiarano
45 Diario, p. 155.
46 Gu1l6n [1983:229].
47 Diario, pp. 278-279.
39
di essere 48 • Sono dieci bistorias, storie, narrazioni brevi, ma anche Historias,
testi storici o meglio parastoriografici, dato che rappresentano altrettante
relazioni di fatti realmente accaduti a personaggi celebri del passato; sono
de Amor perché esclusivamente di questo trattano: di avventure amorose
concrete in alcuni casi, di percorsi esistenzial-se·otimentali in altri. La rela-
zione segreta fra Napoleone e la contessa Walewska, i presunti amori fra il
conte di Villamediana e Isabella di Borbone, i tragici matrimoni di Lucrezia
il suicidio di Larra, le mille donne di Goethe, la passione di Maria
Luisa per il guardia de Corps Godoy... seguendo un tracciato non lineare
(almeno non dal punto di vista cronologico) e accordando una marcata pre-
dilezione alle storie nazionali spagnola e francese, Historias de Amor con-
duce il lettore attraverso dieci stampe raffinate, spesso permeate da un trat-
tenuto erotismo e dalla contemplazione della trasgressione, mantenendosi
perfettamente in equilibrio fra bistoria e ficcion. Infatti Masip
ha investigado siempre los periodos y los personajes que novela, ha procura-
dono alejarse nunca de las coordenadas de lo verdadero, aunque de ellas
extraiga numerosas posibilidades ficticias, y ha usado siempre discretamente
C•••) del don de la interpretaci6n y de la extrapolaci6n, al producirse el salto de
lo pliblico y conocido a lo intimo y desconocid0 49 •
Difficilmente si potrebbe aggiungere qualche osservazione degna di
interesse al completissimo studio di Manuel de las Rivas 50, al quale riman-
do per un accurato commento della raccolta e della sua genesi.
Nel 1949, dopo' diversi anni in cui l'impegno cinematografico ha assor-
bito quasi del tutto le energie creative di Masip, vede la luce· una seconda
narrativa, De quince llevo una. Privi di intenti irinovatori, lontani da
qualsiasi velleità sperimentalistica, questi racconti presentano sostanzial-
mente un'impostazione molto classica e, va riconosciuto, in linea con tanta
48 Ricordo in proposito la distinzione operata da Genette [1989:79 e segg.l fra titoli
tematici, ossia orientati alla designazione del contenuto o oggetto centrale dell'opera, e
rematici, ovvero titoli che rinviano all'indicazione del genere o della forma dell'opera
stessa: «L'opposizione fra i due tipi tematico e rematico non -determina (...) un'opposi-
zione -parallela tra due funzioni (...). I due procedimenti svolgono piuttosto diversamen-
te e alternativamente (a parte i casi di ambiguità e sincretismo) la stessa funzione, quel-
la cioè di descrivere .il testo attraverso una delle sue caratteristiche, (questo libro
parla di ...) o rematica (questo librò è ...). Chiamerò dunque questa funzione comune la
funzione descrittiva del titolo- [1989:88].
49 Rivas [2001:207].
so Rivas [2001].
40
prosa di consumo del periodo prebellico; perfino il loro numero comples-
sivo, la cifra tonda dieci, sembra rispondere a criteri di estrema tradiziona-
lità. È anche vero che l'appello così diretto all'intelligenza del lettore; che fa
del Diario una vetta inarrivata nella produzione di Masip, è in queste nar-
razioni se non assente appena accennato; globalmente tuttavia esse forma-
no un insieme solido e sicuramente. godibile, a patto di tenere in conto che
las historias de Masip estan narradas desde mentalidades pequeno-burguesas y
para la pequefta burguesia espaflola de la primera mitad del siglo
senza maggiori che
"desenmascarar la ideologia y las emociones de sus personajes a través de sus
propias palabras 51. .
Sottolinea particolannente Caballé, a proposito degli. anni messicani di
Masip, che ."las huellas entonces san mucho tnas vagas y, en definitiva, es poco
lo que sabemos del eseritor". Sappiamo tuttavia che nel 1950 la moglie e la figlia
maggiore di Masip, Dolores, rimpatriarono, mentre "Paulino no quiso venir
nunca a Espafia mientras Franco estuviera en el poder, a pesar de que le hicie-
ron diversos ofrecimientos para trabajar como periodista"52. Concepì, è vero, l'i-
dea di raggiungere la frontiera franco-spagnola per ricongiungersi almeno
un'ultima volta con"la madre, lasciata in Spagna nel '39, ma il progetto non andò
in porto e i due non si rividero mai più: la donna moti nel 1955.
AI 1953 risale la pubblicazione del romanzo La aventura de Marta
Abrii, al quale dedichiamo più avanti una sezione di commento.
L'ultimo libro pubblicato di Paulino Masip è· una nuova raccolta narra-
tiva, questa volta non più di racconti ma di quattro novelas breves: si tratta
di La trampa (1954) che contiene" oltre al testo omonimo, Un ladr6n, El
gafe o la necesidad de un responsable e .El bombre que perdi6 los bolsillos.
Sono queste, secondo Garcia Posada,
cuatro magnfficas nouvelles. (...) Las dialogos cortantes, incisivos, laagilidad
narrativa, la limpieza de" la prosa y la siempre potente observaci6n de la reali-
ciad -dato esencial- hacen de estas piezas una delicia. No son s610 un diverti-
mento: sobreabundan de sustanciahumana, existencial53 •
51 Gonzalez de Garay [1992:42].
52 Caballé [1987:18].
53 Garcia-Posada [2003].
41
Nonostante l'altissimo potenziale letterario di La trampa, tuttavia, il nome
della casa editrice che la pubblico (Ardevol) coincide col secondo cognome
del padre di Masip, il che fa congetturare a Gonzalez de Garay che "la edi-
cion corrio por cuenta del autor"54. Effettivamente sembrano ormai lontani i
tempi in cui Masip poteva contare su un certo apprezzamento da parte degli
editori e del vasto pubblico, mentre anche il mondo del cinema, per il quale
tuttavia egli continua a lavorare alacremente, sembra in un certo modo aver-
gli voltato le spalle. Così almeno consta dall'amara nota che Max Aub riporta
nei suoi Diarios il 22 settembre 1963, giorno Jel funerale di Masip:
Muri6 de pena, olvidandose - queriendo olvidarse, del mundo; viéndose olvi-
dado. El vacfo en el que cayeron sus libros Cyo lo saqué a flote., porque se lo
merecfa), el olvido en que le tuvieron los productores cinematograficos le
amargaron el final de su vida, antes de hundirse en el desconocimient0 55 .
cf'
Ed è sempre Aub a informarci, con commozione, del progressivo dete-
rioramento delle condizioni fisiche ma soprattutto mentali dell'amico, che
già nel 1960 apparivano francamente drammatiche: .
Se da cuenta, le asoman las lagrimas a cada momento cuando se acuerda de
algun heçho C...). Falta de riego cerebral. Ojala piense como esta; es
decir,. ojala no coordine dandose cuenta de su aspecto lamentable. C...) lD6nde
subuen juicio? No recuerda, pero si le cuentan lo sucedido,
/ . .
vuélvenle las ima-
genes y le asoman las lagrimas 56. .
. Gli anni seguenti naturalmente rappresentarono per Paulino Masip l'at-
to conclusivo di un crepuscolò in caduta libera. Ormai incapace di inten-
. dere e di volere, ottenebrato da una grave forma di demenza senile, fu tra-
sportato di forza all'ospedale psichiatrico di Cholula il 16 luglio del '63, dove
trascorse gli ultimi giorni di vita sotto lo sguardo vigile di infermiere e a'usi-
liari 57 • Morì nel mese di settembre, all'età di 64 anni.
Nelle pagine che seguono proporre una lettura d'insieme di La
Aventura de Marta Abril, unad.elle poche opere dello scrittore che ancora
non hanno goduto di quel processo rivalutativo giustamente meritato da
buona parte della sua produzione.
54 Gonzalez de Garay [2002:9].
55 Max Aub, Diarios (1939-1972), Barcelona, Alba Editoria!, 1998, pp. 343-344.
56 Max Aub, Diqrios (1939-1972), op. cito pp. 311-312.
57 Cfr. Max Aub', Diarios (19J9-1972), op. cito p. 342.
42
Il giudizio che Sanz Villanueva espresse oltre venticinque anni fa sul
secondo e ultimo romanzo di Paulino Masip è, nella sua complessiva seve-
rità, allo stesso ten1po categorico e possibilista. Dopo aver tessuto calorose
lodi del Diario, il critico aggiungeva con malcelato disappunto che
No otro tanto puedo decir de La aventura de Marta Abril (1953), novela en la
gue la agilidad y precision narrativa contrasta con un argumento en apariencia
( ...). La novela puede ser tanto un habil parodia de cierta literatu-
ra del corazon como un corriente folletin subliterario. C...) La primera impre-
sion de lectura es la de un desconcertante cambio de tono literario en un escri-
tor en el gue seria de esperar otro tipo de literatura 58 •
Più morbida, ma in definitiva sempre poco lusinghiera, la breve anali-
Bi -di Anna Caballé, che si conclude rotondamente così: "su lectura decep-
ciona a quien espera hallar cierta continuidad con respecto a su novela
anteriore Tal vez pueda reprocharsele a Masip una falta .de rigor critico en
la composici6n de algunas de.sus obras"59. E perfino Gonzalez de Garay,
entusiasta sostenitrice di tutto quanto è uscito dalla penna di Masip, sembra
fornire in fondo una versione edulcorata dei medesimi concetti:
padria reeditarse sin disdoro augue s6lo fuera por lo que resulta la
parodia-.homenaje de las nbvelas folletinescas y de cierto aspectos de la p.ove-
la erotica, por el buen disefio de su parad6jica y atractiva protagonista, y por
la' fervorosamente ironica y minuciosa delatacion gue se trasluce en las des-
cripcio.nes referidas al 'arte de vivir' (... )60.
Bisogna ammettere che, a partire dalla presentazione pubblicata nei
risvolti di copertina dall'editorè dell'unica edizione messicana, il romanzo si
presenta a prima vista come un prodotto, se non del tutto scadente, per lo
mèno lI1:oltoordinario: una storia di intrighi sentimentali tinti di mistero,· che
promettono al lettore qualche ora di svago e nulla più. Sin dalle pagine ini-
ziali però è difficile non rendersi conto che ci troviamo di fronte a qualco-
sa di diverso e di migliore. Il fatto che -davvero la lettura del romanzo sia
piacevole e non richieda particolare impegno intellettuale, se quello
indispensabile per apprezzare le numerosissime trovate linguistiche, le allu-
58 Sanz Villanueva [1977:167].
59Caballé [1987:46], corsivo mio.
60 GonzaJez de Garay [1992:34].
43
sioni letterarie e culturali, la veroe raffinata che affiora in ogni momento
della narrazione, non deve rappresentare di per sé stesso un elemento deci-'
sivo a sfavore della diagnosi complessiva. Estrapolando dal citato commen-
to di Sanz 'Yillanueva alcune parole chiave otteniamo iJ? effetti un'idea abba-
stanza precisa, dei rapporti che legano L'Aventura all'immancabile pietra di
paragone, il Diario: lo stile di scrittura di Masip si conserva inalterato nella
sua "agilidad y precisi6n narrativa", ma la scelta di un "argumentoen apa-
riencia deleznable" (specie se arbitrariamente comparato alla complessità e
alla profondità pressoché inesauribili offerte da un tema come la Guerra
Civile) porta inevitabilmente aun "cambio de tono literario", che di per sé
non implica necessariamente uno scadimento, ma di certo situa il romanzo
su un piano del tutto differente e richiede pertanto diversi strumenti di valu-
tazione. Ciò premesso, e tornando a ribadire che mai uno studio del-
l'Aventura, per approfondito che sia, conduiTà a una sua totale riabilitazio-
ne al cospetto di una creazione magistrale come il Diario, non sembra par-
ticolarmente produttivo istituire ulteriori raffronti fra due opere tanto distan-
ti, prima ancora che nei risultati, nelle intenzioni. Il Diario era un romanzo.
tremendamente serio costantemente percorso da guizzi di acuta e dolente
ironia; la Aventura è innanzitutto un divertiss"!"ent brillante e ricco di spiri-
to, in cui emergono in prima istanza le capacitàistrioniche di un narratore
di grande, talento e la sua volontà di sorridere e far sorridere. Non si dimen-
tichi, fra l'altro, che quando Masip mise mano al nuovo libro la sua carrie-
ra artistica aveva già da tempo subito un mutamento di rotta sostanziale, che
lo aveva avvicinato, specie attraverso l'intensa esperienza cinematografica,
ad un pubblico vasto e non troppo esigente, il quale verosimilmente diven-
ne il suo principale (n<;>n unico) referente anche relativamente alla produ-
zione letteraria. Del resto non è neanche corretto parlare di "mutamento di
rotta", e l'averlo fatto conferma che anche noi siamo caduti in quell'errore
Diarlo-centrlco èhe tentiamo di confutare: Masip di 'fatto non restò mai lon-
tano da quel genere di pubblico e dal quel tipo di scrittura di evasione; non
nelle sue collaborazioni con i giornali spagnoli (specialmente Estampa, di
vocazione apertamente leggera), non nelle sue opere teatrali, tutte di stam-
po comico,. le neppure nelle sue precedenti opere narrative, corneo si è visto
a proposito di Historias de Amor e De quince llevo una.
Non è semplice stabilire in termini assoluti a quale genere appartenga
l'Aventura: se certamente il tema amoroso occupa uno spazio centrale e
costituisce virtualmente l'asse .portante della trama, il romanzo non si esau-
risce esclusivamente in esso, o meglio non lo. fa nei modi e nello stile tipi-
ci di quella che, nella concezione comune, viene considerata letteratura rosa
44
di basso livello:, invano ce"rcheremmo fra le pagine della storia di Marta Abril
un intreccio all'insegna dei più abusati con personaggi privi di risvol-
ti psicologici elaborati, situazioni prevedibili o basilari colpi di scena, e inva-
, \
no cercheremmo una scrittura sciatta e priva di qualità letterarie; ma soprat-
tutto, non troveremmo mai e poi mai la volontà di toccare nella maniera più
diretta possibile le corde di un facile sentimentalismo, effetto che anzi appa-
re del tutto avulso dalle intenzioni dell'autore.
Anche l'ipotesi più generosa di Sanz Vil.laolleva - che cioè la Aventura
rappresenti l'abile parodia di un sottogenere di scarsa qualità - non rende
completamente giustizia alla reale essenza del romanzo, che presenta
indubbiamente spunti parodici, a volte esplicitamente marcati come vedre-
mo, ma non può essere drasticamente ridotto ad un semplice scherzo, una
specie di esperimento o passatempo. In ogni caso, sull'indiscutibile e stret-
to rapporto che lega l'Aventura al genere del folletin - che da parte sua
Masip aveva praticato in piena regola e senza pregiudizi di sorta 61 - ritor-
neremo più avanti. Prima di procedere con qllalche spunto di analisi infat-
ti è opportuno riassumere brevemente, ma non troppo per non sacrificare
molti dettagli gustosi, la trama di questa A ventura.
Marta Abril, trentenne sessualmente e culturalmente (è di-
plomata in farmacia) e, se non proprio di facili costumi, certamente molto
lontana dalparadigma classico della mujer bonrada, viene contattata da
un'antica fiamma, l'uomo d'affari Enrique Iturralde, per un lungo viaggio in
Europa: il suo ruolo sarà, in società, quello di moglie perfetta, dato che l'at-
tempato imprenditore ha bisogno di una presenza femminile da esibire al
proprio fianco per meglio concludere le sue importanti trattative. Dopo
qualche debole titubanza Marta accetta e i due, che nell'intimità condivido-
no solo una profonda amicizia basata sulla stima reciproca, si comportano
in pubblico, fra hotel, ristoranti e incontri mondani, come ul).'affiatata cop-
pia di· coniugi, che per la differenza d'età risulta agli estranei ancora più soli-
da e ammirevole. La finzione riesce perfettamente, tanto che ad Atene
Rafael Varea, chitarrista spagnolo in tournée, si innamora perdutamente di
Marta proprio per le sue supposte virtù di onorata matrona, di donna fede-
le, integefrima e irraggiungibile. Marta dal canto suo, per la prima volta no-
nostante la grande esperienza in fatto di uomini, capisce veramente cosa sia
l'amore e- ricambia ardentemente la passione di Varea; ma la. situazione in
cui si viene. a trovare l'insolito triangolo si rivela ben presto paradossale. La
61 Supra, nota 32.
45
donna, cedendo alle lusinghe dell'uomo che ama, non solo rovinerebbe
l'immagine del proprio "marito" ufficiale, ma soprattutto, svelando la verità,
perderebbe d'un tratto tutto ciò che la rende tanto speciale agli occhi del
suo pretendente. Fra rimpianti e 'struggimenti interiori, che tuttavia lasciano
al lettore un'impressione molto più amena che commossa, Marta sceglie di
recitare fino in fondo la propria parte, e la storia si conclude per il momen-
to con il ritorno in Spagna della fasulla coppia di sposi: termina qui la prima
parte del romanzo.
La vicenda tuttavia ha segnato a fondo l'animo della protagonistà, che
decide di cambiare radicalmente vita; tagliati i ponti con le amicizie e gli
ambienti passato, Marta sparisce per qualche tempo e finalmente torna
a farsi viva per chiedere un prestito a Iturralde: per diventare davvero una
donna onorata deve innanzitutto guadagnarsi la propria indipendenza e con
somma di denaro potrà, rilevare una farmacia, mettendo così
un po' di ordine, nella propria esistenza. Nel frattempo però Don Enrique,
per districarsi dalla scomoda situazione matrimoniale da lui stesso, escogita-
ta ed evitare che l'inganno venga a galla, "ha pensato bene di comunicare a
tutti i suoi conoscenti la morte dell'adorata moglie. La scena in cui Marta
viene a sapere della propria dipartita, attraverso la candida confessione di
Iturralde, è fra le più spassose del romanzo. Se la protagonista voleva rifar-
si una vita da zero non si può dire adesso le manchi l'occasione.
La terza parte dell'Aventura vede l'intraprendente Iturralde nuovamen-
te in viaggio, a Parigi, dove guarda caso si trova anche Rafael Varea per
'un'altra stagione di concerti. Inutile dire. che l'imprenditore non sa resistere
alla tentazione di incontrare il chitarrista e approfittarne per divertirsi a sue
spese; in una cena dopo-spettacolo Varea, disperato per la morte di Marta,
rivela incipienti segni di follia amorosa e la situazione rischia di sfuggire al
controllo di Iturralde, che tuttavia, accumulando menzogne su menzogne,
riesce a mantenere in piedi la farsa ai danni dello sfortunato amante. Tor-
nato a Madrid puntualmente tutto alla sempre più infuriata l\1arta,
la quale di .apprende" che del proprio co'rpo, cremato e disperso
nell'oceano, non restano più nemmeno le spoglie: un piccolo accorgimen-
to impedire a Varea di offrire un tributo alla tomba della
donna amata.
La certezza di essere ancora nei pensieri del suo unico vero amore tut-
tavia rinvigorisce nell'eroina la ,mai sopita passione per lui, e la porta alla
decisione di tentare il tutto per tutto; sistemate .le questioni pratiche della
farmacia, che resta affidata ad interim al suo assistente Norberto Cousas,
Marta sale sul primo treno per Parigi. Durante il viaggio, un pericoloso
46
incontro col diplomatico Monasterio, che aveva conosciuto e segretamente
amato Marta ad Atene, rischia di mandare tutto all'aria, ma è lo stesso
Monasterio a risolvere il problema, aggiungendo un nuovo elemento all'in-
garbugliata pantomima: la donna che pranza nel vagone ristorante non può
essere altri che la gemella della defunta Marta Abril. Naturalmente Marta si
aggrappa.a questa ennesima messinscena per uscire indenne dalflero tran-
ce che la intrappola, e resta così ufficialmente ribattezzata con la sua nuova
identità: Guadalupe Abril. Arrivo a Parigi, fine della terza parte.
Nella capitale francese, dopo qualche ricerca, Marta rintraccia l'albergo
di Varea e vi si istalla in .incognito, preparando con ogni dettaglio la pr9pria
riapparizione: non si tratta di rivelare tutta verità al chitarrista, né tanto
meno di portare avanti la finzione· della "gemella" ("todo menos que Rafael
engafte conmigo misma") 62, ma piuttosto di organizzare una nuova
simulazione. Se Varea, ancora assillato dal ricordo di Marta, aveva.a suo
tempo confidato a Iturralde che tutte le sere il fantasma di lei gli appariva
durante lo spettacolo, al prossimo concerto Marta sarà in platea, travestita
da spettrale vedova nera con tanto di silenziose suole in sughero, per raf-
forzare l'illusione di un'apparizione fantasmatica. La scena, va da sé, si risol-
ve fra l'ilarità degli altri spettatori e la costernazione incredula di Rafael, ma
non .aggiunge nulla di 'concreto allo sviluppo della situazione: è necessario
escogitare un nuovo piano per arrivare, sia detto con chiarezza, a "una .
noche de amor con todas las de la ley" 63. Lo strampalato stratagemma del
fantasma "può ancora tornare·· utile, certo con qualche variante. Questa volta
Marta, novella dama duende e complice selVetta dell'hotel, si introdur-
rà nottetempo in camera del suo adorato, avviluppata in garze e veli bian-
chi, e gli si concederà voluttuosamente come in sogno. Secondo e ultimo
fiasco: Varea si sveglia di sopr':lssalto e fugge. in preda al panico per i corri-
doi dell'albergo.. A sua volta il candido spettro, ridotto.dallo choc a uno stato'
di semi-incoscienza, si rifugia in camera sua e all'alba riparte per la Spagna.
Durante il di ritorno, superato un lungo momento di, inerzia e tota- .
le apatia, Marta sembra risvegliasi alla vita, tornare in sé: realizza repenti-
che il vero fantasma, in tutta la vicenda, è stato proprio Varea, un
simulacro da lei stessa inventato per giustificare il proprio bisogno di cam-
biamento, di redenzione, la' sua necessità di diventare una donna diversa. Il
62 Paulino Masip, La aventurade Marta Abril, México D.F., Editorial StyIo, 1953, p.
237. D'ora in avanti citato come Aventura.
63 Aventura, p.
47
rientro a Madrid, è calorosamente, festeggiato dall'aillto farmacista Norberto
e soprattutto da Iturralde, che chiede la mano di Marta in nome dell'antico
affetto che li unisce.
Un "Epilogo", a mo' di quinta parte, rende conto della totale risoluzio-
ne del complicato intreccio. Guadalupe, ormai definitivamente gemella
della defunta Marta, le proprie nozze con l'uomo che più di tutti ha
stimato in vita sua, mentre lo stesso Varea, per sempre liberato dall'osses-
sione di Marta, si è nel frattempo ·sposato con Dona Matilde - ricca vedova
che da tempo lo corteggiava. Due bimbe (ovviamente chiamate Marta
Guadalupe e Guadalupe Marta), coronano il sogno di rinascita della prota-
gonista. Un lieto fine convenzionale e un tanto sdolcinato? Forse sì, ma
anche inaspettatamente velato dalla chiosa conclusiva del narratore: "Hasta
el ano 36 estuve en relaci6n intermitente con' ellos (...). Eran perfectamen-
te felices. Cuando empez6 la guerra civil se me perdieron. Ellos quizas pien-
sen que el· gue se ha perdido soy yo"64.
La prima impressione che ricaviamo dalla del romanzo collima
con quanto sosteneva Max Aub, il quale a proposito di La aventura de
Marta Abril parlava di un "gusto para naturalmente circustancias y
hechos inverosimiles"65. Le situa·zioni più improponibili nella vita reale
popolano con naturalezza le pagine del'libro, dando con la loro coerenza
interna' la momentanea illusione che si tratti di avvenimenti in fondo possi-
bili: un'abilità,guesta, perfettamente padroneggiata dagli sceneggiatori delle
odierne soap-qperas televisive (ai tempi di Masip radiofoniche), che propi-
nano allo spettatore le vicende più indifendibili quanto a verosimiglianza,
ma perfettamente mascherate sotto le spoglie di normali affari di cuore
protagonisti, colti nella loro vita di tutti i giorni: E qui torniamo alla fertile
vocazione cinematografica di Paulina Masip. Caballé, sempre intorno a la
,Aventura, ricorda che' "varios criticos han sefialado su aspecto aparente de
gui6n cinematografico, ya gue scr trata de 'una comedia ligera, de facil y
rapidisima lectura,,66. A dire il vero, pers,?nalmente, sottolineerei più che
64 4'ventura, p. 318.
'65 La citazione, indiretta, è tratta da Caballé [1987:46], che tuttavia non menziona la
fonte.
66 Cfr. Caballé [1987:45], ma di nuovo non cita le fonti. Uno di questi "varios criti-
cos" sarà stato con tutta probabilità Nora [1973:33], il quale tuttavia si esprimeva in manie-
ra più, composita: "el estudio psicol6gico de los tipos (...) 'el movido y espectacular desar-
rollo de la trama ,(...) asi como la gracia escurridiza de una prosa vivaz y certera, situan
este libro muy por arriba de su primer aspecto aparente de gui6n cinematografico".
(Corsivo mio).
48
altro i numerosi ed espliciti legami con il genere drammatico, che a sua
volta non è estraneo alla produzione di Masip: legami che altri critici (in
concreto penso a Corbalan67) hanno appena suggerito.
Tanto per cominciare è lo stesso autore, per bocca dei personaggi o del
narratore, a non lesinare allusioni al carattere di rappresentazione che
sostanzialmente permea la vicenda in ogni suo momento. Che gli attanti
recitino costantemente ruoli e situazioni fittizie è risultato già evidente dal
semplice sunto della trama; ma il manifesto rimando al mondo della finzio-
ne scenica ricorre con tanta insistenza che. sarebbe assurdo non avvertirvi
un preciso segnale. Ancora nella prima parte, quando Marta e Iturralde si
fingono sposi ad Atene, la "moglie" si complimenta col "marito" che ha
simulato una crisi di gelosia di fronte al chitarrista Varea: "Has estado estu-
pendo. Por poco me asustabas a mi también. (...) Indica que eres un gran
actor. tNo te asustas y lloras en el teatro y sabes que todo aquello es men-
tira?" 68; poche pagine dopo, il narratore interpreta con piglio da critico let-
terario la situazione inestricabile in cui si trova la protagonista, enucleando
lui stesso le caratteristiche che fanno di questa storia, anche grazie all'am-
bientazione ellenistica, una tragedia: "Si, lo que pasaba a Marta era un ver-
dadera tragedia griega, puesto que reunfa tres de sus caracteristicas princi-
pales: la Intervenci6n del Destino (...). 2a Intervenci6n del Azar (...). 3à
Callej6n sin salida. (...)"69. Poche righe oltre, Marta stessa propende, nella
propria autoanalisi, per un altro genere drammaturgico: "Porque esto, bien
mirado, es de comedia...Y si no' doliera tanto seria como para partirse de
risa"70. La fusione di· serio e ridicolo, tanto essenziale nella tradizione dram-
matica barocca spagnola, ···nonché ovviamente nel teatro europeo della
prima metà del Novecento, che fa dell'elemento tragicomico (e a maggior
ragione grottesco) una delle sue cifre fondamentali - si pensi a Valle-Inclan,
ai surrealisti, a ·Brecht...- non rappresenta una reale componente del roman-
zo di Masip: non c'è nulla di veramente tragico, o presentato come tale,
nell'Aventura. Tuttavia, davvero sembra di dover ravvisare un richiamo pro-
grammatico all'orizzonte teatrale proprio nell'allusione continua ad una tra-
gicomicità che effettivamente non esiste nel romanzo se non grazie alla sua
ostentazione metaletteraria. Troppe volte il concetto è ribadito nel corso del .
67 Cfr. Corbalan [1987:12]: "ellibro adquiere rasgos escénicos que revelan la mano
de un narrador tentado parel autor teatral que lleva dentro".
68 Aventura, p. 74.
69 Aventura, pp. 77-78.
·70 Aventura, p. 83.
49
romanzo perché possa essere inosselVato; durante la scena in cui si decide
a chiedere a Iturralde il prestito per la farmacia, ad esempio, Marta "se resi-
stia a hacer comedia lo gue para ella era drama"71; e più avanti di nuovo,
quando Iturralde gioca con i sentimenti del chitarrista a Parigi: "esta escena
que imagin6' c6mica y le 'estaba saliéndo tragica sin acabar de serIo por falta
de una motivaci6n verdadera. (...) pero bastaba- para gue la comedia se con-
virtiera en drama"72. Non, vorremmo allungare a dismisura la lista delle cita-
zioni di questo tenore,. che tuttavia si susseguono abbondanti fino alla fine
del libro. Una di esse, lasciando da parte i generi classici della tragedia e '
della commedia, chiama in causa un'ulteriore tipologia teatrale, questa tipi-
came·nte novecentesca, che altrettanto bene si adatta a descrivere lo spirito
dell'Aventura de Marta Abril: la cameriera dell'hotel parigino si presta senza
complimenti ad appoggiare Marta nella sua macchinazione perché "habia
visto demasiados vodeviles en el teatro y en la realidad parisién para no
estar curada de espantos"73.
Ma, riferimenti espliciti a parte, l'universo teatrale entra in quello lette-
rario del romanzo attraverso una fitta trama di elementi sia argomentali sia
strutturali. Prendiamo i concerti di Rafael Varea, che scandiscono i momen-
. ti clou storia e si situano- senza nessuna eccezione - ai suoi punti di
snodo cruciali (il primo innamoramento di Marta ad Atene; l'incontro fra
lturralde e Varea a Parigi; il ricongiungimento fallito fra Marta e Varea nel-
l'ultimo capitolo): non solo i recital in quanto tali, ma anche le platee con
le loro butacas, i foyer, i camerini .dell'artista, gli applausi scroscianti o i
commenti del pubblico, le carteleras 74 , insomma tutte le atmosfere di un
mondo che Masip conosceva dall'interno, e molto bene, imprimono il loro
'71 Aventura, p. 128.
72 Aventura, p. 181.
73 Aventura, p. 280, corsivo mio.
74 Iturralde, giunto a Parigi per affari, si procura una copia del Paris-Midi e si
ma su come trascorrere le serate libere: "Salto a la cartelera... teatros serios... paso, paso...
teatros frfvolos... pocas novedades, pero hay que verlas... y, de pronto, un grito ahoga-
do frente a un 'entrefilet': 'Sala Gaveau. Hoy recital de guitarra por el famoso artistaespa-
fiol Rafael Varea, a las ocho y media.. / " (Aventura, p. 162). Ed ecco che anche ·il gusto
del pubblico medio, che salta a pie' pari i 'teatri seri' e si concentra su quelli 'frivoli', rice-
ve la sua piccola stoccata sarcastica. Un ulteriore riferimento al pubblico teatrale, questa
volta equiparato, con raffinata allusione, al· vulgo alla Lope o alla Calder6n, appare in un
altro momento del romanzo, quando ·si narra come Varea, pur avendo ricevuto
notizia della mqrte di Marta, deve affrontare ugualmente le platee: "Una vez mas se impu-
so la implacable, servidumbre del artista frente al tirano de las mil cabezas." (Aventura,
p. 242, corsivo mio).
50
segno distintivo ai punti cardine della narrazione, lasciando al lettore la vivi-
da di aver assistito, quasi fisicamente, ad uno spettacolo.
Pure di matrice genuinamente teatrale sono numerosi spunti tematici
che contribuiscono· a dar corpo alla trama. Il gioco degli equivoci e dello
scambio di persona (Marta - Guadalupe), il motivo del travestimento (Marta'
- fantasma), il finale così smaccatamente artificiale e perfetto, con tanto di
matrimoni multipli (Marta con Iturralde, Varea con Dona Matilde e, non,l'a-
vevamo detto, Norberto Cousas con la sua fidanzata cubana, quasi fossero
i graciosos complementari alle due coppie principali di galanes e damas)
sono tutti ingredienti basilari di ogni comedia che si rispetti, mentre il tema
della finta morte dell'amatola, fatta credere con l'inganno all'amante, ricor-
re èome si sa in modo ossessivo nel dramma storico romantico.
E veniamo all'aspetto strutturale del romanzo. Il fatto che sia diviso in
cinque parti (quattro più l'epilogo, che comunque presenta un'estensione di
diverse pagine) e che ognuna di esse' sia a sua volta segmentata in capito-
letti numerati (scene? quadri?) farebbe pensare alla tradizionale scansione
delle pièces della grande stagione romantica 75; ma avventurare apertamente
questa ipotesi potrebbe sembrare una forzatura. Potrebbe, se non fosse che
proprio Don Enrique Iturralde, guarda caso giusto a metà della "Tercera
Parte", proclama senza indugi: "Me parece que estamos en el tercer acto y
pronto tendremos' un finai con boday apoteosis"76.
L'utilizzo che Masip fa del dialogo e del monologo interiore77 ,:onforta
ulteriormente, se ancora ce ne fosse bisogno, la tesi che La aventura de
Marta Abril sia un romanzo fortemente intriso di teatralità, e la prima dimo-
strazionearriva sin dalla pagina iniziale. Tutta la telefonata fra Marta e
Iturralde con la quale si apre la storia, e che il narratore afferma "reprodu-
cir al pie de la letra'" è di fatto un esteso dialogo scenico, con divisione delle
battute, nomi dei'personaggi all'inizio di ognuna di esse e didascalie fra
parentesi78. La stessa tecnica, pur non essendo di per sé non particoiarmente
75.Con l'importante eccezione di Zorilla, i cui drammi erano ridotti com'è noto a tre
atti o jornadas.
76 Aventura, p. 206.
77 Il'monologo interiore lo stream ofconsciousness - come ognuno sa rappresenta una
delle innovazioni tecniche più tipiche della narrativa novecentesca. Non si. tratta pertanto di
stabilire qui un legame tra il romanzo di Masip e la sua componente teatrale a partire del-
l'impiego del monologo, 'quanto piuttosto di tale fattore in un più vasto insieme di
elementi, che, consideratri nel loro complesso, S1 concorrono alla caratterizzazione dell'ope-
ra come testo dotato di esplicite reminescenze teatrali. Cfr. anche infra, nota 80.
78 Aventura, pp. 7.;.14. .
51
originale, ricompare identica più tardi, in una serrata sticomitia fra Marta e Varea
che si salutano imbarazzati dopo una giornata trascorsa da soli fra le meraviglie
di Atene 79 • Al di là di questi due veri e propri brani di copione, il dialogo diret-
to libero gioca un ruolo fondamentale in tutto il libro: si sostituisce praticamente
alla narrazione nelle numerose scene d'interno (un tavolo di ristorante e l'uffi-
cio di Iturralde sono gli ambienti più comuni) in cui i personaggi discutono e
si raccontano le stesse vicende che costituiscono l'intreccio del romanzo, e
soverchia in modo assoluto il dialogo indiretto riportato dal narratore. Anche il
monologo, soprattutto per quanto riguarda Marta, riceve un suo spazio ben pre-
ciso" e in diverse occasioni la sua estensione è notevole: quasi tutte le volte in
°
cui la protagonista esamina i propri sentimenti fa il punto della situazione,
solitamente nell'intimità di una stanza da letto, il suo ragionare è riportato fra
virgolette so• Nei momenti in cui prende il sopravvento il narratore (che per grati
.parte del romanzo crederemmo onnisciente ma eterodiegetico, e che invece in
alcune occasioni dice "yo" e dichiara di conoscere personalmente i protagoni-
sti),·si·chiarlsce però il punto· di vista attraverso cui è messa a fuoco tutta la sto-
ria: non certo quello della protagonista, quanto piuttosto quello di chi, essendo
al corrente di tutte le vicende, ma estraneo ad esse, le riferisce con sorniona
equidistanza e abbondanti considerazioni personali.. Il discostamento fra quan-
to i personaggi pensano e credono di sapere e ciò che effettivamente conosce
il lettore costituisce di fatto il principale strumento attraverso cui si esercita l'i-
ronia di questo narratore, che non fa nulla per rimanere nell'ombra e anzi gua-
dagna una concretezza inquietante spingendosi addirittura a suggerire la pro-
pria identificazione con lo stesso·autore, in quell'ultima riga del romanzo che
:.potremmo leggere come una sorta di autografo di Paulino 'Masip: colui che "se
ha perdido" nella catatrofe della guerra civile.
Il tempi e i luoghi del romanzo 81 f sempre secondo istanze generica-
mente realiste' dalle quali Masip; nell'Aventura almeno, non dimostra di
79 Aventura, pp. 78-81.
80 Come osserva Aznar Anglés [1996:144] -en un co-texto de narracion heterodiegé-
tica es donde mas facilmente puede ser .percibido elcaracter de cita en estilo directo que
posee el monologo interior, pues la aparici6n de éste en boca dé un narrador en prime-
ra persona contrasta con un co-texto dominado por la tercera persona verbal.. C...) El nar-
rador cede· de manera practicamente absoluta la palabra al personaje que, a su vez, ve
reproducida su. palabra - interior - en estilo directo, y no ya referida en el estilo .indi-
reeto, porpio y de dichos co-textos-. In questa riproduzione del discorso alber-
ga quella componente mimetica che rende i lunghi monologhi inseriti nel contesto
dell'Aventura particolarmente simili ad altrettanti brani recitativi.
81 Colgo l'occasione per segnalare che non è proposito. di queste pagine condurre
un esame narratologico del romanzo, che richiederebbe una trattazione più ampia e di
volersi allontanare, sono riferiti con puntualità; non solo come abbia-
mo visto, conosciamo nei particolari gli spostamenti dei personaggi, le città
e gli ambienti in cui si muovono, suppellettili comprese a volte, ma possia-
mo anche ricostruire - con un ,minimo di pedanteria - il lasso cronologico
esatto di tutta la storia, a partire dalle notizie in essa disseminate. Il primo
accenno al periodo storico appare durante il viaggio di Marta e Iturralde ad
Atene: "Eran los comienzos de la Republica y las cabalas sobre su
incierto porvenir dieron tema de conversaci6n mientras les servian el pesca-
do y escanciaban el Sauternes"82. A dire il vero non siamo proprio "agli
inizi" della Repubblica, ma ad oltre un anno dalla sua nascita; la data esat-
ta è confermata poche pagine oltre, fra l'altro in modo piuttosto gratuito:
"Aunque esté feo recordarlo' enun momento tan solemne, muchos habian
sido hasta la fecha - 4 de Mayo de 1932 -los.brazos masculinos que habian
rodeado el talle de Marta" 83. Tornati a Madrid, i due finti sposi si perdono
di vista per qualche tempo, fino ai primi giorni di ottobre, quando Don
Enrique, che frattempo si è nuovamente assentato, torna alla capitale 84
e si incontra con Marta per la questione del prestito. Dopo un'ellissi di un
anno, durante il quale Marta ha avviato la sua attività di farmacista, Iturralde
è di· nuovo in viaggi<;>, a Parigi: la terza parte del romanzo ha inizio "En un
claro mediodia de otofio"85, quello del 1933, e "por esos dias se cumplia el
primer aniversario 'de la compra de la farmacia"86 Ci cui dettagli sono riferi-
ti però soltanto ora, in flash-back). Gli eventi successivi si sviluppano neces-
sariamente nell'arco di poche settimane: l'incontro parigino fra Iturralde e
Varea, il rientro a Madrid dell'imprenditore e la sua nuova chiacchierata con
la decisione di lei di raggiungere ·al più presto la Francia per incon-
trare Varea finché si trova ancora in tournée. Tutta la .quarta parte, compre-
so il ritorno di Marta fra le braccia di Iturralde che ·la chiede in sposa, ha
quindi' luogo entro la fine del 1933. Le nozze infatti sono fissate, dopo i
dovuti preparativi, "para el dia siete de ener,?"87. La lettera in .cui Varea
annuncia a Iturralde il proprio matrimonio è datata a sua volta gennaio
diverso tagljo; mi limito pertanto a utilizzare i concetti di spazio e tempo, come del resto
quelli di narratore, punto di vista, ecc. nelle loro accezioni più intuitive e di uso comune.
82 Aventura, p. 54.
83 Aventura, p. 75.
84 Aventura, p. 119.
85 Aventura, p. 161.
86 Aventura, p. 163.
87 Aventura, p. 311.
53
1934. Marta resta incinta durante la luna di miele, e le gemelle nascono per-
tanto nell'autunno del '34. Per tutto il 1935 e inizio del '36 il ménage fami-
liare degli sposi procede per il meglio, finché, come sappiamo, "Cuando
empez6 la guerra civil se me perdieron". La aventura tj,e Marta Abril, che
iniziava con, i primi- timidi passi dell'avventura repubblicana, si conclude
insieme ad essa, non ci è dato di conoscere se in modo altrettanto sconfor-
tante.
Abbiamo sottolineato con insistenza l'importanza del teatro, nei suoi
differenti nell'economia complessiva dell'opera: una ricercata con-
taminazione fra generi che da sola basterebbe a scagionare l'Aventura dalle
accuse (ammesso e rion concesso che' sia possibile esaminare e valutare
un'opera attraverso "accuse", "smentite" e "giustificazionI" varie) incentrate
sulla sua supposta mancanza di spessore. Fra le sue pagine però affiora
anche molta letteratura, forse troppa per sostenere che l'Aventura sia solo,
per dirla senza mezzi termini come ancora recentemente ha fatto Rafel'
Conte, "una especie de parodia melodrarrtaticay sentimental sin mayor inte-
rés" 88. Quanto meno sarebbe opportuno parlare di multiple possibilità di let-
tura che," senza raggiungere mai livelli di particolare difficoltà ,o ·di allusività
ai più, offrono comunque diversi gradi di fruizione a diverse
di pubblico. Gli abbondantissimi e fulminei - perché dati per scon-
tati - riferimenti .letterari e in generale culturali che Masip sparge con totale
disinvoltura fra una riga e l'altra, in fondo, non sarebbero suonati troppo
familiari al destinatario totalmente disimpegnato che si vorrebbe indicare
come il solo, vorace consumatore del libro. Da Flaubert a Freud, da
Madame Curie al Cid, da Penelope a Manon Lescaut, dal principio filosofi-
co della ragione sufficiente ai precipitati chimici, da Descartes alla "manera
becqueriana", daPedro Botero ad Amleto, passando per riferimenti diretti e
indiretti al·Quijote, la Celestina e la Bibbia 89, tutta la Aventura è costellata
da continui, sagaci richiami al patrimonio culturale di un lettore tutt'altro '
che sprovveduto. D'altro canto, la naturalezza di queste allusioni e la loro
pertinénza sempre calzante al contesto fanno sì che esse non vengano per-
cepite come sterili manifestazioni erudite: non c'è bisogno di ripetere del
resto che la cultura popolare, e non quella "alta", costituisce in ogni caso
88 Conte [20011
89 La citazione teStuale di ciascuno di questi esempi, e di molti altri ancora, richie
j
derebbe troppo spazio, ma davvero essi sono ampiamente profusi lungo tutto il roman-
zo, perfettamente amalgamati con i dialoghi dei personaggi e i commenti del narratore.
54
l'humus fondamentale del romanzo. Masip, ben cosciente di questa predo-
minante per nulla aulica, gioca a carte scoperte con il proprio referente prin-
cipale costruendo continui parallelismi fra la Aventura e quel genere fogliet-
tinesco che, non ci rassegniamo a identificare in maniera tassativa con il
romanzo. Abbiamo ricordato che per Sanz la Aventura può esse-
re letta come una parodia de cierta literatura del coraz6n" o, all'op-
posto, come "un corriente folletfn subliterario"; in realtà i due termini non
si escludono a vicenda ma convivono, e in questa doppia natura risiede la
capacità del romanzo di superare i suoi punti di partenza diventando un
prodotto nuovo, e ,differente da entrambi: non propriamente un corriente
folletin, e speriamo di aver dimostrato perché; non propriamente una paro-
dia ma, se vogliamo, un folletin sui generis di alta qualità e ottimo gusto,
che si prende metaletterariamente gioco, più che di un genere specifico, di
sé stesso., Come in altre occasioni, è lo stesso autore che tramite le parole
dei suoi personaggi fornisce giuste chiavi di lettura e di interpretazione:
esaminando a mente fresca la ridicola rete di malintesi in cui ,si trova impi-
gliata la storia d'amore fra Marta e Varea, Iturralde si esprime in termini ine-
quivocabili:
a ,lo que mas se parece es a la parodia comica de un dramon horripilante con
un desenlace feliz y divertido 'lMe quieres?' 'Te quiero' 'lTe gusto?' 'Me gustas',
se acuestan juntos y sanseacab6. Pero como estoy tratando con dos anormales
tengo que andar con tiento, para que esto no acabe en tragedia que todo podria
ocurrir 90 •
Questo romanzo, sembra dire Iturralde, sarebbe solo la parodia di un
"dram6n" se non fosse per le caratteristiche atipiche dei suòi personaggi e
delle sue situazioni, che lo rendono più originale di una semplice imitazio-
ne o caricatura e lo dotano di consistenza e autonomia proprie. L'autoironia
e la contemporanea presa di distanza nei confronti del supposto modello
rosa.,... libresco o cinematografico che sia - sono ancora più patenti quandò
il narratore, descrivendo un'insolita crisi di pianto di Marta, afferma che'
"nunca la habfa visto 'llorar, ni siquiera en el teatro o en el cine con el drama ,
o la pelicula de peor, mala fe sensibilera, inmune a todo contagio sentimen-
taloide"91, e toccano l'apice quando la protagonista, giunta a Parigi ,per ritro-
90 Aventura, pp. 192-193, corsivo 'mio.
91 Aventura, p. 106, corsivo mio.
55
vare l'amato, benché divorata dalla passione si concede un pasto trimalcio-
nico,· dato che
nunca se le pas6 por la cabeza que su amor por Varea fuera incompatible con
una buena comida C•.•). Tras esta aclaraci6n, necesaria para disipar los antirra-
cionales principios que sembro cierta literatura romantica y creeieron basta
convertirse en cotpulentos lugares eomunes, afiadiré que, la copiosa cena y el
cansancio del viaje trabajando de consuno, hicieron que la imagen del guita-
rrista, evocada con claridad apasionada en el preludio de la digesti6n, se fuera
desvaneciendo gradualmente (... )92.
Prima di concludere, vorrei segnalare alcuni semplici contatti interte-
stuali fra determinate situazioni dell'Aventura e diversi momenti della crea-
zione letteraria di Masip. In alcuni casi i richiami potrebbero anche essere
considerati generici e non esplicitamente ricercati (si pensi al tema del viag-
gio ferroviario, che ricorre in due racconti di De quince Ilevo una), ma in
altri è difficile non sup.porre una precisa volontà di autocitazione. Gli esem-
pi a dire il vero non sono moltissimi, ma vale la pena di segnalarne due par-
ticolarmente significativi. Pensiamo intanto al primo amore di Marta, anco-
ra 'studentessa, che si trasferisce a casa del suo professore di chimica orga-
nica e prende progressivamente il posto della moglie di lui quando questa
muore: la. relazione "discfpula-maestro" ricalca esplicitamente, pur a tutt'al-
tro livello, il complesso e platonico rapporto fra Eloisa e Hamlet Garcfa o,
anche, la passione inizialmente intellettuale fra la giovane Sofia de Grouchy
e il marchese de) Condorcet, protagonisti dell'ultima delle Historias de Amo1;
El matrimonio bianco delfilosofo Condorcet. Ritroviamo un secondo· riman-
do molto diretto ad una già vista. in Masip durante il viaggio di
Marta in treno verso Parigi: dopo aver incontrato il petulante e mellifluo
al quale mentendo ha raccontato di dover scendere a San
Sebastian, Marta simula un. attacco di appendicite in piena regola per abban-
donare segretamente il convoglio e rifugiarsi nell'infermeria della stazione
d'Orsay, attendendo che tutti gli altri passeggeri si siano allontanati prima di
uscire nuovamente allo scoperto: a differenza della Lucia Larrauri di
Erostratismo 93 , però, la nostra eroina si ferma per tempo, e "con el susto de
92 Aventura, pp. 234-235, corsivo mio.
93 Erostratismo, ottavo racconto di De quinte llevo una, narra in forma di stralci dia-
ristici il dramma adolescenziale di Lucia, che si sente sola e poco considerata dal mondo:
ma il mezzo che finalmente adotta per attirare l'attenzione di tutti, cioè simulare
s6
la amenaza guirurgica, Marta comenz6 a cambiar el cuadrante. Nunca mejor
dicho que el remedio es peor de la enfermedad" 94.
Di certo, basandoci solo su questi e pochi altri spunti, non possiamo
parlare di una fitta trama di connessioni intertestuali fra l'Aventura e gli altri
scritti di Masip, ma un fondo comune emerge in quel mondo che qui viene
rappresentato e che costituisce. a sua volta l'ambientazione di tanti racconti
e alcuni pezzi teatrali dell'autore: come sottolinea Gonzalez de Garay,
Masip, dopo Diario, non ha mai voluto immaginarsi una Spagna contem-
poranea o posteriore alla sciagura del '36, preferendo di gran lunga ritrarre
gli anni precedenti, colti spesso nei loro aspetti più vitalistici e allegri, a
volte gènuinamente frivoli. E a proposito di questa visione borghese, coque-
ta e disimpegnata, parziale nel suo essere sospesa in un tempo irrimedia-
bilmente perduto, cito in conclusione le parole di Alberto Cousté, che col-
gono nel segno indicando nel garbo delicato di La aventura de Marta Abril
"una sonrisa y un guifio de complicidad, una poética y una trayectoria lite-
raria de la gue siempre estuvoausente la grandilocuencia; una obra que no
desciende nunca al transcendentalismo ni al brote truculento" 95.
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Gexel - Universidad de la Rioja, 2001), pp. 259-286
un attacco di appendicite, la porta alla tomba per le complicazioni dell'intervento, come
. segnala in epilogo un asettico articolo di giornale.
94 Aventura, p. 229.
95 Cousté [1989:323].
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Colecci6n "La Farsa", n. 443 (14-03-1936)
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El emplazado. Farsa en tres actos divididos, cada uno, en dos cuadros
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El escandalo - non pubblicata; manoscritto perduto [adattamento teatrale da
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61
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pr6logo de Alejandro Toledo, "sembIanza biografica" de Alberto Cousté
(México, San Miguel de Allende: Cuadernos 'del Nigromante, 1989)
pr6logo .Y notas de Maria Teresa Gonzales de Garay (México, San
Miguel de Allende: Ediciones del Centro Cultural El Nigromante -
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Historias de Amor (México D.F.: Empresas Editoriales - Editorial Stylo, 1943)
Contiene: El suicidio de Larra; Luis XIV y la condesa virtuosa; La prin-
cesa de Eboli y Felipe II; Los tres maridos de Lucrecia Borgia; La reina
Maria Luisa y el guardia de corps; Teresa Caba'/'Tlls y Tallien el con-
vencional; Isabel de Borb6n y el Conde de Villamediana; Napole6n y la
Condes Walewska; Las mujeres de Goethe; El matrimonio bianco del
fil6sofo Condorcet.
/
El diario de Ramlet Garcia (México D.F.: Imprenta de Manuel Le6n
Sanchez,
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edici6n y prologo de Pablo CorbaIan (Barce1ona: Anthropos, 1987)
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El diario de Hamlet Garcia, indroducci6n de' Antonio Mufioz Molina
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2001 [la ed. 1994D
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Contiene: De quince llevo una; Prudencio sube al cielo; Memorias de
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El gale o la necesidad de un responsable y otras historias, selecci6n, intro-
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(Logrofio: Gobierno de la Rioja - Consejeria de Cultura, Deportes y
Juventud, 1992) Contiene: Dos hombres de Honor; Erostratismo; El
alfar; Chiquillos ante el mar; El ladr6n; El gale o la necesidad de un
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Prudencio sube al cielo, edici6n de Maria Teresa Gonzalez de Garay
(Logrofio: AMG editor, 1994)
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] | IL MITO AL FEMMINILE.
lA TRADIZIONE SOVVERTITA DA LOURDES ORTIZ
NATALIA CANCELLIERI
La rivisitazione del mito occupa un posto di rilievo nella .produzione,
sia narrativa sia teatrale, di Lourdes·Ortiz, che, attraverso la sovversione del-
l'archetipo fissato dalla tradizione, propone nuove strade e sorti per i per-
sonaggi da lei ricreati. Qui ci interessa indagare soprattlltto la rielaborazio-
ne eli alcuni miti femminili, di diversa origine, uniti dalla volontà dell'autri-
ce di proporre una nuova immagine della donna, secondo un.'ottica che
vuoI essere· tipicamente femminile, dopo secoli di interpretazioni maschili.
Il procedimento utilizzato dalla narratrice e drammaturga è, in molti casi,
quello di motivare il modo d'agire delle sue eroine per renderle il più pos-
sibile realistiche e credibili, di contro alla fissità tramandata e al carattere
esemplare e simbolico loro· attribuito dalla psicanalisi. Analizzeremo per-
tanto le opere della Ortiz che ci sembrano più rilevanti in questo senso, con
il proposito di discutere alcuni esempi significativi.
Tra gli scritti di narrativa, scegliamo la raccolta di racconti Los motivos
de Circe. Yudita l,che si apre con il racconto Eva, narrato attraverso i ricor-
di della prima donna, già anziana, all'interno di una dimensione atempora-
le e in un luogo mitico innominato. I suoi pensìeri procedono per analessi
1 Los motivos de.Circe. Yudita, Madrid, Castalia, 1991. Facciamo riferimento a que-
sta edizione, data la difficile reperibilità della prima, Los motivos de Circe, Madrid,
Ediciones del Drag6n, 1988, nella quale, oltre ai sei racconti presenti nell'edizione
Castalia, veniva inclusa l'opera teatrale in due atti Cenicienta, in seguito sostituita dal
dramma Oltre al riferimento all'eroina biblica del titolo, l'opera Yudita non pre-
senta molti altri punti di contatto con l'antecedente mitico. Per questo abbiamo scelto di
non includerla in questo studio e rimandiamo a Margarita Reiz, "Yudita" de Lourdes Ortiz..
tfUn monologo sobre ETA?, "Primer Acto" (Madrid), n. 265, September-October 1996, pp.
143-144 e a Haze1-,· Cazorla, La mujer como terrorista en dos dramas de Luis Riaza y
Lourdes Ortiz: "La emperatriz de los helados" y "Yudita", "Estreno" CCincinnati, Ohio),
XXVI, n. 2, 2000, pp. 26-31.
65
omodiegetica, quando Eva ricorda situazioni vissute da lei stessa insieme ad
Adamo, e per analessi eterodiegetica, quando i protagonisti sono Caino e,
Abele 2 •
Lo studio critico di Alicia Giralt legge molta dell'opera della Ortiz alla
luce del pensiet;o di Hélène Cixous, secondo la quale la donna nasce in una
società dominata da un discorso maschile e logocentrico che "mantiene un
sistema de oposiciones binarias donde la mujer aparece siempre en oposi-
ci6n al hombre"3. Questo aspetto emerge chiaramente nel racconto in
, esame, che rappresenterebbe il tentativo di rintracciare nel mito l'origine
della disuguaglianza tra donna e uomo. Infatti, la riflessione di Eva parte dal
ricordo dell'origine, caratterizzata dall'assenza di nomi per definire le cose,
e di come, poco a poco, ogni elemento abbia acquisito una definizione, una
caratteristica: "De pronto, aquel dia, el mismo dia de la mirada y del deseo
. y de la piel, él comenz6 a envidiar: él viaja lejos, remonta el aire, él, paja-
ro, y yo hombre que me desplazo con torpeza a pequefios pasitos"4. Come
sottolinea la Giralt 5, Adamo, dal momento in cui comincia a invidiare, viene
caratterizzato dal controllo del discorso logocentrico e, dall'invidia, passa
alla brama di possedere, si tratti di un leopardo del quale va in caccia o
della stessa Eva che, all'improvviso, si trasforma e diviene all'i-
niziativa e alla volontà del çonsorte: "Adin se hizo moroso, inesperado; tu
eras leopardo gue él animaI gue resistias a su ataque, fiera que
debia ser domada. [. ..] Y tu, no eras tu sino s610 premio, lugar de disputa,
trofeo, prenda que podia ser hurtada, repartida"6. Questo momento rompe
così, irrimediabilmente, l'unione tra due emisferi, quello maschile e quello
femminile', perché l'uomo si sente ora superiore alla donna e questa si sot-
tomette alla sua volontà. Tale separazione è resa ancor più palese dalla rap-
presentazione del conflitto tra' i due fratelli, nella quale Abele viene visto
come il prolungamento di Eva' ed è dolce; sereno, e sognatore, mentre
Caino, in quanto riflesso del furore paterno, è temerario, competitivo, arro-
gante. Abele incarna così la possibilità di ricostituire quell'unione tra i due
mondi precedente all'episodio della mela, mentre l'invidia, che aveva instil-
2 Questa classificazione si· deve. ad Alicia Giralt, Innovaciones y tradiciones en la
novelistica de Lourdes Ortiz, Madrid, Pliegos, 2001, studio illuminante per molti aspetti, a
cui rimanderemo più volte.
3 Ivi, p. 15.
4 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., p. 48.
5 Alicia Giralt, op. cit., p. 163.
6 Lourdes Ortiz, Los moti'1!0s de Circe. Yudita, cit.,' pp. 52, 55.
66
lato in Adamo il desiderio di possedere quel che non aveva, torna a vanifi-
care le speranze di Eva, nel momento in cui Caino disprezza e al tempo
stesso invidia le qualità del fratello e si trova a desiderare la sua stessa
madre, proprio per quella ambizione di essere prolungamento di Adamo e
di possedere quel che il padre ha conquistato:
Cain queriendo -ser Adan, obsesionado por ocupar. su puesto, dispuesto a com-
batir por ti y avergonzado de ese deseo, capaz de dar muerte si... [...] y al ano-
checer junto a la hoguera sentias el calor humedo de su aliento que te alerta-
ba sobre su deseo y te impedia despojarte de aguel manto de corteza con gue
tenias que cubrirtedesde aquel dia 7.
L'invidia-disprezzo di Caino verso il fratello connota quest'ultimo con
caratteristiche femminee, aprendo la strada allo scarso apprezzamento delle
qualità femminili tipico del discorso logocentrico maschile 8. Il linguaggio
del poterf; si arma così di termini dispregiativi: "Abel-hembra, Abel infame
para el hermano [. ..] Abel mujercita, poeta inutil"9. La Ortiz dunque rintrac-
cia e "denuncia" la causa della separazione e della conseguente disugua-
glianza tra i sessi nel peccato originale e arriva così a sovvertire il mito ede-
nico: Eva da .prima tentatrice diviene la prima donna posseduta e sottomes-
sa alla volontà patriarcale. L'uomo che avrebbe potuto valorizzare nuova-
mente l'essenza femminile è stato invece destituito dall'uomo che gestisce "il
discorso fallocentrico, grazie al quale si è perpetrata la disuguaglianza.
Il secondo e il terzo racconto, Los motivos de Circe e Penélope, attingo-
no al mondo greco e costituiscono due tasselli' di una stessa vicenda,
mostrando diversi punti di contatto. Entrambi sono costruiti sui ricordi delle
protagoniste e condotti in terza persona da un narratore onnisciente molto
vicino alla voce interiore di ciascuna eroina, della quale esterna i sentimen-
ti. Ipoltre, i due personaggi vengono costruiti Ortiz in modo antitetico
rispetto alle caratteristiche ad essi associate tradizionalmente. Vediamo infat-
ti una Circe ricreata nella sua dimensione di donna innamorata e abbando-
nata e una Penelope frustrata dal peso di una fedeltà e di un'attesa logo-
ranti. Altro elemento che accomuna i racconti è Vjnserimento di frammenti
7 Ivi, p. 54.
8 Lo rileva la Giralt: "Las principales caracterfsticas de Abel no san apreciadas por
los hombres, igual que las caracteristicas femeninas tampoco hoy en dia lo son" (op. cit.,
p. 164). .
9 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., p. 56.
67
dell'Odissea per dar voce ai personaggi maschili. Così, mescolando i versi
omerici al lirismo del linguaggio con cui si esprimono le protagoniste, l'au-
trice ha la possibilità di far risaltare maggiormente la loro voce.
Los motivos cJe Circe ha forma circolare, con incipit ed epilogo identici,
nei quali la maga allude ai marinai che cercano di sbarcare sulla sua isola
chiamandoli "cerdos". A seconda del difetto più accentuato in loro l0, gli
uomini che giungono sull'isola di Eea verranno trasformati in porci, leoni,
lupi: restituiti allo stadio animale in cui già si trovano, nonostante le sem-
bianze umane, "avariciosos y tenues en su pequefiez, confiando en ese
botin [...] como si fuera el tener, la posesi6n, la acumulaci6n de experien-
cias y de bienes lo unico para dar gallardia a esas costras, a esos brazos for-
jados para una lucha que nunca ha de detenerse" 11 •
Un solo uomo costituisce eccezione all'impietosa regola: Odisseo. Di
lui'l'autrice risalta un tratto- particolare, quello di affabulatore, ,"espirltu die-
stra en la palabra" 12, caratteristica che lo rende più umano degli e che
farà innamorare Circe, tanto da farle decidere di risparmiarlo. Tuttavia, dopo'
un anno trascorso sull'isola come amante della maga e come aedo, "ya no
navegante, ya no viajero infatigable" 13, l'eroe decide di ripartire. Non è però
la sete d'avventura, che contraddistingue tradizionalmente l'eroe classico, ad
allontanarlo, ma un altro impulso, legato alla sete di possesso:
No era una mujer concreta la que él deseaba y anoraba, no aquella mujer
muda, pequefta a la'que casi no podia dar forma, ni rostro, sino el miedo a la
_ de lo propio, el acicate de la competencia, la necesidad de medir fuer-
zas, de retar. Era la posibilidad de que Otro, un otro cualquiera al que daba
distintos rostros, estaturas y caracteres, tomara posesi6n de loque consideraba
suyo y en ese suyo estaba esa mujer-nifia a la que abandon6 hacfa ya tantos
afios 14.
I motivi per cui Odisseo vuole riprendere il viaggio sono perciò 'l'as-
senza di un ,rivale sull'isola con cui contendersi la clonnae l'insopportabile
lO Nell'Odissea, X, vv. '210-213 e vv. 431-437, Omero racconta che Circe trasformava
i marinai in porci, in leoni, e in lupi. La Ortiz fornisce la propria versione dei fatti, spie-
gando il perché di tali trasformazioni: Circe renderebbe porci i bruti, leoni i superbi, e
lupi i traditori.
Lburdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, çit., p. 62.
12 Ivi, p. 64.
13 Ivi, p. 66.
14 Ivi, p. 70.
68
pensiero dell'espropriazione di ciò che è suo. In questo modo, .il discorso
logocentrico vince sull'amore incondizionato e Circe si rassegnerà alla par-
tenza dell'amato, proprio perché consapevole dell'impossibilità, a quelle
condizioni, di un amore pienamente corrisposto. La maga, tuttavia, sa per-
fettamente quanto sia effimero il desiderio dell'eroe di tornare a Itaca, sa
che è solo una brama passeggera, ma sceglie coraggiosamente di lasciarlo
andare incontro al suo destino, salvo poi vivere nell'eterno ricordo di lui,
come una nuova Penelope· in perpetua attesa, mentre il mare torna a man-
darle marinai che "como cerdos descienden de las nt;lves" 15.
Penélope prosegue questa vicenda, mostrandoci, fin dalle prime paro-
le, come la vita della protagonista sia anche qui regolata e sottoposta ai det-
tami di una figura maschile, quella del figlio Telemaco: "Vuélvete a tu habi-
taci6n. Ocupate de las labores que te san propias, el telar y la rueca, y
ordena a las esclavas que se apliquen al trabajo... y del arco nos ocupare-
mos los hombres y principalmente yo, cuyo es ei mando de esta casa" 16.
Telemaco assume qui. lo stesso ruolo che aveva Caino in Eva, perché
rispecchia tutte le caratteristiche del padre e desidera occupare il suo posto,
e quindi entrare in possesso di tutto ciò che è suo. Se la protagonista risul-
ta sì sottomessa alla volontà del dominio patriarcale e viene vista come tra-
dizionale archetipo di fedeltà, cambiano tuttavia i motivi che determinano il
suo modo d'agire: non è infatti l'amore per Odisseo il motore principale del
suo comportamento, bensì il voler "lavar la mancha que sobre su pueblo y
sobre los suyos cay6" 17, dopo aver visto le conseguenze occorse a seguito
dell'adulterio di Elena. Verso quest'ultima, sua controfigura archetipica,
Penelope nutre sentimenti discordanti: ·da un lato un totale disprezzo che la
spinge con più convinzione a restare fedele al suo sposo, dall'altro una sorta
di invidia per la libertà di cui questa donna ha saputo godere. Questo aspet-
to sovverte notevolmente il mito dell'eterna fedeltà per amore, ma il mondo
ricreato .dallaOrtiz per la sua· protagonista risulta ancora dominato dal dis-
corso logocentrico maschile 18. Odisseo continua a essere caratterizzato dal
dono della parola, la qualità che più rimpiange Penelope, che "recuerda los
tS Ivi, p.73.
16 Ivi, p. 75.
t7 Ivi,p. 82.
18 Cfr. l'affermazione della Giralt: "PenéI6pe vive en un mundo falocéntrico, a pesar
de no tener esposo ya que ahora esta bajo el control del hijoL.'] Del mismo modo que
antes era domina da por el padre, ahora es esclava del hijo. Los varones dictan como debe
ser su conducta" (op. cit., p. 1 6 6 ) . ' .
69
cuentos del incansable narrador" 19, proprio come, sull'isola di Eea, li ricor-
da Circe.
Penelope rappresenta la donna che esiste solo ed esclusivamente in,
funzione dell'uomo con cui sta, in quanto oggetto di possesso, preda cattu-
rata e relegata nel ruolo che le è stato imposto dalla società patriarcale:
"Objeto del deseo que puede ser disputado, posefdo [. ..] y anhelado en la
medida en que con su fidelidad establecfa la mediaci6n. Hay un Otro que no
estaba y que en su ausencia segufa poseyendo... [. . .JY cuando el otro,
Vuelve y se asienta en el hogar, Penélope deja de' existir y pasa a ser la som-
braque trasiegaen el cuarto de las mujeres"20.
La profezia di Circe si avvera qui con tutta la sua tragicità e vediamo
una Penelope rassegnata e consapevole del proprio errore, condannata a
un'esistenza infelice anche accanto alla persona che. ha aspettato così a
lungo. Odisseo, 3110 stesso tempo, rimpiange le avventure dei lunghi anni
passati lontano da Itaca e con esse, le donne che ha posseduto e abbando-
nato:
Acaricia con melancolfa la piel reseca y frfadel esposo que a su suefia con
los brazos siempre frescos de Circe, con la juventud de .Nausica o el encanto
hechicero de Calipso. La divinaI, Penélope en aquella cama de olivo que fue su
lazo, contempla a Ulises que ha regresado y llora, él tiene tras sf una historia
para narrar, y ante él una hacienda que reconstruir y un reino que legara a su
hijo. Ella, la esposa, que ya no esta en edad de volver a ser madre y renuncio,
cuando era tiempo, al tacto de los cuerpos j6venes, se refugia en el suefio y
deja que los fantasmas de los pretendientes le devuelvan el eco de un goce que
ya no puede ser 21 .
Il racconto Betsabé torna allo scenario biblico. La
.
storia. di Betsabea è
raccontata da un narratore anche qui eterodiegetico e onnisciente, alterna-
to però al monologo in prima persona della protagonista che, attraverso una
19 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., p. 76.
20 Ivi, p.p. 84-85.
21 Ivi, p. 85. L'epilogo rassegnato conferma il giudizio assaLcritico che pronuncia la.
Giralt in merito a· questo racconto, considerando Penelope come "una mujer que entien-
de su posici6n en el mundo cuando'se situa a ella misma dentro de un discurso que la
esclaviza y que se convierte en la propia'ejecutora de las leyes del patriarcado" (op. cit.,
p. 168).
70
complessa analessi, ricorda la propria vita con frequenti prolessi al presen-
te della narrazione, quando Salomone, sta per essere incoronato re. Nella
tradizione, Betsabea è una delle tante donne senza voce, convertita in mero
bersaglio della lussuria di Davide. Anche in questo caso, dunque, dando la
parola a chi era zittito, si ottiene un persol1,aggio complesso e tutt'altro che
ininfluente sulle vicende tramandate dalla Bibbia: l'eroina assume il preciso
obiettivo di vendicare la morte dello sposo che amava disperatamente. La
vendetta risulta essere così il motore di tutta la traiettoria esistenziale ,di
Betsabea, descritta come una cospiratrice che ha ordito morti, violazioni e
.tradimenti 22 pur di propiziare l'incoronazione di suo figlio Salomone a re
d'Israele e vendicarsi così di Davide.
Il racconto vede procedere il ricordo della protagonista, ormai invec-
chiata, da una terrazza del palazzo, a fianco della quale vediamo un Davide
ormai decrepito e insoddisfatto se pur in compagnia dell'ennesima concu-
bina. Lourdes Ortiz enfatizza inoltre un elemento già presente nella Bibbia
ma poco conosciuto, quello dell'omosessualità del re èbraico. L'autrice
interpreta l'abbondanza di donne che costellarono la vita del re come un
pretesto per .nascondere il suo desiderio per gli uomini 23:
S6lo yo, rey, sé tu secreto y sé por tanto que no es una joven virgen sunamita
la'que podria devolverte el calor, sino la espalda aterciopelada, como tu la ima-
ginas, Jonatan 2\ sus caderas firmes. [. ..] iCientos de hijospara demostrarte
a ti mismo y a tu pueblo que David, capaz de manejar el.cayado, la 'espada y
la honda es también capaz de poseer a todas las mujeres solte'ras y no solteras
de su reino, para olvidar, para ocultarte ese deseo desesperado, inutil, impeni-
tente ·por conseguir el cuerpo joven del muchacho, ese Jonatan que habria de
encarnarse después, como si mediase brujeria, en tu propio hijo Absal6n! 25
22 I molti passaggi della vendet.ta ordita da Betsabea sono grossomodo questi: istigò
Amnone a violentare sua sorella Tamara e per questo istigò poi Assalonne a vendicarsi
di Anlnone e a ribellarsi quindi contro Davide e ricevere per questo la morte. L'ultima
tappa del percorso di vendetta fu l'intercessione presso Davide affinché Salomone fosse
suo successore, quando il trono spettava in realtà ad un altro figlio del re, Adonia.
23 Come evidenzia Felicidad Gonzalez Santamera nella 'sua Introducci6n a Lourdes
Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., p. 34, l'idea dell'uomo che' cerca un altro u.omo
attraverso il corpo femminile, è un tema ricorrente in altre opere di Lourdes Ortiz, come,
per esempio, Urracae Arcangeles.
. 24 Gionata, figlio del re Saul e intimo amico di Davide già nella Bibbia. La polemica
di Betsabea allude poi alle nozze di Davide con la figlia di Saul, Micol, interpretando quel-
la scelta come del terrore di dichiarare i veri sentimenti verso il fratello di questa.
25 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., pp. 101, 92.
71
L'odio che nutre Betsabea verso l'uomo che mai riuscirà a considerare
come marito percorre l'intero racconto e andrà scemando sul finale, soprat-
tutto grazie alla sete di vendetta placata dall'incoronazione di Salomone.
L'eroina confessa come abbia cercato di educare il futuro re, secondo le
qualità dello sposo Uria, piuttosto che secondo quelle del padre legittimo.
In tal modo la Ortiz ha modo di ribadire una costante che percorre l'intera
raccolta, vale a dire la valutazione negativa delle caratteristiche tipicamente
femminili da parte dei suoi personaggi maschili. Infatti Betsabea rinfaccia a
Davide di non stimare suo figlio Salomone perché non abbastanza virile,
secondo i canoni del re ebraico:
Le despreciabas porque no hacia cabriolas al andar, ni dejaba sonar campani-
llas; porque te daban miedo sus ojos serios acostumbrados al estudio, te ate-
rraba esa manera suya de mirar a la mujer como alga hermoso y pr6ximo.
Salom6n compone cantos a la esposa mientras tu gimes en brazos de concu-
binas a las que nunca supiste mirar, a las que tratabas como perras que son
tomadas sobre la alfombra y abandonadas. Por eso aborreces a ese hijo capaz
de amar y ser amado. [. ..] Seran sus poemas y sus palabras las que queden,
mientras que de ti no permanecera mas que el recuerdo vago de una imagen
femenil y delicada, un hermafrodita gracil o de grandes nalgas oferentes 26 •
, Come si può notare, anche Betsabea applica gli stessi canoni, quando ,
definisce sarcasticamente l'immagine di Davide come femminea e delicata.
Così anche il re risulta vittima dello stesso sistema di cui è esecutore e
Betsabea non esita a rinfacciarglielo: "Tienes frio porque David, el valiente,
David el vencedor de Goliat ha sido incapaz de mirarse a SI mismo como
lo que es. Vendiste tu tranquilidad por un plato de y renunciaste a
ser lo que realmente eras"27.
Se nei racconti precedenti non. si giungeva a un riscatto finale della
donna, qui assistiamo al compimento della vendetta di Betsabea, tanto defi-
nitivo da consentirle alla' fine un momento di compassione: '''Quisieraque
al menos en este ultimo momento pudieras enc'entrar junto a la joven con-
cubina la tranquilidad yel aliento gue s610 da el amor" 28. Queste parole'
siglano l'epilogo del racconto 'e un qualche cambiamento nel comporta-
mento di Da,vide, che cerca ora di avvicinarsi umanamente alla concubina
261m, pp. 100-102.
27 lvi, p. 103.
28 Ibidem.
72
che giace nel suo letto. La domanda che chiude la narrazione, "lCual es tu
nonibre?" 29, porta infatti a l.:lna nuova possibilità di relazionarsi con lei e
quindi di sovvertire il sistema a cui entrambi sono stati sottoposti fino a quel
momento.
Anche la quinta narrazione della raccolta, Salomé, presenta la riscrittu-
·ra di una vicenda biblica. Come segnala la Gonzalez Santamera 30, il nome
di Salomé non viene nemmeno menzionato all'interno del racconto biblico
e la sua importanza è secondaria anche nelle rivisitazioni di autori' poste-
riori, tranne che in quella di Oscar Wilde 31 . Nel racconto della Ortiz, il nar-
ratore, come nel caso di Eva, sembra incarnare il ricordo di Salomé, diri-
gendosi a lei in seconda persona.
La narrazione si apre e si chiude sulla stessa immagine, quella degli
occhi del Battista. Quegli occhi che, per la prima volta, non l'hanno con-
templata come oggetto di desiderio, ma comè se fosse una persona di pari
digIlità. Infatti, fin dalle prime pagine del racconto viene chiarito il ruolo
sociale toccato a Salomé e determinato dalla volontà di sua madre: "Nacida
para el amor y la danza, educada para mecer los cuerpos de varén, para
hacer enloquecer a reyes, saduceos y fariseos. [. ..] En el harén de las muje-
res, absorbida desde el comienzo por las acechanzas y los consejos de tu
madre; técnicas aprendidas cocienzu,damente, transmitidas de mujer a
mujer"32.
Nel momento in cui Salomé incontra il Battista, seguendo l'educazione
che ha ricevuto, cerca di sedurlo, ma gli occhi di lui prescindono dall'a-
spetto corporeo della donna e le' restituiscono un'immagine di se stessa dif-
ferente, che la cattura: "Algo, como una densa plenitud de mundos brotan-
do, una ·seguridad desconocida hasta entonces, insospechada que te hacia
fundirte con lascosas, ser palabra y voz, razén oculta. [. ..] Por primera vez
aquella luz que te despojaba de la hembra.y te hacia a él"33.
Gli occhi del Battista rappresentano qui il ,controllo del discorso fallo-
centrico ed è molto esplicita, nel testo, l'associazione tra parola e potere.
29 Ibidem.
30 Felicidad Gonzalez Santamera, op. cit., p. 35.
31 La Santamera si riferisce in particolare a Le Erodiadi di Flaubert, dove il ruolo di
Salomé è decisamente secondario, mentre è la madre che, per vendetta, desidera la testa
del Battista.. Oscar Wilde, con Salomé, vede l'eroina al centro del dramma e riconduce il
motivo della decapitazione alla passione amorosa di Salomé, che vuole per sé la testa del-
l'unico uomo che l'ha rifiutata.
32 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., pp. 106-107.
33 Ivi, p. 107.
73
Quando scopre la nuova immagine di sé che lo sguardo del Battista è in
grado di percepire e di mostrarle, comprende di essere disposta a tutto pur
di avere quegli occhi, che, soli, possono darle il potere della parola, il dis-
corso logocentrico:
Eras espiritu que volaba sobre el tiempo, espfritu soberano que se levantaba
sobre la naturaleza y se hacia igual al que no puede no sere Sacerdotisa de un
saber hasta entonces vedado, porque aquellos ojos te devolvfan el ser, te reco-
nocian y te rescataban de la servidumbre [...] Él y tu frente a frente y ese tu te
devolvia una dignidad y una grandeza que a veces, cuando nifia, intufas [. ..] Y,
sin embargo, [. ..] la palabra no era tuya, sino de ellos 34 •
Per potersi sentire ancora in possesso della saggezza intravista grazie al
Battista, l'eroina chiede a Erode la sua testa e riscatta se stessa: "Que la pala-
bra sea en mi" 35. Tuttavia, quegli occhi vengono conquistati n.ello stesso
modo in cui la donna aveva ottenuto qualunque cosa fino a quel momen-
to, attraverso la seduzione. Ma dopo quest'ultima danza erotica, il suo corpo
non sarà mai più schiavo del desiderio maschile, bensì padrone delle pro-
prie azioni: "Que asi sea por siempre y para siempre... "36.
"lSaber qué?", con questo interrogativo emblematico si apre il racconto
Gioconda, ricreazione questa volta non di un mito letterario, bensì pittori-
co. L'enigmatica figura creata da Leonardo parla a un personaggio che la
contempla in silenzio, senza formulare le presunte domande alle quali
risponde la protagonista nel flusso del suo discorso. Il risultato è un mono-
logo a tratti caotico, e caratterizzato dallo stesso lirismo riscontrato nei rac-
conti. precedenti. Ma se in veniva raccontata una vicenda già cono-
sciuta, qui il nodo tematico è più vago e tutto giocato su quella stessa ambi-
guità che si cerca di narrare.
La domanda iniziale fa riferimento a un supposto quesito dell'interlo-
cutore e dà avvio al flusso di coscienza della protagonista che si sofferma
prima su temi dell'esistenza in generale per passare poi a quelli particolari
della sua essenza di donna:
No me preguntes ahora mas ... no hay nada que decir L.,] Ya lo sabemos todo.
L..] Y sin embargo... ese sin embargo que te vuelve Ioeo. Mira mis ojos, des- .
34 [vi, pp. 108, 112-113.
35 [vi, p. 115.
36 Ibidem.
74
cansa en ellos, ese torbellino, esa nausea, ves?, por un lado la serenidad del
valle, la luz bermeja del amanecer y de las cosas que nacen, esa plenitud del
ser que da la vida 37
Questa ambiguità, questa impossibilità di conoscere le cose in profon-
dità, qltre la superficie del quadro, permea tutto il racconto, man mano che
la Gioconda va ripercorrendo passato e presente, "como un pequefio dios
insensible al tiempo"38. -Così, anche quando parla di se stessa, non scioglie
mai i nodi che le presenta lo spettatore, ma afferma e riconferma quella
duplicità delle teorie che la riguardano, la relatività di ogni affer-
mazione.
La Giralt legge anche questa narrazione secondo una prospettiva fem-
minista e rintraccia in Monna Lisa le caratteristiche tradizionalmente asso-
ciate alla donna, che sarebbe "fuente de reposo y origen de vida"39. Allo
stesso tempo, le paure proiettate dallo spettatore sulla Gioconda sono lette
dalla studiosa come quel timore irrazionale che nutre l'uomo verso la
donna, a causa delle proprie mancanze. Se concordianlo solo in parte con
questa interpretazione, quello. c·he sì ci pare rilevante è la visione dell'eroi-
na come "depositaria de la humanidad, cansada de los horroresçometidos
por el ser humano, grandes y pequefios, desde asesinatos hasta pat.adas y
zancadillas, pasando por.las guerras y viendo a las personas sin sentimien-
tos"40.
Il racconto procede sul. gioco continuo di' specchi e contraddizioni sul
tema della conoscenza univoca, fino a che, come segnala
la Gonzalez Santamera 41, lo spettatore va acquisendo i tratti del primo e pri-
vilegiato osservatore della' figura, lo stesso Leonardo, che viene condotto
dalla sua creatura nella Firenze della sua giovinezza, dove può contempla-
re una volta di più "la placitacon la fuente y la samaritana que ofrece agua
cada tarde al caminante" 42.
La conclusione chiarisce che la Gioconda è suscettibile di infinite. inter-
pretazioni, come infinite sono state, sono e saranno le persone che ogni
giorno contemplano il quadro. Per estensione, ciò si può applicare all'arte
37Ivi, pp. 117-118. .
38 Felicidad Gonzalez Santamera, op. cit., ,p. 36.
39 Alicia Giralt, .op. cit.', p. 173.
40 Ibidem.
41 Felicidad Gonzalez Santamera, op. cit., p. 36.
42 Lourdes Ortiz, Los motivos de Circe. Yudita, cit., p. 122.
. 7S
in generale e all'opera letteraria in particolare. Così Monna Lisa si rivolge
un'ultima volta allo spettatore silenzioso incoraggiandolo a essere quello
che Borges chiamava il "lector tenebroso", vale a dire colui che si avvicina
all'opera attivamente, come un creatore, in modo che il testo possa rina-
scere, nuovo, a ogni lettura: "Tu eres quien las miras, y porque las miras,
como me miras a mi en este m0n:tento, el milagro cada dia vuelve a pro-
ducirse. Pinta el mundo, dale forma y, mientras lo con la impa-
ciencia del dios que ya no quiere descansar el séptimo dia" 43.
Data l'ambiguità da sempre incarnata dalla dama fiorentina, non è pos-
sibile inquadrarla in un ruolo prestabilito e per di più si presta alle molte-
plici interpretazioni di cui si è detto. Proprio questo aspetto potrebbe esse-
re la chiave di tutta la raccolta: se le altre cinque eroine sono state codifica-
te e relegate a un ruolo archetipico fisso, che prescinde dai sentimenti per-
sonali di ciascuna e le tramanda come exempla di un certo comportamen-
to, la Gioconda verrebbe qui a rappresentare. la sovversione di quei model-
li. Infatti, come il lettore deve procedere alla lettura con la mente aperta e
scevra da pregiudizi, lo stesso deve fare rispetto alle donne qui presentate.
E proprio la scelta' di un personaggio pittorico collocato alla fine dell'opera
starebbe a indicare il carattere pluridimensionale e prospettico che hanno
allo stesso modo le altre eroine, altrimenti relegate sulla pagina stampata .
nella fissità della tradizione. La Gioconda è la donna eterna e universale e,
in quanto tale, racchiude tutto, dalla vita alla morte, dalle caratteristiche
maschili a quelle femminili. Le donne degli altri racconti sono invece indi-
vidui particolari, con i loro limiti, ciascuna con la propria personalità.
Una differenza che la Giralt sottolinea polemicamente' è che i discorsi
delle prime cinque protagoniste hanno in qualche modo come tema cen-
trale gli uomini 44. E questo, secondo la studiosa, stride con il fatto di voler
dare una nuova lettura a tali miti, giacché tutti i personaggi femminili sono
definiti a partire dal loro rapporto con un uomo e non appaiono come
donne forti, indipendenti, "como modelos a imitar, sino como vlctimas",
perché "sufren las consecuencias del discurso .falocéntrico"45. La Gioconda,
,invece, sta al di sopra' dei discorsi di origine sociale e, allo stesso tempo,
non è posseduta e non potrà esserlo da nessuno, proprio perché non può
43 Ibidem.
44 Nel dettaglio la studiosa porta i seguenti esempi: nel caso di Eva, Adamo e Abele,
in Circe e Penelope, Odisseo e poi i pretendenti della sua sposa, in Betsabea Davide "e
Salomone e in Salomé il Battista. ' .
45 Alicia.Giralt, op. cit.,.p. 175.
76
essere codificata. Tale non convince del tutto se si nota che
il ruolo di vittime assegnato alle eroine apporta una critica, più o meno
esplicita, a quel sistema fallocentrico che le sottomette. Inoltre, la peculiari-
tà di questa nuova visione del mito risiede nel fatto che, come suggerisce il
titolo della raccolta, queste donne hanno delle ragioni, delle motivazioni,
che contrastano con i dettami della società 'in cui vengono rappresentate e
che, data la volontà dell'autrice di mantenere il filo della trama originaria,
non sarebbe possibile un mutamento esteriore nella condotta dei suoi per-
sonaggi. Perciò il cambiamento avviene interiormente e il mito si trasforma
man mano che le sue protagoniste acquisiscono una voce che possa spie-
gare la loro· posizione. Non va dimenticato, fra l'altro, che non tutte'le eroi-
ne sono vittime che si lamentano della loro condizione 46, come ben testi-
moniano almeno i casi di Betsabea e Salomé. Queste, infatti, agiscono per
cambiare la loro condizione, mutando così, allo stesso tempo, quella tradi-
zione, che vede l'una come vittima passiva della lussuria di Davide, l'altra
come ctonna oggetto che usa il proprio corpo quale strumento di afferma-
zione ,sociale. Concordiamo pertanto con la Gonzalez Santamera 47 quando
afferma che Lourdes Ortiz è "dispuesta a reivindicar el papel de la mujer en
la Historia"48, proprio perché ci' sembra che la' scrittrice non abbia avuto
bisogno di narrare una storia diversa da quella del mito poter offrire
modelli di condotta differenti, ma che abbia operato una denuncia dell'im-
magine tradizionale di' quelle figure, mostrando il mondo interiore di cia-
scuna. Non offre altri modelli da strumentalizzare, ma descrivé delle perso-
ne, delle donne in carne e ossa, capaci di pensare, sentire agire per usci..:
re, dalla gabbia dell'archetipo. E lo fa con un linguaggio appropriato, carat-
terizzato da quel lirismo che solo discorsi così intimi possono far scaturire
- e da una sapiente rievocazione delle atmosfere.
La rivisitazione viene sperimentata dalla Ortiz soprattutto nel
genere a cui appartengono gli altri due testi· che passiamo a considerare e
che costituiscono, rispetto all'opera appena esaminata, due passi successivi
nella trattazione del mito femminile, sia cronologicamente sia per il conte-
46 Infatti la Giralt polemizza sul fatto che nell'opera la donna venga raffigurata come
,mentre non ci sembra che questo avvenga nella misura da lei rilevata. Al con-
trario, anche, le figure più vittimizzate, affrontano la loro condizione con molta forza, pur
essendo chiaramente frustrate e disilluse.
47 Con cui invece non è d'accordo la Giralt.
48 Felicidad Gonzalez Santamera, op. cit., p. 41.
77
nuto. La prima, Aquiles y Pentesilea, del 1991 49 , n1antiene l'ambientazione
del mito a cui si ispira. Oltre all'antecedente classico, la' Ortiz si rifà all'ope-
ra di Heinrich von Kleist, del 1808, dal titolo Pentesilea 50 , appunto, anche
se la drammaturga varierà le motivazioni dell'impossibilità dell'unione tra i
due protagonisti.
L'azione si svolge tra l'accampamento dei greci e il bosco abitato dalle
Amazzoni, scenario quest'ultimo che dà rilievo alla società femminile e
matriarcale in cui si muovono le eroine. Infatti, queste figure leggendarie
avevano la peculiarità di essere guerriere che si riproducevano mediante
l'accoppiamento con i prigionieri, che poi uccidevano. Se i nati da quelle
unioni erano di sesso maschile venivano anch'essi ammazzati, se invece
erano femmine potevano vivere e continuare la stirpe delle
Questa leggenda è qui ripresa e stravolta dalla Ortiz" che sembra vederla
come "una fantasia masculina" 51 che riproduce come in uno specchio la
stessa aberrante usanza delle truppe di uomini che violentavano senza scru-
poli le prigioniere. Così la scrittrice vuole la sua eroina perdutamente inna-
morata di Achille,' tanto da voler sovvertire la cruenta .regola del proprio
popolo per unirsi con lui in matrimonio. La prima scena mostra la regina
costretta a letto e attornìata dalle Amazzoniche vegliano su di lei, incredu-
le per le parole che le sentono pronunciare:
AMAZONA 2: 'Han pasado tres lunas desde la batalla. A veces murmura su
nombre, repitiendo como una cantinela: "El de los pies ligeros". Es sacrflego.
Por la noche se aturdeoyendo el canto frfo de la Quimera.
PENTESILEA: lQué murmurais? [. ..] (Se dirige imperiosa a una de las
Amazonas.) lEres doncella?
AMAZONA 1: (Ruborizandose) Aguardo a la pr6xima batalla.
PENTESILEA: Afortunada y desdichada. Ya no habra mas batallas. No de las
que tu esperas. La guerra termino. Nunca mas. No contra ellos 52 •
49 Fu rappresentata per la prima volta al Festival de Teatro Chlsico de Mérida lo stes-
so anno.
50 Nella versione di von Kleist (1777-1811), ripresa in parte dalla Ortiz, Pentesilea è
la che, pur amando l'eroe greco, lo sbranerà in un accesso di
re erotico e d'annientamento, essendo 'sfidata a duello e credendosi derisa.
51 L'osservazione è di Fernando Doménech, Prologo a Lourdes Ortiz, Aquiles y
Pentesilea. Rey loeo. (Las ultimashoras de Luis de Baviera), Alicante, IX Muestra de Teatro
Espanol de autores contemporaneos, 2001, p. 7.
52 Si tratta dei greci. '
78
AMAZONA 2: No puedes hacernos eso. Todas las j6venes esperan su oportu-
nidad y llevan dos lunas afilando las flechas y tensando el arco 53 :
Di fronte alla "conversione" della regina, le guerriere cercano in ogni
modo di ricordarle le leggi che regolano la loro comunità, dei veri e propri
comandamenti che escludono l'amore per gli uomini, visti come "brutos,
.ciegos, intemperantes" 54. Pentesilea cerca allora di indurre le Amazzoni alla
ribellione, sostenendo che tali norme sono in realtà un inganno spietato e
ingiusto: "iPobrecillas! También a vosotras os han engafiado, como me
engafiarona mL Renegad de vuestras maestras y abrid los ojos. Rebelaos"55.
Dall'amore della regina per Achille nasce in realtà un rifiuto totale della
guerra - in questo caso la guerra di Troia ma, per estensione, ogni guerra
- che ,ora non viene più considerata come' lo strumento per riprodurre la
propria stirpe, ma riconosciuta come macchina di morte:
iCorred muchachas al campamento de los griegos! Tal vez os perdonen toda-
via ese hueco humillante 56 , pecho s6lo para sostener el arco, ese pecho cas-
trado, y podais comenzar. Como Circes acudid a su lado y hacedIes renegar de
las batallas. [. ..] Ya estoy sana. Y dispuesta a una nueva lucha, mucho mas tier-
na, mucho mas... Los generales, como yo misma, 'conducen a los ejércitos y
sobre los cadaveres construyen su imperio. Siempre hay una Troya que con-
quistar, lina fortaleza que derribar, petr6leo que defender, castillos que profa-
nar, mujeres queviolentar y someter 57 •
Il riferimento a Circe stabilisce un parallelismo molto forte con il rac-
conto omonimo, perché anche nel mondo in cui si muove la maga l'uomo
viene considerato comè bruto e insaziabile nella sua bramosia di possesso,
di morte e di gloria. Inoltre, anche la società di Circe è esclusivamente fem-
minile e, se gli uomini non vengono uccisi, sono comunque tratti in ingan-
no dal desiderio sessuale e poi trasformati in bestie. Anche nella
della maga, peraltro, è l'amore per un uomo fuori del comune a sovvertire
le leggi stabilite e scrupolosamente rispettate fino a quel momento. Nel caso
53 Lourdes .Ortiz, Aquiles y Pentesilea, cit., p. 12.
Ivi, p. 13.
55 Ibidem.
56 ·Si riferisce al vuoto che avevano le amazzoni al posto di un seno, per poter ten-
dere l'arco.
57 Lourdes Ortiz, Aquiles y Pentesilea, cit., p. 14.
79
di Pentesilea, però, l'uomo fuori del comune corrisponde pienamente il suo
amore e condivide tra l'altro la sua utopia di pace eterna. L'Achille che ci
presenta Lourdes Ortiz non è infatti minimamente assetato di sangue, anzi,
lo 'vediamo, nella seconda scena, preoccupato per le morti che procurerà la
guerra che deve cotrLbattere e innamorato della bella amazzone:
AQUILES: van a morir?
ULISES: Las fiebres nublan tu cerebro. Cada muerto, tu lo sabes, es un héroe.
Lo que importa es la victoria. Creta que estabamos de acuerdo.
AQUILES: A través de sus ojos, en aquel instante, vi ciudades inrnensas que se
alzaban, rodeadas de campos de trigo. Estoy cansado. Esta lucha es idiota. S610
quiero vencerle a ella o ffias bien que ella me venza. Guerra de amor me llama 58 •
Quella che Doménech chiama "utopia sexual" 59 verrà contrastata dai
due rappresentanti del potere, vale a dire la Grande Sacerdotessa delle
Amazzoni e l'astuto Odisseo. I due metteranno a punto una strategia comu-
ne per propiziare la guerra a oltranza e mettere a tacere i sentimenti dei due
eroi innamorati.
La scena terza è incentrata sul tentativo di Pentesilea di salvare un neo-
nato maschio, e di dare conforto alla che se lo vede strappare. È qui
.che fa il suo ingresso la Grande Sacerdotessa a infrangere le speranze di vita
della sua regina. Il coro che le Amazzoni intonano, sollecitate dalla sacer-
dotessa, ribadisce una volta di più l'immutabilità dei comandamenti' matriar-
cali, lasciando Pentesilea con una domanda senza risposta: "lComo construir
la dicha sobre el odio?" 60.
Le quarta e quinta pteparano il terreno per il complotto ordito a
danno dei due innamorati. In particolare la scena quinta offre un'immagine
di sogno in cui Achille e Pentesilea si vedono, divisi da una barriera di cri-
stallo. È'la scena del mondo utopico'che entrambi sognano, dove, al posto
dei. cori delle Amazzoni o dei soldati, s'intona il coro della che
benedice la. loro unione e. permette che si scambino promesse eterne. Ma
una didascalia riporta l'attenzione sulla realtà dei fatti, lasciando lo spetta-
tore incerto .sulla veridicità di quello che ha appena visto: "t,Mentira o rea-
lidad? La realidad que se eontrapone al suefio o al deseo es la musica guer-
rera y la eonspiraei6n de los militares" 61.
58 Ivi, pp. 19_-20. .
59 Fernando Doménech, op. cit., p. 7.
60 Lourdes 'Ortiz, Aquiles y Pelntesilea, cit., p. 29.
61 [vi, p. 35.
80
La sesta e ultima scena dà. compimento ai piani di Odisseò e della
Grande Sacerdotessa che somministrano un sonnifero ai due amanti appe-
na uniti in matrimonio, facendo credere a Pentesilea di aver brutalmente
ucciso il marito durante il sonno: "A lenguetazos, a dentelladas ... [. ..] Oh,
maldita -incapaz de contener tu furia, tu hambre desatada. ,Oh tu la
mas desdichada de las mujeres! Maldita la leche gue beb!, maldita 'la pro-
genie que alent6 mi furia" 62. Achille, al tempo stesso, crede alle parole di
Odisseo, quando lo convince del fatto che tutto ciò che crede di ricordare
era in realtà un sogno e che Pentesilea si è uccisa dopo aver sbranato uno
schiavo la notte prima. L'epilogo del dramma ristabilisce la 'situazione ini-
ziale, riportando guerra e morte laddove l'amore aveva sovvertito per poco
le norme della ragion di stato. Achille, ricordando da vicino il Segismundo
calderoniano, crede alla verità che l'altro gli impone e continua a vivere
nella' violenza. Odisseo, da parte sua, mette fine alla vicenda orgoglioso del
suo operato, grazie al quale non è stato modificato l'ordine prestabilito: "Las
cosas san como san y, por lo gèneral, estan bien establecidas. Mejor no
modificarlas" 63.
L'idea centrale che, secondo Doménech, percorre 'molte altre opere
della Ortiz, è quella di un mondo orribile "cargado d,e horror, de muerte y
violencia s6lo porque 'hay fuerzas muy poderosas que se encargan de que
sea siempre asi, fuerzas que no se deben buscar en una supuesta maldad
innata en el hombre, sino que tienen nombre y apellido, oficinas abiertas
en nuestras ciudades, cuarteles en nuestros suburbios y templos en cada
encrucijada" 64. .
La missione di pace viene dunque affidata alla donna e il mito viene
riscritto per applicare i suoi dettami, riveduti e corretti, al mondocontem-
poraneo. Ma, come nell'antichità, anche nell'attualità le trame del potere
rendono inutile ogni tentativo di perturbare la realtà, 'e gli ideali di cam-
biamento sono relegati a una dimensione di sogno utopico dove possa esi-
stere "un mundo en donde el pIacer sea la unica norma, un pIacer' de seres
libres e ìguales, no la forma de dominaci6n sexual en que suele conver-
tirse,,65. La vita ideale è pertant9 inapplicabile alla realtà, e i sogni restano
tali.
62 Ivi, p. 41.
63 Ivi, p. 44.
64 Fernando Doménech, ,op. cit., p. 7.
65 Ibidem.
81
L'ultimo dramma che esaminiamo è Electra-Babel66 , del 1992, opera che
porta a una spaccatura tra mito e attualità, scissi per la lontananza che intercorre
tra i due mondi che rappresentano. Il dramma non è infatti una riscrittura della
storia -degli Atridi tramandata dai tragici greci, ma la presentazione di uno sce-
nario contemporaneo in cui non trovano- più posto le tragedie dell'antichità.
La didascalia iniziale chiarisce l'ambientazione contemporanea dell'opera
mostrando una spiaggia in cui vediamo una giovane che si muove coperta. dalla
sabbia. In tutta l'opera mancano dei riferimenti precisi ai personaggi del mito,
'giacché si nominano attraverso nomi comuni: Elettra è "la muchacha", Oreste
"el nifio", Clitennestra "la mujer", Agamennone "el guerrero". A questi si mesco-
lano personaggi della contemporaneità che palesano la distanza tra le due azio-
ni:,in una i protagonisti del mito si incontrano e ricordano la loro storia, nell'al-
tra si confrontano con persone in cui non si riconoscono e che, a loro volta,
non li riconoscono. Si nbta anche una differenza sostanziale di linguaggio tra i '
due gruppi di personaggi: mentre gli Atridi parlano una lingua arcaica e tuna
basata su storie passate, che si mescolano di continuo in una dimensione oniri-
ca, gli altri, in quanto emblemi dell'attualità, si esprimono in modo colloquiale.
Elettra è preda del delirio interminabile a cui l'ha consacrata la classi-
cità e attorno a lei motano caoticamente tutta l'azione e tutti i personaggi,
proprio come nelle tragedie che l'hanno raccontata, dove la ragazza si tro-
vava al centro delle sanguinose morti dei suoi familiari.
Il primo approccio al mondo attuale avviene quasi subito e si tratta del-
l'incontro con due ragazze che parlano animatamente dei rispettivi fidanzati:
LA MUCHACHA: [. ..] Sois muy hermosas.
.Las chicas se miran sorprendidas, y la chica 2° apenas puede contener la car-
cajada; por detras de la muchacha hace un gesto a la otra con el dedo sobre la
sien: "esta pirada"
CHICA 10: lEstas sola?
La muchacha [. ..] huele las cremas, tC?quetea las bolsas de plastic9, acaricia las
toallas...
CHICA 2°: lHas perdido alga?
LA MUCHACHA: lComo es?
CHICA l°: lComo es qué?
.LA MUCHACHA: Él... Ese de que hablabas [. ..] Cuéntame como es cuando te
abraza ... Espera... Déjame imaginarlo... Su piel es tersa como tallada en el mas
rico marmol y sin embargo se dobla sobre ti como el ffiaS fino arco y se hace
dulce como la mieI [....]
66 Lourdes Ortiz, Electra-Babel, "ADE, Revista de la Asociaci6n de directores de esce-
na de Espafta" (Madrid), n. 25, abril 1995, pp. 49-57.
82
CHICA 2°: (Riéndose) Mas o menos. Tal eual, pero eon eoleta. d6nde te
has· escapado,
L'incomprensione che domina questo dialogo - che si concluderà con
Pallontanamento delle due - caratterizza anche l'incontro della ragazza con
Clitennestra, che le rimprovera, come nella tragedia euripidea, il fatto di non
essere come le altre ragazze, di essere schiva, semplice, senza cura per la
propria bellezza: "lPor qué te empenas en ahuyentar a las arnigas, por qué
no .te arreglas los cabellos y cambias tu tunica para atraer la mirada de los
j6venes... ? Eres tan hermosa, pero es dificil verlo bajo ese ceno.. "68. Ma
Elettra non sembra ascoltarla, perché non può fare a meno· di ricordare la .
. sua relazione .con Egisto e di rimproverarle quel tradimento: "Te revolcabas
con él. Yo ofa vuestras risas ... "69. Così il dialogo si interrompe ·sul conflitto
irrisolto tra le due e l'attenzione si concentra immediatamente sull'incontro
di Agamennone, che giunge dal mare, e Oreste. Il padre rimprovera al figlio
di essere effeminato a causa della troppa attenzione ricevuta dalla .madre, la
quale non è certo risparmiata dagli insulti del marito furibondo: "La reina
tiene poco tiempo. Unas putas todas ... te lo diga yo ... Si no les calientas el
lecho como es debido ... "70 Nuovamente, come per tutto il corso dell'opera,
il dialogo e sulla scena sono Oreste ed Elettra a parlarsi, cia-
scuno preda del proprio delirio interiore:
EL NINO: Te he heeho de mi. costilla. O mejor dicho te he· modelado con la
arena de la playa y he soplado para darte lavida. Yo soy tu brazo y tu mi eabe-
za. Somos uno. Mandame lo que quieras, yo obedezeo. quién he de matar
ahora? L..)
LA MUCHACHA 71: ljugando con·las voces.) Si vieras euanto he galopado, euan-
to me he eansado... Prota, frota quiero qu'e me arranques toda la mugre,
todo el polvo de todas las batallas Éres mi mujereita. earinosa y debes frotar
porque yo, tu senor, te lo demando Luego...euando el bano termine... iuna
esposa eomplaeiente siempre debe estar dispuesta ... 72
67Lourdes Ortiz, Electra-Babel, cit.,p. 50.
68IVi, p. 51.
69 Ibidem.
70 Ibidem.
71 Qui Elettra sta pensando a suo padre e riproducendo quello che può aver detto
appena .prima di essere ucciso durante il bagno da Clitennestra.
72 Lourdes Ortiz, Electra-Babel, cit., p. 52.
83
Il passaggio dall'infanzia all'adolescenza di Oreste, che da questo
momento verrà chiamato et chavat, .è segnato da una visione di Elettra, nella
quale una donna e un uomo si accoppiano ripetutamente e che si conclu-
de con una voce in lontananza che nomina Ifigenia. Tale passaggio com-
porta un cambiamento anche nel rapporto tra i due fratelli, che ripercorro-
no le tappe del matricidio, sollecitati dal ricordo del sacrificio della sorella.
Oreste sembra voler cambiare il proprio destino, disperato: "Nada esta escri-
to. Lo que yo voy a hacer no esta escrito ... lo que tu vas a pedirme no esta
escrito. Y sin embargo sé que voy a hacerlo y sé que vas a pedfrmelo... "73
Ed Elettra intende cancellare il crimine di cui entrambi si sono macchiati e
ricominciare da capo: "Ahora que estas aquf, todo sera sencillo... Vamos a
empezar de nuevo el juego... [. ..] duérmete nenito... "74
Dopo l'incontro con un personaggio attuale - un uomo che tenta di
sedurla e in cui lei crede di vedere Egisto - Elettra giunge allo scontro ver-
bale con Clitennestra, scontro che sviscera tutti i rancori e le accuse reci-
proche, senza che madre e figlia giungano a un accordo. È questa un'occa-
sione di più per raccontare la saga degli Atridi senza poterla risolvere, senza
poter trovare un modo per cancellare il sangue e per scacciare i fantasmi
che appaiono a Elettra come a tutti i componenti della sua famiglia.
Ciascuno rappresenta infatti un monito per gli altri, in un labirinto.senza vie
d'uscita.
Le ultime scene dell'opera mostrano un'ultima tappa del percorso di
Oreste, che ora viene nominato, così .come Elettra, direttamente. Il confron-
to tra i due è finalmente adulto e partecipe: non si tratta più dei vaneggia-
menti particolari di ciascuno, ma di un doloroso riconoscimento delle reci-
proche responsabilità. Tanto più doloroso nel momento in cui Oreste
comincia a .esprimersi come Agamennone, a desiderare di prenderne il
posto:
ELECTRA: No eres tu quien habla. Es él.
ORESTES: Él soy yo ahora. iAy! iVolver al hogar, donde ella espera y
se en el agua de un buen bano reparador!
ELECfRA: No oirte. Son los dioses de nuevo, que me han jugado una mala
.pasada.. .. (Se acerca a é4 le coge de la mano...) Ven, vamos a hacer.un castillo...
ORESTES: (que ha ido metiendo piedras en el cubo) No tengo. tiempo para
jugar, ahora. Estoy construyendo ·un puente. Necesito arena y necesito pie-
73 Ivi, p. 53.
74 Ibidem.
84
dras ... y albafiiles y capataces... [. . .] En esta playa no vendrfa mal una urbani-
zaci6n 75 •
Così Oreste, crescendo, viene a incarnare un ruolo di potere che sot-
tomette la stessa Elettra, fino a quel momento sua compagna e alleata. È
come se il contatto con la realtà contemporanea rompesse il vincolo tra i
due fratelli e intaccasse Oreste con quanto di peggio ci sia ad. accomunare
le diverse epoche: la ricerca del potere. Di fronte a tutto questo, Elettra si
chiude in un rifiuto totale verso il fratello e i suoi piani di sopraffazione. È
la dimostrazione che la violenza non è cessata, che il sangue continua a
chiamare sangue e questo è sottolineato dall'incontro tra la ragazza e un
giovane tossicodipendente che fa il suo ingresso sulla scena subito dopo il
dialogo tra i due fratelli. L'ago della siringa che il ragazzo usa per drogarsi
attira l'attenzione della protagonista e potrebbe simboleggiare quelle ferite.
che non possono essere rimarginate, quei crimini che· non si possono più
lavare. Il dialogo surreale tra i due prepara il terreno a quello finale tra
madre e figlia:
LA MUJER: Todavfa es tiempo ... todavfa ...
ELECTRA: Si lo hago yo a lo mejor...
LA MUJER: lEI qué?
ELECTRA: Lo gue hizo mi hermano entonces....
LA MUJER: Es mi puesto el gue tienes gue oeupar, no el suyo... Tu siempre
quisiste ser él... Te equivocaste.
ELECTRA: Eso son tonterfas. Orestes lo hizo y esta libre...
LA MUJER: No es a mf a quien debes matar, sino a él. El que llevas dentro. Y
eso no puedes haeerlo sin matarte a ti misma. Electra-Agamen6n... Eres tu
quien querfas oeupar su trono. Tu querfas ser él. .. Por eso... [. ..] Fue a mf a
quien mataste. A mf dentro de ti. Siempre repudiaste el cuarto de las mujeres ...
no era a Inf a quien odiaste, sino a aquella parte tuya que te reeordaba·.a mL ..
Por eso lo·perdiste todo, por eso eres virgen y... nunea yaeeras con var6n 76 •
Elettra si trasforma in quello che sua madre le ha vaticinato, vale a dire
nell'ombra-specchio di suo .padre: "Quiero descansar yo también... tomarfa
un bano reconfortante, mientras unas manos suaves. acarician mi espal-
da.. ."n La ragazza nel. mare e scompare così dalla vista dello
75 Ivi, p . .55.
76' Ivi, p. 57.
77 Ibidem..
85
spettatore, senza sciogliere alcun nodo, senza aver trovato comprensione.
L'acqua del mare forse laverà via le colpe, ma i fantasmi non scompariranno,
anzi, continueranno a tormentarsi a vicenda, senza soluzione, senza tregua.
L'epilogo appare in linea con tutto lo svolgimento dell'azione, giocata sulla
caoticità delle apparizioni, sulla confusione dei ruoli, dei personaggi, delle pul-
sioni. Quello che ·la Ortiz sembra vedere nella saga degli Atridi è quindi l'im-
possibile superamento delle colpe di ciascuno, colpe che passano da un per-
. sonaggio all'altro continuamente e scambievolmente e che ha111)o come punto
di riferimento fisso la protagonista, destinata a incarnarle tutte allo stesso tempo.
Se, nelle opere precedenti, le protagoniste cambiavano la storia e por-
tavano a una rilettura del mito come proposta diversa perché inscritta in un
tempo diverso, qui assistiamo allo stesso mito, ripetuto infinite volte all'in--
terno di una società attuale, ma mai trasceso e quindi mai applicato a quel-
la realtà. La divisione tra le due azioni, che, come si è detto, mette in rilie-
.va la rottura tra mondo contemporaneo e mondo mitico, porta a un intrec-
cio insolubile di parole" di parlate, in cui "como en una rueda sin fin 108
Atridas vuelven a su historia, tan gastada por.el tiempo, tantas veces conta-
da que ya se .va quedando en jirones de historia, palabras gue van y vienen
y que a fuerza de ser repetidas se van quedando en nada,. meros sonidos,
de significado. Babel. Una confusi6n de palabras para contar la
confusion del recuerdo"78. Elettra-Babele è dunque la depositaria d;i' quelle
parlate, di quei ricordi che la imprigionano nel delirio da cui non potrà usci-
re, .forse, neanche attraverso la morte, come non hanno potuto farlo i suoi
familiari. Chiusi in questo circolo, ciascuno con la propria tragedia che non
può più essere raccontata, Elettra, Clitennestra, Agamennone e "se
van deshaciendo entre la arena y las olas aun comprender qué
paso, por qué paso, quiénes son cada uno de ellos"79.
Con quest'opera qualcosa si rompe' nella visiQne ottimista che la Ortiz
aveva fino a questo momento della dialettica tra mito e attualità. E forse ciò
che si è rotto, come spiega Fernando Doménech, è "el hilo que unfa los
mitos con nosotros mismos. Nadie quiere hoy oir hablar de tragedias, de
amor y odio, de venganza y expiaci6n. Las Atridas son seres de libro, sepa-
rados de nuestro mundo por una cultura de escaparate"80. I miti, sfilacciati
e frastornati, mettono così in scena il loro stesso esaurirsi.
78 Fernando Doménech, Eleclra-Babel. Una elegia mediterranea, "ADE, Revista de
la asociaci6n de directores de escena de Espafia" (Madrid), n. 25, abril 1995, p. 37.
79 Ivi, p. 38.
80 Ibidem.
86
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lA PRIMA POESIA DI ALVARO VALVERDE (1983-1999)'
ALESSANDRO CASSOL
È ormai un topos della critica letteraria premettere a qual-
siasi lavoro sulla poesia contemporanea l'avvertenza che la mancanza .di
un'adeguata prospettiva temporale impedisce una corretta ed equilibrata let-
tura dell'autore in questione. L'obiettivo di questo lavoro è quello di avvici-
narsi all'opera di Alvaro Valverde, uno dei più apprezzati poeti spagnoli del
dopo-Franço, e tuttavia ancora poco conosciuto nel nostre;> paese. La quasi
totale assenza di 'interventi critici sul poeta di Plasencia, eccezion fatta per
le recensioni apparse su quotidiani e riviste letterarie e alcuni commenti rac-
chiusi nelle antologie più recenti, rende necessario un lavoro in qualche
modo fondazionale. le raccolte pubblicate da Valverde nello .
scorcio finale del secolo appena trascorso, se ne metteranno in luce le prin-
cipali formali e tematiche, al fine di tracciare un ritratto, certo
ancora provvisorio, del rapporto che l'autore intrattiene col mondo e della
maniera in cui tale rapporto si trasferisce sulla pagina attraverso la scrittura
poetica.
I risultati di questa' ricerca, ben lontani dal potersi considerare come
definitivi, si offrono soltanto come un iniziale ma consistente avvicinamen-
toalla poesia del primo Valverde, voce personale e per più versi al margi-
ne del coro della contemporanea produzione spagnola. L'eccessiva vicinan-
za alle sue proposte più recenti (Mecanica terrestre, 2002, per non dire di
Sur, 2004, primo anticipo di un libro futuro), ne ostacola l'interpretazione,
che d'altro canto dovrà fondarsi anche sulla relativa rarefazione della scrit-
tura poetica di Valverde, il quale sembra orientarsi, sempre più spesso,
verso il saggio o il romanzo 1.
1 Delle raccolte appena citate, e dei saggi e dei romanzi che menzionerò in
to, intende occuparsi un mio prossimo
87
1. Cenni biografici
Alvaro Valverde è nato a Plasencia, vicino a Caceres (Extremadura), 1'8
agosto del 1959. Educato presso il locale Colegio de Maristas, ha poi stu-
diato Magistero e si è dedicato all'insegnamento, prima nella scuola privata,
poi, a partire dal 1985, in quella pubblica, di cui si dichiara un acceso soste-
nitore.
Ha cominciato a pubblicare le sue poesie su riviste e quotidiani locali
nel 1980. È stato assieme a Angel Campos Pampano e a Diego
Doncel, della rivista bilingue (spagnolo e portoghese) Espacio-Espaço
Esento, che si pubblica a Badajoz con frequenza irregolare. È stato coauto-
re, insieme allo stesso Campos Pampano, dell'interessante antologia di gio-
vani poeti estremegni Abie·rto al aire, pubblicata nel 1984.
Ha poi collaborato con alcune prestigiose riviste letterarie, tra cui ricor-
do soltanto la Revista de Occidente, El Urogatlo, lnsula e Cuadernos Hispa-
noamericanos, sulle pagine delle quali ha avuto occasione di pubblicare
alct;lne .poesie che in seguito sono entrate a far parte delle sue raccolte.
Dopo aver suscitato l'interesse di un suo conterraneo, José Luis Garcia
Martin, che ne ospitò alcuni testi nella sua antologia degli anni Ottanta, si è
,consacrato come uno dei poeti più validi delle giovani generazioni con Las
aguas detenidas (1989). Da allora ha pubblicato mediamente una nuova
raccolta ogni due anni, almeno fino al 1999, mentre in seguito ha rallenta-
to i suoi ritmi produttivi, dedicandosi al saggio (Ellector invisible, 2001) 2 e
alla narrativa (Las murallas del mundo, 2000)3. La partecipazione ad alcune
giornate di poesia (a·Cuenca nel 1993 e a Badajoz nel 1994 e nel 1999) gli
ha offerto lo spunto per realizzare delle autoantologie, spie sempre prezio-
se.' degli orientamenti di un poeta. Si è inoltre aggiudicato alcuni prestigiosi
riconoscimenti letterari, tra cui il Premio della Fundaci6n Loewe e il Premio
de Poesia di C6rdoba, e ha conquistato le pagine di alcune delle più cono-
sciute ed equilibrate antologie della lirica recente.
2 Si tratta, in realtà, di una raccolta di articoli usciti sul quotidiano ARe tra il 1997 e
il 2000, spesso incentrati sulle sue letture e caratterizzati da una prosa piuttosto gradevo-
le. Di recentissima uscita è un'altra raccolta di brevi prose, a mezza via tra il resoconto
giornalistico e l'appunto di viaggio, anch'esse già apparse in precedenza su quotidiani.e
riviste: mi riferisco a Lejos de aquf (2004).
3 Interessante romanzo di ambientazione estremegna, quasi una riscrittura narrativa
dell'universo spaziale e memoriale delle sue migliori raccolte poetiche. A br.eve è previ-
sta anche l'uscita di un secondo romanzo, Alguien que no existe, per i prestigiosi tipi di
Seix BarraI.
88
Dal 1995 lavora in un centro permanente per l'aggiornamento didatti-
co del corpo docente, gestito dal Ministerio de Educaci6n y Cultura, e pre-
sta particolare attenzione all'impiego 'delle nuove tecnologie informatiche
nel campo dell'insegnamento. Collabora alle scelte editoriali della Editora
Regional, che rientra nell'orbita della Junta de Extremadura, e si adopera per
la diffusione delle lettere estremegne anche attraverso la partecipazione a
letture poetiche, convegni e seminari di scrittura. È stato il presidente della
Asociaci6n de Escritores de Extremadura, e scrive abitualmente per il quo-
tidiano ABC di Madrid, oltre a collaborare con altri giornali, come El Perio-
dico Extremadura.
Personalità serena ma decisa, è stato al centro, qualche tempo fa, di un
vivace dibattito sulla dignità del "castuo" (la parlata estremegna) come lin-
gua di espressione alta, idea da lui respinta, e nell'ottobre del 2003 è stato
destituito dalla giuria di un premio letterario a Badajoz, probabilmente in
seguito a un articolo che denigrava la politica culturale del PP.
2. Alla ricerca del territorio: la prima poetica di Valverde
2.1 Gli esordi e Territorio (1985)
Alvaro Valverde ha cominciato a scrivere verso i vent'anni, a un'età,
dunque, relativamente avanzata. La· prima poesia pubblicata non ha un tito-
lo definito, e per quanto l'autore stesse ancora muovendo i primi passi al
della pubblicazione, tale componimento è senz'altro uno dei più
importanti per capirne la concezione del mondo e la poetica. Si tratta di un
testo che risulta indispensabile analizzare per cogliere l'embrione della poe-
sia di Valverde, almeno nella sua prima fase.
hojas de acanto y rosas,
una vieja piedra de molino y enramadas,
- el suelo tejido de una hiedra fresca -
el dejarse caer cuando la siesta insiste,
cuando la parra protege y la chicharra canta;
mecerse con la brisa de la tarde,
con la musica acorde,de las moscas,
obligarse a vivir con rilansedumbre,
no dormir ni siquiera estar despierto,
no buscar sino amor
89
f"
.- ni recordar siquiera -
en este huerto sombrio
donde las horas son luz tamizada
y del lim6n aronla
hagamos de este lugar un territorio
È evidente l'impostazione programmaticadella breve poesia, con l'in-
vito finale a crearsi -un proprio territorio, motivo su cui Valverde tornerà più
volte in seguito e che ha anche avuto modo di commentare retrospettiva- .
mente. Stando alle sue stesse parole, infatti, una costante della sua prima
fase artistica è proprio ccesa busqueda, la descripci6n del territorio (la poe-
sia y el paisaje), siempre en torno a esos dos reinos en que al decir de
]osé Angel Valente se constituye el poeta: el de la memoria y el de la
visi6n))4. A dire il vero, in questa prima poesia la visi6n non è presente, a
differenza del tema della memoria, che è appena accennato (cc- ni recordar
siquiera -))). Il soggetto poetico, riecheggiando la tradizione classica, si limi-
ta a contemplare e glorificare un rusticissimo locus a moenus, sostenendo
che esso possa bastare all'uomo: è un mondo abbreviato che ha caratteri-
stiche di protezione (ccla parra protege))), di lento scorrere delle giornate, di
armonia naturale, di poca o nulla volontà di chiarimento e spiegazione. È
un universo chiuso, autoreferenziale, che per qualche anno ancora sembre- .
rà sufficiente all'uomo e al poeta Alvaro Valverde, ma che nelle raccolte più
mature e si rivelerà inadeguato a soddisfare le esigenze gnoseolo-
giche dell'essere umano. Valverde fà un uso sapiente dell'infinito, modo ver-
bale atemporale e per questo sempre presente, sempre valido, che ben si
,·sposa con l'intento programmatico, quasi da "manifesto"" di questa sua
prima poesia. Compare nel testo la parola più tradizionalmente lirica,
C(amor», ma questa è una delle pochissime occorrenze di tale termine in tutta
la poesia di Alvaro Valverde. Si notano, inoltre, alcune durezze negli acco-
stamenti delle parole (ccla siesta insiste)), c(la .chicharra canta)), «la musica acor-
de))), che. il poeta' saprà eliminare nella produzione più matura, improntata
a un'estrema scorrevolezza prosodica e a una misurata armonia del giro
della frase.
La poesia-manifesto testé commentata esce in una piccola antologia di
giovani poeti estremegni, ]6tJenes poetas en et "Aula" (1983). Seguono poi
4 Cfr. J.L. Garcia Martin, La generaci6n de los ochenta, Valencia, Mestral, p. 185 (il
corsivo è dello stesso Valverde).
90
· alcune pubblicazioni occasionali su riviste e quotidiani locali. La prima vera
raccolta di poesie pubblicata da Valverde è Territorio (1985). Garcia Martin,
uno dei più importanti osservatori della poesia spagnola del dopo-Franco,
rintraccia già in Territorio «una decidida vocaci6n de estilo, un deseo de vio-
lentar la sintaxis, de enrarecer la anécdota y multiplicar las referencias inte-
.lectuales)), tutti elementi che lo differenziano dalla maggior parte dei poeti
coetanei, «mas partidarios de referirse a "lo que pasa en la calle", de culti-
var una poesia urbana y de la experiencia)) 5. Territorio si divide in cinque
sezioni, per un totale di 45 componimenti, che variano dai quattro versi di
Consejo ,a lectores, il quarto testo della silloge, ai ventuno di Mr. T.S. Eliot, .
Russell Square, l'ultimo e più riuscito, a detta· dello stesso Valverde.
L'epigrafe della ra.ccolta è un verso di Valverde, quel «hagamos de este lugar
un territorio)) che chiudeva, a mo' d'invito e di proposta, la prima poesia del-
l'autore. Territorio, e non potrebbe essere altrimenti, è un libro molto dis-
uguale, che comprende alcuni testi francamente mal riusciti e altri che, pur
senza avvicinarsi al livello della poesia della maturità, sono la spia di un
talento non comune. La prima sezione, intitolata "In limine", ha per tema la
poesia stessa e il mestiere del poeta. L'affermazione lapidaria che costitui-
sce il verso conclusivo del penultimo componimento (<<Escribo hacia el
pasadoporque olvido))),' preannuncia un tema, quello del poeta, e dell'uo-
mo in genet;ale, alle prese con il passato e il tentativo di salvarlo
la scrittura, che troverà successive e ben 'più compiute modulazioni a parti-
re da Las aguas detenidas.
Decisamente più interessante,ancorché piuttosto ermetica, è la secon-
da sezione di Territorio, intitolata ''Jardin cerrado". Il giardino, destinato a
convertirsi in uno dei luoghi privilegiati della poesia di Valverde, è una sorta
di microcosmo: in esso. si svolgono le mille vicende della vita quotidiana,
esemplificate soprattutto dal fiorire e dal decadere degli elementi naturali,
in particolare la vegetazione-o Non si tratta, beninteso, di un luogo di riposo
e di serena contemplazione della natura. Il giardino è, piuttosto, un «oscu-
ro laberinto [. .".] / donde Ja luz acierta al emboscaje)); in ogni angolo, in ogni
pianta o animale è possibile riconoscere i segni della morte, dell'appassire
di ogni cosa. È un microcosmo conflittuale, che non ha nulla
di consolatorio, di rasserenante, e che nemmeno stimola nel poeta la rifles-
5 l.L. Garcia Martin, cela poesia», in D. Villanueva et alii, Los nuevos nombres: 1975-
1990, Barcelona, Critica, 1992, p. 121 (in Historia·y critica de la literatura espafiola, ed.
Francisco Rico, voI. IX).
91
sione metafisica, come farà nelle raccolte più mature il paesaggio estreme-
gno. Il giardino rimane, per ora, un luogo di osservazione, una specie di
laboratorio in cui cogliere la misteriosa alchimia degli esseri naturali nel
tempo.
I sette, componimenti della terza sezione, "Estancias"., affrontano un
tema che si rivelerà fecondo nella produzione successiva, quello della stan-
za, dell'interno di un'abitazione, altro esempio di mondo abbreviato in cui
si annidano oggetti, ricordi di persone scomparse, battaglie nascoste tra l'o-
scurità e la luce, tra il tempo e la memoria. I quindici brevi frammenti che
compongono la quarta sezione di Territorio, cioè "Travesta", prefigurano il
poemetto Los marinos inm6viles, che, steso cinque anni più tardi, verrà pub-
blicato soltanto nel 1996. Si tratta di una serie di visioni a sfondo marino,
rivissute in parte attraverso il ricordo di un naufrago, in cui si mescolano
allusioni alla grecità e alla mitologia mediterranea, desiderio di viaggio e
presagio di sconfitta, fino alle citazioni finali da H61derlin e T.S. Eliot che
sanciscono la morte del viaggiatore. ,l.
Delle quattro poesie di· "Variaciones y homenajes", l'ultima parte del
libro, merita una citazione soltanto, Mr. T.S. Eliot, Russell Square, che pre-
senta l'angoscioso quadretto. del risveglio di un uomo solo nel cuore di
Londra, reduce da una sbronza e pronto a tornare al lavoro, come se tutto
procedesse normalmente. Quello che lo circonda, però, è solo finzione,
convogliata da termini ed espressioni quali «simulacro», «segul! costumbre»,
«ritual», «mascara», «escenario», fino alla presa di coscienza del verso finale,
<eDesde esta ventana de Lloyds se ve la muerte». Anche senza il richiamo pre-
sente nel titolo, sarebbe impossibile non cogliere le allusioni ad alcuni testi
capitali della lirica novecentesca, quelli in cui T.S.Eliot ha raffigurato l'as-
surdità della condizione dell'uomo nel mondo moderno.
2.2 I resti di un naufragio annunciato
A Territorio fece seguito una plaquette, oggi praticamente introvabile,
intitolata·····Sombra de la memoria (1986). Le poesie raccolte nella plaquette
sono undici, tutte molto brevi, tanto che. la più estesa si compone di appe-
na undici versi. Si caratterizzano per l'estrema concisione, la sintesi delle
parole che si costituiscono in strutture ermetiche, oscure, tanto ellittiche da
impedire una piena comunicazione con il lettore, che esce irrimediabil-
mente sconfitto dall'assedio interpretativo. Naturalmente, la cifra peculiare
di Sombra de la memoria è proprio la sua volontà di non risultare chiara.
92
Rilevarne l'ermetismo, dunque, non implica un giudizio di valore negativo,
ma soltanto l'alto grado di autoreferenzialità di una scrittura poetica che si
avvolge a spirale su .se stessa, che parla come davanti allo specchio. Nel
quarto componiment.o della raccolta troviamo in apertura un invito a un
referente esterno alla poesia, la quale, però, torna presto a chiudersi in un
linguaggio suo, difficilmente penetrabile da fuori:
LINDE.
ObselVa el claustro
silencioso ·de jardfn
y de médanos vanos.
Arboles atardecen,
cardenos, en el viento,
ramas de la negrura.
Si malIa u ovillo, sombras;
primordial su presencia
de bestiarios insomnes.
En azares de bosque
e1 claro es luz de limite.
In questi versi sono presenti alcuni dei termini chiave della .poesia di
Valverde: il «jardin)), per esempio, ma anche le «sombras)), la «luz)) e il «limi-
te)). Sono gli stessi termini che nelle raccolte più mature daranno vita a rifles-
sioni più distese, meno criptiche, che avranno bisogno, infatti, di trovare
un'esplicitazione in strutture più ampie. Il bianco della pagina, così caratte-
ristico del primo Valverde, verrà intaccato sempre più dal nero dell'inchio-
stro. Le idee del poeta avranno bisogno di uno spa.zio maggiore per dis-
piegarsi, dovranno tradursi in un maggior numero di segni, anch.e ·se l'abi..
lità di Valverde starà proprio nell'impedire al testo di diventare ridondante.
Sombra de la memoria, nei progetti dell'autore, sarebbe dovuta con-
fluire nella raccolta Lugar del elogio (1987), che invece consta di appena 17
poesie, distribuite tre sezioni. Si tratta. di componimenti molto "brevi - di
rado superano i dieci versi - che si articolano in periodi sintattici estrema-
mente· concisi, in bilico tra la pennellata impressionista e ·l'immmagine epi-
grammatica.
L'ambiente che funge da sfondo naturale a queste liriche è ovviamen-
te quello estremegno: fiumi,' rive sabbiose, fronde scosse· dal vento nella
calura mezzogiorno,· vigne e uliveti, piccole ,città di provincia che sem-
93
.. _._._---------
brano addormentate in un sonno secolare, costruzioni ormai abbandonate
e in rovina, invase dalle erbacce. L'unica eccezione è rappresentata dalla
lirica finale, Stròmboli, che introduce per la prima volta nella poesia di Val-
verde la presenza dell'Italia, destinata a farsi sempre piùassidu·a nelle rac-
colte successive.
Lugar del elogio viene a chiudere una sorta di trilogia, che comprende-
rebbe Territorio e Sombra de la memoria come primi due elementi. Lo stes-
so Valverde ha voluto segnalare la sostanziale omogeneità di queste prime
tre raccolte. Nel questionario dell'antologia curata da Garcia Martin,
Valverde diceva che esse si possono considerare «como una unidad de
intenci6n y sentido))6. Una modalità espressiva tipica di questo primo Val-
verde, e che non si ritrova nelle più ampie e mature raccolte successive, è
quella del brevissimo quadro descrittivo, conciso, pressoché privo di azio-
ne e di verbi, che offre una o due immagini suggestive della natura, una
natura trascritta con l'ausilio della metafora, non lontanissima dagli accosta-
menti arditi della gregueria. Un esempio abbastanza chiaro di questa moda-
lità è il seguente:
VISION
Sobre el hielo las huellas ()
que atraviesan la noche.
A lo largo del puerto - no lejos
cenizas de luna.
Niente di più lontano dall'esteso e compassato meditare dei versi di Las
aguas deterzidas, la prima silloge del Valverde più' maturo.
Lo stesso Garcia Martin ha avuto modo di evidenziar.e le caratteristiche
della poesia di questa prima maniera di Valverde, inquadrandola nell'ambi-
.to di quella che lui definisce «corriente minimalista» e sostenendo che con
questi «poemas minimos» talora a emulare· «la nitidez y la capacidad
de sugerencia de la lirica de oriente, de los maestros del haiku»7. Valverde,
nel momento in cui si occupava della stesura dei componimenti che poi
entreranno a far parte di Las aguas detenidas (siamo tra il 1987 e il 1988),
percepiva chiaramente di aver chiuso una fase della sua storia poetica.
Difatti, queste nuove poesie andavano proprio dal rifiuto del
6 .Garcia Martin, La generacion de los ochenta, cit., p. 185.
7 J.L. Garcia Martin, "La poesia", cit., p. 121.
94
precedente, e ormai superato, periodo minimalista; erano, come dichiara
egli stesso,
fruto del cansanciò - el de insistir en el poema breve - y, a la vez, un reto:
superar la creciente dificultad del poema de cierta extensi6n que, como a nadie
se le acuIta, no se limita al problema formaI sino a la totalidad de la concep-
ci6n del poema y, ffiaS alla, de la misma poesia 8.
È giusto notare, tuttavia, che in Lugar del elogio presenti alcuni
.'degli elementi simbolici che ricorreranno assiduamente nei libri successivi.
L'analisi del lessico di Lugar del elogio indica come parola più ricorrente
«luz», come si vedrà meglio in Las aguas detenidas, rappresenta un
elemento naturale di importanza decisiva nell'universo simbolico e poetico
di Valverde, legato com'è all'attesa, al momento epifanico ardentemente
della rivelazione, dello schiudersi del senso delle cose.
L'elemento acquatico costituisce uno .dei poli d'attrazione di Lugar del
elogio, come testimonia l'ambientazione fluviale di molti quadretti della sil-
loge (e com'è confermato dalla frequenza di parole quali «rio», «agua)) e
ccaguas)) , ccarenas» , ccriberas» , «margenes» , «orilla)) e <corillas») , e ancora «estuario)),
«estuosas)), «fluvial)), «cauce)). Proprio il.peculiare punto di osservazione for-
dal margine, il confine labilissimo tra la terra -e l'acqua, si rivela come
uno degli osservatori .privilegiati per esercitare lo sguardo sulle cose, siano
esse gli elementi del paesaggio o le costruzioni dell'uomo. L'acqua
è l'elemento primordiale, il fattore generativo e, al tempo stesso, quello che
produce il cambio e segnala visivamente lo scorrere del tempo durante il
quale· il cambio si manifesta. L'açqua è il ritorno continuo, lo status quo in
cambiamento perpetuo, rappresenta la traduzione concreta dell'ossimoro
antologico temporale/eterno (ceEI agua retorna a lo evidente)), Aguas;
ceDeviene la mudanza en secreto», Margenes).
È un mondo poetico, quello di Lugar del elogio, coerente e circoscrit-
to, tutto compreso com.'è tra la Plasencia natale' e le campagne circostanti;
un territorio cercato e facilmente dal poeta perché è il suo territorio,
quello della sua provenienza, che per questo motivo risulta fin dal primo
sguardo coeso, strutturato, autoreferenziale, ma solo apparentemente· baste-
vole a se stesso e agli enti pensanti e senzienti che lo abitano. È un territo-
rio che permette di vivere ma che non basta a vivere, perché .lascia intuire
8 ].L.Garcia Martin, La generaci6n de los ocbenta, cit., p. 186.
95
l'esistenza di mondi esterni, forse riflessi all'interno dell'uomo, che Valverde
s'incaricherà di esplorare più a fondo nelle raccolte successive. «Nombro la
geografia)) dice l'autore, ma l'operazione del conferimento del nome, e quin-
di del sigillo dell'intelligenza umana, «no agata su realidad)) (Molino de los
naranjos). La poetica del territorio non verrà mai abbandonata del tutto, e
proprio in questo senso la lettura di Lugar del elogio, che pure si rivela una
raccolta di valore inferiore a quelle che appariranno più tardi, risulta deci-
·siva per comprendere appieno il mondo di partenza di Alvaro Valverde,
quel «nucleo germinal))9 che egli stesso vi riconosceva e che aveva configu-
rato fin 'dalle sue primissime prove poetiche.
Complètamente avulsa dalla poetica del territorio è una plaquette, sen-
z'altro la meno conosciuta di Valverde, intitolata Aer6voro (1989, ma risa-
lente a quattro anni prima), che consta di dodici poesie, di dirt:J.ensioni assai
ridotte, incentrate sul tema del volo. Come dice Valverde in nota espli-
cativa, «el titulo procede de una serie escult6rica de Martin Charino)), ma l'i-
spirazione deriva dal «supuesto vuelo dèl tallista Rodrigo Aleman anotado en
el libro de Antonio Ponz Viage de Espafla)). ·L'attività dello scultore e i pro-
getti e i sogni dell'uomo che vuole volare si fondono in testi che hanno come
denominatore comune il senso di sconfitta. L'autore tende a parlare assai
poco di queste poesie, che nell'insieme costituiscono la sua raccolta più
indecifrabile e complessivamente .meno felice. Per dirla con le sue stesse
parole, che il poeta di Plasencia estende a tutte le poesie scritte dopo
Territorio e prima di Las aguas detenidas, si tratta dei (Crestos de un naufra-
gio anunciado»lo, i frutti tardivi di una stagione ormai al crepuscolo, ma pur
sempre chiave di volta dell'edificio poetico costruito da Valverde, per il quale
«Territorio, y·el epigrafe que·lo abre, "hagamos de este lugar un territorio",
servirian, de una parte, como titulo generaI de unas inexistentes poesias
completas y, de otra, como lema que las atraviesa de principio a fin)) Il.
9 Ibidem, .p. 184.
lO Traggo la definizione da un articolo che Valverde scrisse nel 1997, su richiesta dei
Cuadernos hispanoamerlcanos, in vista di un numero monografico sulla giovane poesia.
Il progetto andò a monte e l'articolo, ccSombra de una idea)), che ripercorre la concezione
della poesia secondo Valverde e costituisce un ripasso della sua produzione, rimase nel
cassetto dell'autore. Ringrazio Alvaro Valverde per avermelo fornito e per il permesso di
utilizzarlo nell'ambito di questo lavoro. In tutte le successive citazioni i corsivi s'intendo-
no dell'autore. .
11 Cito da Lugar de la mirada, lugar de la memoria (Caceres, 2000, p. 5), edizione
non venale di una conferenza tenuta a Badajoz nel 1999 e accompagnata da una succin-
ta autoantologia..
96
3. La poesia meditativa
Nell'aspra selva di etichette e definizioni di scuole o movimenti poeti-
ci che caratterizza la letteratura critica sulla giovane lirica spagnola non ha
trovato fortuna quella di «poesia nieditativa)), che pare invece ben aderente
alla scrittura poetica valverdiana. Non si tratta, sia ben chiaro, di un filone
definito, cosciente, magari dotato di un manifesto. Nell'usare tale formula mi
appoggio, piuttosto, sulle che Alvaro Valverde consegnato al
già citato articolo scritto per la rivista Cuadernos hispanoamericanos all'ini-
zio del 1997 e rimasto inedito. In quell'occasione Valverde scriveva:
afirmé con modestia que, puestos a etiquetar, cuanto he escrito (manteniendo
una duda razonable sobre la pertinencia de incluir o no el primer libro y las .
mencionadas plaquettes) se podria amparar bajo una sencilla divisa de poesia
meditativa o de la meditaci6n, utilizada por gente honorable como Unamuno,
y que, en un sano ejercicio de literatura comparada, reuniria, entre otras, a la
poesi3: de Manrique, san ]uan, el Quevedo metafisico, Cernuda, Holderlin,
Leopardi, Yeats, Eliot o Rilke.
Poco oltre fornisce una definizione di poesia meditativa che cerca di
situare in una posizione equidistante da quella ermetica (che è puramente
riflessiva, esclusivamente metafisica) e dalla tendenza che, s'econdo molti
critici, primeggia nel panorama poesia spagnola degli ultimi anni, ovvero la
poesia de la experiencia:
La poesia meditativa permite una media distancia entre lo que comun y res-
tringidamente se entiende por experiencia y lo que se entiende por reflexi6n.
L.,] lo que nos ha ocurrido (lo que es anécdota)queda filtrado por la' medita-
ci6n Cel pensamiento). El.resultado es un poema que no se quedaria detenido
en un mero niveI primario (simple, referencial, intransferible e inane), que per-
,mite, ademas, superar de buen grado el peligro que acecha a la poesia exclu-
sivamente reflexiva (si elIo en rigor fuera posible) donde el hermetismo, la frial-
dad o la incomunicaci6n impiden cualquier otro acercamiento que el pura-
mente intelectual.
L'analisi delle raccolte più mature di Valverde ci di com-
prendere ed esemplificare cosa l'autore intenda per poesia ccmeditativa)), e
quanto essa· si dalla «poetica del territorio)) dei suoi primi libri.
97
3.1 Las aguas detenidas (1989)
Con Las aguas detenidas (1989), Alvaro Valverde inaugura la seconda
fase della sua traiettoria artistica. Il passo da Lugar del elogio a questa rac-
colta è notevole, e risulta visibile fin dall'abbandono delle piccole editrici
regionali per l'ingresso in una delle case specializzate in campo poetico
(Hiperi6n), con il quale il poeta di Plasencia viene assorbito dal circuito edi-
toriale pi4 importante (e da allora, infatti, ha pubblicato anche per Visor e
Tusquets). Le differenze più significative, comunque, riguardano non tanto
l'aspetto formale dei suoi componimenti, che pure cambia in modo sostan-
ziale, ma soprattutto il versante tematico, caratterizzato da una visione del
mondo più articolata e filosoficamente complessa, nella quale la poesia
diventa autentico strumento gnoseologico, non più mero riflesso impressio-
nista della natura.
Las aguas detenidas comprende 20 componimenti, di dimensioni molto
omogenee (si va dai 23 versi della poesia XVII ai 34 della prima). Le poe-
sie non recano titoli, ma soltanto una numerazione in cifre romane, e non
sono organizzate in parti o sezioni. La struttura della raccolta, fin dal primo
impatto, trasmette una sensazione di estrema compattezza, che la lettura dei
testi non può non rafforzare. Le tematiche su cui s'impernia questa silloge
sono in parte una ripresa un ampliamento delle questioni toccate già nei
libri 12; Valverde, tuttavia, allarga .in Las aguas detenidas l'oriz-
zonte espressivo della sua ricerca artistica e si avvicina a temi, immagini e
modalità stilistiche destinate a caratterizzare anche la sua produzione suc-
cessiva. È quindi centrale il ruolo che riveste Las aguas detenidas nel cor-
pus poetico valverdiano.
Il primo componimento inizia con un'immagine, quella dello sfolgo-
rante mezzogiorno, che è sì un momento della giornata, ma anche, e soprat-
tutto, un istante apparentemente privilegiato nella cosmologia di Valverde:
A la hora desierta y fugaz del mediodfa
cuapdo el azar devuelve en cifra acib.arada,
como una de lo vivido,
el pasado ysus sombras; cuando somos
del habitado solo rumor de pasos
12 Ciò che spingeva F. Castro Fl6rez a dire, già nel 1989, che «su' obra no esta com-
pletandose, sino que esta manteniéndose, sosteniéndose o persistiendo)) (cfr. «Moradas de
la ausencia: Las aguas detenidas)), Revistade estudios extremefios, 46, 1990, p. 771).
98
y apenas nada puede- penetrar la existencia
que murada sucede y se demora - entonces,
retorna inextinguible una clara visi6n.
L'accumulazione insistita di subordinate temporali, che si estendono a
coprire i primi sette versi, crea un'atmosfera di attesa, di tensione che si vor-
rebbe destinata a sciogliersi, ed è quello che sembra succedere con l'an-
nuncio di '«una clara visi6n», che non solo è, o dovrebbe essere, stando
all'aggettivo, cristallina, perfettamente comprensibile, ma è anche duratura,
o meglio eternamente ritornante. L'attesa precede la scoperta, la ri,velazio-
ne, la luce quasi accecante del mezzogiorno sembra promettere la com-
prensioneretrospettiva del passato e la spiegazione del presente. Tuttavia,
Las cosas permanecen en las cosas:
pasa la luz dudosa entre los arcos,
descansa en los balcones coloniales,
brilla en las aguas blancas del invierno.
Pasa' la luz y nada y nadie acierta
en la adivinaci6n. Los signos expectantes,
el cielo de amenaza. Las senales.
no ven el fulgor que lo anuncia?
La luce non, aiuta a comprendere il mondo, si rivela insufficiente, ina-
deguata a soddisfare lo stato di attesa, la volontà di chiarificazione che si
agita nell'uomo che contempla il paesaggio che lo circonda, disabitato e
freddo. Il testo trasmette la possibilità, la potenzialità del momento (ci sono
infatti ccsignos» e ccsenales»), ma l'annunciata epifania si dissolve nel. suo stes-
so manto di luce: il chiarore che tutto dovrebbe spiegare è eccessivo per
l'uomo, che discerne niente più che segnali e spie di una possibile, ma non
realizzata, spiegazione. Nei versi successivi si rincorrono scene di una vita
rurale ormai seppellita dalla neve e dal tempo, ricordi ancestrali rivissuti
dalla cclevedad que es el olvido». La poetica del territorio, che dava vita ai
quadretti impressionistIci di 'Lugar del elogio" non è ,sufficiente a
Valverde. Illugar natale non basta più, perché.è ricco soltanto di elementi
vuoti, senz'anima o disabitati, che sfiorati dalla luce si rivelano inutili testi-
monianze di un passato irrimediabilmente perduto e, al tempo stesso, debo-
li segnali, fiochi riflessi di una realtà che sfugge all'osselVatore e 'si espone
in la sua evidenza proprio per non farsi afferrare e capire. I segni, che
pure ci sono, e rimangono lì, a qisposizione di chiunque voglia ihterpretar-
li, risultano incomprensibili, oscuri benché luminosissimi, e configurano un
99
,
mondo che è «azar)), lotteria truccata in cui si può tirare a indovinare, ma in
cui non si indovina mai.
In questa prima densissima poesia si annidano quasi tutte le tematiche
e le immagini tipiche di Las aguas detenidas. Vi troviamo il tema del tempo,
percepito soprattutto come distanza che separa il presente dalla vita tra-
scorsa, che è solo insieme di ricordi incongrui, spezzettati in mille immagi-
ni che a volte affiorano dalla coscienza e stimolano nel soggetto la perce-
zione di un'età lontana e ormai perduta. Vi troviamo il motivo dell'attesa
epifanica di una rivelazione, maestosamente ·annunciata dal fulgore della
luce e sempre irrime'diabilmente differita. Compare il tema del segno, fram-
mento della verità che comunque non basta per risalire al significato com-
plessivo e intrinseco delle cose. Riceve la sua prima formulazione la
della casualità, dell'ordinamento, discorde e disordinato, dell'esistenza. Gli
elementi che compongono il lugar, o il territorio, sono privi di valore in sé,
ma si offrono allo sguardo del contemplatore come spunti per una rifles-
più ampia, che ambisce a percorre l'accidentato cammino dalle cose
finite, perimetrate, alla luce della verità, all'infinito senso dell'universale, del
non circoscritto, del non perimetrato. Tutta la raccolta di Las aguas deteni-
das è una continua variazione sul tema, o sui temi, che la prima poesia
introduce e porge alla riflessione del lettore. Già uno dei primi recensori del
libro, Miguel Casado, rilevava il «modo parad6jico de razonamiento)) che lo
caratterizza, e che procede più attraverso «una serie de ensayos diferentes,
y aun opuestos, sobre la materia)), che seguendo una logica lineare 13 •
Il tempo e il ricordo sono i protagonisti del secondo componimento, di
pregevolissima fattura. Suoni e. immagini del passato, nonché ricordi di
un'attitudine contemplativa paragonabile a quella, più matura, del presente,
si offrono al poeta, dimidiato coscientemente tra la contemporaneità del
ricordo e la percezione del già successo. Valverde sostiene che «nada ptiede
rescatar la memoria / sino restos informes de un naufragio anunciado».
Il passato sa restituire al che si tuffa in esso niente più che e<la
sinraz6n glie asiste lo que sucede y pasa)). La dimensione del ricordo è costi-
tuita da frammenti scomposti, da «ruinas del viejo laberinto»), la cui ricostru-
zione può essere «labor de una vida) e, per il suo stesso carattere di impre-
sa titanica e impossibile, anche <eIa su pérdida». Ogni ritorno al passato è
un'esperienza raramente grata, come dimo.stra l'insanabile frattura con il
presente a cui si finisce inevitabilmente con il tornare.
13 Cfr. M. Casado, «A1eph ° laberinto.•, Urogallo, 37 (1989), p. 70.
100
La terza poesia della raccolta riprende il tema dell'attesa di un momen-
to epifanico che finisce col rivelarsi deludente e inadeguato. La contempla-
zione del paesaggio estremegno, avvolto in questo caso nelle ombre della
notte, propone al soggetto un calibrato Ce leopardiano) avvicendarsi di
suoni e silenzi, di momenti sereni e di attimi che si avvertono minacciosi.
«Temor», «miedo», «terror», sono i sentimenti che scatena l'immensità della
solitudine dell'uomo nella natura, serena ma incomprensibile, come dimo-
stra «la calma indescifrable de las cosas». L'approssimarsi dell'alba è indica-
to dal chiarore che sorge all'orizzonte, e dal risvegliarsi, sempre uguale a se
stesso, della vita contadina, percepito attraverso «el rumor de los senderos,
/ de losas y de acémilas». Il giorno ormai fatto sembra aver vanificato le
potenzialità esplicative della dimensione notturna dell'esistenza. «Ya nada es
como antes»; tutto, ormai, si mostra nella sua apparenza, nulla è occultato
allo sguardo indagatore dell'uomo. II poeta, però, percepisce qualcosa che
oltre l'apparente clara visi6n (per riprendere il sintagma della prima
poesia) che si manifesta durante il giorno:
La intensa luz solar del mediodfa
no oculta la aridez de tanta sombra.
Detras de· su fulgor esta la noche.
Ancora una volta, il «fuIgor» è solo apparente, è un tranello teso all'uo-
mo che crede di riconoscere, favorito dalla luce, l'essenza delle cose. Ma 'è
proprio lo sguardo che scopre in tutta la sua pochezza la rudimentalità del-
l'inganno, l'esistenza di una verità che si può solo intuire, certo non spie-
gare.
Anche i componimenti successivi oscillano tra. questi due poli di attra-
zione: da una parte, il cammino a ritroso qella memoria, favorito dalla con-
templazione dei luoghi, per lo più abbandonati, dell'infanzia; dall'altra, il
confronto con la coscienza, matura e rassegnata, dell'inutilità del ricordo e
dell'impossibilità di comprendere. il senso ultimo delle cose. La V poesia si
chiude con questi versi, teorizzazione di quanto sia insensato l'afferrarsi del-
l'uomo al suo passato:
Por senderos oscuros siempre vuelven
las sefias habitadas .
que en la fugaz memoria del instante
son s610 vanos velos deleclipse,
veladas apariencias qùe nombramos
de una eiudad remota,
101
visiones de quien puso en la distancia
su unica certeza,
de quien vencido abandonara
la dulce obstinaci6n de registrar las ruinas.
La poesia VII cerca di esprimere proprio il movimento dell'autore
l'oggi della scrittura al passato, certo più felice perché meno problematico.
Riandare con la mente agli anni d'infanzia significa tornare a un lugar,
pieno di «cifras de la noche» e «signos de la luz», che solo la coscienza adul-
ta è capace di cogliere come tali, ancorché non sappia illuminarli di senso;
è un mondo, quello d'infanzia, percepito come idillico, nel quale «la SOffi-
bra es la sustancia / que ya no nos separa», e in cui tutti i sentieri, invece
di disperdere l'ordine e sparpagliare gli uomini e i loro. destini, conducono
«a las fieles orillas», alle frontiere tra il mondo terreno e quello fluviale (e
primigenio, come si è visto in Lugar del elogio). Molto romanticamente, il
processo della crescita comporta una progressiva perdita di quello stato di
serena incoscienza che caratterizza gli anni giovanili, in cui il perimetro del
mondo conosciuto è sufficiente e percepito come autentico, come unica
realtà È l'allontanamento da quel territorio, naturale e spirituale,
che segna il cadere delle illusioni e il trionfo dello scorrere del tempo sul-
l'ansia di quiete che anima l'uomo. La scrittura allora, è un modo
per riproporre al ricordo quello stato ,ormai perduto 'di serenità primordia-
le, per non dire ultraterrena, precedente all'esilio sulla terra.
Quella stessa scrittura, .però, non è in grado di ricreare completamente
la realtà passata, troppo frammentata, dispersa, sfumata, come s'incaricherà
di dimostrare .la X poesia della raccolta, il cui primo verso (<<No esta en la
palabra la verdad que dé crédito») preannuncia la negazione della pagina
come riflesso della visione e della memoria. Le cose viste o immaginate
attraverso il ricordo sono soltanto «presencias de apariencia' inaccesible»; ne
possiamo cogliere solo ,là «inexistencia» e «la tensi6n. que no dicen», i fram-
mentari «restos sin contorno». Tutto è penombra, tutto esiste come in sogno,
e la sostanza dei ricordi non può passare alla scrittura senza tradirne l'es-
senza.
L'interessante poesia XII è una nuova variazione sul motivo' del ,ricorqo
del territorio. La contemplazione di una casa, presumibilmente quella d'in-
fanzia, ormai disabitata, costituisce lo scheletro del testo: il giardino.è «cer-
rado», l'uscio è «desierto», e le stanze hanno come unica ospite la notte, che
«habita su vacfo / inm6vil e insondable». Valverde prende a prestito un verso
di Wallace Stevens, «The house was quiet and the world was calm», che dap-
102
prima traduce (l'incipit è «La casa esta en silencio, el mundo en calma») e
poi propone in inglese nel finale (facendolo seguire dal verso conclusivo ((Y
el mun.do en calma»): l'intento è quello di associare alla casa dell'infanzia un
mondo idillico di innocenti illusioni, frustrate dalla coscienza dell'inutilità e
dell'insensatezza delle cose che si acquisisce con il passare degli anni.
D'altra parte, nella poesia X, la casa,. più che realmente contemplata era
((pensada)), era ((sombra alzada que goza del lugar del elogio)), trasparente
richiamo alla raccolta del 1987 14 •
Parzialmente estranee allo spirito del libro sembrano la XVII e la XVIII poe-
sia, dedicate rispettivamente al poeta salmantino Anibal Nufiez e a un incontro
tra Damaso Alonso e Pedro Salinas. Nella prima, il momento del tramonto per-
mette .la comprensione rassegnata del percorso terreno dell'uomo, che è ((el
carecer al cabo de la meta)). 'La vita è solo ((sofiada proporci6n)), è una ((medida
- supuestamente exacta --)), e la città è vista come ((celda de ese vivir)), carcere
dell'anima in cui attendere quasi con sollievo di ((apurar sin dolor esta existen-
cia)) 15. La poesia XVIII è una sorta di monologo dranimatico che Valverde pone
sulle labbra di Salinas, il quale sente la differenza profonda tra il suo presente
e il passato, vitale e poetico, alluso dai trasparenti richiami ai suoi libri:
Hasta su extinta huella recobrada
vuelvo vencido a verme, abandonado,
si,n el seguro azar, sin 10s presagios,
sin esa luz alzada
aquella noche
que no quise sonar interminable.
14 Valverde indulge più volte in questo gioco di richiami e autocitazioni,. testuali e
concettuali, da un libro all'altro. Ricordo che 'nella poesia XI, in cui ricorre il tema dell'e-
pifania attesa ma delusa, si possono leggere i seguenti versi: «A debida se desve-
la le linea / que conduce al deseo, / là frontera .trazada y después abolida / que siempre
recomienza en el umbral del sueno)). Il mondo idillico del passato aveva fissato un limi-
'te entro il quale muoversi, configurando così un territorio, meno ricco e per questo assai
meno problematico, mentre più tardi il confine è stato cancellato, e questo processo di
allontanamento dalla serenità si può cogliere solo da lontano, nel tempo e
nello spazio, ossia a. debida distancia, verso che Valverde sceglierà come titolo il
libro del 1993. .
15 Trasparenti sono le allusioni alla malattia che falciò la giovane vita di Anibal
Nlinez (1944-1987), apprezzato pittore e artista plastico, oltre che validissimo poeta e ver-
satile traduttore di versi dal latino e dal francese. La sua poesia, in buona parte rimasta
inedita e per molti versi di problematica classificazione, ha non pochi punti di contatto
con quella di Valverde. Rimando alla raccolta Obra poética, ed. F. Rodriguez de La FIor
- E. Pujals Gesalf, Madrid, Hiperi6n, 1995; 2 volI.
103
Se per dimensioni, andamento della frase, misura del tono e, in parte,
tessitura lessicale, questi due componimenti trovano a buon diritto una col-
locazione in Las aguas detenidas, risulta altresì evidente che l'aneddoto
esterno, non derivato da personali esperienze del poeta, esula da quello che
è il nucleo d'ispirazione della raccolta. La proiezione all'esterno dell'io poe-
tico, cioè, si scontra con l'andamento riflessivo e 'di confessione personale
che accomuna le altre 18 liriche del libro; ne mina, seppur lievemente, l'u-
nità di espressione, ma al contempo non riesce a costituire una vera alter-
nativa, un'autentica variatio stilistica, proprio perché tale esteriorizzazione
dell'io poetico si verifica soltanto in questi due componimenti, per di più
collocati in successione.
L'importanza di Las aguas detenidas nella produzione di Valverde è
riconosciuta anche dall'autore stesso. Nell'articolo inedito di cui ho parlato
in precedenza, Valverde osserva che in questo libro
habia cambiado la respiracion del poema. El tono [...] era distinto. Dominaba,
segun creo, el de estirpe himnica. Una vez asimilado que vida y poesia son una
y la misma cosa no es dificil comprender esa voz. Se mezclaban en ella la
juventud, mi condici6n de poeta recién casado, el nacimiento de ml primera
hija, los primeros anos de trabajo [. ..] En ningun otro momento de mi breve
carrera de poeta he sentido tanta jovialidad, tanta arrlbici6n, tanta inocencia,
en fin, como senti escribiendo 105. cantos de Las aguas detenidas. La ciudad y
la naturaleza se reunian eo su trasfondo, a pesar de que predominara la pre-
sencia de la segunda; [..] Creo recordar que habia en aquellos poemas una
necesidad de indagaci6n en el misterio, de profundizaci6n en la experiencia y
de reflexi6n sobre la realidad [...] Me parece obvio - y a otros les pareci6 no
menos explfcito - que algo - icasi todo? - habla cambiado, como he dicho, en
mi poesia· o que, acaso, ésta empezaba de verdad con él.
3.2 Una oculta raz6n (1991)
Le doti poetiche di Valverde si confermano anche nella più estesa sil-
loge Una oculta raz6n (1991), insignita del IV Premio della Fundaci6n
Loewe, assegnato da una giuria composta da poeti di vaglia (e tra loro assai
distanti, per età e per credo poetico), quali Carlos Bousofto, Octavio Paz,
Francisco Brines, Pere .Gimferrer e Antonio Colinas. Le 3S poesie che com-
pongono la raccolta sono 'così 15 nella prima sezione, 18 nella
terza, con un'unica poesia (dal titolo Una oculta raz6ri) che costituisce la
sezione, e a chiudere il libro un "Epilogo", che comprende soltan-
104
to la poesia La luz difusa. Salvo il testo che dà il titolo all'intero libro, tutti
i componimenti si attestano su dimensioni contenute, mediamente più ridqt-
te rispetto a quelli di Las aguas detenidas, pur scendendo di rado sotto la
ventina di versi. Apparentemente, dunque, il libro sembra più articolato e
multiforme della precedente pubblicazione. A ben guardare, però, si coglie
facilmente una sostanziale linearità di sviluppo, un carattere chiaramente
omogeneo che accomuna le due raccolte e che si risçontra sul piano delle
tematiche affrontate.
Di Una oculta raz6n ha detto Octavio Paz che «denota una gran madu-
rez y una sabiduria psicol6gicapoco comun en autores de su edad... Il gran-
de autore messicano ha colto perfettamente il nucleo del poemario, che è,
nelle parole, «un tema tan proprio de la modernidad como el de la sole-
dad: el. hombre frente a sfmismo, el hombre en' su cuarto, en su jardin, el
hombre a solas con sus recuerdos, con su infancia perdida»16. In effetti, Una
oculta raz6n segue le orme di Las aguas detenidas nel suo inscenare
momenti di riflessione di un io poetico che si avverte come isolato, spetta-
tore solitario di un minuscolo evento naturale che serve a scatenare in lui il
meccanismo del ricordo o della ricerca del senso.
Anche in questa silloge, dunque, troveremo i temi del ricordo,dell'ap-
parizione del passato nel presente, della commistione di realtà e sogno, del
recupero della vita trascorsa attraverso la memoria. Tuttavia·, la cifra più
caratteristica di Una oculta raz6n risiede nella ricerca esistenziale di
Valverde. Molti dei componimenti di questa racçolta si incentrano sull'inda-
gine dell'io nei confronti del senso del mondo, e anche da questo punto di
vista non si possono non osservare delle affinità con Las aguas detenidas.
Già la prima poesia, Enclave, espone la' rassegnazione di un essere che,
stretto. tra «la pelicula de los recuerdos.. e. il «turbio presente, casi exac-
to / de una· vida pasada inutilmente., si interroga sulla reale esistenza di teuna
.raz6n que valga la respuesta· / de èstar - frente a este tiemp.o - / aqui espe-
rando.. Nella seconda lirica, La sombra fugitiva, l'io poetico si sovrappone
e si rifrange in una terza persona, oggettivazione esterna del. soggetto, e
l'andamento del verso si fa più spezzettato, più fratto. Il testo oscilla tra un
«yo mismo.. e un teaquél.., preannunciando il tema dellosdoppiamento, del-
dell'io, che ricorrerà di frequente nel libro (e anche nel suc-
cessivo A debida distancia).
16 Le opinioni di Octavio Paz. sono riportate sulla quarta di copertina dell'edizione
di Una acuita razon.
105
Il motivo del ritorno al lugar, di quello che è un regreso alle origini,
geografiche e cronologiche, viene modulato in diversi componimenti. Ecco,
dunque, la contemplazione del giardino abbandonato, che riesce tuttavia a
calamitare il soggetto poetico. In altri luoghi non si può recuperare il pas-
sato, perché è necessario abbandonarsi alle sensazioni del proprio lugar per
estrarre dalla coscienza il ricordo di un tempo perduto. Chi visita, quasi in
un· pellegrinaggio memoriale, il suo lugar è un «extran.jero .que regresa / sin
haber renunciado al territorio». La ricerca dei «senales» è vana: chi ritorna
non è più quello di un tempo e nell'immersionè nel passato può percepire
soltanto il suo dissolversi (Luz otorgada). Una vena malinconica, senz'altro
più pronunciata rispetto a Las· aguas detenidas, percorre così molte liriche
. della raccolta, che si offrono come continue variazioni sui temi del ricordo,
dell'estraneità dell'oggi rispetto al passato ormai irrecuperabile, della solitu-
diD-e degli esseri umani, spesso condannati a non parlarsi o a non capirsi
(<<perdurara en palabras el silencio / y en su repetici6n no viviremos», Tarde
del tiempo).
Altra idea costantemente ripetuta nel libro è quella dell'unicità di ogni sin-
golo istante vissuto, perché «no consiente u·na vida repetir en su ciclo / dos tar-
des (Acabament d'estiu). Questo comporta l'impossibilità della riu-
scita di un'operazione di riscatto attraverso la memoria (Como en dias antiguos).
Frequente è anche' la rievocazione della casa d'infanzia, che vive nel
ricordo -attraverso. mille immagini frammentate e dai contorni indefiniti, e si
.ripropone 'all'occhio del poeta durante i suoi ritorni, offrendogli lo spetta-
colo dell'abbandono, della mancanza di vita, della presenza dei soli ogget-
ti, muti testimoni di giorni fatalmente destinati a non rivivere. La casa è
anche la prolezione interna della ricerca esistenziale: «La casa es hacia den-
tro ellaberinto / que siempre he perseguido») (La sombra dorada), e a volte,
come in El reino oscuro (titolo che sarà- anche quello del poema del 1998), '
la contemplazione della casa è fonte di timore, di oscure angosce interiori.
Della prima parte di Una oscura raz6n la poesia più riuscita mi sem-
bra 'Una antigua certeza, che ha già trovato posto nell'antologia di Miguel
Garcfa-Posada 17:
UNA ANTIGUA CERTEZA
La flama de la siesta socava las paredes
y agota en su fulgor esa mirada
17 Cfr. La nueva poesia (1975-1992), Barcelona, Critica, 1996, p. 196.
de lo que escapa a la razon. Preguntas
si habra de sucedernos la edad en que perviva
todo lo que merece la presencia:
el rosaI inflatpado, las aguas repetidas
en ese unico rfo que vive para siempre,
la rueda de molino de apariencia inmutable
y la casa erigida sobre una red de arena.
Acaso la respuesta esté en el arco
y su umbral desgastado,
en esa enredadera sometida a la forma,
en el denso dolor de este manso silencio.
Anticipa la tarde una antigua certeza
de la que solo es complice la sombra:
el ocaso sera la nueva aurora.
In un mondo che appare incomprensibile, lanciato in una corsa che è
succedersi inspiegabile di eventi nel tempo, la presenza umana sembra
qualcosa di totalmente accessorio.· L'uomo esiste solo per investigare .le
ragioni della vita, e non disporre della forza necessaria ad arrestare
o cambiare il corso naturale delle cose. La vita, allora, è un ciclo che si ripe-
te eternamente: invertendo l'immagine della terza poesia di Las aguas dete-
nidas, in cui il verso «Detras de su fulgor esta la noche)) esprimeva l'occul-
ta minaccia che si nasconde dietrò l'apparente chiarezza, Valverde ribadisce
l'assenza di un confine preciso tra giorno e notte, tra vita e morte, tra luce
e oscurità. Stavolta è l'assenza di luce che obnubila i segni della rinascita;
stavolta è lo splendore del sole che si appresta a sostituire le tenebre.
L'uomo, sconcertato, non può che osservare e meditare, inutilmente, sulla
continua dinamica di morte e resurrezione della vita.
La sezione centrale del libro è costituita da un solo testo, Una. oscura
raz6n, che ripropone l'esperienza del ritorno 'a un «territorio inh6spito)),
ossia la casa d'infanziadis 4 bitata. Ben presto, tuttavia, mentre lo sgu3:rdo si
posa sugli oggetti di un tempo, le stanze chiuse e il cortile deserto, la
memoria del soggetto si affaccia sui ricordi di altri luoghi (l'Avana, Roma),
gettandolo di discerne,re presente e passato. Le immagini
ritrovate nel proprio patrimonio memoriale si scoprono in tutta la loro inu-
tilità:
El espacio se torna fragmentario, ,
He recogido restos de un discurso arrasado,
de un canto ya abolido.
107
Come ricorda Valverde nella nota conclusiva, il testo centrale, in una
sua prima elaborazione, risale addirittura al 1985, l'anno di Territorio. Le
parole di allora sono ancora valide, e le nuove esperienze, evidentemente,
non hanno fatto che confermare nel. poeta la sua visione del mondo.
La terza parte di Una oscura razon è caratterizzata da un'apertura verso
l'esterno, verso altri luoghi, preannunciata dall'ultimo verso della prima poe-
sia di questa 'sezione, Memoria delolvido:
Oriento ahora mis pasos hacia nuevos viajes.
In effetti, Londra e ,Napoli son9 gli scenari delle due poesie successive,
e poco più in là riemerge la Grecia, già presente nella sezione "TraveSta" di
Territorio. Nonostante questo, i viaggi di Valverde ·sono sostanzialmente
viaggi interiori. Il quadretto impressionista lascia posto ben presto alle con-
suete riflessioni sull'essere dell'·uomo nel tempo, sul fluire imperscrutabile e
incomprensibile: degli eventi, sul tentativo di risc;attare in forma di ricordo
u,n attimo di vita ormai trascorso. In più di un testo si osserva l'insistita pre-
senza del.temadello sdoppiamento della voce poetica (si vedano, ad esem-
piQ, Aurorretrato o Breve encuentro), quasi che la meditazione porti neces-
sariamente alla dell'io, al suo frangersi in mille fantasmi o voci,
non ricomportibili nonostante l'autocoscienza dello .sdoppiamento stesso.
.L'ultima poesia della raccolta, Luz di/usa, acquista un rilievo particolare
non sqlo per la posizione di chiusura e per il fatto di costituire, da sola, una
sezione del libro ("Epilogo", per. l'appunto),' ma anche per il carattere di rica-
dei motivi trattati precedentemente. Il' mondo è incomprensibile,
l'attesa in cui «en vano se demora el pensamiento.. è solo tempo perso. I ten·
tativi di indovinare il' senso. delle cose falliscono miseramente, perché i «sim-
OOlos disseminati in· natura sono insufficienti, inadatti a <lesvelar lo que se
. acuita Il lungo e disordinato cammino percorso dal libro non ha un appro-
do chiarificatore, e Valverde trasmette la circolarità dell'esperienza meditativa:
.Como al principio
no acierto a comprender qué impulsa' el hecho
de estar aquf siguien.do, vulnerable;
.qué complacencia puede en. esta espera
justificar siquiera 'algun
La chiusura della poesia, peraltro, è caratterizzata da una nota. di spe-
ranza, di compiaciuta constatazione del fatto vitale come eventocl1e si
giustifica, indipendentemente da qualsiasi finalità o motivazione esterna:
108
Pero una luz difusa cubre todo
y a su través las cosas permanecen. .
A un paso de no ser, pero aun con vida.
Una chiusura simile troveremo anche nell'ultimo libro di Valverde che
,analjzzo, qui, El reino oscuro.
3.3 A debida distancia (1993)
La pubblicazione di A debida distancia (1993) non ha ,significato un
deciso cambiamento di prospettive, anzi Valverde ha continuato il percorso
intrapreso nei due libri precedenti. A debida distancia comprende una sorta
di prologo, "In limine", composto da una sola poesia, Leyéndome a mi
mismo. Seguono pO,i tre sezioni, rispettivamente di tre, otto e ancora otto
testi. Chiude la silloge, una lunga poesia, la più ampia del libro, intitolata El
canto suspendido, che costituisce una sezione indipendente.
Il primo componimento un Valverde che, attraverso l'io del
testo, si definisce un' uomo capace di ascoltare e che, quando parla, non spre-
ca parole, tanto da rifugiarsi nel silenzio,ccese silencio, acaso, / capaz en
si mismo / de encerrar como un cofre / una opaca, elocuencia, / de dotar de
sentido / el negror de un presagio)). Quando conversa con gli altri, si sente
sdoppiato nell'individuo èhe gli sta di fronte, e cerca di stabilire una ccescasa
distancia)), quella necessaria a cogliere la realtà dell'interlocutore e, fuor di
metafora, della vita esterna che, come un'ombra, ((haeia dentro se alarga».
Nella prima sezione del libro ritornano i luoghi poetici cari a Valverde:
il giardino, la casa, l'infanzia. Luoghi, questi, che . rappresentano un passato
lontano, simboleggiato ripetutamente da termini quali «recinto)) e cclaberinto)),
microcosmi chiusi, autosufficienti, ma alla lunga soffocanti, al punto che il
poeta ne è eyaso, se ne è allontanato. ccRecorrerel jardin era ir marcando I
la oscura trayectoria de un regreso)): il movimento era apparente, l'avanza-
mento illusorio, i sogni restavano tali, e altri ostacoli impèdivano "la cresci-
ta. Se inizialmente il giardino sembrava offrire protezione (<<Bajo sus enra-
madas me creia / al amparo seguro de otro tiempo))), ben presto fu neces-
sario pensare un futuro, un'uscita dal recinto. E il futuro non sembra alt!o,
fin dal primo momento, che la degradazione del presente:
Imaginé las rosas floreciendo silvestres,
contemplé ya las fuentes arruinadas y secas
y vi las viejas sendas cubiertas de maleza.
109
Con queste immagini di desolazione, Valverde si riallaccia a tanti altri
. suoi testi in cui il ritorno alla casa natale è segnato dalla constatazione del
passare del tempo, del trionfo della natura, che segue imperturbabile il suo
corso, e dello sparire dell'uomo dal paesaggio. «Por buscar al que era
regresé a este lugar)), dice nella seconda poesia. E chi era il fanciullo Val-
verde?
Una fuente con carpas, unos muros de adobe,
el roguedo, las sendas, fueron mundo y mirada.
A la noche, de nuevo, con el solo sonar
de las dulces chicharras, el camino servia
para urdir laberintos: de mi mismo a mi mismo.
Daba igual en gué orden., direcci6n o suceso.
.Empezaba en la duda de hacia d6nde marchar
y acababa igualmente sin salir del principio.
Circular trayectoria gue dibuja un proceso:
el gue al cabo decide el que sigue la vida.
Grazie al ritorno, Valverde si scopre molto più simile al suo passato di
quanto pensasse, tanto che «Aquél, que en unaedad contradictoria / inten-
taba saber, es el gue ahora / formula en el papel no otras preguntas)). Non
è servito diventare adulti, perché i dubbi sul senso dell'esistenza rimango-
no in piedi. Allora il lugar può essére la valvola di sfogo della tensione al
domani; può essere un «unico espa'cio)) che contiene già quello che serve e
basta all'uomo ((Todo o nada, da igual»); è la prova di «una edad que mas
que.nunca / te reclama existir)). Illugar delle origini è, come al solito,
ce: rappresenta una dimensione temporale passata che al
te (è «un tiempo ausente / capaz de darte ahora y para siempre / esa
de ti' gue no perece»), ma anche il punto di partenza per futuri viaggi men-
tali, tanto. da nella terza poesia della sezione,
un paisaje pr6ximo
donde es facil sentir
la apariencia de un orden,
la sencilla armonia de lo vivo y lo ausente,
la verdad, la belleza
de la luz gue se gasta.
Un lugar donde, a solas,
ser, simplemente, hombre.
110
La seconda parte di A debida distancia mostra una maggiore apertura
verso l'esterno. Le consuete riflessioni dell'io poetico si ambientano a
Cadaqués, sulle strade del Portogallo, in un albergo inglese. Il poeta cerca
volutamente la distancia, si allontana dal suo mondo per attingere a una
prospettiva diversa, che permetta lo sguardo panoramico. Dice che «s610 en
los lugares como éste / - estoy en Cadaqués, final de julio - / se puede
revelar algun atisbo / de esa busqueda extrafia / que llamamos verdad».
L'allontanamento dalla vita quotidiana, anche per una semplice .vacanza, è
l'occasione per eeadoptar / la conciencia de otro·), per eeajustar la medida, /
crear a conveniencia el personaje, / dotarle de la vana aspiraci6n de no
hacer nada»; un personaggio che smette di cercare il senso delle cose, per-
ché sa che eeen ese buscar mismo / se sofoca la pérdida».
Importante per capire il rapporto dell'autore con il mestiere di poeta è
l'ottavo.testo della seconda sezione, En el estudio, dove l'io poetico è quel-
lo di un pittore che osserva una sua tela e la mette in relazione alle sen-
tenze della critica. (e non ci vuole molto, naturalmente, a leggere il testo
·come una presa in giro dei critici di poesia). Così il quadro, apparentemen-
te, eeAcusa -las coartadas del oficio», e in esso' si riscontrano temi e motivi
ricorrenti, tanto che i critici eese esfuerzan / por fijar las referencias». Il pitto-
re, invece, mostra un atteggiamento diverso: vede nella sua tela
.una absurda inocencia de pintor
la ambici6n que se gesta
cuando el arie renuncia al gui6n presupuesto,
a ese giro de escuela gue es renuncia del arte.
Si sente come colui che' «encuentra y procede / ignorando su técnica»,
.
e che non teme, dunque, eeiniciar nuevamente la tarea», tornare di nuovo a
.dipingere lo stesso quadro. L'arte è mistero, artificio incomprensibile, e l'af-
fanno dei critici è inutile, perché il quadro (o una poesia) prescinde cede
razones, de claves, de secretos». Il pittore, e con lui il poeta, non sente il
bisogno ·di essere incasellato in ,una scuola o in una tendenza artistica.
La terza sezione della raccolta si concentra maggiormente sulla visio-
ne del futuro, .preannunciando alcuni concetti che troveranno ampio svi-
luppo nel.succesivo libro Ensayando cfrculos. Proprio questo è il titolo'
della prima poesia della terza parte di A dèpida distancia. La visione del
tempo non è lineare; non c'è sviluppo, evoluzione, ma piuttosto ritorno,
spirale involuta:
111
Cualquier final se vuelve hacia el origen:
se cierra siempre el circulo en si mismo
y todo ya recobra su apariencia.
Si giustificano, allora, i te,sti successivi: la ricerca di un senso comples-
sivo, svolta in meditazioni a contatto con il paesaggio naturale che ricorda-
no per più versi quelle di Las aguas detenidas «<preguntan10s al alba por su
ser y sentido))), non approda a risultati soddisfacenti, tanto da spingere l'io
poetico a richiudersi in se stesso, nel suo jardin «<Permitidme L..) que,
después, me vuelva / allugar elegido para vivir conmigo))).
Napoli è lo sfondo della lunga poesia finale, El canto suspendido. Il via-
vai del porto, il traffico dei viaggiatori e dei turisti, la confusione di una città
vivacissima, sono filtrati attraverso la solitudine del poeta,_ che si sente sol-
tanto di passaggio, senza meta «<De ninguna parte, hacia ninguna otra))), e
paragona la natura e le costruzioni umane del luogo a quelle del suo terri-
torio. Si profila, così, un'esperienza che è viaggio di ritorno, «un itinerario
hacia las fuentes)), una strada che «habra de conducirnos al principio)), e si
risolve nella malinconia di una stanza d'albergo, nel ricordo confuso di un
amore passato, nella coscienza che, di ritorno a Plasencia, la finestra si apri-
rà sul paesaggio conosciuto, sulle cose di tutti i giorni, sul riprendere ine'-
sorabile della vita quotidiana.
Valverde ritiene che Una acuita raz6n e A debida distancia siano «en
tiempo e intenci6n muy cercanos)). In entrambi si può cogliere, a detta sua,
el proceso de depuraci6n que ha llevado mi poesia hacia unaclaridad cada vez
mayor. La preponderancia de lo narrativo ha dado a la expresi6n mayor senci-
llez sintactica. El tratamiento de los temas, con una incidencia cada vez mayor
de la ironia y del humor, ha perdido la carga densa y eliptica de mis primeros
textos.
Sono libri in cui si avverte «un aire mas cosmopolita (con perd6n), mas
abierto a temas y situaciones, menos ligado, en fin, a lo que habian venido
, siendo mis lugares comunes en lo poético)). Sono libri, dice ancora Valverde,
volunta_d de unidad», non solo «mero acopio de poemas»18.
Le 'riflessioni dell'autore nell'inedito del 1997 trovano un precedente
nell'autoantologia Poemas, realizzata a Badajoz nel 1994 in occasione delle
18 Cito' da «Sombra de una idea)) (1997), il già menzionato articolo 'mai pubblicato
fornitomi dall'autore.
112
attività promosse dalla Asociaci6n de Escritores Extremenos. Essa consta di
22 componimenti, alcuni dei Qu·ali particolarmente cari al poeta, come quel-
lo iniziale, tratto dalla sua prima pubblicazione, che racchiude in sé il
nucleo della sua poetica. Si tratta del già esaminato ccHojas de acanto y
rosas)), testo apparso per la prima volta in J6venes poetas en el "Aula ", per-
tanto nel 1983. A distanza di oltre un decennio, dunque, il poeta di
Plasencia non sembra affatto voler rifiutare quell'ideale poetico, ma pare
invece riaffermarlo, riconoscendo una volta di più nel suo modo di opera-
re la centralità dei procedimenti letterari e gnoseologici espressi in quella
prima, eppure già matura, dichiarazione di intenti.
Di Territorio viene selezionato soltanto il testo Mr. T.S. Eliol, Russell
Square; di Sombra de la memoria viene presentata la dal tito-
lo Yuste, mentre nessuno dei testi di Lugar del elogio e di Aer6voro rientra
in questa autoantologia. Quattro sono le poesie tratte da Las aguas deteni-
das. Di Una oculta raz6n Valverde ha scelto sette componimenti. Otto, infi-
ne, sono gli esemplari della propria produzione dalla raccolta A
debida distancia.
Nel complesso, mi sembra abbastanza evidente una volontà di distac-
co dalla poesia della prima fase, da quei «restos de un naufragio anunciado»
di cui sopravvivono solo tre testimoni, e un chiaro riconoscersi, da parte di
Valverde, nella produzione della maturità. Le dichiarazioni rilasciate dall'au-
torè a quotidiani e riviste, e anche a chi scrive, confermano che tale auto-
valutazione del· proprio percorso poetico è sostanzialmente valida anche
oggi. Valverde continua a salvare pochissimi testi delle sue prime raccolte,
in cui individua temi e motivi che avverte tuttora come suoi; ritiene che Las
aguas detenidas.rappresenti, in effetti, un momento di transizione, un pas-
saggio verso una pqesia diversa, anche se, personalmente, penso che lo
stacco tra i primi libri e la raccolta 'del 1989 sia piuttosto netto e introduca
di colpo, e non gradualmente, un nuovo periodo artistico; l'autore, inoltre,
ravvisa una sostanziale linearità di sviluppo nelle· colleziòni successive.
3.4 Ensayando cfrculos (1995)
L'ultima raccolta di poesie di Valverde su cui mi soffermo è Ensayando
circulos (1995). Di essa, il poeta di Plasencia ha detto che
una idea subyacente atraviesa de principio a fin todos sus poemas: la imposi-
bilidad de pensar ningun futuro. Su imagen Ctomada de la filosofia griega: opis-
113
tbea) podria ser la de un remero (el hombre) gue boga con su barca por un
rio (la vida) dando la espalda a lo gue se avecina (el futuro). En el avance, con-
templa el pasado gue le huye. ÉI lo observa desde el presente. Un presente
cambiante y sucesivo. Alli, la mirada y la memoria, esos dos reinos donde se
constituye el poeta. Pero en Ensayando circulos hay otras presencias constan-
tes, agui revisitadas, tales como la de la luz (lo diurno) en dialogo permanen-
te (y romantico) con la sombra; la naturaleza y la casa; la conversaci6n en la
penumbra con 108 libros y con los poetas en su lugar, convertidos en persona-
jes de los poemas (Ungaretti y Alejandria, Brodsky y San Petersburgo). 'El viaje
(tantas veces inm6vil) y una ciudad, la mia, gue es tanto como decir (ah
Cavafis) todas las ciudades 19 •
Ensayando circulos si compone di cinque parti. Le prime due conten-
gono ciascuna nove poesie; la quarta ne raccoglie sette; l'ultima una sola,
De un diario; la sezione centrale, intitolata Composici6n de lugar, si suddivi-
de in cinque brani numerati e strettamente collegati tra loro, ulteriore tenta-
tivo di creare un poema articolato Ce proprio durante la stesura di questo li-
bro si collocano anche i versi di El reino oscuro, come vedremo in seguito).
La prima poesia del libro è l'ennesimo intento di descrivere un lugar,
.questa «el centro al gue se cifie / el erratico rombo del viajero, / del
paseante que recorre solo / una ajada ciudad / del fin de Europa)). Il pano-
rama è sconsolante, come testimonia il vocabolario: «sobran ruinas)), si vedo-
no «vastas demoliciones)), «despojos)), e ancora «ladrillos, escayolas, cajas,
muebles / destinados a nada, sola esencia del polvo)), o «edificios vacios·.. La
conclusione dell'osservatore è pesante: «Esos restos son todo lo que cabe
esperar... Sono la risposta a chi si chiede cosa sia il tempo: si tratta di puro
presente, una dimensione neutra, opaca, «sin antes ni después a· donde asir-
se·). La nota di profonda tri$tezza si estende a coprire anche il resto del libro,
che per molti versi mi sembra il ·più sconsolato di Valverde, come testimo-
niano le sue parole citate in precedenza, la solitudine interiore che traspa-
re da molte pagine, l'impossibilità di acquietarsi, perché la vita è «soporta-
ble en la penumbra / de algun.a sosegada biblioteca.·. La prima sezione della
si chiude con Opisthea, che espone il credo dell'autore:
No siento ningun suefio traicionado.
Ni en mi cercana juventud
ni aun antes guise -
19 Cito, .una volta di più, dall'inedito ccSombra de una idea» (1997).
114
proyectar un futuro a mis espaldas.
Como el que se desplaza por un rio,
mi vista se detiene en el pasado.
No ,busca otro deseo que el que cabe
al paso irreparable del avance.
E sempre la non esistenza· del futuro segna anche la seconda parte del
libro, in cui gli elementi naturali, che muoiono al passare del tempo, pro-
vano l;inutilità dei ricordi, «delatan a la postre el espejismo)), e si rivelano
niente più che «simbolos de no ser, sena] de nada)). Anche i consueti luoghi
(il giardino o la casa d'infanzia) sono soltanto la conferma del senso di
morte che pervade ogni cosa e stringe d'assedio l'uomo, lasciandolo solo
coi suoi pensieri e la ,sua sete di comprensione, destinata a rimanere insod-
disfatta.
L'atmosfera cambia, facendosi più serena, con Composici6n de lugar. Il
poema in cinque tempi (i primi quattro, come ricorda Valverde in una nota
finale, corrispondono alle stagioni dell'anno) è costituito dalle meditazioni
del soggetto che si ritrova in un c<enclave de un viejo molino de agua,
, desprovista ya de su practica funci6n originaI en beneficio de la no menos
ejemplar de servir para el retiro y el ocio)) (sono parole dell'autore). La deso-
lazione dell'inverno non è poi così totale: ovunque si annida la promessa
della rinascita, la prova del continuo fluire della vita, e il cielo è «abierto,
transparente)), come si legge nell'ultimo verso del primo brano. L'arrivo della
primavera e della sua luce è carico di dubbi:
Al alba, dirne,
tcuantas veces el mundo pareci6 tan perfecto?
tcuantas creiste ver
en la marca indeleble del sol sobre las cosas
la cifra de tu misma permanencia?
Pero es efimera
la luz que frente al muro se prolonga,
cegandote, advirtiendo
la fuerza renovada de sus rayos.
Il risveglio della 'natu!a, allora, è un tranello: cceres mudo testigo de su
engaiio: de golpe, / sientes todo fugaz, / contingente, acabado).Così come
ingannevole è la luce accecante del mezzogiorno estivo, quella stessa luce
che, come già in Las aguas detenidas, è tanto forte è chiara da ,finire col
nascondere la realtà che, invece, dovrebbe illuminare. Ben diversa è la luce
115
del crepuscolo che scende presto sulle case con l'arrivo dell'autunno, quan-
do il fiume scorre ccllevando, aguas abajo, / los recuerdos)), e cela vida va con'
él)). Il bilancio è affidato al quinto brano. sido una costumbre)) guardare
la vita presso il vecchio mulino, un vero ccmirador)), osservatorio privilegiato
e ampissimo (cca su modo, contiene el infinito))). È servito a capire, molto
orazianamente, ccqué poco necesita quien renuncia / a cuanto, subrepticio,
se interpone / entre su ser y el mundo)). È stato un modo per tentare sem-
pre nuovi cammini (ccAssajant sempre cercles)), citando il poeta catalano
Vinyoli), alla caccia di quello che «pudiera al fin llamar / el convincente).
Il viaggio, spesso soltanto immaginato, e il rapporto con la città (sia quel-
la d'origine che'quelle conosciute di passaggio) è il tema della quarta sezione
,del libro. Valverde sembra confondere· le distanze, cronologiche e spaziali, e
fInisce col ricondurre tutto a Plasencia, partenza e traguardo di ogni esperien-
za (<<para partir de nuevo / he regresado)). Non è mancato chi ha voluto coglie-
re, nella serena accettazione di questa sorta di rientro all'ovile, una ccconciencia
de<destino, de fmalidad, de haber llegado a ese lugar que le corresponde»20.
Programmatico, e al tempo stesso chiarificatore degli intenti del libro,
è il componimento De un diario, che chiudè la raccolta. Viene ricordato l'in-
contro di due poeti, Robert Frost· e Octavio Paz; questi, in visita al primo,
,gli si rivela subito diverso da molti colleghi, perché cca diferencia de los otros
/ éste' apenas hablaba)), e non mostra la «inutil verborrea» che spesso nascon-
de «una carencia / penosa de verdades». La sintonia tra i due nasce dall'ac-
corgersi che «unos pocos libros, una casa / pequeiia y ,en el campo, / un
bosque sobre ellinde y abedules / L.'], son bastante / para esperar, acorde,
la llamada», e dalla constatazione che cclas palabras / de todos los poetas de
la tierra / no v,alen lo que vale / el sonido del agua). Le circostanze che ispi-
rano 13: poesia sono, dunque, assolutamente naturali. «Toda verdad», si dice
,alla fine, «es un dialogo»: la dialettica della ricerca del senso delle cose par-
tendo ,.(1all'osservazione della natura rimane quindi ancora valida, e l'impe-
gno e investigativo del poeta si conferma.
3.5. Ve1S0 il poema
Nell'analisi dei libri di Valverde ho dato conto dell'esistenza di poesie
articolate, di dimensioni insolitamente estese, o addirittura di intere sezioni
20 Cfr.]. Doce, (CA proposito de Ensayando cfrculos», Cuadernos hispanoamerlcanos,
555 (1996), pp. 151.
116
di una raccolta che si costituivano in unità: è stato il caso della sezione
"Travesia" di Territorio; delle poesie di A er6voro, che per la sua evidente
unità d'ispirazione si può leggere come un tutto; di Una oculta raz6n, lungo
componimento centrale della silloge. omonima; di El canto suspendido, che
chiudeva A debida distancia; di "Composici6n de lugar", terza parte di
Ensayando circulos. Le ultime due pubblicazioni di Valverde nel secolo
appena concluso si muovono proprio lungo questa direzione, il poema di
ampio respiro, esteso, articolato: si tratta di Las marinos inm6viles (1996) e
di El reino oscuro (1999).
Il primo volumetto risale addirittura al periodo di Las aguas detenidas:
come dichiara l'autore in una nota conclusiva, cclos fragmentos agui reuni-
clos fueron escritos a lo largo de los afios 1989 y 1990». Tali frammenti sono
apparsi, seppure in forma incompleta, sul numero del dicembre 1990 di El.
Urogallo e sono stati tradotti in tedesco da Tobias Burghardt, che li ha pub-
blicati in due diverse riviste nel 1993. Soltanto tre anni più tardi, dunque,
trovano una loro forma definitiva e Valverde si decide a pubblicarli. Si trat-
ta di frammenti, ciascuno con una sua pagina, privi di (così
come manca qualsiasi altra suddivisione interna allibro). Questi frammenti
Ilon sono in versi ma in prosa, anche se si tratta di una prosa lirica, con fre-
quenti clausule che sono, in realtà, delle unità metriche canoniche 21 • La,lun-
ghezza ·dei frammenti varia dalle due alle dieci righe, e ciascuno di essi può
essere letto' indipendentemente da quello. che lo precede, anche se natural-
mente la lettura dell'insieme si carica di molti più sensi.
Con Los marinos inm6viles Valverde ritorna a uno dei suoi temi prefe-
riti, quello del viaggio, e segnatamente del viaggio per mare. Un viaggio.
che, inizialmente, è ritorno da terre lontane e sconosciute, e per questo affa-
scinanti, ma anche da età indefinite (4CNavios que regresan de un tiempo sin
noticias»), configurando così una doppia distanza, spaziale e cronologica,
fisica e mentale. Le barche, appena rientrate nel pieno della notte (definita
21 Si vedano, a mero titolo d'esempio, «la memoria dormida de losviejos naufragios)),
«lNo es acaso el regreso nuevo afan de partida? »e.«las huellas de la noche se saben labe-
rinto•. (alessandrini); «emerge la memoria de la muerte. e -Despuésde navegar toda la
noche· (endecasillabi); oppure, strutture più conlplesse, como -no hay posible huida ni
otro rombo /que el calculo falaz de 10s cart6grafos» (due endecasillabi di seguito), «mirar
desde- tan lejos / que s610 sea desierto lo que palpe (un settenario seguito da un ende-
lt
casillabo), o ancora «Las rutas del misterio conducen el navio. / Asi, durante el dia, / el
anèla nos sujeta a la certeza. / No esta escrito en las cartas el destino» (un alessandrino
composto da due emistichi settenari, un settenario singolo e due endecasillabi).
Ovviamente, i segni della teorica divisione in versi sono miei.
117
come «un silencio incapaz de acallar el rumor de tierras remotas))), sono cari-
che di marinai dalla sostanza impalpabile, quasi fantasmi di ritorno dall'ol-
tretomba: messo piede sul molo, questi «viajeros de las margenes)) non sem-
brano altro che «marinos de mirada inconsolable)), che non si accontenano
dell'approdo, perché il senso della loro esistenza, e l'attesa della fine, si cifra
nel viaggio, nella partenza, non certo nel ritorno:
lPara qué tocar puerto? lNo es acaso el regreso nuevo afan de partida? lNo suefi.a
el navegante una ciudad extinta, una patria perdida, una casa ya en ruinas?
allora para si una travesta gue acabe con la muerte?
Gettare l'ancora in un porto serve ad 'aggrapparsi a una certezza, ma la
sete del viaggio, la volontà di movimento, che è anche ricerca di un punto
fermo, di un approdo, impedisce ai marinai di trovare un equilibrio. Si ripro-
pongono, così, alcune delle antitesi più frequenti nella poesia di Valverde,
e in particolare quella dell'esattezza delle forme, che è solo apparente, e
delle sfumature dei contorni, che sono invece reali. Ecco che allo sguardo
dei marinai appena sbarcati si offre ccla linea de horizonte inalcanzable, pero
exacta)), dove si mescolano i contrari e dove ccel dia 'se confunde con la
Altro motivo onnipresente in Valverde 'è quello dei ccsegni»: il mari-
naio di vedetta, che 'ccinsiste en ver lo que le niega el ojo)), che vuole vede-
re quello che ancora non si offre al suo sguardo, si trova alle prese con
segnali ambigui (cceh los signos equ'fvocos amenaza la espera))). L'esito del
viaggio, vale a dire l'approdo, è per i marinai un traguardo insufficiente:
scesi sul molo volgono la· ccmirada inconsolable)) al cammino appena per-
corso, e delusi dai porti delle città che li accolgono, ambiscono a riprende-
re il mare:'
Después de navegar toda la noche, no sabemos si allende esta la tierra o si tan
s610 ansiamos de la busqueda el mero buscar mismo.
L'incomprensibile s'addensa nell'ultimo frammento, dove risultano
insufficienti -sia il mare che la terraferma, dove ccla suma de infinitos)) non
basta a trovare la chiave di lettura del mondo, dove l'impossibilità di scor-
gere una direzione, di distinguere l'origine dalla meta, l'osserva- -
tore nel dubbio esistenziale:
No puede proceder de fuente alguna la ruta que conduce a 10s origenes: las
huellas de la noche se saben laberinto. lDe d6nde y hacia donde sus viajes?
118
, Pur nell'ermetismo di molte espressioni, il poemetto in prosa riesce a
comunicare il' pensiero dell'autore circa la tematica della vita interpretata
come viaggio senza meta precisa, per non dire fuga dalle nlete, o addirittu-
ra deriva alla mercè del caso. L'immagine della barca e dei suoi marinai, così
tipica della poesia romantica europea (si pensi soltanto alla Rbyme 01 tbe
Ancient Mariner di Coleridge e alla Cançi6n del pirata di Espronceda), per
tacere del richiamo ineludibile all'Ulisse dantesco, si converte in metafora
dell'uomo moderno e postmoderno, marinaio perennemente insoddisfatto
dei suoi approdi e sempre voglioso di ripartire, non perché spinto da un
impulso vitale, nla a causa di una sua malattia interiore, di una sua indo-
lenza d'animo, del suo essere ostaggio di un destino incomprensibile, inde-
cifrabile. La rotta che l'equipaggio può tracciare non è altro che ccel calculo
falaz de loscart6grafos», e anzi il tentativo di pianificare, di costruire un
cammino, si rivela inutile, poiché ccno esta escrito en las cartas el destino».
Nel più volte citato ,inedito del 1997, Valverde annunciava che si stava
,adoperando per dare vita a poemi di una certa dimensione, che sfuggisse-
ro alla dimensione e alla tirannide compositiva del frammento, tanto carat-
teristica delle arti moderne. ccQuisiera poder escribir algun dia un libro for-
mado por un solo poema», dichiara, e l'anno dopo dà alle stampe la sua
ultima fatica novecentesca.
El reino oscuro, che porta come sottotitolo, tra parentesi, "Poema", è
stato scritto tra il 1993 e il 1994, in parallelo con Ensayando cfrcu/os, di cui
è cca pesar de su autonomia, y por ffiaS de un motivo, complementario»,
come dichiara l'autore nella nota finale. Il poema si compone di sette brevi
testi, privi di titolo o di numerazione, e ancora una volta la fonte dell'ispi-
razione di Valverde è la natura in particolare la regione di Las
Hurdes, territorio abitato fin dall'età celtiberica e rimasto in buona parte ille-
. so dalla civilizzazione moderna, conosciuto dal poeta in età già adulta.
L'avvicinamento a questa regione avviene d'estate dal sud, dal mare
evocato nel primo frammento. Già nel secondo fran1mento si esplicita il
reale motivo che dà vita al poema: il tema del ricordo, alluso fin dall'epi-
grafe iniziale, presa da Valente, secondo il quale «De cuantos reinos tiene el
hombre··j el mas oscuro es elrecuerdo». In un vortice di contemplazione e
ricordi, sguardo 'sul mondo e rivisitazione memoriale, il soggetto poetico si
abbandona allo scorrere del tempo, alla percezione dell'impossibilità di
ccexplicar el pasado» o di "C(concebir el futuro». Soltanto il presente ha valore,
perché in esso si riassumono anche gli altri assi temporali, che sono mera
costruzione mentale, gioco di specchi illusorio in cui l'uomo cerca di proiet-
tare la sua coscienza di ente nel tempo, soggetto all'avvicendarsi degli atti-
119
mi. Anche la riflessione è destinata alla sconfitta: le sensazioni che l'uomo
ripercorre attraverso il ricordo (le emotions recollected in tranquillity, avreb-
be detto Wordsworth) sono soltanto dati cedispersos, fingidos. Ni reales ni fal-
sos», sono enigmi di cui non si conosce la soluzione. Il frammento si chiu-
de con un gioco di rimandi alla propria storia poetica:
detenido en Ias aguas que dan forma al olvido,
en la acuIta raz6n que se esconde en Ios gestos,
a debida distancia de mi mismo y de todo.
L'avventura del pensiero è anche l'andare a ritroso nella propria avven-
tura linguistica. Le evidenti citazioni dei propri libri si riferiscono solo a
quelli della maturità. Di Territorio e Lugar del elogio non c'è traccia, perché
anche il paesaggio circostante è diverso da quello che sostanziava le rac-
colte giovanili: quella era la natura dell'infanzia, il territorio delle origini, Las
Hurdes è la natura conosciuta e assaporata da adulto.
Nel terzo frammento continua il monologo interiore del soggetto poe-
che evoca la paura dell'incontro con questa «ignota comarca-., non per-
ché totalmente estranea, ma forse perché ccencerraba secretos / que eran
mfos de antìguos». Il viaggio che si pensava di esplorazione dell'incognito
si scopre, ancora una volta, un ritorno alle origini, «procede / desde fuera
hacia dentro», e finisce col sembrare un'eterna spirale che si avvolge su se
stessa, un insieme di cccirculos» intorno al senso delle cose, nient'altro che
ccensayos fallidos» (trasparente è l'allusione al titolo della raccolta Ensayando
circulos).
Nel quarto frammento si giunge alla scontata rivelazione che la vita è
eterno ritorno. Nelle acque di un fiume si intravede «una suerte de antigua
y fugaz transparencia», e poi ricompaiono i luoghi mitici delle prime raccolte
(la fonte di Yuste, il giardino dell'Abadfa), che sono testimonianze di un'e-
tà passata, ccun estado de cosas que se pierde», elementi di ceun complejo
sistema en precario equilibrio». La storia, cela verdad de la historia-., risiede
nella transitorietà della vita e nel compiersi degli stessi gesti, delle stesse
azioni, degli stessi tentativi dell'uomo di domare la natura, di metterla al suo
servizio per la propia specie, per allungare l'ombra del falli-
mento e dell'inutile sulle generazioni a venire.
La densa riflessione si stempera un poco nel frammento successivo,
anche se la vista di una còppia di turisti. stranieri e la percezione della loro
presenza effimera spinge il soggetto a identificarsi con quelle cepersonas de
paso»). La contemplazione dei paesaggio da cartolina, nel sesto ffammento,
120
si mescola con un rimando letterario importante, quello all'Infinito (e si noti
come spesso la contemplazione del paesaggio e lo scaturire del pensiero e
della riflessione metafisica permettano di accostare Valverde a certi proce-
dimenti poetici di Leopardi).
. L'ultima parte del poema rappresenta la fine del viaggio e il ritorno alla
quotidianità. L'esperienza della contemplazione di altri territori non è servi-
ta a trovare il senso delle cose, né a disegl?-are la mappa di un possibile
domani:
Permanezco girando sobre el centro secreto
que equidista de un circulo para mi convincente.
Nunca urdi algun futuro. Salvaci6n o proyecto
fueron siempre palabras incapacesde hablarme.
Hoy es nunca, y es todo.
Ancora una volta, tuttavia, la constatazione della mancanza di certezze
o di prospettive non sconfina nel nichilismo. La vita batte ancora, proprio
perché il suo senso è quello di continuare, di perpetuarsi pur senza un fine
evidente.
Sin embargo, aqui cerca,
en quien tengo a mi lado, urge opaca la vida.
Ahora sé que no en vano.
Il testo si chiude, dunque, su una nota che· non si può certo definire di
ottimismo, ma che non segna necessariamente una sconfitta, come in Los
marinos inmoviles.
4. Un bilancio provvisorio
La poesia di Alvaro Valverde si offre all'attenzione del lettore come il
prodotto di una delle voci più personali, e quindi più originali, dell'ultima
lirica spagnola, avulsa dai movimenti e dalle correnti che vann.o per la mag-
La sensazione che si ricava dall'analisi delle sue opere, tuttavia, è
quella di un autore che stenta ancora a ritagliarsi un'immagine e un ruolo
ben preciso nell'ambito della più recente produzione poetica ispanica, pro-
prio in ·virtù del fatto che la sua traiettoria di sviluppo artistico sembra ben
lungi dall'essere conclusa. L'intensa concentrazione attorno a una manciata
121
di temi ricorrenti ne dà un'immagine compatta, certo abbastanza coerente,
ma proprio per questo un po' troppo monocorde, quasi' ripetitiva.
La suddivisione in due macra-fasi, quella del «territorio» e quella' della
«poesia meditativa», mi 'sembra possa dar conto in modo adeguato del per-
corso compiuto da Valverde fino al 1999. Ritengo opportune le osservazio-
ni di Miguel Garcia-Po.sada, che parla di una eepoesia de la reflexi6n, del ana-
lisis de la intimidad», una scrittura poetica che «ronda lo inefable, pero
nunca es gratuita; puede ser hermética, pero lo es en virtud de la misma
experiencia poetizada, que alza la palabra, como toda lirica de orientaci6n
metafisica - y ésta lo acaba siendo - sobre espacios vacios o mentales». Il
critic;o sostiene anche che la poesia di Valverde è
sobria, rigurosa, solemne, que nos acerca con decisi6n a la experiencia ultima
del hombre moderno, el vacfo, y lo hace desplegando un teatro verbal que es
en SI mismo significativo: todo es simulaci6n, todo es ficci6n. Y el elegante fluir
del verso bIanco y la .elocuencia poética san s6lo mascaras brillantes, figura-
ciones luminosas donde la belleza de la palabra se justifica en si misma 22.
Sempre Garcia-Posada ha ravvisato correttamente la presenza in Valverde
di una linea poetica di origine anglosassone, che lo stesso poeta conferma con
,orgoglio, invitando anzi a riflettere sull'eccessivo chiudersi in se stessa della
lirica spagn9la successiva all'ondata· culturalista dei novisimos. Da parte mia,
segnalo le notevoli affinità del procedimento di scrittura con le teorie di alcu-
ni poeti romantici: non mi riferisco certo al Romanticismo più corrivo, quello
. già dell'esplosione dell'io poetico, della sua autocelebrazione
davanti al lettore, visto come essere inferiore, non dotato della stessa gran-
. dezza, magari maledetta, di spirito, ma al Romanticismo più «teorico», più
meditato, quello che partiva da una sensazione e vi costruiva attorno l'e-
spressione lirica, calcolata e non certo passionale; ancora una volta, le emo-
tions recollected in tranquillity di William Wordsworth. Inoltre, mi sembra evi-
dente la possibilità di istituire numerosi accostamenti tra certe poesie di
Valverde e alcuni capolavori di T.S. Eliot (lo sconforto e il disorientamento, del-
l'uomo di fronte al silenzio del 'paesaggio nella Waste Land, ma ancor di più
l'alienazione del soggetto poetico.del Love Song 01]. Alfred Prnlrock e alcuni
pensieri sul rapporto simbiotico tra le dimensioni temporali e sull'eterno ritor-
no che si possono leggere nei Four Quartets).
22 Cfr. M. Garcfa-Posada, La nueva poesia, cit., p. 193.
122
In generale, Valverde si dichiara lettore infaticabile di poesia straniera:
quella anglosassone, certamente, con nomi dipeso come Eliot, Audene
Stevens, ma anche meno conosciuti, come Elizabeth Bishop o Marianne
Moore; la poesia di altre aree linguistiche (Ungaretti, Cavafis, Rilke, per
esempio) o di altre epoche Oohn Donne, Leopardi, Holderlin). Sul fronte
della tradizione ispanica, Valverde non fa certo mistero delle letture che più
lo hanno segnato: costante è il rimando ai poeti della cosiddetta generazio-
ne del '50, segnatamente ]aime Gil de Biedma, Claudio Rodriguez e ]osé
Angel Valente, e ancor prima a Luis Cernuda; forte è anche la presenza di
alcuni poeti catalani, .come Vinyoli, Manent e Margarit. Notevole, poi, è l'a-
pertura verso i poeti di lingua spagnola dei paesi latinoamericani, spesso
dimenticati dai colleghi peninsulari degli ultimi anni.
Valverde si mostra generalmente refrattario all'inclusione in questa o
quella corrente dell'attuale poesia spagnola, e anzi sembra piuttosto scetti-
co sulla reale operatività di certe definizioni. Certo non si sente un poeta
"cittadino", o "urbano", ma tiene anche a sottolineare che la sua poesia, così
intrisa della natura, non va letta semplicemente come ·il trionfo dell'ideale
del beatus ille, tutt'altro:
tras la aparente serenidad y el apartamiento y la felicidad de lugares pue'de
latir - de hecho late - el desasosiego, la angustia y, por qué no, una concien-
cia tragica de la existencia. El locus amoenus es, a estas alturas de la historia,
no una visi6n edulcorada del parafso sino un infierno de apariencia apacible.
Quienes·no se hayan dado cuenta de que esta es la verdad - o la sosegada des-
esperanza o la serena desolaci6n - que esconden mis poemas buc61icos, una
de dos: o no me han leido (cosa harto probable o hasta plausible) o no se han
enterado de nada 23".
L'impegno per una poesia non eccessivamente nel nostro
tempo, spesso lontana da mode effimere e dalle tendenze più pubblicizza-
te, ha certo nuociuto alla popolarità di Valverde, che forse non ha trovato
uno spàzio adeguato nelle antologie recenti. In particolare, mi sembra
deprecabile l'assenza del poeta di Plasencia dal florilegio di Garcia Sanchez,
El ultimo tercio "del siglo (Ma"drid, Visor, 1998), che è realizzata con il
metodo dell'inchiesta tra poeti, editori e critici letterari. È probabile che
alcune delle voci rappresentate in tale antologia saranno presto dimentica-
23 A. Valverde, Lugar de la mirada... , cit., p. 9.
123
te, e che i lettori del nostro millenio, guardandosi alle spalle a debida dis-
tancia, si chiedano stupiti come mai Valverde non fosse considerato tra i
primi trenta poeti del dopo-Franco.
Bibliografia
Le note bibliografiche che seguono sono ben lungi dall'essere esaustive.
Mi limito a registrare le principali raccolte della poesia di Valverde nel periodo
studiato; non includo, invece, tutte le plaquette o le edizioni non venali, né le
opere in collaborazione; non segnalo le singole poesie pubblicate su riviste o
diffuse per posta elettronica a conoscenti ed· amici. Inoltre non riporto i suoi
numerosi articoli di critica letteraria, apparsi su riviste e quotidiani, e lo stesso
vale per le sue recensioni di altri poeti. Anche per quanto riguarda la critica su
Valverde, ho preferito escludere le recensioni pubblicate su quotidiani, riviste o
inserti letterari di difficile reperimento. Si tratta, dunque, di una bibliografia
puramente orientativa, utile per un primo approccio all'autore.
OPERE DI ALVARO VALVERDE (1983-1999)
ccHojas de acanto y rosas)), in]6venes poetas en el "Aula ", Caceres, Diputacion
Provincial de Caceres, 1983.
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Alcazaba").
Sombra de la memoria, Valencia, Separata de Zarza Rosa, 1986.
Lugar del elogio, Mérida, Editora Regional de Extremadura, 1987 ("La
Centena, 83").
A er6voro, Torrelavega (Santander), Scriptvm, XVIII, 1989.
Las aguas detenidas, Madrid, Hiperion, 1989 ("Poesia Hiperion, 134").
Una oculta raz6n, Madrid, Visor Libros, 1991 ("Coleccion Visor de poesia,
270"). IV Premio Fundaci6n Loewe.
A debida distancia, Madrid, Hiperi6n, 1993 ("Poesia Hiperi6n, 213"). I
Premio de Poesia Ciudad de C6rdoba.
Poemas, Imprenta Provincial, Aula Enrique Diez-Canedo,
Asociaci6n de Escritores Extremeftos, 1994 (poesie lette dall'autore a
Badajoz, il 24 novembre 1994).
Ensayando .circulos, Barcelona, Tusquets, 1995 ("Marginales. Serie Nuevos
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124
A la imagen de un lugar,Plasencia, Instituci6n Cultural El Brocense, 1995
(breve autoantolagia).
Los marinos inm6viles, Gij6n, N6madas, 1996 ("N6madas, 5").
El reino oscuro, Mérida, Editara Regional de Extremadura, 1999 ("Poesia").
ALVARo VALVERDE NELLE PRINCIPAU ANfOLOGm SPAGNOLE
Veinte poemas de amor y un par decanciones desesperadas, Madrid,
Hiperi6n, 1987.
La generaci6n de los ocbenta, ed. José Luis Garcia Martin, Valencia, Mestral,
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La ceremonit:' de la diversidad. III semana poética de Cue,!,ca, Cuenca,
Ayuntamiento - Universidad Internacional Menéndez y Pelayo, 1993.
La nueva poesia (1975-1992), ed. Miguel Garcia-Posada, Barcelona, Critica,
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126
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] | DOS VERSIONES DE lA PRIMERA TRADUCCION
EN LENGUA ESPAN"OIA DE LOS
DIMOGOS DE AMOR DE LEON HEBREO
JAMES NELSON NOVOA
En el momento de su aparici6n, los Dia/ogos de amor de Le6n Hebreo
o Jehudah Abravanel, que fue su verdadero nombre, fueron considerados
como uno de los tantos tratados de amorosa gue abundaron duran-
te el Quinientosy, de hecho, en este género la obra ocupa un destacado
lugar. En tiempos recientes los estudiosos 1 han considerado, y muy justa-
mente, la obra como un ejemplo del sincretismo renacentista, en que una
obra ideada por un judio sefardi oriundo de la Peninsula Ibérica y como tal,
l Los primeros estudios criticos datan del siglo XIX y de manos de estudiosos ale-
manes como Leo Hebreaus ein ]udischerPhilosoph der Renaissance sein Leben seine
Werke und seine Lehren, Breslau, Wilhelm Koebner, 1886, del Dr. B. Zimmels, Die Idee
der Liebe Leone Ebreo. Zwei Abhandlungen zur Geschichte der Philosophie in der
Renaissance, Verlag. von ].C.B Mohr, Tubinga, 1926 y la reproducci6n fotostatica de la
editio princeps de los Dialoghi d'amore con numerosos documentos de archivos y un
estudio biografico del autor yde su òbra en Leone Ebreo Dialoghi Hebraeische
Gedichte Herausgegeben mit einer Darstellung des Lebens un des Werkes Leones,
Bibliographie, Register zuden Dialoghi, Uebertragung der Hebraischen .Texte, Regesten,
Urkunden und Anmerkungen. CarI Winters Universitatsbuchhandlung, Heidelberg, 1928.
El estudioso italiano Giuseppe Sa}tta le ha consacrado algunas paginas en su monumen-
tal Il pensiero italiano nell'umanesimo e nel Rinascimento, .vol II, Il Rinascimento,
Bologna, a cura del Dott. Cesare Zaffi, 195Ò al igual que Marcelino Menéndez Pelayo en
su Historia de las ideas estéticasen Espafia, Consejo Superior de Investigaciones
Cientificas, Madrid, 1974, pp. 487-542 en que trata· de la recepci6n de la obra en Espafia.
En tiempos mas recientes Andrés Soria Olmedo ha ampliamente estudiado las fuentes y
la recepci6n europea en generaI y esp3:fiola en particular, en su libro Los Dialogos. de
amor de Le6n Hebreo. Aspectos literarios y c ulturales, Universidad de Granada,
Secretariado de publicaciones, 1984. Para el tema de las fuentes propiamente judias de
la obra. véase el articulo de Schlomo Pines ccMedieval Doctrines in Renaissance Garb?
Some ]ewish and Arabic Sources of Leone Ebreo's Dialoghi d'amore», en]ewish 1bought
in the Sixteenth .Century, Edited by Bernard Dov Cooperman, Harvard University. Press,
CatI?-bridge, Mass, 1983, pp. 365-398.
127
de clara inspiraci6n judfa, luciera los ropajes del mundo cultural del
Renacimiento italiano. Tanto por el género elegido, el dialogo, como por su
uso de la lengua italiana, en gue el texto apareci6 por vez primera, en
Roma, en 1535, la obra de Hebreo congeni6 con el espfritu del mundo lite-
rario del siglo XVI, y fue impresa al menos doce veces en lengua italiana,
traducida tres veces al castellano, una vez al latftÌ. y tres veces al francés a
lo largo de aguel siglo.
Poco en cambio, ha sido la primera traducci6n castellana de
la obra, cuya primera edici6n en 1568 2 , de la mano de un tip6grafo desco-
nocido en Venecia, fue seguida por uria emisi6ri en 1598 3 • Esta traduccion
se vio eclipsada por una segunda traducci6n, la del literato aragonés, Carlos
Montesa, en 1584 4, y de lejos por aguella del Inca Garcilaso qe la Vega, que
salio en 1590 5, la traduccion publicada en Venecia goz6 de una escasa difu-
sion, por lo gue cay6 rapidamente en ei olvido, tanto en Espafia como en
Italia en el siglo XVI6.
La traducci6n en cuestion fue obra de un judio de origen portugués,
nacido en Sal6nica, ciudad otomana que, en el 'siglo XVI, alberg6 una de
las comunidades sefardfes mas importantes, de nombre Guedeliah ibn Yahia
, 2 Los Didlogos de amor de Mester Le6n Abarbanel médico y fil6sofo excelente de
nuevo traduzidosen lengua castellana, y deregidos ala Maiestad del Rey Filippo. Con pri-
vilegio della Illustrissima Senoria. En Licenza delli superiori. M.D.LXVIII.
3 Didlogos de amor conpuestos por Maestro Le6n Abarbanel Hebreo Médico
Excellentissimo. De nuevo con summa delixensia corexido e restampado. Estampado en
Venesia 1598.
4 Philopraphia universal·de todo el mundo, de los Didlogos de Le6n Hebreo, tradu-
cida de italiano en espanol, corregida y anadida, por Micer Carlos Montesa, çiudadano
de la insigne ciudadde çaragoça, dirigida al muy Illustre Senor don Francisco Gasca
Salazar Inquisidor Apost6lico del Reyno de Arag6n y Maestre. Escuelas de la· Universidad
de Salamanca. Es obra sutilisima y muy provechosa, assi para seculares, como religiosos.
Visto y examinado por ordende 10s Sefiores del Consejo Rea!. Virescit virtus. Con
licencia.' En çaragoça, en casa de Lorenzo y Diego de Robles hermanos. Ano 1584,
Véndese en .casa del mismo. Con privilegio.
5 La traduzion del Indio de los Tres Didlogos de Amor de Le6n Hebreo, hecha de ita-
liano en espanol por Gracilazo Inca de la Vega, natural de la gran eiudad de Cuzeo,
cabeza de los reynos y provineias del Piro. Dirigidos a la Sacra Cat6lica Real Majestad del
Rey don Felipe nuestro senor. En Madrid, en casa de Pedro Madrigal, M.D.XC. Tassa:
Gonzalo de la Vega, 22 diciembre, 1589, aprobaci6n: Fray Fernando Xuarez. 17 agosto
1588, el Rey: por mando del Rey nuestro senor Juan Vazquez, 7 septiembre 1588.
6 Alusiones al libro en Espafia aparecen solamente a partir del siglo XVI, cuando
aparecen en el Indice de Zapata de y dos anos mas tarde la Inquisici6n de Murcia
envi6 una lista de libros prohibidos "al Consejo de la Suprema et:l Madrid en que men-
ciona una de 10s Didlogos de amor de 1598".
128
ben Moshe. Su traducci6n contiene numerosos errores, usos de la lengua
considerados arcaicos para la segunda mitad del siglo XVI, italianismos y
lusismos. La obra podria seguir sepultada como una mera anécdota libres-
ca si no fuera por el hecho de gue su estudio puede decirnos mucho sobre
la relaci6n de los sefardies con la cultura del Renacimiento y con Espafia en
la segunda mitad del siglo XVI.
Aparte de la mencionada edici6n, existe una versi6n del mismo texto
en aljamiado, contenida en un manuscrito gue se conserva en la British
Library, el ms. Or. Gaster 10688, redactada en una letra semi-cursiva sefar-
l di con numerosas correcciones y glosas al margen en hebreo. El texto care-
ce del nombre del autor, hecho que llev6 a un estudioso a suponer gue se
trataba del originaI de ]udah Abarbanel 7 • Esta hip6tesis queda descartada al
compararlo con laedici6n impresa, de la cual se aparta tan s6lo en algunas
variantes: la mas importante es la ausencia de una alusi6n cristiana al men-
cionar a San Juan Evangelista, algo que aparece en todas las .ediciones ita-
lianas y traducciones impresas pero no en el manuscrito aljamiado. La ver-
si6n aljamiada nos demuestra que claramente hubo una difusi6n de la obra
de Le6n Hebreo por y para judios sefardies. No es ins61ito que una obra
literaria de caracter no religioso circulara entre sefardies en aljamiado.
Existen, por ejemplo, versiones aljamiadas de la Danza generaI de la muer-
te, de la Vìsi6n deleitable de. Alfonso de la Torre y de algunos cantos de
Orlando furioso de Ludovico Ariosto segun la traducci6n hecha por
]er6nimo Urrea. El hecho de que el fiS. Or. Gaster 10688 tenga también glo-
sas marginaies en hebreo gue aluden claramente al caracter judio del texto
demuestra que los Dialogos de amor, aun siendo uno de los textas ffias
conspicuos del Renacimento italiano, contenian un trasfondo judio que fue
reconocida por sus lectores sefardies.
Los destinatarios de la edici6n impresa san mas dificiles de identificar.
La edici6n veneciana de 1568 esta dedicada «Al muy y poderoso Sennor,
Don Felipe, por la gracia de Dios, Rey d'Espanna, de las Indias, Islas, y tie-
rra firme, del mar Océano, de las dos Sicilias, de Gerusalem, & c. Cat61ico
defensor de la fe». Comienza con esta dédicatoria, curiosa por, ser obra de
un judio sefardi, apartado de dos generaciones del suelo ibérico:
7 Esta fue la posici6n del duefto del manuscrito, el Dr. Moses Gaster, quien vendi6
el manuscrito'a la British Library en 1925. V éase su Notes on my Library and earlier drafts
with corrections. London, 1924.
129
«Muchos son los que en estos tiempos (muy alto, y. mui poderoso sennor) se
han puesto, y se ponen a escrivir, y publicar 5US obras en diversas professio-
nes, como vemos, ansi por mostrar sus ingenios, como para uso, y provecho
del pr6ximo, los quales por eierto merecem mucho loor, pues la intenei6n con
que lo hazen es buena, y tanto mas aquellos que debaxo de brevedad han
declarado sus conceptos, y eserito alta y doetamente, tractando materias gra-
ves, y muy delicadas para mas provecho. Como entre algunos otros lo ha
hecho, el sabeo varon ·Le6n hebreo, el qual en sus Dhllogos de Amor, que
andan escritos en Italiano con mucha erudici6n, y elegancia de estilo ha trac-
tado del amor divino so titulo de Fil6n, y Sofia, que otro no quiere dezir, que
Razonamiento del Amante, y la Sabedoria, y Cat61icamente ha dicho las opi-
niones que los fil6sophos sobre ello tuvieron, y también del Astrologia, y de la
immortalidad del anima, con otras cosas graves, y delicadamente escritas, que
mereçen estarlo en todas las lenguas, si ser pudiesse, como ya esta también en
la Latena la qual obra contentandome mas que otra, por el subgecto, y consi-
derando el beneficio que recibiria la Naceon Espannola (que siempre fue amiga
de saber cosas nuevas, y que las alcansa por arduas que sean, mas que otra)
si la tuviessen en su lengua, y tanto mas siendo el Autor Espannol, me puse a
traduzirla en los ratos que he podido. Y ansi aviéndome salido bien este mi tra-
baio, que no ha sido poco, por la difficultad de las materias que tracta, en que
por mi poco .saber a las vezes tropesava, y reduzidola a mi desseado fin. No
me contente de haverla traduzido, pero aun lo he hecho imprimir, ansi por lo
que ya he dicho, como por tener occasion de ofrecerla a V.M. como lo hago,
y que salga de manos de baxo del amparo de su ferme, y fuerte escudo, y
no tema los maldigientes, y no me parece que viene fuera de proposito dedi-
car el casto subgecto de Amor, a Principe Casto. Pensamientos celestiales, a
Principe que es ornado de celestiales Altissimos entendimientos a
Préncipe Ileno de altissimos conceptos. Allende que no dexo de persuadirme
que todo aun tiempo haré dos cosas, la· q.na servir a V.M en algo como es mi
desseo, y la otra obligar(si las sembras obligar se pueden) al Autor por haver
yo a sus Dialogos dado nueva luz, y encomendadolos al mayor de los Principes
que oy bivem, de lo que yo creo, que el sumamente deva alegrarse, no· menos
que del nuevo resplendor, del alto Protector que les he dado. Por tanto a V.M
supplico por su mucha bondad reciba esta obra como cosa suya, y la mandé
tractar como tal, pues ella lo mereee, y enderesando en' ella como en cuerpo
aptissimo a recebir luz de su rayo, hara que mas clara, y resplandeciente se
muestre al mundo.»
La decisi6n de -verter una obra cumbre del Renacimiento italiano al cas-
tellano por parte de un judio no era de Un afto antes, en Venecia
también, el literato de probable origen portugués, Salotl;16n Usque public6
su traducci6n de los sonetos de Petrarca, dedicandola a Alejandro Farnesio,
130
prfncipe de y Piacencia, quien se habfa formado en Espada y mas
tarde iba participar, en la supresi6n de la revuelta la dominaci6n
espadola en 10sPafses. Bajos bajo Felipe 11 • Ya entrado en el siglo XVII,
8
la localidad entonces veneciana de Zante, otro literato de origen
sefardf, Jacob Uziel, public6 una composici6n originaI, el poema herofco
Davtd, en castellano, en la ciudad de la laguna, en que, entreotras cosas se
disculpa por la rudeza del lenguaje al mismo tiempo que expresaba su nos-
talgia· por la tierra de donde habia sido expulsado su pueblo y su senti-
miento de pertenecer, en algun modo, a la naci6n espafiola 9 • Ambos ejem-
plos demuestran que estos literatos sefardies, por su: decisi6n de componer
y publicar obras literarias de libre creaci6n y publicarlas en Venecia se con-
sideraban aun vinculados a Espafia, a la lengua espadola y a la cultura
pea del momento.
El caso de la traducci6n de Guedeliah ibn Yahia ben Moshe de los
Dialogos de amor y sus dos versiones muestra hasta qué punto la cultura
sefardf de la segunda generaci6n de la diaspora de la Peninsula Ibérica tenia
una doble vertiente. Por una parte buscàba apropiarse de la cultura euro-
pea para sus propios usos, algo patente en las versiones aljamiadas de tex-
tos de libre creaci6n, respetados y leidos en el mundo cultural «cristiano».
Por otra parte, buscaban difundir obras literarias en la cultura europea del
momento, y, en particular, en Espada y sus dominios. Es un ejemplo elo-
cuente de que los sefardfes, pese a una separaci6n forzada y dolorosa se
consideraban todavia hijos del suelo ibérico, alli donde se hallasen.
8 De los sonetos; canciones, mandriales y sextinas del gran Poeta y Orador Francisco
Petrarca, traducidos de toscano por Salusque Lusitano, Parte Primera. Con breves suma-
,rios, o argumentos en todos los sonetos y canciones que declaran la intenci6n del autore
Compuestos por el Con dos··tablas, una castellana y la otra toscana y castellana.
Con privilegios. En Venecia, en casa de Nicolao Bevilaqua. MDLXVII.
, 9 Véase el articulo de Andrea Zinato .Por no ser nacido en Castilla, antes en' tan
remota parte: Jacob Unel, poeta sefardita», en Convegno internazionale: Social and
Cultural History 01tbe]ews tbe Eastern Adriatic Coast in tbe 17h Century, Dubrovnik,
27-30 agosto, 2002 (en prensa).
131
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tintas | https://riviste.unimi.it/index.php/tintas/article/view/3565 | [
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] | ACERCA DE UNA -NUEVA HIP6TESIS DE ATRIBUCI6N
DEL LAZARILLO
LUCIO GIANNELLI
La profesora Rosa Navarro Duran ha atribuido ultimamente la paterni-
dad del Lazarillo de Tormes a Alfonso de Valdés. La estudiosa plante6 su
hip6tesis por vez primera en dos articulos publicados por la revista !nsula,
reimpresos luego en un volumen, y la ha desarrollado mas detenidamente
en un ensayo que se acaba de editar; ademas, una amplia exposici6n de su
teoria puede leerse en la introdueci6n a una recentisima ediei6n del
Lazarillo, en la que la autoria de Valdés· esta atribuida con absoluta certi-
dumbre ya en la portada del libro 1.
La hip6tesis esta fundamentad·a en euatro 6rdenes de argumentos:
A) correspondeneias textuales (de palabras, locuciones, t6picos y
recursos narrativos) entre el Lazarillo y el Pialogo de Mercurio y
Car6n;
B) numerosas correspondencias textuales entre el Lazarillo y varias
obras difundidas o escritas a comienzos del siglo XVI (una tradue--
ci6n de las comedias de Plauto, piezas de B. Torres Naharro, La
Celestina, la Tebaida, La Lozana Andaluza), de las que, segun la
profesora Navarro, Alfonso de Valdés tom6 sugerencias que reela-
boro y transpuso en el Lazarillo;
C) una reinterpretaci6n y redistribuci6n compositiva del pr6logo del
Lazarillo, que, en conexi6n con una relectura del dialogo final entre
1 Rosa Navarro Duran, "De como Lazaro de Tormes tal vez no escribio el prologo
de su obra", insula, 661-662, enero-febrero de 2002, pp. 10-12; "Sobre la fecha y el autor
de la Vida .de LazarlllodeTormes", ivi, 666, junio de 2002, pp. 7-13; "Lazarillo de Tormes"
de Alfonso de Valdés, Salamanca, SEMYR, 2002; Alfonso de Valdés autor del "Lazarlilo de
Tormes", Madrid, Gredos 2003; "Introduccion" a Alfonso de Valdés, La vida de Lazarlilo
de Tormes, y de sus fortunas y. adversidades, edicion y notas de Milagros Rodriguez
Caceres, Barcelona, Octaedro, 2003, pp. 7-90.
133
Lazaro, su mujer y el areipreste, lleva a la profesora Navarro a eon-
jeturar que la "Vuestra Mereed" destinataria del relato es una mtijer,
de la que el areipreste de San Salvador serfa el eonfesor;
D) las refereneias del Lazarillo y, sobre todo, la eertidumbre
de que la feeha de las Cortes de Toledo mentadas en el ultimo
parrafo de la obra puede ser solamente 1525.
Los. argumentosesgrimidos por la profesora Navarro dan lugar, en mi
opini6n, a perplejidades tanto por lo que atane al método de analisis como
por la eonsisteneia de muchas. de las supuestas pruebas. Examinemos ahora
los argumentos siguiendo el esquema anteriore
CA)
Si analizamos cualquier obra literaria de los siglosXV, XVI y XVII,
encontraremos siempre un sinffn de correspondencias y referencias a otras
obras contemporaneas, al folklore y a clasicos, mas o menos antiguos, que
pertenecfan al horizonte cultural comun de la época; los autores espafioles
de esos tiempos, no pudiendo asentarse en una tradici6n aut6ctona 2 en su'
tarea felicfsima de construcci6n de una literatura moderna 3, sacaban mate-
riales y sugerencias de cualquier parte, de Plat6n a los,chascarrillos obsce-
nos, de Petrarca a las novelas del ciclo .arturico, de Apuleyoa las represen-
taciones escénicasde inspiraci6n religiosa; afiadase que el concepto casi
paranoico de originalidad y derecho de autor es invenci6n muy reciente,
fruto de un mundo industrializado, que S6focles, al par de Chrétien de
Troyes y Cervantes, no habrfan alcanzado a comprender cabalmente.
Por consiguiente, el hecho de que el mismo personaje, o refran, o epi-
sodio, o recurso narrativo, se encuentre t?n dos o mas obras no puede, por
2 Como, analogamente, reconocia Juan de Valdés para el establecimiento de un
canon de lengua culta (Dialogo de la lengua, edici6n de Cristina Barbolani, Madrid,
Catedra, 19904, p. 123).
3 El juicio no es hiperb6lico. Recuérdese que Oamaso Alonso subrayaba como "a
Espafia se debe el hallazgo definitivo de la novela moderna, pero ella es .también la alum-
bradora en muchos de los tanteòs previos"; y agregaba que lanovela caballeresca, la pas-
tori!, la hist6rica o morisca, la sentimental "son invenciones o retransmisiones espafiolas,
es el esfuerzo poderoso y (obsérvese bien) unico, entonces, en Europa, que' esta reali-
zando Espafia para el descubrimiento· de la diritta' via de la novela" ("Enlace del realis-
mo. A la busca de la novela moderna, tanteos espafioles en el siglo XVI", en Obras com-
pletas, Madrid, Gredos, 1985, voI. VIII, p. 483).
134
si solo, atestiguar la procedencia o el influjo de una de las obras en cues-
ti6n sobre las otras, ni ayudarnos a explicar el sentido y a estimar el valor
del texto, pues lo gue realmente tiene importancia es el modo en gue el
autor reelabora aguel elemento tornado de ,un patrimonio comun y lo
engarza en la estructura y en el significado de su creaci6n.
Por ejemplo, el episodio de la calabazada del toro en el primer tratado
del Lazarillo deriva seguramente de aJgun cuentecillo popular del tipo
dicho "de bobos", pero el autor reelabora la sencilla idea de base segun
modalidades gue transcienden completamente su significado originaI y la
adaptan admirablemente a la arquitectura y al s.entido global del relato; la
broma cmel del ciego no marca la simpleza del nino, sino el pasaje entre
dos fases de su vida, de la ingenuidad infantil, amparada 'por la presencia
de la madre, a la temprana madurez de una lucha cotidiana por la supervi-
vencia, de modo que este episodio de la novela no puede asemejarse en lo
mas minimo, a pesar del mismo origen del· material narrativo, a los cuentos
de bobos recogidos en las groseras recopilaciones de Timoneda.
AsI, lo queparece mu.y endeble en la. hip6tesis de la profesora
Navarro es gue las correspondencias, innegables, entre el Lazarillo, el dia-
logo valdesiano y las demas obras son valoradas por si mismas, sin con-
siderar en ningun momento la funci6n que los elementos cqrrespondien-
tes desempenan en la estructura y en el significado de las obras cotejadas.
Reparemos en la principal correspondencia directa alegada como prueba
de la autoria de Valdés, el paralelismo entre el desfile de animas en el
Dialogo de Mercurio y Car6n y la sucesi6n de amos del Lazarillo; al tra-
bar esta simetria Rosa .Navarro pone de relieve' dos aspectos a los que
btorga mucha importancia: la anonimia de 10s personajes de ambas obras
y la execrable vivencia de la re1igi6n, contraria a los principios erasmistas,
que los amos de1muchacho comparten con las a1mas condeJ).adas del dia-
logo.
Por lo que atane a la' anonimia de casi todos los. 'personajes del
Lazarillo (que seguramente es de procedencia folkI6rica), no cabe duda de
gue aqui tenemos un rasgo ins6litoen la narrativa culta y, por ende, muy
llamativo y merecedor de una explicaci6n sin embargo, lo mismo
no puede decirse de las obras aleg6ricas con las gue el Dialogo de Mercurio
y Car6n esta emparentado, pues, por ejemplo, en los Autos das Barcas de
Gil Vicente, asi como (un siglo mas tarde) en el Gran Teatro y en el Gran
Mundode Calder6n, nos hallamos casi ,siempre ante tipos abs-
tractos, identificados s610 por el pape1 que cumplen en la sociedad (elrey,
el obispo, el labrador, el pobre, la a1cahueta, etc...). Afiadase que entre los
135
personajes del Lazarillo y las animas valdesianas se nota muy claramente
40
una diferencia gue afecta en profundidad al significado global de las dos
obras: los personajes-tipos del Dialogo pertenecen a las capas mas altas de
la sociedad de la época (con las unicas excepciones, aunque no bien mar-
cadas, de la perfecta casada y.del santo hip6crita), mientras que los perso-
najes del Lazarillo son en su mayoria hijos del pueblo mas menudo o, todo
lo mas, estan sentados en escalones bajos de la jerarquia social. Lo que
subrayar es que la comun anonimia podria constituir un sintoma sig-
nificativo de conexi6n entre las dos obras s610 si desempenara en ambas
una funci6n idéntica o analoga, por ejemplo, si pudiéramos afirmar que la
construcci6n del Lazarillo se conforma al molde de los autos aleg6ricos, o
que, .por otro lado, el Dialogo nos proporciona una reelaboraci6n realista
de materiales folk16ricos; si no logramos establecer semejante conexi6n, la
comun anonimia no puede calificarse sino como simple coincidencia des-
provista de valor significante.
Los mismos criterios pueden aplicarse también a los elementos alega-
/I
dos como pruebas de la supuesta critica erasmista de los amos de Lazaro;
en efecto, los vicios y las caracteristicas de estos personajes brotan de una
tradici6n mucho mas amplia y antigua que el erasmismo espanol, y el
escarnio de la avaricia y la lujuria de los clérigos, y de su abuso de la
superstici6n popular, es uno de los componentes mas comunes, quiza el
mas manido, en los cuentos populares, en las novelle italianas, en Chaucer,
en Rabelais y en el teatro ibérico. En el siglo XVI no hacia falta conocer a
Erasmo para sonreir frente. al blindaje de cebollas y pan armado por el
cura· de Maqueda, o al balbuceo estéril de oraciones del ciego, o a los
embustes .del buldero, ni, sobre todo, .para reconocer en estas escenas la
deformaci6n satirica (no demasiado exagerada, con todo) de una realidad
consabida y evidente en la vida cotidiana. No olvidemos que el falso mila..
gro.
del buldero esta sacado de un relato de Masuccio ni que el mercado
.
de las bulas de indulgencia es uno de los blancos principales contra el que
Gil Vicente apunta su çritica en el Auto da Feira; no olvidemos tampoco
que, si la Reforma protestante pudo difundirse y arraigarse en toda Europa
a pesar de la hostilidad de las monarqu-fas mas potentes, fue justamente
porque la mayoria de la gente, tanto campesinos como burgueses y
dados, ya no podia aguaniar los descarados abusos de los hombres de
iglesia. En resumen, la satira y critica anticlerical es un rasgo demasiado
comun en la literatura del Medioevo y del Renacimiento para que se le
pueda otorgar una marca de connotaci6n distintiva valida en absoluto,
136
prescindiendo de. su funci6n en la estructura y en el significado globales
de la obra 4•
A las mismas conclusiones podemos llegar, aun ffiaS decididamente, por
lo gue concierne a las otras correspondencias léxicas entre el Lazarillo y el
Dialogo de Mercurio y Car6n alegadas por la profesora Navarro, es decir
(entre otras), el parang6n con el papa como modelo de vida confortable, el
predominio del uso de acaecer respecto a pasar y acontecer, los diminutivos
en -ico, el uso de palabras como contraminar, mujercillas y cosillas. La
correspondencia de estas palabras y locuciones n'o podria presentarse como
prueba de una misma autorla ni siquiera si estuviera demostrado (y no lo esm,
ni puede en muchos· casos ser verdadero)5 gue aparecen solamente en estas
dos obras en toda la literatura espanola, pues, aunque fuera asi, no se padria
excluir con certidumbre gue uno de Ios dos autores Ias haya sacado del otro,
o gue en ambos deriven de otra obra perdida, o que ambos las hayan esco-
gido autonomamente, por derivaci6n del mismo ambito dialectal o cultural, o
quizaCiporqué no?) por casualidad. Y si quisiéramos otorgar importancia a ."la
presencia muy marcada de refranes" 6 en las dos obras, entonces podriamos
deducir gue la Celestina también habria salido de la misma pIuma.
(B)
La alegaci6n de correspondenciàs entre el Lazarillo y otras obras cono-
cidas o escritas al tiempo de Alfonso de Valdés presenta la misma endeblez
metodol6gica que he intentado poner de relieve tratando de las correspon-
dencias directas con el valdesiano; éstas se han escogido segun cri-
terios meramente literales,. en una lectura cercenada gue pasa por alto cual-
quier posible consideraci6ri sobre las interrelaciones de. cada elemento con
4 Claudio Guillén, hablando de la censura del Lazarillo, obsetvaba que "las notas, de
satira anticlerical eran lo menos originaI del libro", y, citando aMo Bataillon, agregaba:
"baste con recordar 10s nombres de Juan de Lucena, Juan Maldonado, Gil Vicente, Torres
Naharro, Sanchez de Badajoz, Crist6bal de Castillejo, como eslabones de una tra-
dici6n ininterrumpida de satira anticlerical y antimonastica cuyo mas célebre represen-
tante en Espafia es el Arcipreste de Hita" ("El descubrimiento del género picaresco", en
El primer Siglo de Oro. Estudios sobre géneros y modelos, Barcelona, Critica, 1988, p. 200).
5 Recuérdese, por ejemplo, que el uso del. sufijo diminutivo -ico fue ubicuitario en
toda la peninsula ibérica hasta los tiempos de Calder6n (véase R. Lapesa, .Bistoria de la
lengua espafiola,Madrid, Gredos, 1981, p.' 395).
6 R. Navarro Duran, "Lazarillo de Tormes", cit., p. 45.
137
los otros de la obra de que se ha tornado, ni sobre su colocaci6n en el con-
junto. Consideremos como ejemplo la rnenci6n del nombre Lazarillo que
encontramos en el mamotretoXXXV de La Lozana Andaluza, cuando
Blas6n pide la ayuda de la Lozana para recuperar el favor de su amante y
se queja de c6mo le trata ésta, preguntandose "por qué no ha de mirar gue
yo no soy Lazarillo, el que cabalg6 a su agiiela"7; segun M. Bataillon 8 , esta
frase es la primera parte de un refran que deberfa completarse con "y pre-
guntaba si era pecado", aSI que el Lazarillo al que Delicado hace referencia
se caracterizarla como un personaje tonto y brutalmente libidinoso. La evo-
caci6n de tales figuras es, por perfectamente atinada en el contexto
del mamotreto y en la platica de Blas6n, gue guiere reprochar precisamen-
te a su amante gue le trata como a una bestia; sin embargo, 'el protagonista
de la novela gue nos ocupa no manifiesta el mas mfnimo rasgo ni de tonte-
rfa ni de furia sexual y, por tanto, no hay raz6n para imaginar gue
la lectura del refran citado en el mamotretb XXXV de la Lozana pueda haber
sugerido al an6nimo el nombre de su héroe; de suerte gue la correspon-
dencia onomastica se revela como una simple coincidencia.
Pero la valoraci6n de estas correspondencias proporcionada por la pro-
fesora Navarro plantea, ademas, una cuesti6n preliminar a la que nos pare-
ce imposible hallar una soluci6n razonable. Como ya se ha' dicho, la estu-
diosa afirma que las correspondencias textuales entre el Lazarillo y Plauto,
Torres Naharro, la Tebaida y La Lozana Andaluza atestiguarfan gue Alfonso
de Valdés se inspiro ·en estas obras y tomo de ellas numerosos elementos
sueltos gue reelaboro para trasladarlos a la construccion del Lazarillo; ahora
bien, admitamos que estas concomitancias no sean casuales y que el autor
del Lazarillo las haya sacado exactamente de las obras susodichas y no de
otras fuentes: esto no implicarfa en ninguncaso que el autor de la reelabo-
racion sea automaticamente Alfonso de Valdés. iQué datos literarios, hist6-
ricos o logicos nos permiten afirmar gue s610 Valdés puede ser el respon-
sable de esas lecturasy transposiciones? Por supuesto, sabemos gue el con-
quense era hombre de profunda cultura, que .conocla y apteciaba a Torres
Naharro, peroiera él el unico en Espafia gue lo estimaba por aquel enton-
ces? iY por gué seria menos plausible 'achacar la composicion del Lazarillo,
entre otros, al propio Torres Naharro?
7 Francisco Delicado, Retrato de la Lozana Andaluza, ed. de Claude Allaigre,
Madrid, Catedra 19942 [1985], p. 344.
8 Marcel Novedad y fecundidad del Lazarillo de Tormes, Madrid, Anaya,
1968, p. 28.
138
Recordemos que la profesora Navarro no alega las correspondencias en
cuesti6n como elementos de analisis del Lazarillo (lo que seria util y nece-
sario), sino como prueba decisiva de la autorla de Alfonso de Valdés; yesto,
"hablando con reverencia", no parece muy l6gico.
Para poner adecuadamente de relieve la endeblez de las atribuciones
basadas en simples correspondencias textuales creo merezça recordar la
vieja polémica entre Richard T. Holbrook y Mario Roques acerca de la pater-
nidad del Maistre Pierre Patbelin. Sabemos que Holbrook, ya convencido
de que el autor de la Farce fuera Guillaume Alecis, aleg6 como prueba de
su atribuci6n doce correspondencias entre la misma Farce y Les Faintes du
Monde de Alecis, correspondencias que parecfan muy significativas porque
se encuentran eo versos de las dos obras correspondientes en la respectiva
numeraci6n progresiva. En contra a esta prueba Mario Roques demostr6
que, aplicando el mismo "método" de Holbrook a otras obras, se hallan sen-
das correspondencias textuales analogas, de un lado, entre el Maistre
Patbelin y el Roman de la Rose, y, del otro lado, entre Les Faintes du Monde
y el Tartuffe de Molière.
(C)
La profesora Navarro conjetura que el pr610go del Lazarillo esta for-
mado pordos partes distintas, el pr6logo verdadero, escrito por el autor-
editor que publica la carta del pregonero, y la dedicatoria (desde las pala-
bras "suplico a V.M." hasta "salieron a buen puerto")que encabezaria la
carta de Lazaro dirigida' a Vuestra Merced. Ademas, segun la estudiosa, las
palabras "hablando con reverencia de V.M., porque esta ella delante" en la
escena conclusiva entre Lazaro, su mujer y el arcipreste demuestran que el
destinatario de la carta seria una mujer; afiade Rosa Navarro que la divisi6n
del pr61ogo en dos partes, junto con algunas anomalias tipograficas de las
.ediciones de Burgos y Medina del Campo, demuestran gue al comienzo de
la edici6n originaI del Lazarillo, de la gue derivaron las que conocemos,
existia un folio ffias que fue arrancado, donde 'se daba cuenta de que la
Vuestra Merced destinataria de la, carta era una' mujer, y que habria pedido
al pregonero que le explicara el caso porque el arcipreste ·de San Salvador
seria su confesor. Este vinculo entre el' arcipreste y Vuestra Merced seria, en
opini6n de la estudiosa, una prueba mas de la autoria de Alfonso de Valdés,
en consideraci6n de la consabida desconfianza de los erasmistas para con
el sacramento de la confesi6n.
139
Por lo gue atane especificamente a la atribuci6n del Lazarillo no hay
mucho que decir sobre esta teorfa, cuya unica conexi6n con la supuesta
autoria de Valdés es la ultima suposici6n de las cuatro que la componen, es
decir la hip6tesis del confesor. Pues bien, aunque admitamos que toda la
sucesi6n de conjeturas sea correcta y gue, por ende, el arcipreste de San
Salvador fuera en efecto el confesor de la dama a la que Lazaro dirige su
carta, esto no podria confirmar, sin embargo, ni siguiera de forma aproxi-
mada, gue el haya sido escrito por Alfonso de Valdés;como ya se ha
dicho, la ironia anticlerical, a veces liviana, a veces encarnizada, es tan fre-
cU,ente en toda la literatura medieval y renacentista, que. sus manifestacio-
nes no pueden servir nunca como piedra de toque para establecer la pater-
nidad de una obra o una frase o para esclarecer el influjo de un autor sobre
otro. Hablando de la moralidad y lujuria de los confesores, el primer ejem-
pIo que se me ocurre son las novelle II y X de Masuccio, y sabemos cuan
atentamente fue lefdo este escritor en la Espafia de los Siglos de Oro, a
pesar de que no fuera discipulo de Erasmo.
Por lo qùe atane a las otras conjeturas de la teoria, los argumentos adu-
cidos por la profesora Navarro no parecen tan bajo el aspec-
to estrictamente textual. En cuanto a la sugerida partici6n del pr61ogo, no
logramos ver, antes de las palabras ,"suplico a V.M.", la fractura vislumbrada
por la estudiosa y la consiguiente necesidad de colmarla con un hipotético
folio arrancado, sobre todo porque la lectura tradicional no es nada absur-
da ni menos razonable que la' derivada de la nueva teoria. Ademas, no es
verdad'que la divisi6n en proemio-argumento y dedicatoria se encuentre en
todas las obras narrativas de la época; por ejemplo, en la Menina e Moça el
relato empieza enseguida sin prologo, el Abence'lTaje tiene 5610 un brevisi-
mo la Carcel de Amor inicia con un epigrafe que indica el autor
y con la dedicatoria. Aftadase que, si estamos todos convencidos (creo que
con 'raz6n) de que.la divisi6n del Lazarillo en capitulos (prologo y tratados)
no es de mano del autor, sino del editor, entonces no hay motivo para
superponer al texto otra partici6n mas, en ultima instancia, la edici6n
filol6gicamente mas rigurosa seria la del texto seguido sin ninguna divisi6n
y con indicaci6n en nota de los epigrafes de los tratados.
. En euanto a la identidad femenina del destinatario de la carta, el pro-
noinbre "ella" en la frase "hablando con reverencia de V.M., porque esta ella
delante" puede muy bien referirse a la mujer de Lazaro sin implicar ningun
anacoluto o absurdo semantico. En la obra menudean las locuciones mucho
mas ambiguas: baste reeordar solamente la frase "se hizo eierta armada con-
tra moros, entre 108 cuales fue mi padre", en la que C. Guillén ha lerdo una
140
alusi6n al origen morisco del protagonista 9 • Afiadase que la propia profesora
Navarro reconoce que "el uso de coloquiales anacolutos" es uno de los recur-
sos que el autor del Lazarillo emplea magistralmente para otorgar a la obra
su caracteristico rasgo de naturaleza y expresividad l0. Por fin, la hip6tesis con-
clusiva de que el arcipreste seria el confesor de la dama Vuestra Merced no
tiene la mas minima base textual, no obedece a ninguna 16gica interna del
relato y esta fundamentada tan s610 sobre otra conjetura segun un método
muy azaroso gue no puede legitimamente cobrar derecho de ciudadania en
toda pesguisa hist6rica, filol6gica o semi6tica.
Pero lo gue cabe principalmente subrayar es gue, si estas con.jeturas fue-
ran aceptadas, conllevarian una desvalorizaci6n muy seria de la interpretaci6n
planteada y esmeradamente argumentada por el profesor F. Rico. En verdad, si
el pr610go debiera dividirse en la introducci6n del autor-editor y en la dedica-
toria de Lazaro, la tesis del "magnifico embuste" del autor y de la funci6n estruc-
turaI ysignifìcante de la deliberada anonimia de la obra Il se derrumbaria por
completo. No gueremos aferramos a la hip6tesis de Rico CC?ffiO a la manta de
Linus y sabemos muy bien que todas las teorias, aungue forjadas por los estu-
diosos mas profundos, pueden y deben ponerse en tela de juicio y pueden aun
abandonarse si es que Cy agui esta el punctum dolens) una nueva teoria per-
mita explicar mejor lo que se analiza. No me parece, francamente, que el sen- .
tido de la novela quede enriquecido o que su comprensi6n sea facilitada si se
declara desde el principio una distinci6n entre el verdadero autor culto que
publica el libro y el ficticio pregonero que redacta la carta. A este prop6sito,
obsélVese solamente que en la teoria de la profesora Navarro la anonimia de
la obra pierde la funci6n. y el sentido que cobraba segUn la interpretaci6n del
profesor Rico, y que puede explicarse exclusivamente por hechos, a veces
accidentales, externos a la propia obra.
Analogas consideraciones pueden aplicarse también a las conjeturas
sobre la identidad femenina de Vuestra Merced y su vinculo con el arcipres-
te-confesor. Es perfectamente coherente que Lizaro, al justificar su condici6n
de cornudo complaciente ante ."una personalidad de rango superior" 12, ecle-
9 Claudio Guillén, "Los silencios de Lazaro de Tormes", en El primer Siglo de Oro,
cit., p. 107.
lO R. Navarro Duran, "Introducci6n" cit., p. 89.
11 Defendidas por. Rico, en concreto y principalmente, en La novela picaresca y elpunto
de vista, Barcelona, Seix-Barral, 1970, y en Problemas del Lazarillo, Madrid, Catedra, 1987.
12 Como escribe C. Guillén en "La disposici6n temporal del Lazarillo de Tormes", en
El primer Siglo de Oro, cit., p. 54.
141
siastica o seglar, consagre la mayorfa de las paginas a la narraci6n de la
miseria y del hambre que habia padecido desde su niflez; el pobre prego-
nero debfa explicar una relaci6n que, ademas de manchar irremediable-
mente su honor, podia ser judicialmente y que, sin embargo,
representaba la salida, tal vez la unica salida posible, de una existencia
insoportablemente desgraciada y penosa; el hambre juega un papel de
protagonista en el Lazarillo y su descripci6n pormenorizada es el argu-
mento mas eficaz, no solamente para absolver moralmente al pregonero,
sino aun para convencernos de que el ménage à trois en que esta impli-
cado, junto con el oficio real, representa, respeeto a su vida precedente, la
auténtica "cumbre de toda buena fortuna". Si, al contrario, seguimos la
hip6tesis de la Navarro, leI relato de Lazaro cònservarfa la misma
coherencia? Si la dama destin"ataria de la carta querfa cerciorarse de la inte-
gridad moral de su confesor, lqué le podia interesar de las pasadas mise-
rias de Lazaro y de todas las circunstancias que nos llevap. a for-
mar un juicio benévolo no ya sobre el arcipreste, sino sobre el propio pre-
gonero? Y, ademas, si en la "vieja" teoria la carta de Lazaro alcanza el fin
para el que fue escrita (es decir, la explicaci6n del caso), no me parece
que lo mismo pueda afirmarse si damos por buena la hip6tesis de Navarro;
en efecto, la carta del pregonero confirma de modo inequivoco que su
mujer es la barragana del cura y no podemos pensar que semejante res-
fuera laesperada por una dama ansiosa de ahuyentar las dudas y
los temores alimentados por las habladurias sobre su confesor. Y, final-
mente, si la dama queria averiguar el fundamento efectivo de esas habla-
durias, les plausible que pidiera explicaciones justo al marido de la
supuesta barragana del confesor, es decir, justo al hombre del que era
menos razonable esperar una respuesta sincera? Y les crefble que a media-
dos del siglo XVI una mujer escribiera a un pregonero tratando cuestiones
tan intimas y delieadas?
(D)
La cuarta categoria de pruebas alegadas para sustentar la autorla de
Alfonso de Valdés es de orden hist6rico-cronoI6gico. Observa profesora
Navarro que las Cortes de Toledo mentadas al final del libro pueden" ser
solo de 1525 y que la sociedad espaflola pintada por el autor como esce-
nario de las andanzas'de Lazaro puede ser s610 la de 105 aftos veinte del
siglo, caracterizados por la politica imperial de represion de la mendicidad.
142
De estos datos se desprenderia,segun la estudiosa, que la fecha de COffi-
posici6n de la obra debe adelantarse de una veintena de afios con respec-
to a las ffias antiguas ediciones conocidas; primero, porque no seria crefule
que el autor colocara el relato en una ambientaci6n lejana en el tiempo y
poco familiar a sus lectores y, luego, un libro tan heterodoxo como
el Lazarillo bien podia concebirse en el clima relativamente tolerante de
1530, mas no ya a mediados del siglo, bajo el triunfq del concilio de Trento
y la persecuci6n de luteranos y herejes. Estos su
endeblez no bien se someten a un analisis minimamente detenido.
En primer lugar, no es nada ins61ito en la narrativa de los Siglos de Oro
que la acci6n se desarrolle en una época pasada, aunque no demasiado
lejana con respecto al momento de composici6n. Por supuesto, no pensa-
mos en los libros de caballeria y en su ambientaci6n en un pasado. mitifi-
cado e indefinido, sino en muchas otras obras, muy diferentes, entre las que
podemos recordar el Abencerraje (publicado a mediados del siglo XVI y
que relata hechos anteriores a 1492), la Peregrinaçào de F. Mendes Pinto
(relato de viajes anteriores a 1554, escrito una veintena de anos mas tarde
y publicado en 1614), Fuente Ovejuna de Lope de Vega (en gue se evoca
la realidad tardofeudal de 1476, por completo diferente respecto a la en gue
vivia el publico del siglo XVI). Afiadase que, en todo caso, la fortuna edi-
toria, del Lazarillo en los anoS cincuenta desmiente por si sola la preocu-
paci6n de gue los lectores y oyentes de esa época no entendieran bien la
del trasfondo de la obra.
Por lo que" atane a los datos JIist6ricos, si la identificaci6n de las Cortes
de 1525 es razonable yaceptada por muchos estudiosos, lo mismo no
puede decirse sobre la represi6n de la mendicidad gue, como nos recuer-
da, V. Garcia de la Concha, se despleg6 a lo largo de los afios '30 y '40 13 •
Ademas, la propia Rosa Navarro reconoce que las referencias a hechos his-
t6ricos no se incorporan al tejido de la obra con perfecta y absoluta cohe-
rencia 'y adrnite que en el Lazarillo, asi como en toda obra literaria de gran
y
envergadura, el autor recompone junta libremente los· hechos reales del
pasado y del presente amolclandolos y supeditandolos a sus exigencias
narrativas. Y seguramente son correctas las referencias hist6ricas aduci-
das acerca de la intolerancia y persecuci6n inquisitorial. En verdad, en 1550
la censura en "Espafia no era mucho mas opresiva que en los afios treinta,
13Cfr. V. Garcfa de la Concha, introducci6n a la edici6n del Lazarillo de Tormes,
Madrid, Espasa, 2001, p. 30. /
143
y la politica de persecuci6n sistematica y obsesiva contra los herejes se des-
pleg6 y encarniz6.al final del decenio, mas o menos en concomitancia con
la Paz de Cateau-Cambrésis; los primeros autos de fe de luteranos espafio-
les fueron los de Valladolid de 1559 y en el mismo ano se public6 el primer
indice de libros prohibidos.
A\este prop6sito se precisan dos obselVaciones mas. Los datos textuales
del Lazarillo no permiten vislumbrar el supuesto caracter extremadamente
heterodoxo tan remachado por la profesora Navarro; como ya se ha dicho, la
ironia anticlerical es un rasgo comun e'n toda la literatura de la época y en la
novela an6nima el escarnio de los hombres de iglesia y de la credulidad
popular no es mas enfatizado o feroz que en las demas obras contempora-
neas, sobre todo porque la elegancia extraordinariamente mesurada del ano-
nimo no podia desgajarse con acentos excesivamente vistosos; a lo largo de
todo el relato no encontramos ni una sola frase abietta e it;1equivocamente
erasmista, ni, aun menos, expresiones o s610 maticesde clara inspiracion pro-
testante. Y no' se olvide que por aquel entonces no escaseaban libros marca-
dos por una satira anticlerical mucho mas encarnizada que la del Lazarillo
(reparese solo en el Crotal6n, para no considerar La Lozana Andaluza o el
ya citadò Auto da Feira de Gil Vicente); o por influjos erasmistas muy evi-
dentes (el Vìaje de Turquia o el Lazarillo apocrifo de los atunes), o por una
critica social mucho mas. profunda (la literatura indigenista de B. de las Casas,
Motolinia, Benzoni, etc.). El Lazarillo es una obra revolucionaria bajo el
aspecto literario, no ya por la critica "religiosa, filosofica o politica 14.
Ademas, al evaluar el impacto de la censura, y de la falta de libertad
sobre la creaci6n artistica, hay que tener en cuenta que los autores de 10s
siglos pasados mostraron casi siempre un coraje gue no encuentra frecuen-
tes emulaciones en 10s intelectuales modernos. Las invectivas de Dante con-
tra reyes y principes 'siguen asombrandonos cuando consideramos gue los
sefiores bajo cuya proteccion vivia el poeta podian muy bien ser derroca-
dos o decidir de sacrificar a uno de los artistas de su corte en aras del inte-
rés de una alianza con el rey francés o con 10s M'alatesta o con cualquiera
de las familias nobles azotadas por su piuma. En la Espafia de los Siglos de
Oro baste s610 en El Condenado por desconfiado de Tirso de
14 v.. Garcia de la Concha, en Nueva lectura del Lazarillo. El deleite de la JX!rSPectiva,
Madrid, Castalia, 1981, asi como Cy.por supuesto mas brevemente) en la Introducci6n ya cita-
da, niega con argumentos dificilmente contestables que 'el Lazarillo delate una matriz o
sibilidad marcadamente heterodoxa, erasmista o alumbrada que sea. Reparese también en las
observaciones ya citadas de C. Gui1lén en "El descubrimiento del género picaresco".
144
Molina, pieza representada alrededor de 1630, en una sociedad aplastada
por la Inquisici6n y cuyo autor, religioso mercedario, conocia perfectamen-
te los peligros a los que podia exponerse tratando el tema de la fe y de la
salvaci6n; sin embargo, a pesar de esta condici6n ambientaI tan cerrada y
desfavorable, la obra roza Continua y maravillosamente la herejia. Es obvio
que Tirso nunca pr?clama abiertamente la doctrina de la justificaci6n por la
fe, pero la salvaci6n de Enrico es en todo coherente con dicha doctrina y
la vida del bandolero que se arrepiente a un paso de la muerte parece un
caso ejemplar del parad6jico precepto luterano de pecar con fuerza y con
mayor fuerza aun creer. Y Enrico dice que la confesi6n le seria inutil
porque ya se ha olvidado de quién sabe cuantos de sus pecados, tno esta
tal vez repitiendo, con palabras apenas la misma, aguda y anti-
cipadora observaci6n de Lutero sobre la ineficacia de la confesi6n para
borrar los pecados de los que no somos conscientes? Y, ademas, tno es de
extranar que los angeles lleven el alma de Enrico del cadalso al cielo sin
gue ni siquiera se.mencione el purgatorio? No cabe duda de gue todo esto
era mucho mas peligroso que el anticlericalismo del Lazarillo de ochenta
afios antes y, sin embargo, por mas gue parezca improbable segun los cri-
terios sugeridos por la profesora Navarro, esta ahi, delante de nuestros ojos
admirados.
En todo caso, 'aun despreocupandose de las observaciones hasta agui
expuestas y admitiendo gue el Lazarillo' fuera escrito en 1532, esto no
podria confirmar tampoco la autoria de Alfonso de Valdés, e implicaria s610
y exclusivamente la simple posibilidad de que, en abstracto, la obra sea de
mano de Valdés como de cualquier C?tro escritor activo a comienzos de los
anos treinta. Y la mera compatibilidad temporal es cosa harto diferente ,de
.una pruebade paternidad.
CE)
En conclusi6n, cabe dedicar unas palabras al aspecto estilistic'o, con la
prudencia que se nos impone al pisar un terreno tan escurridizo y del que
no se pueden sacar argumentos s61idos como 10s de orden textual-estruc-
turaI.
Es innegable que el Lazarillo es totalmente diferente a los dialogos val-
desianos también en cuantoal estilo, y la profesora Navarro interpreta esa
diferencia como testimonio de la extraordinaria habilidad literaria del autor,
capaz de deshacerse de 10s pafios del escritor culto y "hablar como un pica-
145
ro" 15. Prescindimos de gue Lazaro no es un pfcara en absoluto todo
en el sentido gue la palabra cobro en las huellas de Guzman de Alfarache
y del Pablos guevediano), pues esto nos alejaria demasiado del tema; lo gue
no podemos dejar de preguntarnos es si resulta plausible y razonable gue
el mismo autar, a distancia de apenas dos afios, pueda escribir dos obras
tan diferentes en el argumento, en la estructura, en ellenguaje y en el dibu-
jo de los personajes, como el Dialogo de Mercurio y Car6n y el Lazarillo.
El Dialogo, rebosante de t6picas reminiscencias clasic:as y cuyos personajes
son estereotipos de nobles y altos dignitarios eclesiasticos, lPuede ser de
mano del misma escritor gue logra manejar y reelaborar con tanta sabidu-
ria los aportes mas variados de la cultura popular y sabe pintar con tanta
profundidad a los personajes ffias marginados de la sociedad?
El autor del Lazarillo se sitUa frente al mundo y frente a la vida con una
mirada serenamente distanciada, lucida aungue sin sombra de hastio, y nos re-
sulta muy dificil imaginar que sea el mismo humanista de corte que, dos afios
antes, se habfa desbordado en panegfricos del emperador tan exaltados y des-
medidos que habrian enfadado al propio Carlos V. Ademas, la ideologia politi-
ca que vertebra el Dialogo, -con sufe ciega en las virtudes taumarurgicas del
monarca alumbrado y su irenismo ingenuo y ut6pico, se nos revela como irre-
mediablemente anticuada no s610 con respecto a Machiavelli y a Guicciardini
(con los cuales la comparaci6n seria despiadada), sino alln con respeeto a Mar-
silio de Padua; el Lazarillo es, por el contrario, obra de una modernidad abru-
madora" uno los hitos mas· revolucionarios en la literatura universal; tanto,
que creo se pueda af1l1l1ar sin temor que representa para la narrativa lo que la
obra de Masaccio representa para la pintura, y es mas admirable alln, pues el
an6nimo nopudo aprovecharse de la confrontaci6n y amistad con ningUn
,Brunelleschi o Donatello. Pues bien (y a pesar de que esto no pueda constituir
una prueba certera), seria muy improbable encontrar semejante discrasia en el
mismo escritor, por un lado. enraizado en una visi6n medieval de la vida y, por
otto, proyectado hacia la constitucion de las bases de la novela moderna.
Recordemos que la conjeturada atribuci6n del Lazarillo a Lope de
Rueda fue rechazada también porque el estilo del comedi6grafo sevillano
no .presenta consonancias con el del anonimo, lo que se observa claramen-
te en la diversa reelaboraci6n de los materiales deprocedencia folkl6rica;
no me parece excesivo afirmar que la distancia entre el Lazarillo y los dia-
logos valdesianos es alln mayor (si bien en otra direccion) de la que lo
s'epara del teatro de Rueda.
15 R. Navarro Duran, "Lazarillo de Tormes", cit., p. 62.
146
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] | HISrORIA DE UNA ESCALERA E IL SUO RITORNO
SU UN PALCOSCENICO MADRllENO
MARTA CERVI
"Y la palabra espafiola de Buero se convierte en
palabra universal, en conciencia universal"l.
Il 14 maggio del 2003 i battenti del teatro Maria Guerrero di Madrid si
aprono nuovamente al pubblico 2. La famosa scala bueriana, madrina uffi-
ciale dell'importante evento culturale, fa ritorno dopo circa trentacinque
anni di assenza dalla scena teatrale spagnola 3.
Sullo stesso palcoscenico che rese omaggio al suo autore il 29 aprile
del 2000, l'opera rivive con un cast di attori 4 diretto da ].C.. Pérez de La
Fuente, attori senza i quali il "miracolo teatrale", come lo definisce lo stes-
1Conversaci6n con el director [disponibile online all'URL: <http:Ucdn.mcu.es>.
10/12/2003].
2 Il teatro Maria Guerrero, del 1885, viene. chiuso nel giugno del 2000 per mettere
lo stabile a norma di sicurezza, i sei mesi di lavoro preventivati si. prolungheranno fino
al 2003 a causa della scoperta ·di termiti all'interno dell'edificio. A questo punto si opta
per un completo restauro del teatro rendendo al massimo del suo splendore passato quel-
lo che era considerato, nel XIX secolo, "el teatro de provincias mas cercano a Madrid",
perché si trovava in periferia rispetto al centro urbano. ·La messa in scena di Bistorla de
una escalera prevista dal 14 maggio al 13 luglio del 2003 è stata ripresa poi dallO set-
tembre al 9 novembre per ripartire successivamente con la stagione teatrale del 2003-
2004. -
La prima rap,presentazione in Spagna di Bistorla de una escalera risale al 14 otto-
3
bre del 1949 al Teatro Espanol di Madrid (regia di José Osuna), l'ultima viene invece
messa in scena il 31' marzo del 1968 al teatro Marquina di Madrid (regia di Cayetano Luca
de Tena).
4 Tra il cast dei 18 personaggi ricordiamo almeno Victoria Rodriguez, moglie di
.nei. panni di Generosa, Vicky Lagos che dà vita al personaggio di Paca, Cristina
Marcos che interpreta il personaggio .di .Elvira, Moncho Sanchez-Diezma e Alberto
Jiménez rispettivamente nei ruoli di Fernando e Urbano, Yolanda .t\restegui nelle vesti di
Carmina e infine i giovani Barbara Goenaga e Nicolas Belmonte nel ruolo di Carmina hija
e Fernando hijo.
147
so regista, non' potrebbe mai realizzarsi. Miracolo nel riuscire a far rivivere
in scena e significati attraverso un graduale processo di catarsi e
di presa di coscienza.
Il valore attuale e universale del testo, risultato il libro più venduto di
tutti i tempi con circa 1.200.000 copie nel 1992, viene confermato dalla scel-
ta di ).C. Pérez de La FUente di riproporlo all'interno di un nuovo contesto
storico-sociale senza che vada persa .la grande carica espressiva.
"Se trata simplemente de recuperar la .memoriapara reflexionar sobre el COffi-
portamiento humano, que tanto hoy como ayer es siempre misterioso e ines-
crutable" 5.
Non ci resta che vedere nel concreto come viene realizzata que-
sta nuova messa in scena con la fortuna di poter contare su una visione
diretta, comodamente seduti nella sala ristrutturata del Maria Guerrero con
uno splendido soffitto in stile neomudéjar.
Mentre le luci cominciano lentamente a calare lasciando la sala nella
penombra, la voce fuoricaJ;l1po dà il benvenuto alla ricordando l'im-
portante evento culturale che la serata rappresenta. In un secondo momen-
to l'attenzione dello spettatore viene attirata da uno schermo da cinema,
diviso verticalmente in tre sezioni, sul quale vengono proiettate le immagi-
ni di candide nuvole che scorrono con un cielo di un azzurro intenso .come
sfondo. Il movimento rapido e verso l'alto accentua la percezione del cam-
biamento e del continuo rincorrersi delle nuvole che vanno, vengono, ritor-
nano; una simbologia evidente che lo spettatore avrà modo di cogliere nel
corso della "rappresentazione. Le tre sezioni nelle quali è diviso lo sçhermo
si distinguono per la tonalità: nella sezione centrale i toni sono azzurri e
bianchi mentre nelle parti laterali una gradazione color giallo-seppia falsa il
tono reale .dell'immagine. I toni seppia sono quelli che il regista associa al
primo atto, un chiaro riferimento al passato dei p'ersonaggi che si sono dati
.il cambio sui gradini della famosa scala, scala che al· contrario è rimasta pre-
sente mentre i loro progetti e vissuti si sono spenti tra le frustrazioni e il
generale' appiattimento. La parte centrale potrebbe servire al c;ontrario per
risaltare la tecnica del finale- aperto in Buero rappresentando la speranza nel
futuro di Fernando hijo e Carmina hija, i colori chiari, .veri, come simbolo
5 Conversaci6n con el director [disponibile online all'URL: <http://cdn.mcu.es>.
10/12/20031
148
della verità, del bene e dell'amore, valori che possono essere conseguiti se
si lotta per farlo.
L'idea dello schermo con il rincorrersi delle nuvole viene ripresa in cor-
rispondenza. della fine di ogni atto; non ci sono pause e questi tre stacchi,
correlati a variazioni musicali differenti, sono parti integranti dell'allesti-
mento scenico. Questa scelta originale e ad effetto precede l'entrata dei per-
sonaggi in scena, anticipando ciò a cui saremo chiamati a prendere parte: il
fluire del tempo, il succedersi di generazioni, personaggi, corpi, azioni
('subir', 'bajar', 'cerrar', 'salir', 'meterse') desideri, frustrazioni che continue-
ranno ad intrecciarsi e ritornare all'interno dello stesso spazio; la scala con
i suoi gradini, i suoi piani, il suo corrimano in ferro... proprio perché
"Vivir es ver pasar: ver pasar, alla en lo alto, las nubes. Mejor dirfamos: vivir es
ver volvera Es ver volver todo en un retorno perdurable, eterno; ver volver todo
- angustia, alegrfas, esperanzas -, como esas nubes que son siempre distintas y
.siempre las mismas, como esas nubesfugaces e inmutables"6..
Le nuvole rappresentano le vite umane e il vivere, il "ver pasar" azoria-
no. L'esistenza, si chiede Azorin "lQué es sino un juego de nubes?"7. Non è
forse un continuo gioco di rimandi temporali, spaziali ed esistenziali la vita
sulla scala bueriana? Si potrebbe affermare allora che se le nuvole sono l'im-
magine del tempo in Azorin, la scala lo è del tempo in Buero e questo è ben
suggerito ed· evidenziato dalla scelta tecnica di cui si avvale il regista. Le
nuvole si spostano continuamente, è difficile distinguerle, proprio per que-
sto motivo sembra che si ripresentino al nostro sguardo che scruta il cielo,
infinito, in un ciclo perpetuo, "Vanno, vengono, ogni tanto si fermano L..]
certe volte sono bianche e corrono L.,] vanno, vengono, .. "8.
L'idea di movimento è data molto significativamente, anche dai versi 'del
profeta Michea "Porque el hijo deshonra al padre, la hija se levanta contra
6 Azorfn, Castilla, Madrid, Edaf, 1996, pp. 86-87. Si tratta di un frammento. del
conto di Azorin Las Nubes che ritroviamo nell'opera Castilla al quale non si può non far'
riferimento dato che lo stesso Buero dichiara di essere stato influenzato da questo rac-
conto: "Indiqué yo dos influencias espaiiolas: la de Azorin, por su breve y maravilloso ,
relato Las Nubes, y también la influencia parcial de Claudio de la Torre; concretamente
la del primer acto de su Tic Tac [. ..] el problema de las nubes [, ..1 es en el fondo idénti-
co al de la ·escalera". Antonio Buero Vallejo (et. al.), Teatro espanDI actual, Fundaci6n
Juan March, Madrid, Catedra, 1977, p. 72. Questo frammento compare inoltre sul pro-
gramma di sala distribuito all'interno del teatro.
7 Azorfn, Castilla, op. cit., p. 86.
8 Fabrizio De André, Le nuvole.
149
la madre, la nuera contra su suegra: y 10s enemigos del hombre san los de
su casa"9, scelti da Buero per introdurre il testo, che vengono fatti scorrere
tenendo come sfondo le immagini delle nuvole. Il dinamismo che si crea
sin dal primo momento lascia poi spazio, con lo schermo che sale, a una
sensazione di staticità e viene svelata la scena nonché. unico persoo,aggio
muto: la celebre scala bueriana con la sua imponente presenza l0.
La scala occupa l'intero palcoscenico, si eleva per quanto è possibile da
un punto di vista tecnico con un risultato estremamente espressivo, viene
paragonata da Pérez de·La Fuente a un "monolito indestructible"11. La strut-
tura, pur nella sua semplicità, occupa cOQ imponenza lo spazio rispettando
quella che è l'indicazione di Buero nel testo. Una prima rampa di scalini,
sulla destra rispetto al pubblico in sala, sale fermandosi al primo pianerot-
tolo sul quale si affacciano due porte, una seconda rampa si snoda sulla
sinistra per terminare con un secondo ripiano con altri due ingressi.
L'andamento dell'intera struttura risulta avvolgente, come se i personaggi
rimanessero intrappolati in una spirale di movimenti, parole, pensieri e sen-
timenti e a questo proposito è interessa.ote la descrizione che l'attrice
Cristina Marcos, Elvira in scena, ·fa della scala:
"La escalera funciona como un torbellino que te envuelve y no te expulsa hacia
fuera, sino siempre hacia dentro. Es una metafora con la que Buero nas plan-
tea qué hacemos con nuestra .vida"12.
L'immagine del mulinello, di un vortice che trattiene e dal quale non
riesce a venire a galla richiama una lettura simbolica del testo, privilegiata
e sottolineata dal regista nel dar vita alla sua rappresentazione:
"Precisamente esta nueva lectura [. ..] quiere trascender estos componentes rea-
listas y costumbristas L.,] valorando y potenciando los aspectos simb6Iicos"13.
9 Michea, cap. II, verso 6.
lO 'A proposito dello status della scala come attore vedi Antonio Sanchez· Trigueros,
y simbolismo escénicos en Historia de una escalera" in Actas, pp. 110-111:
"La escalera est! callada, pero la escalera dice".
11 Conversaci6n con el director online all'URL: <http://cdn.mcu.es>.
.
12Isabel Quir6s, Entrevista. Cristina Marcos un enigma por descubrir, "Teatro", nume
30, mayo 2003, p. 23.
13 Conversaci6n con el director [disponibile online all'URL: <http:Ucdn.mcu.es>.
10/12/2003].
150
Con ,"estos componentes realistas y costumbristas" ].C. Pérez de La
Fuente fa riferimento nel concreto alle due precedenti messe in scena, quel-
la del 1949 e quella del 1968, rappresentazioni più realiste e di costume che
lasciano posto a una nuova lettura del testo che ne valorizza maggiormen-
te gli aspetti. simbolici.
Le scelte scenografiche confermano tale chiave di lettura, viene propo-
sta una scena 14 molto suggestiva con l'idea di prigionia data dall'altezza
delle strutture metalliche che delimitano lo spazio entro il quale si svolgerà
l'intera vicenda. In alcuni momenti, attraverso giochi di luce, la proiezione
delle ombre dei pali suggerisce l'idea di vere e proprie grate, questo pro-
prio perché metaforicamente la delimitazione dello spazio risponde all'esi-
genza di la limitazione della libertà delle esistenze che su di
essa gravitano. L'effetto è accentuato ancor di più dalla sensazione di linee
che si snodano, un movimento che nonostante tenda verso l'alto, non porta
da nessuna parte 15. Le pareti richiamano una costruzione in muratura, fred-
da che rimarrà tale per tutti e tre gli atti. A questo proposito è interessante
notare, osselVando le foto della prima come la
struttura apparisse più statica, rimandando l'immagine di una tipica, realisti-
ca rampa· di scale con linee più marcate e- geometriche che contribuiva a
sottolineare quell'aspetto "saineteril" che alcuni critici si ostinano a ritenere
caratterizzante dell'opera. La simbologia della scala è evidente, ma sicura-
mente il senso di slancio verso l'alto è meno percepibile, la, staticità della
struttura rende meno evidente la tensione dei corpi verso una potenziale via
di uscita e il significato ultimo di un "agire per...". .
Il senso di staticità viene reso in entrambe le rappresentazioni, nonostante
nel caso dell'ultima potrebbe sembrare una contraddizione. Abbiamo fatto rife-
rimento alla sensazione avvolgente, a un andamento a spirale nella messa in
scena di Pérez de La Fuente, ma non dobbiamo dimenticare che la sua scala
occupa uno spazio fisico imponente riuscendo, proprio in questo modo, a sot-
tolineare la forte opposizione che si crea tra ideale e reale, azione e inerzia.
L'illuminazione è l'elemento che aiuta,lo spettatore a percepire la stati-
cità .dello spazio contrap.posto al tempo che effettivamente passa 16, come
afferma Pérez de La Fuente:
14 La scenografia è di Oscar Tusquets BIanca.
15Fernando esclamerà nel suo incontro con Urbano nel l° atto: ",Seria terrible seguir asi!
Subiendo y bajando la escalera, una escalera que no conduce a ningUn sitio...". Antonio Bue-
ro Historia de una escalera, Ed. Virtudes Serrano, Madrid, Espasa-Calpe, 2000, p. 62.
16 Ricordiamo che si succedono tre generazioni che corrispondono agli anni
1919,1929 e 1949.
151
"Asi, el primer acto se situa en una primavera optimista y esperanzada (tonos
sepia); el segundo es un otono mas descarnado y decepcionante (tonos ver-
dosos); y el tercero, un crudo invierno, metafora de la hibernaci6n espanola de
la dictatura (tonos frios)" 17.
Alla luce si accompagna la musica, il potente e vigoroso 'gong', in cor-
rispondenza dell'inizio del IO atto e il vivace suono delle campane lasce-
ranno posto al suono più grave di un tamburo che introduce il 110 atto e al
suono a morto di una campana che anticipa la scena: uno dei personaggi,
Gregorio, è morto.
Altri segnali che aJl'occhio attento dello spettatore indicano il tempo
che passa vengono riproposti dal regista così come li prevede Buero nel
testo, come i campanelli vicino alle porte e le targhe con i nomi a partire
dal 1110 atto, accorgimenti non di puro adorno, ma sirrLbolici del passaggio
del tempo e di patetici tentativi di miglioramento. Non viene reso, proba-
bilmente per questioni tecniche di illuminazione, l'effetto della piccola fine-
stra con i vetri a forma di rombo, voluta dal padrone di casa che,
come possiamo leggere in didascalia, non riuscirà a camuffare la povertà
non solo che si respirerà fino alla fine della rappresentazione.
Infine risulta estremamente funzionale la tromba della scala che rimane
celata alla vista tlello spettatore, ma ogni qual volta i personaggi
vi si affacciano, una calamita che attrae gli sguardi, un'uscita non definita
che non sappiamo dove porta e dalla quale gli attori fanno le loro compar-
se o le loro uscite 18. Chi scende sembra essere inghiottito, sprofondare, ma
tutti risalgono, ripercorrendo o in un senso o nell'altro quegli stessi gradini,
ad eccezione ovviamente di chi muore e lascia definitivamente la scala stes-
sa e dei due nuovi inquilini che compaiono nel 1110 atto.
Il testo e le indicazioni di Buero vengono nel complesso rispettate rap-
presentando in scena le vite di personaggi che abitano la scala, personaggi
legati a uno comune e dall'uguale incapacità di agire. Non abbiamo
particolari tagli o scelte da parte del regista che si allontanino dall'idea ori-
ginaria di Buero. Sicuramente la recitazione da parte degli attori riesce a
smorzare, più che la semplice lettura, la gravità, delle situazioni, suscitando
17 Conversaci6n con el director [disponibile ontine all'URL: <http://cdn.mcu.es>.
10/12/2003]." .
18 Anche le porte degli appartamenti all'occasione selVono come passaggi, ma i per-
sonaggi escono o scompaiono dietro la porta, l'occhio dello spettatore non andrà mai al
di là dell'uscio.
152
in alcuni casi il sorriso da parte dello spettatore. In modo particolare è Paca,
personaggio interpretato da Viky Lagos, a rendere più vitale l'atmosfera
sulla scala con il suo fare simpatico e allegro. Ogni personaggio con la pro-
pria intonazione, i propri comportamenti non è altro che una' rappresenta-
zione di caratteri, reazioni che in determinate situazioni accomunano il
genere umano; le liti alle quali partecipiamo non sono fantascienza, come
spiega Cristina Marcos riferendosi al personaggio che interpreta:
"la gente a veces hace esas cosas [. ..] Al principio me costaba porque tiene unos
comportamientos muy sibilinos pero creo gue es de tanto d010r gue no puede
sacar. Eso hace de ella un personaje apasionante, interpretarla es descifrar un
enigma" 19.
Ogni singolo personaggio è un mistero che "vomita sobre nuestra con-
ciencia su verdad mas intima"20 mentre la tragedia è ciò' che ci dà quell'os-
sigeno èhe serve a purificare le "nostre coscienze.
Nonostante la fedeltà al testo, un episodio in particolare merita atten-
zione. Si tratta della prima scena del 1110 atto. Lo schermo si alza e presen-
ta la scena, buia. La luce comincia a penetrare attraverso la piccola fessura
che funge da finestra sul lato destro. Comincia a distinguersi la voce di Paca
che sta salendo faticosamente la prima rampa della scala. Terminato il suo
monologo e percorsa lentamente la seconda rampa, apre la propria porta,
entra e richiude. Dopo" una" breve pausa con la scala che riamane" 'sola' in
scena, due signori, che scopriamo essere i nuovi inquilini dello esco-
no dalle rispettive abitazioni, simultaneamente e in sincronia si rivolgono un
"vigoroso saluto. I due signori sono ben vestiti, con un completo bianco, un
cappello, ventiquattrore e ombrello; sicuri nel portamento, energici, dopo
brevi battute sui vicini che disprezzano, scendono le scale.
Sono soli personaggi che non vedremo più risalire proprio sono il
simbolo del progresso, della modernità' che avanza, il mondo dei potenti in
contrasto con il mondo degli umili che non hanno saputo uscire dalla mise-
ria. Il colore bianco si oppone al contesto in cui sono inseriti, si oppone
all'oscurità che avvolge i vicini in netto conflitto con il perbenismo che le
due figure rappresentano. Nel testo non c'è nessun riferimento all'abbiglia-
19 Isabel Quir6s, Entrevista. Cristina Marcos un enigma por descubrir, "Teatro", nume
30, mayo 2003, p. 24.
20 Conversaci6n con el "director [disponibile online all'URL: <http://cdn.mcu.es>.
10/12/2003].
153
mento dei due uomini, Pérez de La Fuente li rende in scena con giusta solu-
zione simbolica. Il fatto stesso di preferire un'uscita in contemporanea piut-
tosto che seguire l'indicazione di Buero (Del IV sale un sefior bien vestido.
Al pasar frente al I sale de éste un joven bien vestido) accentua maggior-
mente il valore dei due personaggi che, nonostante la breve comparsa in
scena, rendono più pesante l'ambiente. Un aspetto ulteriore da non dimen-
ticare sono le battute finali che i due si scambiano, significativamente in cor-
-rispondenza della terza rampa di scale che scende e non vediamo, con le
quali i due attori lasciano la scala. I soliti discorsi tra vicini, le liti, gli idea-
li, i progetti lasciano posto a un discorso, solo accennato, sui nuovi model-
li di macchine. Il 'moderno' non appartiene alla scala e ai personaggi,
al mondo esterno.
Le scene simultanee, in cui alcuni personaggi interagiscono in scena
mentre altri sono presenti a loro insaputa e li ascoltano, vengono rese uti-
: lizzando una parete che rimane ad angolo, sul lato sinistro sempre. rispetto
. al pubblico. Per quanto riguarda invece i momenti delle dichiarazioni tra i
personaggi, Fernando/Carmina, Fernando hijo/Carmina hija, Urbano/Carmi-
na e Manolfn/Rosa gli attori si situano in primo piano, centrali al
palcoscenico, esattamente di fronte allo spettatore con la struttura in ferro
che sembra incorniciare e registrare il momento, imprigionando le parole tra
le sbarre qella ringhiera, parole che non si concretizzeranno e ritorneranno,
a distanza di tempo, a ripetersi.
Un ultimo espediente tecnico del quale si avvale il regista è un sipa-
rio in tulle. All'inizio del IO atto quasi non ci accorgiamo della trasparen-
za che ci separa dal palcoscenico se non nel momento in cui viene solle-
vato. Ad ogni atto viene ripresa questa tecnica, un modo per avvicinarci
gradualmente a ciò che verrà rappresentato. Il tulle, si frappone suggeren-
çlouna visione e forse più oggettiva di quello che vedremo, suc-
cessivamente quando viene sollevato è come se venissimo invitati a pren-
dere parte della· vicenda, non attraverso un'identificazione con i perso-
naggi, ma immergendoci in quello è il tem'il, il caso presentato. Pérez
de La Fuente pare suggerire in tal modo quegli "efectos de inmersi6n" che
R. Doménech e poi molta critica bueriana ha ritenuto. particolari e signifi-
cativi della tecnica scenica dell'autore. A propositq dell'efficacia e dell'ef-
fetto che l'uso del sipario può avere sul pubblico in sala possiamo pren-
derecome esempio la scena finale del 1110 atto, sicuramente la più espres-
siva.
Le luci in scena si abbassano, dalla tromba della scala proviene l'eco
del vento, un rumore che un senso di· vuoto e segna uno stacco la
154
lite furibonda che è terminata tra le due famiglie, contrarie, per passati ran-
cori, al fatto che i rispettivi figli si frequentino. Fernando esce dalla propria
abitazione e scende lentamente la scala fino a scomparire dalla vista del
pubblico. Fernando/hijo si trova al primo pianerottolo e vedendo passare
il padre, si nasconde. Carmina/hija esce di casa e raggiun-
ge l'amato. I due ragazzi si siedono in primo piano, di fronte al pubblico.
Nel momento in cui Fernando/hijo comincia a parlare a Carmina/hija
dichiarandole i suoi progetti, la voglia di diventare qualcuno, di abbando-
nare per sempre la vecchia scala e di vivere serenamente il loro amore, Car-
mina/madre lentamente apre la porta e si ferma davanti all'uscio senza
essere vista' dai ragazzi. Al tempo stesso Fernando risale a rilento la scala e
non appena avverte la vocè del figlio si ferma come paralizzato.
L'immobilità dei due genitori è da ricollegare al fatto che entrambi vengo-
no catapultati in un passato che vedono ripetersi nel presente dei figli
attraverso l'uso di parole identiche. Le parole di Fernando/hijo sono esat-
tamente le stesse che anni prima Fernando aveva utilizzato nella sua dichia-
razione a Carmina, anche se poi nessuno dei due ha avuto il coraggio di
lottare per se stesso e per gli altri; Fernando ha sposato Elvira per una que-
stione meramente economica e Carmina si è legata a Urbano dopo la morte
del padre. I due genitori si trovano a rivivere una situazione già sperimen-
tata e in, un attimo si un lento e sfuggevole sguardo per poi tor-
nare a contemplare 'l'immagine dei figli, persi nei ricordi e 'nel loro dolo-
re/rancore. L'attenzione dello spettatore si concentra sulla coppia di giova-
ni innamorati :che si trovano nella stessa posizione e con le stesse aspetta-
tive dei genitori vent'anni prima. La scena si conclude, molto significativa-
mente, con il tulle che questa volta cala dall'alto separando, i genitori e la
coppia di innamorati abbracciati e pieni di speranza, ma soprattutto con la
volontà, apparente, di lottare per vedere concretizzati i ,loro sogni. In que- ,
sto caso il tulle ha una carica espressiva e diversa rispetto agli
altri momenti in cui viene utilizzato e sottolinea un elemento determinan-
te delle tragèdie di Buero, il finale aperto, il lasciare al pubblico le risposte
alle domande che via via sorgono durante la .rappresentazione. È lo stru-
mento che divide il passato e il futuro. dato che il presente 'sta avvenendo
in scena. Proprio per il fatto che presente e futuro si sono però
ripetuti su quella stessa scala, senza alcun cambiamento, il separare'
Fernando e Carmina dai rispettivi, figli diventa simbolo della speranza che
il passato questa volta non si ripeta e che l'azione vinca e l'ade-
guarsi a una vita resa piatta dalle circostanze alle quali, spesso, ci ancoria-
mo. Così come il lettore, lo spettatore non sa se la scala ,porterà effettiva-
155
da qualche parte, i personaggi sul palcoscenico e quelli in teatro
vengono lasciati nel loro "continuar viviendo" 21.
Lo spettatore applaude e una volta che il sipario si chiude definitiva-
mente lascia la propria poltrona verso l'uscita del teatro con le domande
sospese di un finale aperto, forse un po' più consapevole che "Cuando la
acci6n termina, no termina el conflicto, 'sino la visi6n del conflicto"22.
21 ]oaquin Verdu de Gregorio, La luz y la oscuridad en el teatro de Buero Vallejo,
Barcelona, Ariel,. 1977, p. 13.
22 Francisco Ruiz Ramon,· Celebraci6n y catarsis. Leer el teatro espanDI, Murcia,
Cuademos 9.e la Catedra de Teatro, Universidad de Murcia, 1988, 192.
156
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] | INTERVISTA A JORGE EmLSON, UN ARTISTA TOTALE
ANTONIO AlMI
]orge Eielson, una delle figure più irriducibilmente "altre" del panora-
ma artistico e letterario del mondo contemporaneo, nasce a Lima nel 1924,
il padre è norvegese, la madre limefta con qualche lontano antenato dalle
J?arti di Nasca, la regione dei celeberrimi geoglifi tracciati nel deserto. A 21
anni Eielson vince il Premio Nazionale di Poesia e comincia a pubblicare i
primi disegni. Nel 1948, dopo la prima personale a Lima, parte per Parigi
con una borsa di studio offerta dall'addetto culturale dell'ambasciata di
Francia. Nella capitale francese espone prima nel Salone d'Arte Astratta del
Museo d'Arte Moderna col gruppo Madi, di cui aveva fatto parte anche
Lucio Fontana, e poi da Colette Allendy, la galleria allora di punta, da cui
passa tutta 'l'arte contemporanea. Nel 1951 fa un viaggio a Roma, ed è un
colpo d,i fulmine: le bellezze naturali, storiche e artistiche, il carattere della
gente che ricomincia a vivere 'dopo ·la guerra lo incantano, non torna a
Parigi nemmeno per riprendere i vestiti e chie.de al compagno di viaggio, il
poeta )avier Sologuren, di spedirgli quanto è rimasto in Francia. Da Roma
comincia un lungo viaggio che lo porta sia ad esporre e a pubblicare pres-
so istituzioni editori di grandissimo prestigio, sia a vedere le sue opere
in alcuni dei musei e delle collezioni più importanti del mondo, dal MOMA
alle collezioni Rockfeller, Rothschild, Pompidou. Recentemente, a questi
successi di lunga data si sono aggiunti importanti riconoscimenti che ne
hanno pienamente messo in luce la sua figura di artista a tutto campo.
Mentre in Italia la Galleria Niccoli (Parma-Bologna 2003-2004) presentava
un'antologica, 'con uno splendido catalogo, delle sue realizzazioni più signi-
ficative, in Pero e in Spagna, per i tipi dell'Università Cattolica e del
Ministero della. Cultura- Ave del Paraiso Ediciones, sono stati pubblicati due
grandi volumi, Nu/do e Vìvir es una obra maestra, che raccolgono le sue
poesie e i saggi che sono stati' scritti su questo pittore, scultore,. poeta.
Parallelamente anche i media si sono adeguati e dopo gli articoli pubblica-
ti in Italia e i numeri monografici apparsi su: El Comercio e La Industria, i
157
più importanti giornali del Perù, anche El Pais e El Mundo di Madrid gli
hanno dedicato intere pagine. L'Università Cattolica del Perù, nel frattempo,
gli ha costruito il sito internet:
http://eielson.perucultural.org.pe/presentacion.htm.
Di fronte ai riconoscimenti, tuttavia, Eielson non si scompone più di
tanto. Trova solo significativo il fatto che il numero di marzo di RDT, la rivi-
sta della Commissione Europea dedicata àlla cultura, abbia messo in coper-
-tina una sua opera e abbia dedicato un articolo ai nodi, uno dei temi che
costellano le opere di Eielson e alcune delle sue riflessioni intellettuali. Per
l'artista peruviano quest'articolo rappresenta un po' la rottura del muro che
altri avevano costruito per delimitare e definire la sua attività. Eielson, infat-
ti, non è tanto orgoglioso dei suoi quadri, delle sue performances artistiche
delle sue opere di poesia, egli è soprattutto 'orgoglioso di essere un arti-
sta totale, un artista che nella sua' attività non ha mai fatto differenza tra poe-
sia e pittura, anche se, per i limiti del linguaggio, lui stesso è obbligato a
continuare a usare questi termini.
JE «In passato ci sono stati molti artisti che si sono espressi' campi
diversi. Tutti sappiamo, ad esempio, che Michelangelo ci ha lasciato alcuni
bellissimi sonetti o che Picasso ha scritto: Il desiderio presso la coda, uno
stupendo testo surrealista. In realtà, però, si è sempre trattato di semplici
incursioni in un campo e certo nessuno ricorderebbe Michelangelo o
Picasso solo 'per le loro opere letterarie. Oggi, invece, non siamo più alle
incursioni e ci sono alcuni giovani artisti che non fanno differenza tra un
settore e l'altro. Ma quando ho cominciato non c'era nessuno, credo di
re stato il primo, che ha portato avanti, e allo stesso livello, la letteratura e
la pittura, se quello che faccio si può considerare pittura. Per me è sempre
stato difficile parlare di queste espressioni dell'uomo separatamente. Trovo
questa frammentazione molto riduttiva, prodotta da una cultura razionalista,
che oggi, pur con le sue meraviglie, più che mai mostra il suo lato oscuro,
grazie alla sua stessa, trionfante tecnologia. Un filosofo ·come Heidegger lo
ha capito già molto tempo fa e la sua critica a un mondo dominato dalla
tecnica è ormai un classico»
AA «Ma nella pratica artistica i linguaggi sono diversificati non solo per
l'impronta di una cultura razionalista.ma anche per un'obiettiva necessità di
approfondimento e di lettura specifica. Non crede che usare vari linguaggi
possa portare alla dispersione 0, quanto meno, a una' difficile coerenza?»
JE «Certo, se li si usa indiscriminatamente. D'altronde il veccho sogno
di Goethe e Wagner dell',opera d'arte totale non ha dato grandi risultati.
L'ibridazione di vecchi linguaggi -non può che sboccare nello spettacolo, più
158
o meno ,di massa. L'opera lirica è uno di questi, anche se, in verità, è poco
significativa per la storia dell'arte. Ma con un-linguaggio nuovo, come quel-
lo del cinema, ad esempio, sO,no stati creati dei veri capolavori, come quel-
li di Einsenstein, Pudovkin, Lang, Bufiuel, Rossellini, De Sica. E lo stesso si
può dire della fotografia e di alcuni esempi di video art, pur con delle riser-
ve. Ma è possibile che anche con la tecnologia digitale, la ne! art,
si possa fare qualche cosa di buono))
AA «Lei nel mondo è considerato uno degli artisti che, soprattutto nelle
sue opere coi nodi, più riprende i temi del Perù preispanico. Ma Lei ha spes-
so contestato un'interpretazione riduttiva di questo rapporto. Per altro, pos-
siede anche un'importante collezione di arte precolombiana e africana. Può
spiegare il rapporto tra la sua attività artistica, il mondo precolombiano e la
sua passione di collezionista?»
]E «Incominciamo dalla fine. lo non mi ritengo un collezionista. Non ho
la nevrosi, né il denaro per farlo. E anche se avessi il denaro, non credo che
lo farei. Ho semplicemente una forte, quasi urgente necessità di circondar-
mi di alcuni oggetti, la cui verità e bellezza, la cui storia hanno fatto di me
ciò che sono, siano essi precolombiani, africani, mediterranei, orientali. lo
che sono nato multiculturale e multietnico, come tutti i nati nelle Americhe,
esclusi' gli indigeni, ho radici dappertutto e mi sento. a dappertutto,
anche se prediligo l'arte africana 'e precolombiana. Altri artisti, incomincian-
do da Picasso, passando per i surrealisti, fino a Magnelli, Matta, Lam, Arman
e molti altri hanno fatto meglio di me))
AA «E in quanto ai nodi?»
]E ceIn primo luogo vorrei dire che i nodi non nascono da nessuna fonte
linguistica primordiale come frettolosamente hanno scritto alcuni critici. Essi
nascono, semplicemente, come nodi, cioè come oggetti fisicamente precisi
e ben definiti. lo non rappresento o raffiguro i nodi, io li faccio. Non li inter-
preto, li faccio scaturire mettendo all'opera materia (in prevalenza materiali
tessili), ed energia, come in un qualsiasi fenomeno fisico. Che poi questi
oggetti abbiano 'o no una loro bellezza è un discorso a parte. Dante,
Leonardo e Durer se ne sono occupati".pur senza essere peruviani. noi
facèiamo e disfiamo migliaia di nodi nella nostra vita. Questi oggetti oggi
sono molto studiati in campo fisico, cosmologico, matematico, topologico,
biologico, ma, questo non mi sorprende. Lo straordinario è che da tempi
immemorabili li usavano gli antichi sciamani della Siberia e dell'Amazzonia
in che ignoriamo totalmente»
°
AA «Lei li ha chiamati quipus, come gli, strumenti mnemotecnici forse
di scrittura degli Inca»
159
JE ((Certo, perché chiamarli quipus era per me rendere omaggio ai miei
antenati che· avevano creato un "linguaggio" così sofisticato. Ma il nome
riflette anche una sorta di travaso tra la mia attività e l'arte del passato, per-
ché l'arte per sua natura, non appartiene al tempo convenzionale, lineare,
che apprendiamo dal calendario. I nodi - quipus, tutt3:via, non devqno trar-
re in inganno, perché le mie opere non rinviano solo all'arte del Pero prei-
spanico. Tra i temi che non hanno nulla di peruviano potrei citare, ad esem-
pio, un quadro con l'icona di Marilyn Monroe che ho realizzato ben prima
di Warhol, solo che io ne ho fatto una sola perché non credo nella serializ-
zazione. che Pierre Restany, grande critico e amico, approvava que-
sta mia unica interpretazione. E anche nell'ambito della letteratura ispano-
americana i miei rapporti sono stati molto più stretti, ad esempio, con
Octavio Paz che con José Maria Arguedas, che pure ho avuto come inse-
alle superiori e per il quale ho revisionato qualche suo testo, perché
'me l'aveva chiesto lui stesso))
AA «Crede ancora nella cosiddetta funzione sociale dell'arte?))
JE «Potrebbe apparire un'affermazione un po' demodé, ma credo che,
oggi più che mai, l'arte non può che essere un veicolo di pace e di con-
cordia tra i popoli. Ma l'arte è anche un'interrogazione, uno strumento di
conoscenza, una celebrazione. Ma non certo una banale provocazione, co-
me ai tempi dell'avanguardia storica, pour épater les bourgeois. Cosa che nel
mondo drammatico d'oggi, mi sembra fuori luogo))
160
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] | DEL CORRIDO MEXICANO A LA NOVEIA
DE TIPO PERIODISTICO:
LA REINA DEL SUR DE ARlURO PÉREZ REVERTE
ANA MARiA GONZALEZ LUNA
La ultima novela de Arturo Pérez-Reverte, La Reina del Sur, aporta
algunas novedades a la narrativa del autor murciano. En efecto, despu'és de
una serie de· historias enfocadas hacia el pasado 1 nos encontramos con
una novela que se desarrolla en la actualidad y cuyo tema es el narcotrafi-
co. Por otro lado, segun las declaraciones del mismo autar, es la primera
vez que el personaje principal de una de sus novelas es una mujer.En efec-
to, se trata de un personaje femenino que a lo largo de la historiase va
transformando e·n leyenda p·opular. Su ·origen y sus rasgos especificos han
llevado a Pérez-Reverte a incursionar en el espanoi de América, en con-
creto en el que se habla en el norte de México. Asi mismo, el acercamien-
to a la realidad de· la cultura mexicana le ha permitido un estrecho con-
tacto con algunas nianifestaciones populares caracteristicas de la misma
como lo es .el corrido.
El corrido 'como punto de partida de la novela: de la oralidad a la escritura
Inspirado en un èorrido mexicano 2, el narcocorrido Contrabando y
traici6n, Pérez-Reverte en la Reina del Sur intenta contar una historia de
1 Las primeras novelas de Arturo Pérez Reverte,EI Husar (1986) y El maestro de
esgrima (1988) han llevadoa los criticos a incluirlo entre los autores del- subgénero de la
novela hist6rica que ha· caracterizado el deeenio de los oehenta. Cfr. F. Rieo, Historia y
critica de la literatura espafiola, IX, D. Villanueva, Los nuevos nombres 1975-1900,
Editorial Critica, Bareelona, 2000, pp. 259-279:
2 Corrido: Composiei6n poétiea musical formada por estrofas de cuatro versos,
generalmente oetosflabos de rima variable, que narra distintos acontecimientos, como la
161
narcotrafico buscando no s610 el ritmo sino la fuerza narrativa de esta
expresi6n caracterfstica de la poesia popular mexicana. Vale la pena anotar
gue el grupo "Las Tigres del Norte", autar e intérprete del corrido inspira-
dar, ha compuesto otro corrido inspirandose a su· vez en dicha novela, redu-
ciendo las 542 paginas de la novela en cuatro minutos, tres segundos de
canci6n, en los cuales encontramos el mismo orden cronol6gico de la his-
toria asi como los elementos principales de la narraci6n. Se trata de dos
expresiones de una misma historia.
Precisamente en la ultima pagina de la novela el autor subraya la estre-
cha relaci6n gue existe entre su novela y el corrido:
.. .lamenté carecer de talento para resumirlo todo en tres minutos de musica y
palabras. El mio iba a ser, qué remedio, un corrido de papel impreso y mas de
quinientas paginas. Cada uno hace lo que puede. Pero tenia la certeza de que
en cualquier sitio, cerca de alli, alguien estaria componiendo ya la canci6n que
pronto iba a rodar por Sinaloa y todo México, cantada por los Tigres o los
Tucanes, o algun otro grupo de leyenda. L.,] La historia de la Reina del Sur. El
corrido de Teresa Mendoza 3.
Desde el principio de la novela da prueba de ella al parafrasear el corri-
do Contrabando y Traici6n como recurso introductivo de la De la
misma manera, la descripci6n gue el narrador hace del Giiero Davila, narco-
y novio de Teresa Mendoza, subraya la funci6n de memoria oral
caracteristicadel. corrido: su marcadogusto por los corridos, su suellO de gue
"luego te pongan en narcocorrido 10s Tigres· o los Tucanes de Tijuana y los
canten en las cantinasy.en las radios de los autos. Chale. Pura leyenda com-
pas" 4; el hacer para contarlo y gue se cuente es lo gue da sentido a su vida,
lo gue lo salvara del olvido, porgue lo gue se dice, lo gue se canta, existe.
Por otro lado, en otro nivei de la narraci6n, el corrido adquiere un sig-
. nificado de identificaci6n social cuando el autor, durante su reportaje sobre
el caso, considera un dato importante el que el narcotraficante gue mand6
matar al Giiero Davila, César Batman Giiemes, tenga corridos 5•
vida de personajes hist6ricos o ficticios, hazafias, combates, asesinatos, relaciones senti-
mentales, etc. Diccionario del espanol usual en México, El Colegio de México, ·México,
1996, p. 289. .
3 A. Pérez-Reverte, La Reina del Sur, Alfaguara, Madrid, 2002, p. 542.
4 Ibid., p. 23.. El Giiero Davila presume que a 10s de San Antonio como él, -y como
Camelia la Tejana- les gusta rifarse el cuero.
5 Ibid., p. 46.
162
Para comprender la funci6n gue el corrido tiene como punto de parti-
da de la novela La Reina del conviene recordar gue se trata de -una
forma popular degénero musical gue se caracteriza como épico-lfrico e his-
t6rico narrativo sumamente difundida en México, e inclusive en el sur de
Estados Unidos. Sin duda su difusi6n ha contribuido- a crear no pocas leyen-
daspopulares 6 • A principios del siglo XX el corrido como manifestaci6n cul-
turaI tuva un papel fundamental en la Revoluci6n Mexicana; muchas veces
los corridos eran sfntesis historicas de los acontecimientos bélicos. Los can-
cioneros populares eran los que -mejor recogfan la historia heroica,' la cro-
nica emocionada de 10s sucesos.,_ presenciados por los personajes y por 10s
cronistas de aquellos hechos 7. Hoy en dfa los corridos san el reflejo de
hechos sociales y populares; inclusive en los ultimos aftos, este género ha
encontrado en el narcotrafico material abundante para seguir creando y
contando los acontecimientos. Su funcion narradora se dirigie a contar
hechospopulares gue en- muchos casos tienen gue ver con el delito.
En La Reina del Sur se entremezclan la memoria oral, basada en la
experiencia, gue caracteriza el corrido, con la memoria de lo escrito, pecu-
liaridad de la novela. Asf, Pérez-Reverte, como en los corridos, acude a la
experiencia cQmo material para construir- su historia - como reportaje perio-
disitico -, pues "si de algo no necesitaban los narcocorridos, era de la ima-
ginacion"8. Sin embargo, la memoria escrita va mas alla del nombrar para
dar existencia, su funci6n es distìnta, se ocupa mas del d6nde gue del qué,
porque lo escrito permanece 9.
De Camelia la Tejana a Teresa la Mejicana: constrncci6n de la novela
El corrido COfltrabando y traici6n cuenta, en doce estrofas de seis ver-
sos octosilabos, la historia de Camelia la Tejana. La Reina del Sur cuenta, en.
6 Cfr. J. E. Lim6n, Mexican ballads, Chicano poems: history and_ influence in
Mexican-Arnt:rican social poetry, Berkeley-Los Angeles, University of California Press,
1992; V.T. Mendoza, El corrido mexica.no, Fondo de Cultura Econ6mica, México, 1995.
7 D. Moreno, Batallas de la Revoluci6n y sus corridos, Porrua, México, 1978, pp. -139-
140. Segun 'Uriel Martinez es posible encontrar antecedentes del corrido en la novela de
caballeria, que cantaban mestizos y espanoles con influencia medieval y renacimental, es
decir musica juglar y de caballeria entre 1500 y 1600, www.cnca.gob.mxlcnca/nuovo/dia-
rias/0601001corrizac.htm.
8 La Reina del Sur, p. 30.
9' J. Cortazar, Las tres memorias, en Mito y realidad en la novela actual. VII
Enèuentro de escritores y criticos de las letras espaiiolas, Ediciones Cate-dra 1 Ministerio de
la Cultura, Madrid, 1992, pp. 77-80.
cambio, en diecisiete capitulos, .la historia de Teresa la Mejicana. En ambos
casos se narra la leyenda de una mujer gue hace contrabando allado de su
hombre y gue en el momento de la traici6n desaparece del escenario: asi,
en el corrido se canta gue "del dinero y de Camelia nunca mas se supo
nada", mientras que al final de la novela el narrador nos dice que "De
Teresa nunca mas se SUpO"lO.
Los del corrido Contrabando y traici6n resultan ser el hilo
conductor de la novela de Pérez-Reverte. El contrabando gue Camelia hace
entre Estados Unidos y México con Emilio Varela, lo hace Teresa entre
Espafia y' Marruecos con Santiago Fisterra. Lo confirma el mismo autor al
mencionar y parafrasear dicho corrido en las primeras dos paginas gue
introducen la novela:
En el estéreo del dormitorio, Los Tigres del Norte cantaban historias de Camelia
la Tejana. La traici6n y el contrabando, decian, son cosas incompartidas.
Siempre temi6 que tales canciones fueran presagios, y de pronto eran realidad
oscura y amenaza. [' ..l Su zumbido iba mezclandose con las palabras de la can-
ci6n, como si formaseparte de ella. Porque los contrabandistas, seguian dicien-
do 10s Tigres, ésos no perdonan nada Il.
Asi, se entrecruzan en la novela los dos personajes, las dos historias, al
punto gue se llegan a fundir algunos elementos: los amigos del Giiero
Davila "pasaban mota y paguetes de fina en llantas de coches por El Paso,
camino de la Uni6n Americana" 12; mientras gue en el 'corrido de Camelia la
Tejana "salieron de San Isidro I procedentes de Tijuana I traian las llantas
del carro I repletas de hierba mala". La huida gue sigue a la muerte de su
hombre es otro de los elementos en comun gue comparten Camelia la
Tejana y Teresa la Mejicana. Camelia se esconde en la Uni6n Americana y
la encuentra la banda en Guadalajara. Teresa, en cambio, con la muerte del
Giiero Davila sale huyendo de Culiacan para refugiarse enEspafia adonde
llega la banda gue no cesa en su persecusi6n.
Ahora bien, siguiendo el ritmo y quizas también la estructura del corri-
do, la novela de Pérez-Reverte esta dividida en diecisiete capitulos, a cada
uno de loscuales corresponde el nombre de una canci6n o algun verso
lOPérez-Reverte, La Reina del Sur, p. 542.
11[bi., p. Il. El autor evidentementeparafrasea los versos " La traici6n y el contra-
bando / son cosas incompartidas", y "pero los eontrabandistas / esos no perdonan nada".
12 [bi., p. 12.
164
conocido de 10s multiples corridos gue parecen reunidos en uno solo, sim-
b6licamente representativos del contenido del mismo. Asi, la novela abre
con un "Me cai de la .nube en gue andaba" metafora del punto de partida
de la novela: el desengafio brusco y doloroso gue llega con un telefonazo.
El principio de una carrera de ida y vuelta; un largo camino gue empieza y
termina en Culiacan; "Pacas de a kilo" hace referencia, en cambio, al corri-
do preferido del Gi.iero Davila. La novela se cierra con "La mitad de mi copa
dejé servida", 'capitulo gue euenta el regreso de Teresa Mendoza a su tierra
con el fin de cuentas con su pasado, de terminarse esa copa. Asi
pues, se trata de un texto de estructura circular gue empieza y termina en
el mismo lugar, con la misma escena. Una entrevista del autor a la prota-
gonista a su regreso a Culiacan después de doce aftos de ausencia abre la
novela; la narraei6n de ese regreso y el desenlaee abierto la
La técnieanarrativa consiste 'en una alternancia entre narrador y autor,
entre la historia contada por un narrador omnisciente y la cO,nstrueei6n de
la misma hecha por el autor al haeer su investigaci6n periodistica gue sigue
siendo parte de la misma ficei6n. Exeeptuando los eapitulos diez y trece, a
cada uno de los capitulos de la novela corresponde la entrevista a uno de
las personas gue, habiendo tenido alguna relaci6n con Teresa durante esos
doce afios que ocupan la narraci6n, ayudan a reconstruir algun episodio de
su historia, incluida la protagonista misma en los capitulos primero y ulti-
mo: Maria Tejada, la asistente social de la carcel; Ninò ]uarez, eomisario jefe
del DOCS; Vietor C.astro, capitan de la Guardia' Civil; 6sear Lobato, repor-
tero; eucho Malaspina, periodista, etc.
La informaci6n obtenida para un supuesto reportaje periodistico se va
transforinando en novela. En algunos pasos' se puede ver con claridad c6mo .
a partir de un' dato objetivo, una entrevista o una fotografia, el autor eons-
truye parte del celato. Por ejemplo, en el capitulo seis "Me estoy jugando la
vida, me estoy jugando la suerte" el autor hace una detallada descripci6n
de una 'foto que le muestra el piloto del helic6ptero de Aduanas, ]avier
Collado, la noche de la persecusi6n en la que Santiago Fisterra muere, ima-
ginando lo que pudo haber sido ese momento, para, luego, ceder la pala-
bra al narrador que se centra en lo gue vivi6 Teresa Mendoza aquella
noche: sus miedos y sus sentimientos 13 • Del dato concreto y real de la expe-
. riencia se pasa al analisis y a la interiorizaci6n de la narraci6n ficcional. Un
habil juego narrativo en el que el reportaje periodistico se transforma en
13 [bi., pp. 186-190.
165
novela dentro de la misma novela; como si el autor lograra convencer al
lector de gue con informaci6n veridica construye la ficcion; de gue la
leyenda ya existia y gue solo se limita a recopilar datos, ·cuando en realidad
se va construyendo a lo largo de la narracion. En este sentido podriamos
hablar de ficcion metanovelesca, en cuanto la misma novela incluye el pro-
ceso de novelaci6n, de alguna manera en el texto de la novela econtramos
el libro gue Pérez-Reverte esta escribiendo.
-Realidad y leyenda. son simple material de trabajo para el autor, aun-
gue la realidad suele quedar por debajo de las leyendas 14, resulta diffcil dis-
tinguir entre realidad y leyenda, entre realidad y ficci6li. Esto facilita la cre-
aci6n del personaje gue se funde con la realidad en el imaginario del lec-
.tor: "Teresa Mendoza no existia como tal cuando escribi ellibro. La cons-
trui con mi forma de ver el mundo y la vida, con las mujeres gue hay en
mi memoria, con imgainaci6n y con sentido comun. Lo gue pasa es" gue
ahora ya existe en el imaginario de los· lectores, gue la" adoptaron" 15.
El autor parece moverse de la verdad periodisitca a la verdad ficcional.
Las técnicas de reportaje periodisitico bien conocidas por Pérez-Reverte son
recursos narrativos gue contribuyen a la construcci6n de una realidad fic-
cional. Sin embargo, en cuanto construcci6n de una leyenda la novela esta
ffias cerca del corrido. gue del reportaje periodisitico.
Teresa la Mejicana o La Reina del Sur: construcci9n del personaje
Teresa Mendoza es la figura de una mujer, originaria de una ciudad del
norte de México, Culiacan, gue "no tenia estudios ni otra cosa" gue el
Guero" 16, su novio narcotraficante, y gue llega a ser una leyenda en su am-
biente: Teresa la Mejicana en el extranjero y La Reina del Sur en su tierra.
La construcci6n del personaje femenino sigue la biografia de la prota-
gonista y sus transformaciones se dan de forma casi natural a lo largo de
los doce afios gue dura la historia narrada; su· perfil va creciendo a medida
gue enfrenta situaciones distintas, desde la amenaza de muerte gue la lleva
a huir de su tierra, hasta el regreso a la misma para ajustar cuentas pen-
dientes. La leyenda se construye, Teresa. Mendoza Chavez se va gradual-
mente convirtiendoen la Reina del Sur ante los ojos del lector.
14 [bi., p. 15.
15 "MuraI)), GuadaIajara, México, 6.12.2002.
16 Pérez-Reverte, La Rei.na del Sur, p. 24.
166
a vivir en un mundo de hombres, se adapta, sobrevive y
triunfa: "Era la unica mujer gue salia a jugarsela ahi fuera. Pero cuando
corri6 la voz de gue le echaba los mismos cojones que un tio, la cosa cam-
bi6" 17. No elige su destino pero lo enfrenta, "Nunca ambicioné nada. No
inventé sus malditas reglas, pero al fin tuve que vivir con ellas"; "haciendo
lo gue mejor sabia hacer en el mundo, peleando a su manera contra la vida
y contra el destino" 18.
El recurso del desdoblamiento es el que le permite vivir en ese mundo
masculino. En situaciones li11?ite Teresa se mira vivir y reaccionar como si
se tratara de otra persona: "no era ella la que hablaba, sino una desconoci- .
da cuyas palabaras imprevisibles la sobresaltaban. Una desconocida impru-
dente que ignoraba la urgencia del silencio. Ladesconocida seguia actuan-
do por cuenta propia, y Teresa se sobresalt6 cuando la oy6 decir: hijos de
la chingada" 19; "cuando. se dio cuenta, ella o la otra mujer a la que espiaba
habia cerrado los dedos en torno a la culata de la pistola. Para ella, para esa
mu.jer a la que observaba, o para la dos a la vez" 20. En esa condici6n de
soledad en que vive a partir de la muerte de su compafiero y que perma-
nece. en toda la historia, hay otra Teresa que de lejos y entre sombras la
observa, le da soluciones y proporciona consuelo 21; que torna la distancia'
necesaria para ver desde fuera o desde lejos, sin pasi6n y sin rencor 22 • Se
trata de un elemento que, ademas, leafiade misterio al personaje y permi-
te no s610 su sobreviviencia sino la construcci6n de la leyenda.
No s610 es capaz .de .desdoblarse en los momentos de mayor peligro,
Teresa Mendoza es capaz de alejarse de su propia realidad y vivir en otros
mundos, de verse reflejada en otros personajes gracias a la literatura que
descubre en la carce!. -Leer le· permitia habitar su cabeza de un modo q.is-
tinto; "cual si al·difl;lminarse las fronteras entre realidad y ficci6n pudiera asi-
sitir a ·Sll propia vida como·quien presencia algo que le pasa a los demas" 23.
Lo debe a su compafiera de celda· Patricia O'Farrell que la lleva a des-
cubrir ·el pIacer y el consuelo de la lectura, es ella quien le ensefia que los
libros son· puertas que te llevan a la calle, "con ellos aprendes, te educas,
17 [bi., p. 163.
18 [bi., p. 190.
19 [bi.,p. 36.
20 [bi., p. 41.
21 [bi., pp. 433, 350.
22 [bi., .pp. 44, 295.
23 [bi., p. 239.
167
suefias, imaginas, vives otras vidas y multiplicas la tuya por mil"; un cami-
no para luchar contra la soledad pues "también sirven para tener a raya
muchas cosas malas: fantasmas, soledades y mierdas asi" 24.
El Conde de Montecristo, - en una edici6n de la Colecci6n Sepan
Cuantos, de la editorial mexicana Porn1a -, es la novela que le abre esas
puertas al mundo como liberaci6n, como posibilidad de vivir otras
realidades: "nunca antes pens6' que una misma pudiera verse proyectada
con tal intensidad en lo leia, de forma que lector y protagonista fuesen
uno solo. [. ..] mas gue el cine o la tele, las novelas permitian vivir cosas para
las que no bastaba una sola vida" 25; porque en las novelas podias aplicar tu
punto de vista a cada situaci6n o personaje. Porque al pasar cada hoja lo
que se hace es escribirla de nuevo 26.
En la identificaci6n de Teresa con Edmundo Dantés primero y luego
con otros personajes de distintas novelas, Pérez-Reverte vuelve a utilizar la
técnica narrativa de otras novelascon la que logra en un mismo
narrativo la alternancia de mundos y tiempos distintos; en nuestro caso se
cruzan', intercalandocitas y anotaciones, El Conde de Montecristo y La Reina
del Sur.
Sin duda alguna, la literatura a la transformaci6n del perso-
naje, a la creaci6n de la leyenda: una mujer ignorante, que habia demos-
trado facilidad en hacer cuentas numéricas cuando cambiaba d61ares en una
calle de Culiacan, acaba siendo una voraz lectora de textos literarios no
siempre faciles de leer. En no pocas ocasiones el narrador repite que Teresa
Mendoza compra, colecciona y acumula.libros de todo tipo, "cada vez tenfa
mas en casa, alineados en estantes o puestos de cualquier manera sobre 105 .
muebles" 27; su criterio de elecci6n ante los libros desconocidos solfa ser el
de las portadas y los tltulos 28.
Sin embargo,parece evidente que la elecci6n de algunos textos con-
forman la identidad' mexicana del personaje: la lectura intuitiva de Pedro
Paramo, que sin lograr çlesentrafiar su misterio, lo relefa al azar porque
.encontraba. alga que ella misma posefa en algun lugar oscuro de su sangre
y su memoria 29; o la lectura diffcil pero enriquecedora de Elperegrino en su
24 [bi., p.
25 Ibi.; p. 216.
26 Ibi., p.239.
27 [bi., p. 328.
28 [bi., p. 329.
. 29 [bi., p. 240 Y 55; 328-329.
168
patria de Octavio Paz, junto con otros tantos textos de tema mexicano y de
género distinto como los cuentos de Ricardo Garibay, las novelas policfacas de
Paco Ignacio Taibo II, o la Historia de la Conquista de Nueva Espaiìa de Bernal
Diaz del Castillo.
Otra de las caractensticas que definen a Teresa Mendoza es su inconfun-
diblemodo de hablar: "callada y casi timida Mendoza, muy obselVadora, muy
prudente, con aquel acento mejicano que la hacia parecer tan mansa y correc-
ta..."; "con su acento tan cariftoso y educado. Con esos hermosos arcafsmos que
utilizan 10s mejicanos"30. El querer hacer una novela mexicana ha obligado al
autor a incursionar .en el espanoi de América y, ffias especfficamente, en el uni-
verso mexicano dellenguaje. En su novela Pérez-Reverte intenta ensamblar el
argot laeai de Culiacan y mexicanismos varios con el espanol estandar, bus-
cando quizas un mestizaje lingUistico con el eual demostrar que hay una gran
patria del Ienguaje 31 • Es innegable la reprodueei6n fiei de expresiones tipica-
mente mexieanas que defmen con fuerza al personaje principal. Sin embargo,
es perceptible un cambio en ei uso· del lenguaje a lo largo de la novela, en la
a medida que dismunuyen los términos y la jerga del mundo originario de
Teresa Mendoza, aparecen ténninos y tipicamente peninsulares en
boca de la misma protagonista 32. Probablemente esto represente un elemento
, tnas en la continua transformaci6n del personaje, que acaba asimilando la cul-
tura del mundo en el que vive, y hablando un espanoi mezela de México y
Espaiia. Este dato también aparece enel corrido La Reina del Sur cuando canta:
"Supo aprender el acento que se usa por todo Espafta". El mestizaje de,la len-
gua espanola se asoma también en el conido al hablar de "la tfa ·Teresa
Mendoza"; tfa muy pesada",versos en los que se utiliza sin duda alguna
ei término "tia" en la acepei6n tipicamente peninsular de apelativo para desig-
nar a una persona de quien se pondera algo bueno o malo.
Hemos vistQ. brevemente como, a través de elementos tanto de la tradicion
oral, que son punto de partida, como de la tradici6n escrita, Pérez-Reverte
logra, en su novela La Reina del Sur, eonstruir un personaje. feminino que posee
la fuerza de convertirse en leyenda popular, a través de un.juego narrativo que,
se mueve entre el reportaje periodistico y el corrido popular mexicano.
30 [bi., p. 214, 163.
31 En una entrevista Pérez-Reverte cita· a Vallé Incléin para explicar su incursi6n en
el espanol ,de México: "demostr6 que hay una gran patria que es le lenguaje y que 10s
escritores y los hablantes debemos vivir en ella sin temor", en ccCambio.. , México,
15.9.2002, pp. 15-16.
32 Podemos citar uno de numerosos ejemplos "Respetad al Pinto -:- dijo Teresa. No
siempre es cabal mochar parejo, pensaba", Pérez-Reverte, La Reina del Sur, p. 352.
169 (
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] | SCHEDE
Stelio Cro, La "Princeps" y la cuesti6n relativo all'impresa colombiana, tradu-
del plagio del "De Orbe Novo". Separa- zione che Berchet confronta solo con
ta "Cuadernos para Investigaci6n de l'edizione del '16, senza quindi rendersi
la LiteraturaHispanica", n. 28 (2003), conto dell'origine delle divergenze.
Madrid, pp. 15-240. Ora però Stelio Cro, il noto studioso
dei temi utopici nella scoperta america-
L'edizione di dell'opera na, collazionando i testi delle due edi-
con cui Pietro Martire d'Anghiera an- zioni della cronaca americana curate in
nunciò al mondo la scoperta delle Indie Spagna da Nebrija con le traduzioni del-
è considerata in genere la seconda, usci- la storia di Pietro Martire uscite rispetti-
ta .a cura di Antonio de Nebrija ad AlcaIci vamente a Venezia e Vicenza nel 1504 e
de Henares nel 1516, avendo come edi- nel 1507 - Libretto de tutta la nauica-
tore Miguel Egufa e come titolo De Orbe del Re di Spagna de le Isole et ter-
Novo Decades. La prima edizione invece reni nouamente trouati di Angelo Trevi-
era stata pubblicata da Nebrija a Siviglia san e Paesi nuovamente retrovati et No-
nel 1511 per i tipi di Cromberger con il vo Mondo da Alberico Vesputio fiorenti-
titolo Oceani decas (all'interno di una no intitulato - dimostra che gli accenni
raccolta di opere dell'umanista lombar- critici di Pietro Martire all'edizione della
do, comprendente anche la Legatio propria storia latina della Scoperta non
babylonica, i Poemata e gli Epigram- si riferivano alla prima edizione delle
- mata).. Questa edizione· è stata in gene- sue Decadi, ma alle traduzioni italiane
re svalutata dagli studiosi, ip. quanto . sopra citate e a quel fiorire di pubblica-
meno completa e meno corretta, e que- zioni, i cosiddetti "plagi italiani" (più di
sto parere sembrava incoraggiato dallo una mezza dozzina), che, senza l'allto-
stesso Pietro Martire che lamentava le rizzazione dell'umanista, si produssero a
modalità di pubblicazione della propria partire dalla traduzione del Trevisan (p.
Guglielmo ·Berchet nel 1892, per 57). Queste pubblicazioni facevano leva
il Centenario della Scoperta, pubblicò le sulla sete di notizie intorno all'impresa
Lettere del 1501 - appena trovate in una americana (pp. 48 ss.) ed oltre all'inte-
biblioteca inglese - di Angelo Trevisan, resse informativo ne avevano uno eco-
segretario dell'ambasciatore della nomico-politico.
Repubblica di Venezia presso la corte di I plagi si ebbero in quanto Pietro
Spagna, .a Domenico Malipiero, storico Martire, ancor prima del suo ritorno, in
della Serenissima.· Appunto in queste Italia, a Venezia, nel 1501 per missioni
Lettere è contenuta la prima traduzione diplomatiche (quando portò con sé il
italiana ,del latino di Pietro Martire manoscritto della' sua storia americana
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con l'intenzione di pubblicarla), aveva L'edizione che ora presenta per
già consegnata una copia manoscritta la prima volta, corredata di traduzione
della sua storia latina della Scoperta ad spagnola, della Oceanea decas del
Angelo Trevisan, che l'aveva utilizzata 1511, che - dicevamo - rappresenta
nel suo epistolario per far conoscere come una prima edizione del De Orbe
in ambiente veneziano la scoperta Novo Decades di Pietro Martire d'An-
colombiana. Siamo certi che la copia ghiera, è preceduta da una ricca
manoscritta sia stata nelle mani di Tre- "Introducci6n" (pp. 15-66). Oltre ad
visan dalla sua lettera al Malipiero del affrontare problemi testuali, ricostrui-
21 agostol501 in cui fa cenno "al trac- sce ampiamente la biografia di Pietro
tado del viazo del dicto Colombo" Martire e i suoi rapporti con i Re
composto da "uno valentuomo". Dice Cattolici e la corte spagnola sia dal
d'averlo copiato e, data la sua esten- punto di vista del suo impegno cultu-
sione, ne invia solo il primo libro così rale che da quello diplomatico. Lo stu-
come l'ha "traslatato in vulgar per ma- dioso chiarisce. la posizione filo-
zar sua comodità" (p. Il mano- colombiana del primo cronista delle
scritto posseduto da Trevisan, e copia Indie e la sua difesa dell'impresa del
di quello di Pietro Martire, viene iden- navigatore ligure a cui la storia negò
tificato da Cro con l'UrON (Ur-orbe di dare il proprio nome alle terre con-
Nova). Da questo deriverebbero sia i quistate preferendogli il navigatore
"plagi italiani" sia la editio princeps fiorentino Amerigo L'edizio-
pubblicata a Siviglia nell'Il. Una pro- ne critica del testo latino di Pedro Mar-
va, secondo Cro, ci verrebbe dalle pre- tir (pp. 137-208), con il relativo ap-
sunte "originalità" delle Lettere del Tre- parato critico (pp. 209-220), è seguita
visan, in realtà corrispondenti a passi da un "Apéndice" molto interessante
presenti nell'edizione sivigliana. e risa- (pp. 221-240) contenente il testo delle
lenti presumibilmente all'UrON. quattro lettere del Trevisan a Malipiero
Per quanto riguarda l'inspiegabile ri- (con traduzione spagnola), inoltre un
tardo nella pubblicazione della storia esempio di derivazione dalripotetico
americana da parte del cronista dei Re Ur-ON di passi paralleli del Libretto,
Cattolici, e il suo apparente disinteresse, dei Paesi nonché del Sommario de la
Cro ipotizza che le provenienti generale istoria de 11ndie occidentali
dal·Diario di bordo di Colombo, fossero cavato da libri scritti dal signor Don
coperte da segreto di stato (la loro dif- Pietro Martyre del Consiglio delle
fusione avrebbe ad esempio potuto av- , Indie... pubblicato a Venezia· nel 153,4.
vantaggiare la potenza portoghese a Seguono esempi di confronto testuale
spese di quella spagnola). Inoltre sugli tra le Lettere del Trevisan e le due edi-
eventi continuavano a giungere nuove zioni dell'opera dell'umanista lombar-
notizie. Era quindi ancora impossibile do. curate dall'amico Nebrija. Tutti
imbrigliare in una storia "oggettiva" e questi materiali corroborano la tesi
quindi definitiva un evento la cui cono- dell'importanza dell'edizione siviglia-
scenza era ancora molto fluida. na della cronaca americana di Pietro
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Martire, il cui testo è stato riscattato sequestrata per parecchi mesi dalla
dalla dimenticanza in questo studio di guerriglia colombiana nel 1983-84.
Stelio Cro, quanto mai puntuale, che La nozione di trauma psichico impli-
indica anche un nuovo punto di vista ca come una ferita della mente in se-
da cui partire per analizzare l'insieme guito ad un evento così repentino. e
delle opere tradotte in italiano sulla terribile che non può essere colto pie-
Scoperta Americana nelle prime deca- namente dalla coscienza, ma ritorna
di del Cinquecento. poi ossessivamente in svariate forme,
Mariarosa Scaramuzza Vidoni di cui in questo caso possiamo trova-
re traccia nelle opere dell'autore. La
Garcés ritiene quindi necessario unire
Maria Antonia Garcés, Ceroantes in lo. studio storico-letterario con quello
Algiers. A Tale, Vanderbilt psicanalitico per comprendere più a
U.P., Nashville 2002, pp. 349. fondo la dinamica delle creazioni di
Cervantes. A questo scopo utilizza
Da molto tempo i critici hanno nota- anche vari studi sui rapporti fra trauma
to la forte presenza, nelle opere di e letteratura.
Cervantes, del tema della prigionia La sua tesi è che certamente la schia-
subita per cinque anni ad ·opera dei vitù di Cervantes ad Algeri è il centro
Mori e hanno illustratq, con ricerche fantasmatico al quale la sua scrittura
storiche e filologiche, i contesti e i rap- ritorna incessantemente (p. 15).
porti inteltestuali dei passi relativi. La Utilizzando la Topografia e H.istoria
viene ora .ripresa con uno generai de Argel (pubblicata da Diego
studio ampio e originale da Maria de Haedo ma ormai generalmente
Antonia Garcés nel suo libro del 2002 attribuita ad Antonio de Sosa) e altri
Cervantes in Algiers. A Tale testi cerca di dare un'immagine reali-
(Vanderbilt U.P., Nashville 2002). stica delle condizioni dei prigionieri
L'autrice tiene fermo il caratte.re so- cristiani e in particolare di quelli che,
stanzialmente storico dei testi informa- come Cervantes, attendevano di esse-
tivi ora ricordati - con una fiducia for- re riscattati. Ne risultereb.bero confer-
se eccessiva a mio modo di vedere - e mati gli scritti in cui Cervantes parla
centra .l'attenzione sul fatto che la dura della sua prigionia e ne mostra i dolo-
prigionia, in essi descritta, deve aver rosi effetti. Certamente restano proble-
avuto su Cervantes un forte effetto mi come quello di spiegare come ab-
traumatico, che si ripercuote profon- bia potuto salvarsi dalla morte pur con
damente sulla sua personalità e sulla tutti· i suoi tentativi di fuga. All'ipotesi
sua opera. Per quest'analisi utilizza gli più usuale· che fa leva sul valore eco-
studi sul trauma psichico, che sono nomico rappresentato da Cervantes in
stati compiuti sui reduci dei campi di quanto riscattabile, la Garcés preferi-
concentramento, del Vietnam ecc. E fa sce quella illustrata in particolare da
anche qualche riferimento alla propria Canavaggio, secondo cui Cervantes,
esperienza personale, essendo stata grazie a qualche sua conoscenza, po-
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