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1,200 |
81 III 27
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Sachverhalt ab Seite 27
A.- In data 14 giugno 1954 il Pretore di Locarno omologava il concordato con abbandono dell'attivo proposto dalla Visa S. A. La sentenza pretoriale, confermata dalla Camera di esecuzione e fallimenti del Tribunale d'appello con giudicato 5 ottobre 1954, affidava la liquidazione della società ad Alfonso Scamara, Ufficiale di esecuzione e fallimenti a Locarno, con l'assistenza d'una delegazione di cinque creditori da designarsi all'assemblea dei creditori che sarebbe stata convocata dal liquidatore. L'assemblea dei creditori, tenutasi il 29 ottobre 1954, nominava a far parte della delegazione: Aldo Zaccheo, Daniele Codazzi, H. E. Eichenberger, l'avv. Gianluigi Buetti e l'avv. Sergio Salvioni.
B.- Mediante reclamo 9 novembre 1954 le ditte creditrici Visa, Intervisa e Visafin insorgevano contro la composizione della delegazione dei creditori. Ma con decisione 31 dicembre 1954 l'Autorità cantonale di vigilanza respingeva il gravame.
C.- In tempo utile le ditte Visa, Intervisa e Visafin si sono aggravate alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione querelata e la convocazione di una nuova assemblea dei creditori per procedere alla nomina di altri membri della delegazione in sostituzione di quelli da revocarsi.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. L'autorità cantonale di vigilanza si è ritenuta competente a statuire sul reclamo interposto contro la composizione della delegazione di cinque creditori prevista dall'autorità dei concordati per assistere il liquidatore. Con ragione. La delegazione dei creditori nella procedura di concordato con abbandono dell'attivo (art. 316 b cifra 2 LEF) può essere equiparata, segnatamente per quanto riguarda la sua nomina, alla commissione di sorveglianza prevista dall'art. 237 LEF. Dal punto di vista della liquidazione, l'affinità tra il concordato con abbandono dell'attivo e il fallimento è tale che giustifica di far capo per via analogetica all'ordinamento previsto da siffatta disposizione legale, così come alla giurisprudenza che consente alle autorità di vigilanza di annullare o modificare la nomina d'una commissione di sorveglianza quando questa decisione dell'assemblea dei creditori loro sembri inopportuna (RU 59 III 132).
2. La decisione querelata ha dichiarato il reclamo tardivo. Le ricorrenti contestano la tardività del gravame, adducendo che il tempo utile per presentarlo non era di cinque (art. 239 LEF), bensì di dieci giorni (art. 316 e LEF). Ma il termine di cui si prevalgono vale unicamente per l'impugnazione delle decisioni concernenti la realizzazione dell'attivo. Nel silenzio della legge e stante l'analogia già rilevata degli istituti del concordato con abbandono dell'attivo e del fallimento appare indicato di attenersi al termine di cinque giorni dell'art. 239 LEF. Siccome questo termine comincia a correre dalla data dell'assemblea dei creditori e non da quella della pubblicazione delle deliberazioni assembleari (cf. JAEGER, commentario, nota 3 all'art. 239 LEF), come sostengono le ricorrenti, il loro reclamo datato del 9 novembre 1954 era effettivamente tardivo.
3. Tuttavia l'autorità cantonale ha esaminato il reclamo anche nel merito. Essa è giunta alla conclusione che non esisteva un motivo per revocare la nomina degli avv. Buetti e Salvioni nella delegazione dei creditori.
Eccepiscono le ricorrenti che poichè detti professionisti patrocinano creditori non riconosciuti dalla Visa S. A. e per essa dal suo commissario non possono rappresentare contemporaneamente la massa in liquidazione. Questo argomento non regge. Come rettamente ha fatto osservare l'autorità cantonale, dal momento che gli avv. Buetti e Salvioni rappresentavano anche creditori riconosciuti, avevano senz'altro qualità per essere nominati membri della delegazione.
Sembra che le ricorrenti si lagnino inoltre perchè il credito che vantano verso la società in liquidazione non è valso a procurare loro un rappresentante nella delegazione, quantunque fosse di un importo molto più elevato di quello di altri creditori chiamati a farne parte. Sennonchè, la scelta dei cinque membri della delegazione era di competenza dell'assemblea dei creditori. Dato che quelli designati erano creditori o rappresentanti di creditori riconosciuti, la loro designazione non viola il diritto federale, e le autorità di vigilanza non hanno motivo di intervenire.
4. Sussidiariamente le ricorrenti chiedono che il loro gravame sia trattato quale ricorso di diritto pubblico per violazione dell'art. 4 CF. L'ammissibilità del ricorso alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale esclude però la proponibilità del ricorso di diritto pubblico (art. 84 cp. 2 OG).
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è respinto.
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it
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1. Im Nachlassverfahren mit Vermögensabtretung sind die Aufsichtsbehörden befugt, die Ernennung des Gläubigerausschusses aufzuheben oder zu ändern (Erw. 1). - Wer kann in den Gläubigerausschuss gewählt werden? (Erw. 3).
2. Die Frist zur Anfechtung der Zusammensetzung des Gläubigerausschusses beträgt fünf Tage und beginnt vom Tage der Gläubigerversammlung an zu laufen, welche die Mitglieder des Ausschusses bezeichnet hat (Erw. 2).
3. Subsidiärer Charakter der staatsrechtlichen Beschwerde wegen Verletzung von Art. 4 der Bundesverfassung (Erw. 4).
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-27%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 27
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Sachverhalt ab Seite 27
A.- In data 14 giugno 1954 il Pretore di Locarno omologava il concordato con abbandono dell'attivo proposto dalla Visa S. A. La sentenza pretoriale, confermata dalla Camera di esecuzione e fallimenti del Tribunale d'appello con giudicato 5 ottobre 1954, affidava la liquidazione della società ad Alfonso Scamara, Ufficiale di esecuzione e fallimenti a Locarno, con l'assistenza d'una delegazione di cinque creditori da designarsi all'assemblea dei creditori che sarebbe stata convocata dal liquidatore. L'assemblea dei creditori, tenutasi il 29 ottobre 1954, nominava a far parte della delegazione: Aldo Zaccheo, Daniele Codazzi, H. E. Eichenberger, l'avv. Gianluigi Buetti e l'avv. Sergio Salvioni.
B.- Mediante reclamo 9 novembre 1954 le ditte creditrici Visa, Intervisa e Visafin insorgevano contro la composizione della delegazione dei creditori. Ma con decisione 31 dicembre 1954 l'Autorità cantonale di vigilanza respingeva il gravame.
C.- In tempo utile le ditte Visa, Intervisa e Visafin si sono aggravate alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione querelata e la convocazione di una nuova assemblea dei creditori per procedere alla nomina di altri membri della delegazione in sostituzione di quelli da revocarsi.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. L'autorità cantonale di vigilanza si è ritenuta competente a statuire sul reclamo interposto contro la composizione della delegazione di cinque creditori prevista dall'autorità dei concordati per assistere il liquidatore. Con ragione. La delegazione dei creditori nella procedura di concordato con abbandono dell'attivo (art. 316 b cifra 2 LEF) può essere equiparata, segnatamente per quanto riguarda la sua nomina, alla commissione di sorveglianza prevista dall'art. 237 LEF. Dal punto di vista della liquidazione, l'affinità tra il concordato con abbandono dell'attivo e il fallimento è tale che giustifica di far capo per via analogetica all'ordinamento previsto da siffatta disposizione legale, così come alla giurisprudenza che consente alle autorità di vigilanza di annullare o modificare la nomina d'una commissione di sorveglianza quando questa decisione dell'assemblea dei creditori loro sembri inopportuna (RU 59 III 132).
2. La decisione querelata ha dichiarato il reclamo tardivo. Le ricorrenti contestano la tardività del gravame, adducendo che il tempo utile per presentarlo non era di cinque (art. 239 LEF), bensì di dieci giorni (art. 316 e LEF). Ma il termine di cui si prevalgono vale unicamente per l'impugnazione delle decisioni concernenti la realizzazione dell'attivo. Nel silenzio della legge e stante l'analogia già rilevata degli istituti del concordato con abbandono dell'attivo e del fallimento appare indicato di attenersi al termine di cinque giorni dell'art. 239 LEF. Siccome questo termine comincia a correre dalla data dell'assemblea dei creditori e non da quella della pubblicazione delle deliberazioni assembleari (cf. JAEGER, commentario, nota 3 all'art. 239 LEF), come sostengono le ricorrenti, il loro reclamo datato del 9 novembre 1954 era effettivamente tardivo.
3. Tuttavia l'autorità cantonale ha esaminato il reclamo anche nel merito. Essa è giunta alla conclusione che non esisteva un motivo per revocare la nomina degli avv. Buetti e Salvioni nella delegazione dei creditori.
Eccepiscono le ricorrenti che poichè detti professionisti patrocinano creditori non riconosciuti dalla Visa S. A. e per essa dal suo commissario non possono rappresentare contemporaneamente la massa in liquidazione. Questo argomento non regge. Come rettamente ha fatto osservare l'autorità cantonale, dal momento che gli avv. Buetti e Salvioni rappresentavano anche creditori riconosciuti, avevano senz'altro qualità per essere nominati membri della delegazione.
Sembra che le ricorrenti si lagnino inoltre perchè il credito che vantano verso la società in liquidazione non è valso a procurare loro un rappresentante nella delegazione, quantunque fosse di un importo molto più elevato di quello di altri creditori chiamati a farne parte. Sennonchè, la scelta dei cinque membri della delegazione era di competenza dell'assemblea dei creditori. Dato che quelli designati erano creditori o rappresentanti di creditori riconosciuti, la loro designazione non viola il diritto federale, e le autorità di vigilanza non hanno motivo di intervenire.
4. Sussidiariamente le ricorrenti chiedono che il loro gravame sia trattato quale ricorso di diritto pubblico per violazione dell'art. 4 CF. L'ammissibilità del ricorso alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale esclude però la proponibilità del ricorso di diritto pubblico (art. 84 cp. 2 OG).
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è respinto.
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it
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1. Dans la procédure de concordat par abandon d'actif, les autorités de poursuite ont qualité pour annuler ou modifier la nomination de la commission de surveillance (consid. 1). - Qui peut être appelé à faire partie de la commission de surveillance? (consid. 3).
2. Le délai pour se plaindre de la composition de la commission de surveillance est de cinq jours à compter de la date de l'assemblée des créanciers qui l'a choisie (consid. 2).
3. Caractère subsidiaire du recours de droit public pour violation de l'art. 4 Const. féd. (consid. 4).
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debt enforcement and bankruptcy law
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-27%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 27
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Sachverhalt ab Seite 27
A.- In data 14 giugno 1954 il Pretore di Locarno omologava il concordato con abbandono dell'attivo proposto dalla Visa S. A. La sentenza pretoriale, confermata dalla Camera di esecuzione e fallimenti del Tribunale d'appello con giudicato 5 ottobre 1954, affidava la liquidazione della società ad Alfonso Scamara, Ufficiale di esecuzione e fallimenti a Locarno, con l'assistenza d'una delegazione di cinque creditori da designarsi all'assemblea dei creditori che sarebbe stata convocata dal liquidatore. L'assemblea dei creditori, tenutasi il 29 ottobre 1954, nominava a far parte della delegazione: Aldo Zaccheo, Daniele Codazzi, H. E. Eichenberger, l'avv. Gianluigi Buetti e l'avv. Sergio Salvioni.
B.- Mediante reclamo 9 novembre 1954 le ditte creditrici Visa, Intervisa e Visafin insorgevano contro la composizione della delegazione dei creditori. Ma con decisione 31 dicembre 1954 l'Autorità cantonale di vigilanza respingeva il gravame.
C.- In tempo utile le ditte Visa, Intervisa e Visafin si sono aggravate alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione querelata e la convocazione di una nuova assemblea dei creditori per procedere alla nomina di altri membri della delegazione in sostituzione di quelli da revocarsi.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. L'autorità cantonale di vigilanza si è ritenuta competente a statuire sul reclamo interposto contro la composizione della delegazione di cinque creditori prevista dall'autorità dei concordati per assistere il liquidatore. Con ragione. La delegazione dei creditori nella procedura di concordato con abbandono dell'attivo (art. 316 b cifra 2 LEF) può essere equiparata, segnatamente per quanto riguarda la sua nomina, alla commissione di sorveglianza prevista dall'art. 237 LEF. Dal punto di vista della liquidazione, l'affinità tra il concordato con abbandono dell'attivo e il fallimento è tale che giustifica di far capo per via analogetica all'ordinamento previsto da siffatta disposizione legale, così come alla giurisprudenza che consente alle autorità di vigilanza di annullare o modificare la nomina d'una commissione di sorveglianza quando questa decisione dell'assemblea dei creditori loro sembri inopportuna (RU 59 III 132).
2. La decisione querelata ha dichiarato il reclamo tardivo. Le ricorrenti contestano la tardività del gravame, adducendo che il tempo utile per presentarlo non era di cinque (art. 239 LEF), bensì di dieci giorni (art. 316 e LEF). Ma il termine di cui si prevalgono vale unicamente per l'impugnazione delle decisioni concernenti la realizzazione dell'attivo. Nel silenzio della legge e stante l'analogia già rilevata degli istituti del concordato con abbandono dell'attivo e del fallimento appare indicato di attenersi al termine di cinque giorni dell'art. 239 LEF. Siccome questo termine comincia a correre dalla data dell'assemblea dei creditori e non da quella della pubblicazione delle deliberazioni assembleari (cf. JAEGER, commentario, nota 3 all'art. 239 LEF), come sostengono le ricorrenti, il loro reclamo datato del 9 novembre 1954 era effettivamente tardivo.
3. Tuttavia l'autorità cantonale ha esaminato il reclamo anche nel merito. Essa è giunta alla conclusione che non esisteva un motivo per revocare la nomina degli avv. Buetti e Salvioni nella delegazione dei creditori.
Eccepiscono le ricorrenti che poichè detti professionisti patrocinano creditori non riconosciuti dalla Visa S. A. e per essa dal suo commissario non possono rappresentare contemporaneamente la massa in liquidazione. Questo argomento non regge. Come rettamente ha fatto osservare l'autorità cantonale, dal momento che gli avv. Buetti e Salvioni rappresentavano anche creditori riconosciuti, avevano senz'altro qualità per essere nominati membri della delegazione.
Sembra che le ricorrenti si lagnino inoltre perchè il credito che vantano verso la società in liquidazione non è valso a procurare loro un rappresentante nella delegazione, quantunque fosse di un importo molto più elevato di quello di altri creditori chiamati a farne parte. Sennonchè, la scelta dei cinque membri della delegazione era di competenza dell'assemblea dei creditori. Dato che quelli designati erano creditori o rappresentanti di creditori riconosciuti, la loro designazione non viola il diritto federale, e le autorità di vigilanza non hanno motivo di intervenire.
4. Sussidiariamente le ricorrenti chiedono che il loro gravame sia trattato quale ricorso di diritto pubblico per violazione dell'art. 4 CF. L'ammissibilità del ricorso alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale esclude però la proponibilità del ricorso di diritto pubblico (art. 84 cp. 2 OG).
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è respinto.
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1. Competenza delle autorità di vigilanza di annullare o modificare la nomina della delegazione dei creditori nella procedura di concordato con abbandono dell'attivo (consid. 1). - Chi può essere chiamato a far parte della delegazione (consid. 3).
2. Il termine per impugnare la composizione della delegazione dei creditori è di cinque giorni e comincia a correre dalla data dell'assemblea dei creditori che ha designato i membri della commissione (consid. 2).
3. Carattere sussidiario del ricorso di diritto pubblico per violazione dell'art. 4 CF (consid. 4).
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 3
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Sachverhalt ab Seite 4
A.- Nel precetto esecutivo n. 95485 dell'Ufficio di Lugano, fatto notificare il 9 aprile 1954 dalla Banca popolare svizzera alla S. A. Bairag in un'esecuzione per crediti garantiti da pegno immobiliare, il titolo del credito e l'oggetto del pegno erano enunciati come segue:
"Fr. 30'000.--
Obbligazione ipotecaria vom 7.5.1948 eingetragen den 10. Mai 1948 unter Nr. 149 fol. 41, haftend im I. Rang
Fr. 50'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore v. 20.12.48, eingetr. den 27. Dez. 1948 unter Nr. 407 fol. 41, haftend im II. Rang
Fr. 120'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore Nr. 1941 vom 16.8.1949, eingetragen den 29. Okt. 1949 unter Nr. 381 fol. 43, haftend im III. Rang auf dem in Bau begriffenen Fabrikgebäude in Ponte Tresa und Croglio Halt 279,36 Aren
Schuldanerkennung vom 24.12.1949."
L'8 ottobre 1954, la Banca domandava la realizzazione dell'oggetto del pegno.
Successivamente, il 5 novembre 1954, essa cedeva i crediti in escussione a Willy Schetelig e dava conoscenza della cessione alla S. A. Bairag e all'Ufficio di Lugano.
B.- Con reclamo 3 novembre 1954 la SA Bairag chiedeva l'annullamento dell'esecuzione n. 95485 pel motivo che il precetto esecutivo non precisava l'oggetto del pegno.
Statuendo in data 22 dicembre 1954, l'Autorità cantonale di vigilanza accoglieva il reclamo ed annullava l'esecuzione.
C.- La Banca popolare svizzera e Willy Schetelig si sono aggravati alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione cantonale e la reiezione del reclamo della debitrice nella misura in cui era ricevibile.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. La giurisprudenza del Tribunale federale riconosce alle Autorità cantonali di vigilanza la competenza, fondata sull'art. 13 LEF, di annullare d'ufficio e senza riguardo alla tempestività del gravame con cui sono adite le decisioni degli Uffici di esecuzione che violino una disposizione imperativa della legge oppure ledano nel caso concreto interessi pubblici o interessi di terzi estranei alla procedura esecutiva (RU 79 III 9 e sentenze ivi citate). Di tale facoltà si è valsa nella fattispecie l'autorità cantonale per annullare l'esecuzione, adducendo che era stata promossa con una domanda che non precisava l'oggetto del pegno e non ossequiava pertanto una formalità essenziale.
2. A norma dell'art. 151 cp. 1 LEF, la domanda d'esecuzione per un credito garantito da pegno manuale o da ipoteca deve enunciare tra altro anche l'oggetto del pegno. Scopo di questa disposizione è, come il Tribunale federale ha dichiarato nella sua sentenza RU 28 I 215 (= ed. spec. vol. V 118/119), di far conoscere al debitore e all'ufficio d'esecuzione i beni sui quali il creditore procedente asserisce di avere un diritto di pegno. Nella fattispecie di allora la menzione "Iscrizione ipotecaria del 21 maggio 1900, no 203, del vol. XVI", contenuta nel precetto, non era stata ritenuta sufficiente. Posteriormente la giurisprudenza ha però temperato il rigore d'una precisa individuazione dell'oggetto del pegno nella domanda di esecuzione e pertanto nel precetto esecutivo (art. 69 e 152 LEF): con la sentenza RU 52 III 174 il Tribunale federale ha statuito che non occorre menzionare anche gli accessori d'un immobile da realizzare; con la sentenza RU 70 III 54 sgg. ha giudicato che l'indicazione del certificato di deposito di azioni depositate all'estero invece delle azioni stesse era sufficiente. Se si considera che in virtù dell'art. 99 RRF, comunicata la domanda di realizzazione al debitore, l'ufficio deve farsi rilasciare un estratto del registro fondiario e procedere alla stima del fondo, si deve convenire che l'indicazione nella domanda d'esecuzione di tutti i dettagli del pegno non può essere considerata come una condizione indispensabile a'sensi dell'art. 151 cp. 1 LEF.
In concreto la specificazione dei beni immobili della debitrice siti nei Comuni di Ponte Tresa e Croglio, la menzione della superficie totale dei fondi e il preciso riferimento alle iscrizioni nel registro dei pegni immobiliari (numero dell'iscrizione e volume) soddisfacevano alle esigenze dell'art. 151 cp. 1 LEF. I dati forniti dalla creditrice procedente ragguagliavano sufficientemente la debitrice e bastavano anche per l'ufficio che, dopo di aver steso e notificato il precetto conformemente al contenuto della domanda d'esecuzione, non avrebbe dovuto rifiutarsi di procedere alle dovute indagini presso il registro fondiario (art. 99 RRF). E'quindi a torto che l'autorità cantonale ha proceduto d'officio all'annullamento dell'esecuzione.
Il reclamo della debitrice 3 novembre 1954, provocato dalla domanda di vendita, ma diretto esclusivamente contro il precetto esecutivo notificatole in data 9 aprile 1954, era palesemente tardivo ed avrebbe pertanto dovuto essere dichiarato irricevibile.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto, la querelata decisione annullata e il reclamo 3 novembre 1954 della Bairag S. A. dichiarato irricevibile.
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it
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1. Die Aufsichtsbehörden sind befugt, von Amtes wegen und gleichgültig ob rechtzeitig Beschwerde geführt wurde, die Verfügungen der Betreibungsämter aufzuheben, die gegen eine schlechthin zwingende Gesetzesvorschrift verstossen oder im Einzelfalle öffentliche Interessen oder Interessen Dritter, die am Betreibungsverfahren nicht teilnehmen, verletzen (Erw. 1). 2. Genaue Bezeichnung des Pfandes im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl (Erw. 2).
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 3
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Sachverhalt ab Seite 4
A.- Nel precetto esecutivo n. 95485 dell'Ufficio di Lugano, fatto notificare il 9 aprile 1954 dalla Banca popolare svizzera alla S. A. Bairag in un'esecuzione per crediti garantiti da pegno immobiliare, il titolo del credito e l'oggetto del pegno erano enunciati come segue:
"Fr. 30'000.--
Obbligazione ipotecaria vom 7.5.1948 eingetragen den 10. Mai 1948 unter Nr. 149 fol. 41, haftend im I. Rang
Fr. 50'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore v. 20.12.48, eingetr. den 27. Dez. 1948 unter Nr. 407 fol. 41, haftend im II. Rang
Fr. 120'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore Nr. 1941 vom 16.8.1949, eingetragen den 29. Okt. 1949 unter Nr. 381 fol. 43, haftend im III. Rang auf dem in Bau begriffenen Fabrikgebäude in Ponte Tresa und Croglio Halt 279,36 Aren
Schuldanerkennung vom 24.12.1949."
L'8 ottobre 1954, la Banca domandava la realizzazione dell'oggetto del pegno.
Successivamente, il 5 novembre 1954, essa cedeva i crediti in escussione a Willy Schetelig e dava conoscenza della cessione alla S. A. Bairag e all'Ufficio di Lugano.
B.- Con reclamo 3 novembre 1954 la SA Bairag chiedeva l'annullamento dell'esecuzione n. 95485 pel motivo che il precetto esecutivo non precisava l'oggetto del pegno.
Statuendo in data 22 dicembre 1954, l'Autorità cantonale di vigilanza accoglieva il reclamo ed annullava l'esecuzione.
C.- La Banca popolare svizzera e Willy Schetelig si sono aggravati alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione cantonale e la reiezione del reclamo della debitrice nella misura in cui era ricevibile.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. La giurisprudenza del Tribunale federale riconosce alle Autorità cantonali di vigilanza la competenza, fondata sull'art. 13 LEF, di annullare d'ufficio e senza riguardo alla tempestività del gravame con cui sono adite le decisioni degli Uffici di esecuzione che violino una disposizione imperativa della legge oppure ledano nel caso concreto interessi pubblici o interessi di terzi estranei alla procedura esecutiva (RU 79 III 9 e sentenze ivi citate). Di tale facoltà si è valsa nella fattispecie l'autorità cantonale per annullare l'esecuzione, adducendo che era stata promossa con una domanda che non precisava l'oggetto del pegno e non ossequiava pertanto una formalità essenziale.
2. A norma dell'art. 151 cp. 1 LEF, la domanda d'esecuzione per un credito garantito da pegno manuale o da ipoteca deve enunciare tra altro anche l'oggetto del pegno. Scopo di questa disposizione è, come il Tribunale federale ha dichiarato nella sua sentenza RU 28 I 215 (= ed. spec. vol. V 118/119), di far conoscere al debitore e all'ufficio d'esecuzione i beni sui quali il creditore procedente asserisce di avere un diritto di pegno. Nella fattispecie di allora la menzione "Iscrizione ipotecaria del 21 maggio 1900, no 203, del vol. XVI", contenuta nel precetto, non era stata ritenuta sufficiente. Posteriormente la giurisprudenza ha però temperato il rigore d'una precisa individuazione dell'oggetto del pegno nella domanda di esecuzione e pertanto nel precetto esecutivo (art. 69 e 152 LEF): con la sentenza RU 52 III 174 il Tribunale federale ha statuito che non occorre menzionare anche gli accessori d'un immobile da realizzare; con la sentenza RU 70 III 54 sgg. ha giudicato che l'indicazione del certificato di deposito di azioni depositate all'estero invece delle azioni stesse era sufficiente. Se si considera che in virtù dell'art. 99 RRF, comunicata la domanda di realizzazione al debitore, l'ufficio deve farsi rilasciare un estratto del registro fondiario e procedere alla stima del fondo, si deve convenire che l'indicazione nella domanda d'esecuzione di tutti i dettagli del pegno non può essere considerata come una condizione indispensabile a'sensi dell'art. 151 cp. 1 LEF.
In concreto la specificazione dei beni immobili della debitrice siti nei Comuni di Ponte Tresa e Croglio, la menzione della superficie totale dei fondi e il preciso riferimento alle iscrizioni nel registro dei pegni immobiliari (numero dell'iscrizione e volume) soddisfacevano alle esigenze dell'art. 151 cp. 1 LEF. I dati forniti dalla creditrice procedente ragguagliavano sufficientemente la debitrice e bastavano anche per l'ufficio che, dopo di aver steso e notificato il precetto conformemente al contenuto della domanda d'esecuzione, non avrebbe dovuto rifiutarsi di procedere alle dovute indagini presso il registro fondiario (art. 99 RRF). E'quindi a torto che l'autorità cantonale ha proceduto d'officio all'annullamento dell'esecuzione.
Il reclamo della debitrice 3 novembre 1954, provocato dalla domanda di vendita, ma diretto esclusivamente contro il precetto esecutivo notificatole in data 9 aprile 1954, era palesemente tardivo ed avrebbe pertanto dovuto essere dichiarato irricevibile.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto, la querelata decisione annullata e il reclamo 3 novembre 1954 della Bairag S. A. dichiarato irricevibile.
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1. Les autorités de surveillance ont qualité pour annuler d'office, sans égard à la question de savoir si la plainte a été formée en temps utile, les décisions des offices qui violent une disposition impérative de la loi ou lèsent dans le cas particulier des intérêts publics ou des intérêts de tiers étrangers à la procédure (consid. 1). 2. Désignation exacte du gage dans la réquisition de poursuite et le commandement de payer (consid. 2).
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1,205 |
81 III 3
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Sachverhalt ab Seite 4
A.- Nel precetto esecutivo n. 95485 dell'Ufficio di Lugano, fatto notificare il 9 aprile 1954 dalla Banca popolare svizzera alla S. A. Bairag in un'esecuzione per crediti garantiti da pegno immobiliare, il titolo del credito e l'oggetto del pegno erano enunciati come segue:
"Fr. 30'000.--
Obbligazione ipotecaria vom 7.5.1948 eingetragen den 10. Mai 1948 unter Nr. 149 fol. 41, haftend im I. Rang
Fr. 50'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore v. 20.12.48, eingetr. den 27. Dez. 1948 unter Nr. 407 fol. 41, haftend im II. Rang
Fr. 120'000.--
Obbligazione ipotecaria al portatore Nr. 1941 vom 16.8.1949, eingetragen den 29. Okt. 1949 unter Nr. 381 fol. 43, haftend im III. Rang auf dem in Bau begriffenen Fabrikgebäude in Ponte Tresa und Croglio Halt 279,36 Aren
Schuldanerkennung vom 24.12.1949."
L'8 ottobre 1954, la Banca domandava la realizzazione dell'oggetto del pegno.
Successivamente, il 5 novembre 1954, essa cedeva i crediti in escussione a Willy Schetelig e dava conoscenza della cessione alla S. A. Bairag e all'Ufficio di Lugano.
B.- Con reclamo 3 novembre 1954 la SA Bairag chiedeva l'annullamento dell'esecuzione n. 95485 pel motivo che il precetto esecutivo non precisava l'oggetto del pegno.
Statuendo in data 22 dicembre 1954, l'Autorità cantonale di vigilanza accoglieva il reclamo ed annullava l'esecuzione.
C.- La Banca popolare svizzera e Willy Schetelig si sono aggravati alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, concludendo per l'annullamento della decisione cantonale e la reiezione del reclamo della debitrice nella misura in cui era ricevibile.
Erwägungen
Considerando in diritto:
1. La giurisprudenza del Tribunale federale riconosce alle Autorità cantonali di vigilanza la competenza, fondata sull'art. 13 LEF, di annullare d'ufficio e senza riguardo alla tempestività del gravame con cui sono adite le decisioni degli Uffici di esecuzione che violino una disposizione imperativa della legge oppure ledano nel caso concreto interessi pubblici o interessi di terzi estranei alla procedura esecutiva (RU 79 III 9 e sentenze ivi citate). Di tale facoltà si è valsa nella fattispecie l'autorità cantonale per annullare l'esecuzione, adducendo che era stata promossa con una domanda che non precisava l'oggetto del pegno e non ossequiava pertanto una formalità essenziale.
2. A norma dell'art. 151 cp. 1 LEF, la domanda d'esecuzione per un credito garantito da pegno manuale o da ipoteca deve enunciare tra altro anche l'oggetto del pegno. Scopo di questa disposizione è, come il Tribunale federale ha dichiarato nella sua sentenza RU 28 I 215 (= ed. spec. vol. V 118/119), di far conoscere al debitore e all'ufficio d'esecuzione i beni sui quali il creditore procedente asserisce di avere un diritto di pegno. Nella fattispecie di allora la menzione "Iscrizione ipotecaria del 21 maggio 1900, no 203, del vol. XVI", contenuta nel precetto, non era stata ritenuta sufficiente. Posteriormente la giurisprudenza ha però temperato il rigore d'una precisa individuazione dell'oggetto del pegno nella domanda di esecuzione e pertanto nel precetto esecutivo (art. 69 e 152 LEF): con la sentenza RU 52 III 174 il Tribunale federale ha statuito che non occorre menzionare anche gli accessori d'un immobile da realizzare; con la sentenza RU 70 III 54 sgg. ha giudicato che l'indicazione del certificato di deposito di azioni depositate all'estero invece delle azioni stesse era sufficiente. Se si considera che in virtù dell'art. 99 RRF, comunicata la domanda di realizzazione al debitore, l'ufficio deve farsi rilasciare un estratto del registro fondiario e procedere alla stima del fondo, si deve convenire che l'indicazione nella domanda d'esecuzione di tutti i dettagli del pegno non può essere considerata come una condizione indispensabile a'sensi dell'art. 151 cp. 1 LEF.
In concreto la specificazione dei beni immobili della debitrice siti nei Comuni di Ponte Tresa e Croglio, la menzione della superficie totale dei fondi e il preciso riferimento alle iscrizioni nel registro dei pegni immobiliari (numero dell'iscrizione e volume) soddisfacevano alle esigenze dell'art. 151 cp. 1 LEF. I dati forniti dalla creditrice procedente ragguagliavano sufficientemente la debitrice e bastavano anche per l'ufficio che, dopo di aver steso e notificato il precetto conformemente al contenuto della domanda d'esecuzione, non avrebbe dovuto rifiutarsi di procedere alle dovute indagini presso il registro fondiario (art. 99 RRF). E'quindi a torto che l'autorità cantonale ha proceduto d'officio all'annullamento dell'esecuzione.
Il reclamo della debitrice 3 novembre 1954, provocato dalla domanda di vendita, ma diretto esclusivamente contro il precetto esecutivo notificatole in data 9 aprile 1954, era palesemente tardivo ed avrebbe pertanto dovuto essere dichiarato irricevibile.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto, la querelata decisione annullata e il reclamo 3 novembre 1954 della Bairag S. A. dichiarato irricevibile.
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it
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1. Facoltà delle autorità di vigilanza di annullare d'officio e senza riguardo alla tempestività del gravame le decisioni degli uffici di esecuzione che violino una disposizione imperativadella legge oppure ledano nel caso concreto interessi pubblici o di terzi estranei alla procedura (consid. 1). 2. Individuazione dell'oggetto del pegno nella domanda di esecuzione e nel precetto esecutivo (consid. 2).
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it
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debt enforcement and bankruptcy law
| 1,955 |
III
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81 III 30
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Sachverhalt ab Seite 30
Am 22. März 1954 wurde über Theo Müller in Wil der Konkurs eröffnet. Am 9. Dezember 1954 bestätigte das Bezirksgericht Wil einen von Müller vorgeschlagenen Nachlassvertrag und beauftragte das Konkursamt Wil, das als Konkursverwaltung geamtet hatte, mit der Auszahlung der Nachlassdividende. Am 23. Dezember 1954 wurde der Konkurs widerrufen.
Am 3. Januar 1955 führte Müller bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs gegen das Konkursamt Beschwerde, weil es ihm die "Abrechnung im Nachlassverfahren" noch nicht habe zukommen lassen. Mit Entscheid vom 26. Januar 1955 hat die Aufsichtsbehörde die Beschwerde gutgeheissen und das Konkursamt angewiesen, die Abrechnung in der Nachlasssache Theo Müller unverzüglich zu erstellen und das Verfahren abzuschliessen. Sie nahm dabei an, falls das Konkursamt von der Nachlassbehörde mit dem Vollzug des Nachlassvertrags beauftragt werde, unterstehe es hinsichtlich dieser Tätigkeit der Überwachung durch die Aufsichtsbehörde, obwohl diese Tätigkeit nicht zu seinen gesetzlichen Aufgaben gehöre.
Miit seinem Rekurs an das Bundesgericht beantragt das Konkursamt, auf die Beschwerde sei nicht einzutreten; eventuell sei sie als unbegründet abzuweisen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Die Beschwerde bezieht sich, wie die Vorinstanz annimmt, nicht auf die Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung, zu der auch die Begutachtung des vom Gemeinschuldner vorgeschlagenen Nachlassvertrags (Art. 317 Abs. 1 SchKG), die Besorgung der bei einem Nachlassvertrag ausser Konkurs dem Sachwalter obliegenden Verrichtungen (Art. 317 Abs. 2 SchKG) und die Erstellung einer Rechnung über den Geldverkehr und die Gebühren des Konkursverfahrens (Art. 24 KV) gehören, sondern auf den Vollzug des Nachlassvertrags, mit dem das Konkursamt von der Nachlassbehörde betraut wurde.
Der Vollzug des Nachlassvertrags liegt nach dem Gesetz beim Nachlassvertrag ausser Konkurs nicht dem Sachwalter, beim Nachlassvertrag im Konkurs nicht der an dessen Stelle handelnden Konkursverwaltung ob. Vielmehr ist er in beiden Fällen grundsätzlich Sache des Schuldners. Die Funktionen des Sachwalters und der Konkursverwaltung gehen mit der Bestätigung des Nachlassvertrags bzw. mit dem darauf folgenden Widerruf des Konkurses zu Ende. Wenn die Personen, die als Sachwalter oder Konkursverwaltung amteten, sich gleichwohl mit dem Vollzug des Nachlassvertrags befassen, so tun sie dies nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern auf Grund eines privatrechtlichen Auftrags. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Verzögerung oder Verweigerung von Massregeln richten kann, die ein Organ des Betreibungs- oder Konkursverfahrens oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornimmt oder vorzunehmen hat (BGE 61 III 38), kann also das Vorgehen des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrags nicht Gegenstand einer Beschwerde sein (Entscheid des Bundesrates vom 23. Februar 1894 in Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 3 S. 78 Nr. 29;BGE 28 I 414, BGE 31 I 183f. = Sep.ausg. 5 S. 264, 8 S. 42; JAEGER, N. 5 zu Art. 295 SchKG, S. 430, und N. 7 zu Art. 317 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch, S. 75 Anm. 6).
Der Umstand, dass es die Nachlassbehörde war, die den Vollzug des streitigen Nachlassvertrags dem Konkursamt übertrug, vermag hieran entgegen der Auffassung, welche die zürcherische Aufsichtsbehörde in einem ähnlichen Falle (Bl.Z.R. 39 Nr. 77) vertreten hat, nichts zu ändern. Die Nachlassbehörde, der ein Nachlassvertrag zur Genehmigung vorgelegt wird, hat nur zu entscheiden, ob dieser zu bestätigen oder zu verwerfen sei. Sie kann ihn von sich aus weder ändern noch ergänzen (vgl. JAEGER N. 4 zu Art. 306, S. 452). Das Bezirksgericht Wil war also nur dann befugt, das Konkursamt mit dem Vollzug des streitigen Nachlassvertrags zu betrauen, wenn dieser eine entsprechende Bestimmung enthielt, d.h. wenn der Schuldner und die zustimmenden Gläubiger wünschten, dass jene Aufgabe dem Konkursamt übertragen werde. Das Bezirksgericht hat also in diesem Fall damit, dass es das Konkursamt einlud, den Nachlassvertrag zu vollziehen, in Wirklichkeit nur einen privaten Auftrag weitergeleitet. Sollte es aber das Konkursamt von sich aus im Sinne einer behördlichen Weisung mit dieser Aufgabe betraut haben, so wäre dadurch der Kreis der amtlichen Befugnisse des Konkursamtes ebenfalls nicht ausgedehnt worden, weil es mit einer solchen Weisung seine Zuständigkeit als Nachlassbehörde überschritten hätte und weil es überhaupt ausgeschlossen ist, die amtlichen Befugnisse und Pflichten des Konkursamtes durch eine richterliche oder administrative Anordnung über den gesetzlichen Rahmen hinaus zu erweitern.
Die Möglichkeit, das Vorgehen des Sachwalters oder der Konkursverwaltung beim Vollzug eines Nachlassvertrags durch Beschwerde anzufechten, lässt sich auch nicht etwa daraus ableiten, dass Art. 66 Abs. 2 des bundesrätlichen Gebührentarifs zum SchKG vom 13. April 1948 bestimmt, wenn der Sachwalter die Nachlassdividende auszahle, sei Art. 41 Abs. 1 dieses Tarifs anwendbar. Durch eine Bestimmung der von ihm auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung konnte der Bundesrat die aus dem Gesetz sich ergebenden Grenzen der Zuständigkeit des Sachwalters und der Konkursverwaltung nicht verschieben (vgl. BGE 81 III 37 Mitte).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Ent scheid wird aufgehoben und auf die Beschwerde wird nicht eingetreten.
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de
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Das Vorgehen des Sachwalters oder der Konkursverwaltung beim Vollzug eines Nachlassvertrags kann nicht Gegenstand einer Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG sein.
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debt enforcement and bankruptcy law
| 1,955 |
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81 III 30
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Sachverhalt ab Seite 30
Am 22. März 1954 wurde über Theo Müller in Wil der Konkurs eröffnet. Am 9. Dezember 1954 bestätigte das Bezirksgericht Wil einen von Müller vorgeschlagenen Nachlassvertrag und beauftragte das Konkursamt Wil, das als Konkursverwaltung geamtet hatte, mit der Auszahlung der Nachlassdividende. Am 23. Dezember 1954 wurde der Konkurs widerrufen.
Am 3. Januar 1955 führte Müller bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs gegen das Konkursamt Beschwerde, weil es ihm die "Abrechnung im Nachlassverfahren" noch nicht habe zukommen lassen. Mit Entscheid vom 26. Januar 1955 hat die Aufsichtsbehörde die Beschwerde gutgeheissen und das Konkursamt angewiesen, die Abrechnung in der Nachlasssache Theo Müller unverzüglich zu erstellen und das Verfahren abzuschliessen. Sie nahm dabei an, falls das Konkursamt von der Nachlassbehörde mit dem Vollzug des Nachlassvertrags beauftragt werde, unterstehe es hinsichtlich dieser Tätigkeit der Überwachung durch die Aufsichtsbehörde, obwohl diese Tätigkeit nicht zu seinen gesetzlichen Aufgaben gehöre.
Miit seinem Rekurs an das Bundesgericht beantragt das Konkursamt, auf die Beschwerde sei nicht einzutreten; eventuell sei sie als unbegründet abzuweisen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Die Beschwerde bezieht sich, wie die Vorinstanz annimmt, nicht auf die Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung, zu der auch die Begutachtung des vom Gemeinschuldner vorgeschlagenen Nachlassvertrags (Art. 317 Abs. 1 SchKG), die Besorgung der bei einem Nachlassvertrag ausser Konkurs dem Sachwalter obliegenden Verrichtungen (Art. 317 Abs. 2 SchKG) und die Erstellung einer Rechnung über den Geldverkehr und die Gebühren des Konkursverfahrens (Art. 24 KV) gehören, sondern auf den Vollzug des Nachlassvertrags, mit dem das Konkursamt von der Nachlassbehörde betraut wurde.
Der Vollzug des Nachlassvertrags liegt nach dem Gesetz beim Nachlassvertrag ausser Konkurs nicht dem Sachwalter, beim Nachlassvertrag im Konkurs nicht der an dessen Stelle handelnden Konkursverwaltung ob. Vielmehr ist er in beiden Fällen grundsätzlich Sache des Schuldners. Die Funktionen des Sachwalters und der Konkursverwaltung gehen mit der Bestätigung des Nachlassvertrags bzw. mit dem darauf folgenden Widerruf des Konkurses zu Ende. Wenn die Personen, die als Sachwalter oder Konkursverwaltung amteten, sich gleichwohl mit dem Vollzug des Nachlassvertrags befassen, so tun sie dies nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern auf Grund eines privatrechtlichen Auftrags. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Verzögerung oder Verweigerung von Massregeln richten kann, die ein Organ des Betreibungs- oder Konkursverfahrens oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornimmt oder vorzunehmen hat (BGE 61 III 38), kann also das Vorgehen des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrags nicht Gegenstand einer Beschwerde sein (Entscheid des Bundesrates vom 23. Februar 1894 in Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 3 S. 78 Nr. 29;BGE 28 I 414, BGE 31 I 183f. = Sep.ausg. 5 S. 264, 8 S. 42; JAEGER, N. 5 zu Art. 295 SchKG, S. 430, und N. 7 zu Art. 317 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch, S. 75 Anm. 6).
Der Umstand, dass es die Nachlassbehörde war, die den Vollzug des streitigen Nachlassvertrags dem Konkursamt übertrug, vermag hieran entgegen der Auffassung, welche die zürcherische Aufsichtsbehörde in einem ähnlichen Falle (Bl.Z.R. 39 Nr. 77) vertreten hat, nichts zu ändern. Die Nachlassbehörde, der ein Nachlassvertrag zur Genehmigung vorgelegt wird, hat nur zu entscheiden, ob dieser zu bestätigen oder zu verwerfen sei. Sie kann ihn von sich aus weder ändern noch ergänzen (vgl. JAEGER N. 4 zu Art. 306, S. 452). Das Bezirksgericht Wil war also nur dann befugt, das Konkursamt mit dem Vollzug des streitigen Nachlassvertrags zu betrauen, wenn dieser eine entsprechende Bestimmung enthielt, d.h. wenn der Schuldner und die zustimmenden Gläubiger wünschten, dass jene Aufgabe dem Konkursamt übertragen werde. Das Bezirksgericht hat also in diesem Fall damit, dass es das Konkursamt einlud, den Nachlassvertrag zu vollziehen, in Wirklichkeit nur einen privaten Auftrag weitergeleitet. Sollte es aber das Konkursamt von sich aus im Sinne einer behördlichen Weisung mit dieser Aufgabe betraut haben, so wäre dadurch der Kreis der amtlichen Befugnisse des Konkursamtes ebenfalls nicht ausgedehnt worden, weil es mit einer solchen Weisung seine Zuständigkeit als Nachlassbehörde überschritten hätte und weil es überhaupt ausgeschlossen ist, die amtlichen Befugnisse und Pflichten des Konkursamtes durch eine richterliche oder administrative Anordnung über den gesetzlichen Rahmen hinaus zu erweitern.
Die Möglichkeit, das Vorgehen des Sachwalters oder der Konkursverwaltung beim Vollzug eines Nachlassvertrags durch Beschwerde anzufechten, lässt sich auch nicht etwa daraus ableiten, dass Art. 66 Abs. 2 des bundesrätlichen Gebührentarifs zum SchKG vom 13. April 1948 bestimmt, wenn der Sachwalter die Nachlassdividende auszahle, sei Art. 41 Abs. 1 dieses Tarifs anwendbar. Durch eine Bestimmung der von ihm auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung konnte der Bundesrat die aus dem Gesetz sich ergebenden Grenzen der Zuständigkeit des Sachwalters und der Konkursverwaltung nicht verschieben (vgl. BGE 81 III 37 Mitte).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Ent scheid wird aufgehoben und auf die Beschwerde wird nicht eingetreten.
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L'activité déployée par le commissaire ou l'administration de la faillite dans l'exécution d'un concordat ne peut faire l'objet d'une plainte dans le sens de l'art. 17 LP.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 30
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Sachverhalt ab Seite 30
Am 22. März 1954 wurde über Theo Müller in Wil der Konkurs eröffnet. Am 9. Dezember 1954 bestätigte das Bezirksgericht Wil einen von Müller vorgeschlagenen Nachlassvertrag und beauftragte das Konkursamt Wil, das als Konkursverwaltung geamtet hatte, mit der Auszahlung der Nachlassdividende. Am 23. Dezember 1954 wurde der Konkurs widerrufen.
Am 3. Januar 1955 führte Müller bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs gegen das Konkursamt Beschwerde, weil es ihm die "Abrechnung im Nachlassverfahren" noch nicht habe zukommen lassen. Mit Entscheid vom 26. Januar 1955 hat die Aufsichtsbehörde die Beschwerde gutgeheissen und das Konkursamt angewiesen, die Abrechnung in der Nachlasssache Theo Müller unverzüglich zu erstellen und das Verfahren abzuschliessen. Sie nahm dabei an, falls das Konkursamt von der Nachlassbehörde mit dem Vollzug des Nachlassvertrags beauftragt werde, unterstehe es hinsichtlich dieser Tätigkeit der Überwachung durch die Aufsichtsbehörde, obwohl diese Tätigkeit nicht zu seinen gesetzlichen Aufgaben gehöre.
Miit seinem Rekurs an das Bundesgericht beantragt das Konkursamt, auf die Beschwerde sei nicht einzutreten; eventuell sei sie als unbegründet abzuweisen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Die Beschwerde bezieht sich, wie die Vorinstanz annimmt, nicht auf die Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung, zu der auch die Begutachtung des vom Gemeinschuldner vorgeschlagenen Nachlassvertrags (Art. 317 Abs. 1 SchKG), die Besorgung der bei einem Nachlassvertrag ausser Konkurs dem Sachwalter obliegenden Verrichtungen (Art. 317 Abs. 2 SchKG) und die Erstellung einer Rechnung über den Geldverkehr und die Gebühren des Konkursverfahrens (Art. 24 KV) gehören, sondern auf den Vollzug des Nachlassvertrags, mit dem das Konkursamt von der Nachlassbehörde betraut wurde.
Der Vollzug des Nachlassvertrags liegt nach dem Gesetz beim Nachlassvertrag ausser Konkurs nicht dem Sachwalter, beim Nachlassvertrag im Konkurs nicht der an dessen Stelle handelnden Konkursverwaltung ob. Vielmehr ist er in beiden Fällen grundsätzlich Sache des Schuldners. Die Funktionen des Sachwalters und der Konkursverwaltung gehen mit der Bestätigung des Nachlassvertrags bzw. mit dem darauf folgenden Widerruf des Konkurses zu Ende. Wenn die Personen, die als Sachwalter oder Konkursverwaltung amteten, sich gleichwohl mit dem Vollzug des Nachlassvertrags befassen, so tun sie dies nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern auf Grund eines privatrechtlichen Auftrags. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Verzögerung oder Verweigerung von Massregeln richten kann, die ein Organ des Betreibungs- oder Konkursverfahrens oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornimmt oder vorzunehmen hat (BGE 61 III 38), kann also das Vorgehen des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrags nicht Gegenstand einer Beschwerde sein (Entscheid des Bundesrates vom 23. Februar 1894 in Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 3 S. 78 Nr. 29;BGE 28 I 414, BGE 31 I 183f. = Sep.ausg. 5 S. 264, 8 S. 42; JAEGER, N. 5 zu Art. 295 SchKG, S. 430, und N. 7 zu Art. 317 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch, S. 75 Anm. 6).
Der Umstand, dass es die Nachlassbehörde war, die den Vollzug des streitigen Nachlassvertrags dem Konkursamt übertrug, vermag hieran entgegen der Auffassung, welche die zürcherische Aufsichtsbehörde in einem ähnlichen Falle (Bl.Z.R. 39 Nr. 77) vertreten hat, nichts zu ändern. Die Nachlassbehörde, der ein Nachlassvertrag zur Genehmigung vorgelegt wird, hat nur zu entscheiden, ob dieser zu bestätigen oder zu verwerfen sei. Sie kann ihn von sich aus weder ändern noch ergänzen (vgl. JAEGER N. 4 zu Art. 306, S. 452). Das Bezirksgericht Wil war also nur dann befugt, das Konkursamt mit dem Vollzug des streitigen Nachlassvertrags zu betrauen, wenn dieser eine entsprechende Bestimmung enthielt, d.h. wenn der Schuldner und die zustimmenden Gläubiger wünschten, dass jene Aufgabe dem Konkursamt übertragen werde. Das Bezirksgericht hat also in diesem Fall damit, dass es das Konkursamt einlud, den Nachlassvertrag zu vollziehen, in Wirklichkeit nur einen privaten Auftrag weitergeleitet. Sollte es aber das Konkursamt von sich aus im Sinne einer behördlichen Weisung mit dieser Aufgabe betraut haben, so wäre dadurch der Kreis der amtlichen Befugnisse des Konkursamtes ebenfalls nicht ausgedehnt worden, weil es mit einer solchen Weisung seine Zuständigkeit als Nachlassbehörde überschritten hätte und weil es überhaupt ausgeschlossen ist, die amtlichen Befugnisse und Pflichten des Konkursamtes durch eine richterliche oder administrative Anordnung über den gesetzlichen Rahmen hinaus zu erweitern.
Die Möglichkeit, das Vorgehen des Sachwalters oder der Konkursverwaltung beim Vollzug eines Nachlassvertrags durch Beschwerde anzufechten, lässt sich auch nicht etwa daraus ableiten, dass Art. 66 Abs. 2 des bundesrätlichen Gebührentarifs zum SchKG vom 13. April 1948 bestimmt, wenn der Sachwalter die Nachlassdividende auszahle, sei Art. 41 Abs. 1 dieses Tarifs anwendbar. Durch eine Bestimmung der von ihm auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung konnte der Bundesrat die aus dem Gesetz sich ergebenden Grenzen der Zuständigkeit des Sachwalters und der Konkursverwaltung nicht verschieben (vgl. BGE 81 III 37 Mitte).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Ent scheid wird aufgehoben und auf die Beschwerde wird nicht eingetreten.
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L'attività svolta dal commissario o dall'amministrazione del fallimento nell'esecuzione di un concordato non può formare oggetto di reclamo nel senso dell'art. 17 LEF.
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81 III 33
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Sachverhalt ab Seite 34
Le 24 mai 1951, à la réquisition de la Kredit- und Verwaltungsbank Zug, l'Office des poursuites de Lausanne a fait saisir la somme de 110 fr. par mois sur le salaire d'André Campiche, employé de la Société anonyme d'agences commerciales à Lausanne, laquelle avait pour administrateur Marcel Gloor gendre du débiteur. Gloor a fait savoir qu'il était au bénéfice d'une cession d'une partie de ce salaire, à concurrence de 150 fr. par mois, cession consentie en garantie d'un prêt de 4000 fr. qu'il avait accordé au débiteur. La créancière poursuivante ayant contesté la validité de cette cession, l'Office des poursuites a avisé les intéressés que la saisie était maintenue en qualité de saisie d'une créance litigieuse et, par décision du 14 juin 1952, il a, à la demande de la créancière poursuivante et en vertu de l'art. 131 al. 2 LP, délégué à cette dernière le pouvoir de faire valoir à ses risques et périls contre le tiers débiteur la part de la créance qui avait été saisie, laquelle correspondait alors à douze retenues mensuelles. Dans le délai imparti à cet effet, la créancière poursuivante a introduit action contre Marcel Gloor. Ce procès est encore pendant devant le tribunal saisi.
Le 26 octobre 1953, Campiche a obtenu un sursis concordataire. La créancière poursuivante a produit pour le montant total de ses prétentions. Le concordat a été homologué le 30 avril 1954 et elle a touché le dividende afférent à sa créance.
Le 30 août 1954, Campiche a demandé à l'office de dire que la saisie de salaire était tombée de plein droit à la suite de l'homologation du concordat et que la cession aux fins d'encaissement consentie à la créancière poursuivante, devenue sans objet, était révoquée.
Débouté de sa plainte successivement par les deux autorités de surveillance, Campiche a recouru au Tribunal fédéral en prenant les conclusions suivantes:
"Le recourant conclut, avec suite de frais et dépens, à ce qu'il plaise à la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal fédéral réformer l'arrêt attaqué en ce sens que: I. - La décision de l'Office des poursuites de Lausanne-Est du 17 septembre 1954 est annulée.
II. - La saisie de salaire effectuée le 24 mai 1951 au préjudice du recourant est tombée de plein droit, et est désormais éteinte et de nul effet.
III. - La consignation du salaire saisi en main de l'employeur, Société anonyme d'Agences Commerciales Lausanne, à Prilly, est levée, celui-ci étant avisé qu'il peut disposer du montant consigné selon les instructions du recourant.
IV. - La cession à l'encaissement faite à la créancière saisissante selon art. 131 al. 2 LP est devenue sans objet et est en conséquence révoquée."
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Aux termes de l'art. 312 LP, l'homologation du concordat fait tomber les saisies dont l'objet n'a pas été réalisé avant le sursis concordataire, c'est-à-dire avant l'octroi du sursis (RO 59 III 31). Le litige se ramène à la question de savoir si, à la date du 26 octobre 1953, la créance saisie était ou non réalisée.
Le fait que la recourante avait reçu mandat d'encaisser la créance litigieuse n'équivalait pas encore à une réalisation au sens de l'art. 312. En pareil cas, la créance n'est réalisée que lorsqu'elle est payée par le tiers débiteur (cf. JAEGER, art. 199 note 2). Or, au moment où, en l'espèce, le débiteur poursuivi a obtenu le sursis concordataire, le tiers débiteur n'avait encore rien payé à l'office. Aurait-il même donné suite aux sommations qu'il avait reçues de verser à l'office le montant des retenues ordonnées lors de la saisie, qu'il se fût agi là d'une simple consignation et non pas d'un payement que l'office eût pu accepter au nom et pour le compte de la créancière. Il est donc évident que l'homologation du concordat a fait tomber la saisie. En adoptant l'opinion des autorités cantonales, on arriverait à ce que l'art. 312 LP veut précisément éviter, c'est-à-dire à ce qu'un créancier reçoive plus que le dividende concordataire (RO 59 III 30 et 31). La créancière poursuivante a du reste produit dans la procédure concordataire pour le montant total de ses prétentions et elle a touché le dividende y afférent; il est dès lors naturel qu'elle ne puisse plus se prévaloir des droits qu'aurait pu, en d'autres circonstances, lui assurer la saisie.
Dispositiv
La Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est admis et la décision rendue par la Cour des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois, le 16 décembre 1954, réformée en ce sens que la saisie du 24 mai 1951 a cessé de produire effet.
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Mit der Bestätigung des Nachlassvertrages fallen die Pfändungen dahin, deren Gegenstand nicht schon vor der Bewilligung der Stundung verwertet worden ist. Die Überweisung einer gepfändeten Forderung an den betreibenden Gläubiger zur Eintreibung (Art. 131 Abs. 2 SchKG) ist einer Verwertung im Sinne von Art. 312 SchKG nicht gleichzuachten.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 33
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Sachverhalt ab Seite 34
Le 24 mai 1951, à la réquisition de la Kredit- und Verwaltungsbank Zug, l'Office des poursuites de Lausanne a fait saisir la somme de 110 fr. par mois sur le salaire d'André Campiche, employé de la Société anonyme d'agences commerciales à Lausanne, laquelle avait pour administrateur Marcel Gloor gendre du débiteur. Gloor a fait savoir qu'il était au bénéfice d'une cession d'une partie de ce salaire, à concurrence de 150 fr. par mois, cession consentie en garantie d'un prêt de 4000 fr. qu'il avait accordé au débiteur. La créancière poursuivante ayant contesté la validité de cette cession, l'Office des poursuites a avisé les intéressés que la saisie était maintenue en qualité de saisie d'une créance litigieuse et, par décision du 14 juin 1952, il a, à la demande de la créancière poursuivante et en vertu de l'art. 131 al. 2 LP, délégué à cette dernière le pouvoir de faire valoir à ses risques et périls contre le tiers débiteur la part de la créance qui avait été saisie, laquelle correspondait alors à douze retenues mensuelles. Dans le délai imparti à cet effet, la créancière poursuivante a introduit action contre Marcel Gloor. Ce procès est encore pendant devant le tribunal saisi.
Le 26 octobre 1953, Campiche a obtenu un sursis concordataire. La créancière poursuivante a produit pour le montant total de ses prétentions. Le concordat a été homologué le 30 avril 1954 et elle a touché le dividende afférent à sa créance.
Le 30 août 1954, Campiche a demandé à l'office de dire que la saisie de salaire était tombée de plein droit à la suite de l'homologation du concordat et que la cession aux fins d'encaissement consentie à la créancière poursuivante, devenue sans objet, était révoquée.
Débouté de sa plainte successivement par les deux autorités de surveillance, Campiche a recouru au Tribunal fédéral en prenant les conclusions suivantes:
"Le recourant conclut, avec suite de frais et dépens, à ce qu'il plaise à la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal fédéral réformer l'arrêt attaqué en ce sens que: I. - La décision de l'Office des poursuites de Lausanne-Est du 17 septembre 1954 est annulée.
II. - La saisie de salaire effectuée le 24 mai 1951 au préjudice du recourant est tombée de plein droit, et est désormais éteinte et de nul effet.
III. - La consignation du salaire saisi en main de l'employeur, Société anonyme d'Agences Commerciales Lausanne, à Prilly, est levée, celui-ci étant avisé qu'il peut disposer du montant consigné selon les instructions du recourant.
IV. - La cession à l'encaissement faite à la créancière saisissante selon art. 131 al. 2 LP est devenue sans objet et est en conséquence révoquée."
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Aux termes de l'art. 312 LP, l'homologation du concordat fait tomber les saisies dont l'objet n'a pas été réalisé avant le sursis concordataire, c'est-à-dire avant l'octroi du sursis (RO 59 III 31). Le litige se ramène à la question de savoir si, à la date du 26 octobre 1953, la créance saisie était ou non réalisée.
Le fait que la recourante avait reçu mandat d'encaisser la créance litigieuse n'équivalait pas encore à une réalisation au sens de l'art. 312. En pareil cas, la créance n'est réalisée que lorsqu'elle est payée par le tiers débiteur (cf. JAEGER, art. 199 note 2). Or, au moment où, en l'espèce, le débiteur poursuivi a obtenu le sursis concordataire, le tiers débiteur n'avait encore rien payé à l'office. Aurait-il même donné suite aux sommations qu'il avait reçues de verser à l'office le montant des retenues ordonnées lors de la saisie, qu'il se fût agi là d'une simple consignation et non pas d'un payement que l'office eût pu accepter au nom et pour le compte de la créancière. Il est donc évident que l'homologation du concordat a fait tomber la saisie. En adoptant l'opinion des autorités cantonales, on arriverait à ce que l'art. 312 LP veut précisément éviter, c'est-à-dire à ce qu'un créancier reçoive plus que le dividende concordataire (RO 59 III 30 et 31). La créancière poursuivante a du reste produit dans la procédure concordataire pour le montant total de ses prétentions et elle a touché le dividende y afférent; il est dès lors naturel qu'elle ne puisse plus se prévaloir des droits qu'aurait pu, en d'autres circonstances, lui assurer la saisie.
Dispositiv
La Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est admis et la décision rendue par la Cour des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois, le 16 décembre 1954, réformée en ce sens que la saisie du 24 mai 1951 a cessé de produire effet.
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L'homologation du concordat fait tomber les saisies dont l'objet n'a pas été réalisé avant l'octroi du sursis. Le fait de donner mandat au créancier poursuivant d'encaisser la créance saisie n'est pas assimilable à une réalisation de cette créance au sens de l'art. 312 LP.
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81 III 33
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Sachverhalt ab Seite 34
Le 24 mai 1951, à la réquisition de la Kredit- und Verwaltungsbank Zug, l'Office des poursuites de Lausanne a fait saisir la somme de 110 fr. par mois sur le salaire d'André Campiche, employé de la Société anonyme d'agences commerciales à Lausanne, laquelle avait pour administrateur Marcel Gloor gendre du débiteur. Gloor a fait savoir qu'il était au bénéfice d'une cession d'une partie de ce salaire, à concurrence de 150 fr. par mois, cession consentie en garantie d'un prêt de 4000 fr. qu'il avait accordé au débiteur. La créancière poursuivante ayant contesté la validité de cette cession, l'Office des poursuites a avisé les intéressés que la saisie était maintenue en qualité de saisie d'une créance litigieuse et, par décision du 14 juin 1952, il a, à la demande de la créancière poursuivante et en vertu de l'art. 131 al. 2 LP, délégué à cette dernière le pouvoir de faire valoir à ses risques et périls contre le tiers débiteur la part de la créance qui avait été saisie, laquelle correspondait alors à douze retenues mensuelles. Dans le délai imparti à cet effet, la créancière poursuivante a introduit action contre Marcel Gloor. Ce procès est encore pendant devant le tribunal saisi.
Le 26 octobre 1953, Campiche a obtenu un sursis concordataire. La créancière poursuivante a produit pour le montant total de ses prétentions. Le concordat a été homologué le 30 avril 1954 et elle a touché le dividende afférent à sa créance.
Le 30 août 1954, Campiche a demandé à l'office de dire que la saisie de salaire était tombée de plein droit à la suite de l'homologation du concordat et que la cession aux fins d'encaissement consentie à la créancière poursuivante, devenue sans objet, était révoquée.
Débouté de sa plainte successivement par les deux autorités de surveillance, Campiche a recouru au Tribunal fédéral en prenant les conclusions suivantes:
"Le recourant conclut, avec suite de frais et dépens, à ce qu'il plaise à la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal fédéral réformer l'arrêt attaqué en ce sens que: I. - La décision de l'Office des poursuites de Lausanne-Est du 17 septembre 1954 est annulée.
II. - La saisie de salaire effectuée le 24 mai 1951 au préjudice du recourant est tombée de plein droit, et est désormais éteinte et de nul effet.
III. - La consignation du salaire saisi en main de l'employeur, Société anonyme d'Agences Commerciales Lausanne, à Prilly, est levée, celui-ci étant avisé qu'il peut disposer du montant consigné selon les instructions du recourant.
IV. - La cession à l'encaissement faite à la créancière saisissante selon art. 131 al. 2 LP est devenue sans objet et est en conséquence révoquée."
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Aux termes de l'art. 312 LP, l'homologation du concordat fait tomber les saisies dont l'objet n'a pas été réalisé avant le sursis concordataire, c'est-à-dire avant l'octroi du sursis (RO 59 III 31). Le litige se ramène à la question de savoir si, à la date du 26 octobre 1953, la créance saisie était ou non réalisée.
Le fait que la recourante avait reçu mandat d'encaisser la créance litigieuse n'équivalait pas encore à une réalisation au sens de l'art. 312. En pareil cas, la créance n'est réalisée que lorsqu'elle est payée par le tiers débiteur (cf. JAEGER, art. 199 note 2). Or, au moment où, en l'espèce, le débiteur poursuivi a obtenu le sursis concordataire, le tiers débiteur n'avait encore rien payé à l'office. Aurait-il même donné suite aux sommations qu'il avait reçues de verser à l'office le montant des retenues ordonnées lors de la saisie, qu'il se fût agi là d'une simple consignation et non pas d'un payement que l'office eût pu accepter au nom et pour le compte de la créancière. Il est donc évident que l'homologation du concordat a fait tomber la saisie. En adoptant l'opinion des autorités cantonales, on arriverait à ce que l'art. 312 LP veut précisément éviter, c'est-à-dire à ce qu'un créancier reçoive plus que le dividende concordataire (RO 59 III 30 et 31). La créancière poursuivante a du reste produit dans la procédure concordataire pour le montant total de ses prétentions et elle a touché le dividende y afférent; il est dès lors naturel qu'elle ne puisse plus se prévaloir des droits qu'aurait pu, en d'autres circonstances, lui assurer la saisie.
Dispositiv
La Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est admis et la décision rendue par la Cour des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois, le 16 décembre 1954, réformée en ce sens que la saisie du 24 mai 1951 a cessé de produire effet.
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Con l'omologazione del concordato i pignoramenti il cui oggetto non è stato realizzato prima della concessione della moratoria divengono caduchi. Il mandato conferito al creditore procedente d'incassare il credito pignorato (art. 131 cp. 2 LEF) non può essere parificato a una realizzazione di questo credito nel senso dell'art. 312 LEF.
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81 III 36
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Sachverhalt ab Seite 36
A.- Johann Schüpbach stellte bei der Arrestbehörde (Gerichtspräsident) von Büren ein Arrestgesuch gegen Werner Krieg. Die Behörde forderte einen Kostenvorschuss von Fr. 30.-. Der Gesuchsteller fand diesen Betrag übersetzt und führte bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs Beschwerde mit Hinweis auf den Gebührentarif zum SchKG.
B.- Die kantonale Aufsichtsbehörde trat am 5. Januar 1955 wegen fehlender Zuständigkeit nicht auf die Beschwerde ein.
C.- Mit vorliegendem Rekurs hält der Gesuchsteller an der Beschwerde fest.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Gegen den Arrestbefehl findet weder Berufung noch Beschwerde statt (Art. 279 Abs. 1 SchKG). Die Arrestbehörden unterstehen somit nicht den Aufsichtsbehörden für Schuldbetreibung und Konkurs. Übrigens sind ihre Aufgaben in den meisten Kantonen einem Richter übertragen. Somit kommt aber eine Beschwerdeführung bei den Aufsichtsbehörden auch nicht in Frage wegen der Art der Anwendung des Gebührentarifs zum SchKG durch die Arrestbehörden. Nichts Abweichendes folgt aus Art. 16 des Gebührentarifs, wonach die Aufsichtsbehörden von Amtes wegen über die richtige Anwendung des Tarifs wachen. Das versteht sich nur im Bereich der ihnen nach dem Gesetze zustehenden Aufsichtsgewalt, also nur hinsichtlich der Kostenverfügungen der ihnen unterstellten Organe des Betreibungs-, Konkurs- und Nachlassverfahrens. Diese Grenzen der Zuständigkeit der Aufsichtsbehörden sind auch in Tariffragen zu beachten (vgl. BLUMENSTEIN'Handbuch S. 133; JAEGER, N 4 zu Art. 17 SchKG). Daran konnte und wollte die erwahnte Vorschrift des geltenden Tarifs als einer vom Bundesrat auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung nichts ändern.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Über die richtige Anwendung des Gebührentarifs durch eine Arrestbehörde haben die Aufsichtsbehörden nicht zu entscheiden. Art. 16 des Gebührentarifs, Art. 17 ff. und 279 SchKG.
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81 III 36
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Sachverhalt ab Seite 36
A.- Johann Schüpbach stellte bei der Arrestbehörde (Gerichtspräsident) von Büren ein Arrestgesuch gegen Werner Krieg. Die Behörde forderte einen Kostenvorschuss von Fr. 30.-. Der Gesuchsteller fand diesen Betrag übersetzt und führte bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs Beschwerde mit Hinweis auf den Gebührentarif zum SchKG.
B.- Die kantonale Aufsichtsbehörde trat am 5. Januar 1955 wegen fehlender Zuständigkeit nicht auf die Beschwerde ein.
C.- Mit vorliegendem Rekurs hält der Gesuchsteller an der Beschwerde fest.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Gegen den Arrestbefehl findet weder Berufung noch Beschwerde statt (Art. 279 Abs. 1 SchKG). Die Arrestbehörden unterstehen somit nicht den Aufsichtsbehörden für Schuldbetreibung und Konkurs. Übrigens sind ihre Aufgaben in den meisten Kantonen einem Richter übertragen. Somit kommt aber eine Beschwerdeführung bei den Aufsichtsbehörden auch nicht in Frage wegen der Art der Anwendung des Gebührentarifs zum SchKG durch die Arrestbehörden. Nichts Abweichendes folgt aus Art. 16 des Gebührentarifs, wonach die Aufsichtsbehörden von Amtes wegen über die richtige Anwendung des Tarifs wachen. Das versteht sich nur im Bereich der ihnen nach dem Gesetze zustehenden Aufsichtsgewalt, also nur hinsichtlich der Kostenverfügungen der ihnen unterstellten Organe des Betreibungs-, Konkurs- und Nachlassverfahrens. Diese Grenzen der Zuständigkeit der Aufsichtsbehörden sind auch in Tariffragen zu beachten (vgl. BLUMENSTEIN'Handbuch S. 133; JAEGER, N 4 zu Art. 17 SchKG). Daran konnte und wollte die erwahnte Vorschrift des geltenden Tarifs als einer vom Bundesrat auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung nichts ändern.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Les autorités de poursuite n'ont pas à rechercher si les autorités de séquestre ont bien ou mal appliqué le Tarif des frais. Art. 16 du Tarif, art. 17 et suiv. et 279 LP.
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81 III 36
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Sachverhalt ab Seite 36
A.- Johann Schüpbach stellte bei der Arrestbehörde (Gerichtspräsident) von Büren ein Arrestgesuch gegen Werner Krieg. Die Behörde forderte einen Kostenvorschuss von Fr. 30.-. Der Gesuchsteller fand diesen Betrag übersetzt und führte bei der kantonalen Aufsichtsbehörde für Schuldbetreibung und Konkurs Beschwerde mit Hinweis auf den Gebührentarif zum SchKG.
B.- Die kantonale Aufsichtsbehörde trat am 5. Januar 1955 wegen fehlender Zuständigkeit nicht auf die Beschwerde ein.
C.- Mit vorliegendem Rekurs hält der Gesuchsteller an der Beschwerde fest.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Gegen den Arrestbefehl findet weder Berufung noch Beschwerde statt (Art. 279 Abs. 1 SchKG). Die Arrestbehörden unterstehen somit nicht den Aufsichtsbehörden für Schuldbetreibung und Konkurs. Übrigens sind ihre Aufgaben in den meisten Kantonen einem Richter übertragen. Somit kommt aber eine Beschwerdeführung bei den Aufsichtsbehörden auch nicht in Frage wegen der Art der Anwendung des Gebührentarifs zum SchKG durch die Arrestbehörden. Nichts Abweichendes folgt aus Art. 16 des Gebührentarifs, wonach die Aufsichtsbehörden von Amtes wegen über die richtige Anwendung des Tarifs wachen. Das versteht sich nur im Bereich der ihnen nach dem Gesetze zustehenden Aufsichtsgewalt, also nur hinsichtlich der Kostenverfügungen der ihnen unterstellten Organe des Betreibungs-, Konkurs- und Nachlassverfahrens. Diese Grenzen der Zuständigkeit der Aufsichtsbehörden sind auch in Tariffragen zu beachten (vgl. BLUMENSTEIN'Handbuch S. 133; JAEGER, N 4 zu Art. 17 SchKG). Daran konnte und wollte die erwahnte Vorschrift des geltenden Tarifs als einer vom Bundesrat auf Grund von Art. 16 SchKG erlassenen Verordnung nichts ändern.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Le autorità di vigilanza non devono pronunciarsi sull'applicazione corretta della tariffa delle spese da parte delle autorità di sequestro. Art. 16 della tariffa, art. 17 sgg. e 279 LEF.
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81 III 37
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Sachverhalt ab Seite 38
A.- Bei Eheschluss im Jahre 1926 hatte die Klägerin als Frauengut Wertschriften und Barschaft im Betrage von Fr. 71'160.-- sowie Mobiliar im damaligen Anschaffungswerte von Fr. 30'000.-- in die Ehe gebracht. Im heutigen Konkurse des Ehemannes meldete die Klägerin eine Frauengutsersatzforderung von Fr. 71'160.-- an und vindizierte das von ihr eingebrachte Mobiliar, dessen heutiger Wert unbestrittenermassen noch Fr. 8000.-- beträgt. Die Konkursverwaltung anerkannte die Ersatzforderung von Fr. 71'160.-- und berechnete das Frauengutsprivileg wie folgt:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, Anschaffungswert: 30'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 101'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 50'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 30'000.--
In IV. Klasse privilegiert Differenz: Fr. 20'580.--
(Rest in V. Klasse: 50'580.--)
Gegen diese Kollokation erhob die Klägerin die vorliegende Klage mit dem Begehren, bei der Berechnung des privilegierten Teils der Frauengutsforderung sei das zurückgenommene Mobiliar mit seinem heutigen Wert einzustellen und demgemäss seien von der Ersatzforderung Fr. 31'580.-- als privilegiert zu erklären gemäss folgender Rechnung:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, heutiger Wert: 8'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 79'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 39'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 8'000.--
In IV. Klasse privilegiert: Fr. 31'580.--
(Rest in V. Klasse: Fr. 39'580.--)
Das Bezirksgericht Zürich wies die Klage ab unter Hinweis auf den in BGE 52 II 423 ausgesprochenen Grundsatz, dass bei Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung die in natura zurückgenommenen Gegenstände regelmässig zu dem Wert einzustellen seien, die sie zur Zeit der Einbringung in die Ehe gehabt hätten.
Auf Berufung der Klägerin hat dagegen das Obergericht die Klage gutgeheissen und die Kollokation gemäss vorstehender Berechnung angeordnet. Es führt aus, das Bundesgericht in dem zitierten Präjudiz und ihm folgend das Bezirksgericht begründeten ihre Auffassung, die zurückgenommenen Gegenstände seien nicht mit ihrem heutigen Werte, sondern mit demjenigen zur Zeit ihrer Einbringung einzustellen, mit der Argumentation, wenn man auf den heutigen, verminderten Wert abstellte, so würde das tatsächlich dazu führen, dass die Konkursmasse des Ehemannes, also dieser selber, für die Wertverminderung infolge Abnützung aufzukommen hätte. Es verhalte sich aber, sagt das Obergericht, doch gerade umgekehrt: setze man für das abgenützte Mobiliar den seinerzeitigen Anschaffungswert ein, so laufe das darauf hinaus, dass der Ehemann für diesen höheren Wert verantwortlich erklärt werde, m.a.W. Mobiliar im ursprünglichen Werte herauszugeben habe, während er doch nach Gesetz für die normale Entwertung nicht aufzukommen habe. Mit Recht habe daher das Zürcher Obergericht in einem Entscheide (BlZR 31 [1932] Nr. 20), leider ohne Auseinandersetzung mit dem zit. bundesgerichtlichen, der Berechnungsweise der Klägerin den Vorzug gegeben.
B.- Mit der vorliegenden Berufung beantragt die Konkursmasse Abweisung der Klage. Die Klägerin trägt auf Bestätigung des angefochtenen Urteils an.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. (Streitwert).
2. Zu entscheiden ist einzig die grundsätzliche Frage, ob bei Berechnung des Frauengutsprivilegs die in natura zurückgenommenen Gegenstände mit dem Wert, den sie bei der Einbringung hatten, oder mit ihrem Wert zur Zeit der Rücknahme einzustellen seien. Das Bezirksgericht hat - im Anschluss an das Bundesgericht in dem zitierten Entscheide von 1926 - das erstere, das Obergericht das letztere angenommen, beide mit der Erwägung, mit der gegenteiligen Berechnungsart werde der Ehemann für die im Laufe der Ehe eingetretene Wertverminderung der Möbel verantwortlich gemacht, was dem Gesetz widerspreche.
Diese Erwägungen gehen von der an sich richtigen Überlegung aus, dass die Bewertung der zurückgenommenen Gegenstände nicht darauf hinauslaufen dürfe, dem Ehemann eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung für Wertverminderung infolge ordnungsgemässer Abnützung aufzubürden. Dabei wird aber auf beiden Seiten übersehen, dass weder die eine noch die andere Berechnungsart zu diesem Ergebnis führt. Sowohl nach der Rechnung des Bezirks- als nach der des Obergerichts bleibt der Gesamtbetrag der Frauengutsersatzforderung, die teilweise Anspruch auf das Privileg hat, unverändert, nämlich immer nur Fr. 71'160.-- und nicht mehr. Verschieden ist je nach dem als massgebend angenommenen Wert der zurückgenommenen Gegenstände einzig der Betrag des privilegierten Teils dieser Ersatzforderung. Das ist aber lediglich eine Frage der Aufteilung der vorhandenen Konkursaktiven unter einerseits die Ehefrau, anderseits die übrigen Gläubiger; die Gesamtschuld des Ehemannes und, falls die Aktiven nicht zur Deckung aller Konkursforderungen reichen, der Gesamtbetrag der auszustellenden Verlustscheine wird dadurch nicht berührt. Was nach der einen Berechnungsart die Ehefrau weniger an Dividende und mehr an Verlustscheinen erhält, das erhalten die übrigen Gläubiger mehr bzw. weniger. Der Totalbetrag der Schuld, der Auszahlung und der Verlustscheine bleibt gleich. Daher kann keine der beiden Berechnungsarten damit gerechtfertigt werden, dass die andere eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung des Ehemannes voraussetze. Ein anderer Grund für die Einsetzung des Einbringungswertes der zurückgenommenen Gegenstände aber wird in dem angezogenen Urteil des Bundesgerichts nicht angeführt; ein solcher lässt sich auch nicht finden, und es kann an jener Auffassung nicht festgehalten werden.
Die von der Vorinstanz angewandte Berechnungsart dagegen ergibt sich als natürliche Folge aus dem Begriff des "eingebrachten Frauengutes" und dem bezüglichen System des Gesetzes.
Unter der "Zurücknahme ihres Eigentums" (Art. 211 ZGB) bzw. "Zurücknahme der noch vorhandenen Vermögenswerte" (Art. 219 SchKG) versteht das Gesetz die Vindikation der von der Frau eingebrachten Sachen, die während der Ehe sachenrechtlich ihr Eigentum geblieben sind. Für die in das Eigentum des Mannes übergangenen Frauengutssachen gibt es nur eine Ersatzforderung (Art. 201 Abs. 3 ZGB), keine "Zurücknahme".
Das in natura noch vorhandene Frauengut nun besteht nicht in einem unveränderlichen Wert, sondern in den Gegenständen selbst. Demgemäss hat die Frau auch nicht Anspruch auf Vergütung eines allfälligen - nicht vom Ehemann verschuldeten - Minderwertes oder die Pflicht zur Vergütung eines - nicht vom Ehemann herbeigeführten - Mehrwertes, sondern schlechthin auf Herausgabe der Sachen. Da nun aber nach Vorschrift der genannten Bestimmungen für die Bemessung des privilegierten Teils der Frauengutsersatzforderung das Verhältnis des zurückgenommenen Eigentums zum Gesamtanspruch aus dem ganzen ehemaligen Einbringen, Vindikation plus Ersatzforderung, massgebend ist, man aber nicht Franken und Möbel addieren und subtrahieren kann, muss zu diesem Zwecke das zurückgenommene Eigentum in einem Werte ausgedrückt werden. Dies aber kann nur der gegenwärtige Wert der Sachen sein. Wie die Vorinstanz zutreffend bemerkt, folgt dies schon aus dem der Vorschrift zu Grunde liegenden Prinzip der Deckung: die Ehefrau geniesst für die Hälfte ihrer Ersatzforderung das Konkursprivileg nur insoweit nicht, als sie durch die Zurücknahme ihres noch vorhandenen Eigentums (und allfällige Sicherheiten) dafür gedeckt ist; gedeckt wird sie aber nur mit den Werten, die sie wirklich erhält, also mit dem gegenwärtigen - in casu durch den Gebrauch auf Fr. 8000.-- verminderten - Werte des Mobiliars.
Das zurückgenommene Mobiliar nur gerade für diese Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung mit dem früheren Einbringungswerte von in casu Fr. 30'000.-- einzusetzen, entbehrt jedes Sinnes, da doch ausser Zweifel steht, dass dieser Wert für die Frauengutsforderung selbst ohne jede Bedeutung ist, weil die Frau einfach die Sachen selbst zurücknimmt, aber weder für eine Wertverminderung vom Manne Vergütung zu fordern noch für eine Wertvermehrung ihm solche zu leisten hat.
Dies hat freilich zur Folge, dass die Höhe des privilegierten Teils einer neben dem Rücknahmeanspruch bestehenden Ersatzforderung durch den Umfang der allfälligen Entwertung der zurückgenommenen Gegenstände beeinflusst wird: je stärker die Entwertung, desto höher das Privileg. Dieser Zusammenhang erweckt bei oberflächlicher Betrachtung den Anschein, als ob im Ergebnis - zwar nicht der Ehemann, aber - die Konkursmasse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung belastet werde. In casu beträgt die Differenz zwischen dem vom Bezirksgericht und dem vom Obergericht angenommenen Privileg in der Tat (Fr. 31'580.-- ./. Fr. 20'580.-- =) Fr. 11'000.--, also die Hälfte der (Fr. 30'000.-- ./. Fr. 8000.-- =) Fr. 22'000.-- betragenden Entwertung. Dass damit aber nicht die Masse mit einer Ersatzforderung belastet wird, erhellt aus der Vergleichung des von der Vorinstanz errechneten Privilegs (Fr. 31'580.--) mit demjenigen, das sich bei Annahme einer Ersatzforderung für die Wertverminderung (Fr. 22'000.--) ergäbe; in diesem Falle betrüge das Privileg Fr. 42'580.--, also Fr. 11'000.-- mehr als nach der Rechnung der Vorinstanz. Dieser Mehrbetrag von Fr. 11'000.-- würde eine Belastung der Masse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung darstellen; er kann also unmöglich in dem um eben diesen Betrag geringern Betrage von Fr. 31'580.-- enthalten sein; noch viel weniger freilich - entgegen der Meinung der Vorinstanz - in dem nach der Methode des bundesgerichtlichen Präjudizes sich ergebenden privilegierten Betrage von Fr. 20'580.--. Nach der letztern Berechnungsart wird vielmehr die Ehefrau mit dem von ihr zu tragenden Minderwert doppelt belastet, indem man ihr einerseits - gemäss Gesetz - eine Ersatzforderung dafür versagt und anderseits trotzdem die zurückgenommenen, auf Fr. 8000.-- entwerteten Möbel mit Fr. 30'000.-- anrechnet, mit der Wirkung, dass sich ihr Privileg um die Hälfte der Entwertung = Fr. 11'000.-- reduziert. In Wahrheit verhält es sich mithin so, dass gerade deshalb, weil die Ehefrau keine Ersatzforderung für den Minderwert hat, die zurückgenommenen Gegenstände ihr nur mit dem Wert zur Zeit des Konkurses angerechnet werden dürfen.
Dass die vom Bundesgericht seinerzeit angenommene Berechnungsart nicht stimmen kann, erhellt übrigens auch aus der Vergleichung des daraus folgenden Ergebnisses mit dem Privileg, das sich ergäbe, wenn der Ehemann das Mobiliar kurz vor Konkursausbruch veräussert hätte. Da die Ersatzforderung dem Wert zur Zeit der Veräusserung entspricht (vgl. EGGER N. 3 und GMÜR N. 12 zu Art. 210 ZGB), ergäbe sich (beidemal bei voller Deckung in IV. Kl. und Ausfall der V) folgende Rechnung:
Ersatzforderung für Kapitaleinbringen: Fr. 71'160.--
Ersatzforderung für veräussertes Mobiliar: 8'000.--
zusammen = Fr. 79'160.--
Privilegierte Hälfte = Totalempfang: 39'580.--
Nach der erstinstanzlichen Berechnungsweise dagegen
erhielte die Frau das Privileg von: Fr. 20'580.--
und das Mobiliar im Werte von: 8'000.--
somit zusammen nur Fr. 28'580.--,
also effektiv Fr. 11'000.-- weniger, als wenn die Möbel kurz vorher veräussert worden wären. Da nun kein Grund ersichtlich ist, weshalb die Ehefrau bei Veräusserung der Möbel unmittelbar vor Konkurs besser fahren sollte als bei deren Rücknahme in natura, folgt auch daraus, dass sie nach der früheren Berechnungsweise Fr. 11'000.-- zu wenig erhält, also diejenige der Vorinstanz richtig ist.
Bei Werterhöhung des noch vorhandenen Einbringens ist aus der analogen Überlegung, dass die Ehefrau den ohne Zutun des Mannes eingetretenen Mehrwert für sich behalten darf, bei der Berechnung des Privilegs nicht der ursprüngliche geringere Wert der zurückgenommenen Sachen, sondern der zur Zeit des Konkurses gegebene höhere Wert einzustellen; andernfalls würde die Frau doppelt begünstigt: man überliesse ihr - mit Recht - den Mehrwert und würde - zu Unrecht - erst noch ihr Privileg um die Hälfte dieses Mehrwertes erhöhen.
Die Regelung des Frauengutsprivilegs kann allerdings für den gleichen Gesamtwert des Einbringens zu sehr verschiedenen Resultaten führen, je nach dem Verhältnis, in dem sich dieses aus Barkapital und dergl. (Art. 201 Abs. 3) und aus Sachwerten zusammensetzte. Die Ordnung des Art. 211 will den unterschiedlichen Risiken Rechnung tragen, denen einerseits eine Ersatzforderung, anderseits Sachwerte im Laufe der Ehe ausgesetzt sind. Während erstere zwar nominell auf einen festen Geldbetrag lautet, ihre Bonität aber von der Zahlungsfähigkeit des Mannes abhängt, sind die Sachwerte im allgemeinen der Entwertung durch den Gebrauch unterworfen, einzelne Arten aber auch der Aufwertung fähig. Zwischen diesen Gegebenheiten und Möglichkeiten will das System der Anrechnung gemäss Art. 211 einen gewissen Ausgleich herbeiführen.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Die Berufung wird abgewiesen und das Urteil des Obergerichtes des Kantons Zürich, II. Zivilkammer, vom 16. November 1954 bestätigt.
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Frauengutsprivileg gemäss Art. 211 ZGB /219 IV. Kl. SchKG. Bei Berechnung des privilegierten Teils der Ersatzforderung ist das von der Ehefrau in natura zurückgenommene Eigentum nicht mit seinem Wert zur Zeit der Einbringung, sondern mit demjenigen zur Zeit der Rücknahme einzustellen.
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-37%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 37
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Sachverhalt ab Seite 38
A.- Bei Eheschluss im Jahre 1926 hatte die Klägerin als Frauengut Wertschriften und Barschaft im Betrage von Fr. 71'160.-- sowie Mobiliar im damaligen Anschaffungswerte von Fr. 30'000.-- in die Ehe gebracht. Im heutigen Konkurse des Ehemannes meldete die Klägerin eine Frauengutsersatzforderung von Fr. 71'160.-- an und vindizierte das von ihr eingebrachte Mobiliar, dessen heutiger Wert unbestrittenermassen noch Fr. 8000.-- beträgt. Die Konkursverwaltung anerkannte die Ersatzforderung von Fr. 71'160.-- und berechnete das Frauengutsprivileg wie folgt:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, Anschaffungswert: 30'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 101'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 50'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 30'000.--
In IV. Klasse privilegiert Differenz: Fr. 20'580.--
(Rest in V. Klasse: 50'580.--)
Gegen diese Kollokation erhob die Klägerin die vorliegende Klage mit dem Begehren, bei der Berechnung des privilegierten Teils der Frauengutsforderung sei das zurückgenommene Mobiliar mit seinem heutigen Wert einzustellen und demgemäss seien von der Ersatzforderung Fr. 31'580.-- als privilegiert zu erklären gemäss folgender Rechnung:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, heutiger Wert: 8'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 79'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 39'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 8'000.--
In IV. Klasse privilegiert: Fr. 31'580.--
(Rest in V. Klasse: Fr. 39'580.--)
Das Bezirksgericht Zürich wies die Klage ab unter Hinweis auf den in BGE 52 II 423 ausgesprochenen Grundsatz, dass bei Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung die in natura zurückgenommenen Gegenstände regelmässig zu dem Wert einzustellen seien, die sie zur Zeit der Einbringung in die Ehe gehabt hätten.
Auf Berufung der Klägerin hat dagegen das Obergericht die Klage gutgeheissen und die Kollokation gemäss vorstehender Berechnung angeordnet. Es führt aus, das Bundesgericht in dem zitierten Präjudiz und ihm folgend das Bezirksgericht begründeten ihre Auffassung, die zurückgenommenen Gegenstände seien nicht mit ihrem heutigen Werte, sondern mit demjenigen zur Zeit ihrer Einbringung einzustellen, mit der Argumentation, wenn man auf den heutigen, verminderten Wert abstellte, so würde das tatsächlich dazu führen, dass die Konkursmasse des Ehemannes, also dieser selber, für die Wertverminderung infolge Abnützung aufzukommen hätte. Es verhalte sich aber, sagt das Obergericht, doch gerade umgekehrt: setze man für das abgenützte Mobiliar den seinerzeitigen Anschaffungswert ein, so laufe das darauf hinaus, dass der Ehemann für diesen höheren Wert verantwortlich erklärt werde, m.a.W. Mobiliar im ursprünglichen Werte herauszugeben habe, während er doch nach Gesetz für die normale Entwertung nicht aufzukommen habe. Mit Recht habe daher das Zürcher Obergericht in einem Entscheide (BlZR 31 [1932] Nr. 20), leider ohne Auseinandersetzung mit dem zit. bundesgerichtlichen, der Berechnungsweise der Klägerin den Vorzug gegeben.
B.- Mit der vorliegenden Berufung beantragt die Konkursmasse Abweisung der Klage. Die Klägerin trägt auf Bestätigung des angefochtenen Urteils an.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. (Streitwert).
2. Zu entscheiden ist einzig die grundsätzliche Frage, ob bei Berechnung des Frauengutsprivilegs die in natura zurückgenommenen Gegenstände mit dem Wert, den sie bei der Einbringung hatten, oder mit ihrem Wert zur Zeit der Rücknahme einzustellen seien. Das Bezirksgericht hat - im Anschluss an das Bundesgericht in dem zitierten Entscheide von 1926 - das erstere, das Obergericht das letztere angenommen, beide mit der Erwägung, mit der gegenteiligen Berechnungsart werde der Ehemann für die im Laufe der Ehe eingetretene Wertverminderung der Möbel verantwortlich gemacht, was dem Gesetz widerspreche.
Diese Erwägungen gehen von der an sich richtigen Überlegung aus, dass die Bewertung der zurückgenommenen Gegenstände nicht darauf hinauslaufen dürfe, dem Ehemann eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung für Wertverminderung infolge ordnungsgemässer Abnützung aufzubürden. Dabei wird aber auf beiden Seiten übersehen, dass weder die eine noch die andere Berechnungsart zu diesem Ergebnis führt. Sowohl nach der Rechnung des Bezirks- als nach der des Obergerichts bleibt der Gesamtbetrag der Frauengutsersatzforderung, die teilweise Anspruch auf das Privileg hat, unverändert, nämlich immer nur Fr. 71'160.-- und nicht mehr. Verschieden ist je nach dem als massgebend angenommenen Wert der zurückgenommenen Gegenstände einzig der Betrag des privilegierten Teils dieser Ersatzforderung. Das ist aber lediglich eine Frage der Aufteilung der vorhandenen Konkursaktiven unter einerseits die Ehefrau, anderseits die übrigen Gläubiger; die Gesamtschuld des Ehemannes und, falls die Aktiven nicht zur Deckung aller Konkursforderungen reichen, der Gesamtbetrag der auszustellenden Verlustscheine wird dadurch nicht berührt. Was nach der einen Berechnungsart die Ehefrau weniger an Dividende und mehr an Verlustscheinen erhält, das erhalten die übrigen Gläubiger mehr bzw. weniger. Der Totalbetrag der Schuld, der Auszahlung und der Verlustscheine bleibt gleich. Daher kann keine der beiden Berechnungsarten damit gerechtfertigt werden, dass die andere eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung des Ehemannes voraussetze. Ein anderer Grund für die Einsetzung des Einbringungswertes der zurückgenommenen Gegenstände aber wird in dem angezogenen Urteil des Bundesgerichts nicht angeführt; ein solcher lässt sich auch nicht finden, und es kann an jener Auffassung nicht festgehalten werden.
Die von der Vorinstanz angewandte Berechnungsart dagegen ergibt sich als natürliche Folge aus dem Begriff des "eingebrachten Frauengutes" und dem bezüglichen System des Gesetzes.
Unter der "Zurücknahme ihres Eigentums" (Art. 211 ZGB) bzw. "Zurücknahme der noch vorhandenen Vermögenswerte" (Art. 219 SchKG) versteht das Gesetz die Vindikation der von der Frau eingebrachten Sachen, die während der Ehe sachenrechtlich ihr Eigentum geblieben sind. Für die in das Eigentum des Mannes übergangenen Frauengutssachen gibt es nur eine Ersatzforderung (Art. 201 Abs. 3 ZGB), keine "Zurücknahme".
Das in natura noch vorhandene Frauengut nun besteht nicht in einem unveränderlichen Wert, sondern in den Gegenständen selbst. Demgemäss hat die Frau auch nicht Anspruch auf Vergütung eines allfälligen - nicht vom Ehemann verschuldeten - Minderwertes oder die Pflicht zur Vergütung eines - nicht vom Ehemann herbeigeführten - Mehrwertes, sondern schlechthin auf Herausgabe der Sachen. Da nun aber nach Vorschrift der genannten Bestimmungen für die Bemessung des privilegierten Teils der Frauengutsersatzforderung das Verhältnis des zurückgenommenen Eigentums zum Gesamtanspruch aus dem ganzen ehemaligen Einbringen, Vindikation plus Ersatzforderung, massgebend ist, man aber nicht Franken und Möbel addieren und subtrahieren kann, muss zu diesem Zwecke das zurückgenommene Eigentum in einem Werte ausgedrückt werden. Dies aber kann nur der gegenwärtige Wert der Sachen sein. Wie die Vorinstanz zutreffend bemerkt, folgt dies schon aus dem der Vorschrift zu Grunde liegenden Prinzip der Deckung: die Ehefrau geniesst für die Hälfte ihrer Ersatzforderung das Konkursprivileg nur insoweit nicht, als sie durch die Zurücknahme ihres noch vorhandenen Eigentums (und allfällige Sicherheiten) dafür gedeckt ist; gedeckt wird sie aber nur mit den Werten, die sie wirklich erhält, also mit dem gegenwärtigen - in casu durch den Gebrauch auf Fr. 8000.-- verminderten - Werte des Mobiliars.
Das zurückgenommene Mobiliar nur gerade für diese Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung mit dem früheren Einbringungswerte von in casu Fr. 30'000.-- einzusetzen, entbehrt jedes Sinnes, da doch ausser Zweifel steht, dass dieser Wert für die Frauengutsforderung selbst ohne jede Bedeutung ist, weil die Frau einfach die Sachen selbst zurücknimmt, aber weder für eine Wertverminderung vom Manne Vergütung zu fordern noch für eine Wertvermehrung ihm solche zu leisten hat.
Dies hat freilich zur Folge, dass die Höhe des privilegierten Teils einer neben dem Rücknahmeanspruch bestehenden Ersatzforderung durch den Umfang der allfälligen Entwertung der zurückgenommenen Gegenstände beeinflusst wird: je stärker die Entwertung, desto höher das Privileg. Dieser Zusammenhang erweckt bei oberflächlicher Betrachtung den Anschein, als ob im Ergebnis - zwar nicht der Ehemann, aber - die Konkursmasse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung belastet werde. In casu beträgt die Differenz zwischen dem vom Bezirksgericht und dem vom Obergericht angenommenen Privileg in der Tat (Fr. 31'580.-- ./. Fr. 20'580.-- =) Fr. 11'000.--, also die Hälfte der (Fr. 30'000.-- ./. Fr. 8000.-- =) Fr. 22'000.-- betragenden Entwertung. Dass damit aber nicht die Masse mit einer Ersatzforderung belastet wird, erhellt aus der Vergleichung des von der Vorinstanz errechneten Privilegs (Fr. 31'580.--) mit demjenigen, das sich bei Annahme einer Ersatzforderung für die Wertverminderung (Fr. 22'000.--) ergäbe; in diesem Falle betrüge das Privileg Fr. 42'580.--, also Fr. 11'000.-- mehr als nach der Rechnung der Vorinstanz. Dieser Mehrbetrag von Fr. 11'000.-- würde eine Belastung der Masse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung darstellen; er kann also unmöglich in dem um eben diesen Betrag geringern Betrage von Fr. 31'580.-- enthalten sein; noch viel weniger freilich - entgegen der Meinung der Vorinstanz - in dem nach der Methode des bundesgerichtlichen Präjudizes sich ergebenden privilegierten Betrage von Fr. 20'580.--. Nach der letztern Berechnungsart wird vielmehr die Ehefrau mit dem von ihr zu tragenden Minderwert doppelt belastet, indem man ihr einerseits - gemäss Gesetz - eine Ersatzforderung dafür versagt und anderseits trotzdem die zurückgenommenen, auf Fr. 8000.-- entwerteten Möbel mit Fr. 30'000.-- anrechnet, mit der Wirkung, dass sich ihr Privileg um die Hälfte der Entwertung = Fr. 11'000.-- reduziert. In Wahrheit verhält es sich mithin so, dass gerade deshalb, weil die Ehefrau keine Ersatzforderung für den Minderwert hat, die zurückgenommenen Gegenstände ihr nur mit dem Wert zur Zeit des Konkurses angerechnet werden dürfen.
Dass die vom Bundesgericht seinerzeit angenommene Berechnungsart nicht stimmen kann, erhellt übrigens auch aus der Vergleichung des daraus folgenden Ergebnisses mit dem Privileg, das sich ergäbe, wenn der Ehemann das Mobiliar kurz vor Konkursausbruch veräussert hätte. Da die Ersatzforderung dem Wert zur Zeit der Veräusserung entspricht (vgl. EGGER N. 3 und GMÜR N. 12 zu Art. 210 ZGB), ergäbe sich (beidemal bei voller Deckung in IV. Kl. und Ausfall der V) folgende Rechnung:
Ersatzforderung für Kapitaleinbringen: Fr. 71'160.--
Ersatzforderung für veräussertes Mobiliar: 8'000.--
zusammen = Fr. 79'160.--
Privilegierte Hälfte = Totalempfang: 39'580.--
Nach der erstinstanzlichen Berechnungsweise dagegen
erhielte die Frau das Privileg von: Fr. 20'580.--
und das Mobiliar im Werte von: 8'000.--
somit zusammen nur Fr. 28'580.--,
also effektiv Fr. 11'000.-- weniger, als wenn die Möbel kurz vorher veräussert worden wären. Da nun kein Grund ersichtlich ist, weshalb die Ehefrau bei Veräusserung der Möbel unmittelbar vor Konkurs besser fahren sollte als bei deren Rücknahme in natura, folgt auch daraus, dass sie nach der früheren Berechnungsweise Fr. 11'000.-- zu wenig erhält, also diejenige der Vorinstanz richtig ist.
Bei Werterhöhung des noch vorhandenen Einbringens ist aus der analogen Überlegung, dass die Ehefrau den ohne Zutun des Mannes eingetretenen Mehrwert für sich behalten darf, bei der Berechnung des Privilegs nicht der ursprüngliche geringere Wert der zurückgenommenen Sachen, sondern der zur Zeit des Konkurses gegebene höhere Wert einzustellen; andernfalls würde die Frau doppelt begünstigt: man überliesse ihr - mit Recht - den Mehrwert und würde - zu Unrecht - erst noch ihr Privileg um die Hälfte dieses Mehrwertes erhöhen.
Die Regelung des Frauengutsprivilegs kann allerdings für den gleichen Gesamtwert des Einbringens zu sehr verschiedenen Resultaten führen, je nach dem Verhältnis, in dem sich dieses aus Barkapital und dergl. (Art. 201 Abs. 3) und aus Sachwerten zusammensetzte. Die Ordnung des Art. 211 will den unterschiedlichen Risiken Rechnung tragen, denen einerseits eine Ersatzforderung, anderseits Sachwerte im Laufe der Ehe ausgesetzt sind. Während erstere zwar nominell auf einen festen Geldbetrag lautet, ihre Bonität aber von der Zahlungsfähigkeit des Mannes abhängt, sind die Sachwerte im allgemeinen der Entwertung durch den Gebrauch unterworfen, einzelne Arten aber auch der Aufwertung fähig. Zwischen diesen Gegebenheiten und Möglichkeiten will das System der Anrechnung gemäss Art. 211 einen gewissen Ausgleich herbeiführen.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Die Berufung wird abgewiesen und das Urteil des Obergerichtes des Kantons Zürich, II. Zivilkammer, vom 16. November 1954 bestätigt.
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Privilège de l'épouse, selon les art. 211 et 219 IV e classe LP. Pour calculer la part privilégiée des récompenses dues à la femme la propriété reprise en nature doit être portée en compte à sa valeur au moment de la reprise et non pas à celle qu'elle avait au moment où elle a été apportée.
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Sachverhalt ab Seite 38
A.- Bei Eheschluss im Jahre 1926 hatte die Klägerin als Frauengut Wertschriften und Barschaft im Betrage von Fr. 71'160.-- sowie Mobiliar im damaligen Anschaffungswerte von Fr. 30'000.-- in die Ehe gebracht. Im heutigen Konkurse des Ehemannes meldete die Klägerin eine Frauengutsersatzforderung von Fr. 71'160.-- an und vindizierte das von ihr eingebrachte Mobiliar, dessen heutiger Wert unbestrittenermassen noch Fr. 8000.-- beträgt. Die Konkursverwaltung anerkannte die Ersatzforderung von Fr. 71'160.-- und berechnete das Frauengutsprivileg wie folgt:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, Anschaffungswert: 30'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 101'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 50'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 30'000.--
In IV. Klasse privilegiert Differenz: Fr. 20'580.--
(Rest in V. Klasse: 50'580.--)
Gegen diese Kollokation erhob die Klägerin die vorliegende Klage mit dem Begehren, bei der Berechnung des privilegierten Teils der Frauengutsforderung sei das zurückgenommene Mobiliar mit seinem heutigen Wert einzustellen und demgemäss seien von der Ersatzforderung Fr. 31'580.-- als privilegiert zu erklären gemäss folgender Rechnung:
Ersatzforderung: Fr. 71'160.--
Zurückgenommenes Mobiliar, heutiger Wert: 8'000.--
Eingebrachtes Frauengut zusammen: Fr. 79'160.--
Privilegiert die Hälfte davon = 39'580.--
abzüglich zurückgenommenes Mobiliar: 8'000.--
In IV. Klasse privilegiert: Fr. 31'580.--
(Rest in V. Klasse: Fr. 39'580.--)
Das Bezirksgericht Zürich wies die Klage ab unter Hinweis auf den in BGE 52 II 423 ausgesprochenen Grundsatz, dass bei Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung die in natura zurückgenommenen Gegenstände regelmässig zu dem Wert einzustellen seien, die sie zur Zeit der Einbringung in die Ehe gehabt hätten.
Auf Berufung der Klägerin hat dagegen das Obergericht die Klage gutgeheissen und die Kollokation gemäss vorstehender Berechnung angeordnet. Es führt aus, das Bundesgericht in dem zitierten Präjudiz und ihm folgend das Bezirksgericht begründeten ihre Auffassung, die zurückgenommenen Gegenstände seien nicht mit ihrem heutigen Werte, sondern mit demjenigen zur Zeit ihrer Einbringung einzustellen, mit der Argumentation, wenn man auf den heutigen, verminderten Wert abstellte, so würde das tatsächlich dazu führen, dass die Konkursmasse des Ehemannes, also dieser selber, für die Wertverminderung infolge Abnützung aufzukommen hätte. Es verhalte sich aber, sagt das Obergericht, doch gerade umgekehrt: setze man für das abgenützte Mobiliar den seinerzeitigen Anschaffungswert ein, so laufe das darauf hinaus, dass der Ehemann für diesen höheren Wert verantwortlich erklärt werde, m.a.W. Mobiliar im ursprünglichen Werte herauszugeben habe, während er doch nach Gesetz für die normale Entwertung nicht aufzukommen habe. Mit Recht habe daher das Zürcher Obergericht in einem Entscheide (BlZR 31 [1932] Nr. 20), leider ohne Auseinandersetzung mit dem zit. bundesgerichtlichen, der Berechnungsweise der Klägerin den Vorzug gegeben.
B.- Mit der vorliegenden Berufung beantragt die Konkursmasse Abweisung der Klage. Die Klägerin trägt auf Bestätigung des angefochtenen Urteils an.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. (Streitwert).
2. Zu entscheiden ist einzig die grundsätzliche Frage, ob bei Berechnung des Frauengutsprivilegs die in natura zurückgenommenen Gegenstände mit dem Wert, den sie bei der Einbringung hatten, oder mit ihrem Wert zur Zeit der Rücknahme einzustellen seien. Das Bezirksgericht hat - im Anschluss an das Bundesgericht in dem zitierten Entscheide von 1926 - das erstere, das Obergericht das letztere angenommen, beide mit der Erwägung, mit der gegenteiligen Berechnungsart werde der Ehemann für die im Laufe der Ehe eingetretene Wertverminderung der Möbel verantwortlich gemacht, was dem Gesetz widerspreche.
Diese Erwägungen gehen von der an sich richtigen Überlegung aus, dass die Bewertung der zurückgenommenen Gegenstände nicht darauf hinauslaufen dürfe, dem Ehemann eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung für Wertverminderung infolge ordnungsgemässer Abnützung aufzubürden. Dabei wird aber auf beiden Seiten übersehen, dass weder die eine noch die andere Berechnungsart zu diesem Ergebnis führt. Sowohl nach der Rechnung des Bezirks- als nach der des Obergerichts bleibt der Gesamtbetrag der Frauengutsersatzforderung, die teilweise Anspruch auf das Privileg hat, unverändert, nämlich immer nur Fr. 71'160.-- und nicht mehr. Verschieden ist je nach dem als massgebend angenommenen Wert der zurückgenommenen Gegenstände einzig der Betrag des privilegierten Teils dieser Ersatzforderung. Das ist aber lediglich eine Frage der Aufteilung der vorhandenen Konkursaktiven unter einerseits die Ehefrau, anderseits die übrigen Gläubiger; die Gesamtschuld des Ehemannes und, falls die Aktiven nicht zur Deckung aller Konkursforderungen reichen, der Gesamtbetrag der auszustellenden Verlustscheine wird dadurch nicht berührt. Was nach der einen Berechnungsart die Ehefrau weniger an Dividende und mehr an Verlustscheinen erhält, das erhalten die übrigen Gläubiger mehr bzw. weniger. Der Totalbetrag der Schuld, der Auszahlung und der Verlustscheine bleibt gleich. Daher kann keine der beiden Berechnungsarten damit gerechtfertigt werden, dass die andere eine nach Gesetz nicht bestehende Haftung des Ehemannes voraussetze. Ein anderer Grund für die Einsetzung des Einbringungswertes der zurückgenommenen Gegenstände aber wird in dem angezogenen Urteil des Bundesgerichts nicht angeführt; ein solcher lässt sich auch nicht finden, und es kann an jener Auffassung nicht festgehalten werden.
Die von der Vorinstanz angewandte Berechnungsart dagegen ergibt sich als natürliche Folge aus dem Begriff des "eingebrachten Frauengutes" und dem bezüglichen System des Gesetzes.
Unter der "Zurücknahme ihres Eigentums" (Art. 211 ZGB) bzw. "Zurücknahme der noch vorhandenen Vermögenswerte" (Art. 219 SchKG) versteht das Gesetz die Vindikation der von der Frau eingebrachten Sachen, die während der Ehe sachenrechtlich ihr Eigentum geblieben sind. Für die in das Eigentum des Mannes übergangenen Frauengutssachen gibt es nur eine Ersatzforderung (Art. 201 Abs. 3 ZGB), keine "Zurücknahme".
Das in natura noch vorhandene Frauengut nun besteht nicht in einem unveränderlichen Wert, sondern in den Gegenständen selbst. Demgemäss hat die Frau auch nicht Anspruch auf Vergütung eines allfälligen - nicht vom Ehemann verschuldeten - Minderwertes oder die Pflicht zur Vergütung eines - nicht vom Ehemann herbeigeführten - Mehrwertes, sondern schlechthin auf Herausgabe der Sachen. Da nun aber nach Vorschrift der genannten Bestimmungen für die Bemessung des privilegierten Teils der Frauengutsersatzforderung das Verhältnis des zurückgenommenen Eigentums zum Gesamtanspruch aus dem ganzen ehemaligen Einbringen, Vindikation plus Ersatzforderung, massgebend ist, man aber nicht Franken und Möbel addieren und subtrahieren kann, muss zu diesem Zwecke das zurückgenommene Eigentum in einem Werte ausgedrückt werden. Dies aber kann nur der gegenwärtige Wert der Sachen sein. Wie die Vorinstanz zutreffend bemerkt, folgt dies schon aus dem der Vorschrift zu Grunde liegenden Prinzip der Deckung: die Ehefrau geniesst für die Hälfte ihrer Ersatzforderung das Konkursprivileg nur insoweit nicht, als sie durch die Zurücknahme ihres noch vorhandenen Eigentums (und allfällige Sicherheiten) dafür gedeckt ist; gedeckt wird sie aber nur mit den Werten, die sie wirklich erhält, also mit dem gegenwärtigen - in casu durch den Gebrauch auf Fr. 8000.-- verminderten - Werte des Mobiliars.
Das zurückgenommene Mobiliar nur gerade für diese Ermittlung des privilegierten Teils der Ersatzforderung mit dem früheren Einbringungswerte von in casu Fr. 30'000.-- einzusetzen, entbehrt jedes Sinnes, da doch ausser Zweifel steht, dass dieser Wert für die Frauengutsforderung selbst ohne jede Bedeutung ist, weil die Frau einfach die Sachen selbst zurücknimmt, aber weder für eine Wertverminderung vom Manne Vergütung zu fordern noch für eine Wertvermehrung ihm solche zu leisten hat.
Dies hat freilich zur Folge, dass die Höhe des privilegierten Teils einer neben dem Rücknahmeanspruch bestehenden Ersatzforderung durch den Umfang der allfälligen Entwertung der zurückgenommenen Gegenstände beeinflusst wird: je stärker die Entwertung, desto höher das Privileg. Dieser Zusammenhang erweckt bei oberflächlicher Betrachtung den Anschein, als ob im Ergebnis - zwar nicht der Ehemann, aber - die Konkursmasse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung belastet werde. In casu beträgt die Differenz zwischen dem vom Bezirksgericht und dem vom Obergericht angenommenen Privileg in der Tat (Fr. 31'580.-- ./. Fr. 20'580.-- =) Fr. 11'000.--, also die Hälfte der (Fr. 30'000.-- ./. Fr. 8000.-- =) Fr. 22'000.-- betragenden Entwertung. Dass damit aber nicht die Masse mit einer Ersatzforderung belastet wird, erhellt aus der Vergleichung des von der Vorinstanz errechneten Privilegs (Fr. 31'580.--) mit demjenigen, das sich bei Annahme einer Ersatzforderung für die Wertverminderung (Fr. 22'000.--) ergäbe; in diesem Falle betrüge das Privileg Fr. 42'580.--, also Fr. 11'000.-- mehr als nach der Rechnung der Vorinstanz. Dieser Mehrbetrag von Fr. 11'000.-- würde eine Belastung der Masse mit der Hälfte einer Ersatzforderung für die Entwertung darstellen; er kann also unmöglich in dem um eben diesen Betrag geringern Betrage von Fr. 31'580.-- enthalten sein; noch viel weniger freilich - entgegen der Meinung der Vorinstanz - in dem nach der Methode des bundesgerichtlichen Präjudizes sich ergebenden privilegierten Betrage von Fr. 20'580.--. Nach der letztern Berechnungsart wird vielmehr die Ehefrau mit dem von ihr zu tragenden Minderwert doppelt belastet, indem man ihr einerseits - gemäss Gesetz - eine Ersatzforderung dafür versagt und anderseits trotzdem die zurückgenommenen, auf Fr. 8000.-- entwerteten Möbel mit Fr. 30'000.-- anrechnet, mit der Wirkung, dass sich ihr Privileg um die Hälfte der Entwertung = Fr. 11'000.-- reduziert. In Wahrheit verhält es sich mithin so, dass gerade deshalb, weil die Ehefrau keine Ersatzforderung für den Minderwert hat, die zurückgenommenen Gegenstände ihr nur mit dem Wert zur Zeit des Konkurses angerechnet werden dürfen.
Dass die vom Bundesgericht seinerzeit angenommene Berechnungsart nicht stimmen kann, erhellt übrigens auch aus der Vergleichung des daraus folgenden Ergebnisses mit dem Privileg, das sich ergäbe, wenn der Ehemann das Mobiliar kurz vor Konkursausbruch veräussert hätte. Da die Ersatzforderung dem Wert zur Zeit der Veräusserung entspricht (vgl. EGGER N. 3 und GMÜR N. 12 zu Art. 210 ZGB), ergäbe sich (beidemal bei voller Deckung in IV. Kl. und Ausfall der V) folgende Rechnung:
Ersatzforderung für Kapitaleinbringen: Fr. 71'160.--
Ersatzforderung für veräussertes Mobiliar: 8'000.--
zusammen = Fr. 79'160.--
Privilegierte Hälfte = Totalempfang: 39'580.--
Nach der erstinstanzlichen Berechnungsweise dagegen
erhielte die Frau das Privileg von: Fr. 20'580.--
und das Mobiliar im Werte von: 8'000.--
somit zusammen nur Fr. 28'580.--,
also effektiv Fr. 11'000.-- weniger, als wenn die Möbel kurz vorher veräussert worden wären. Da nun kein Grund ersichtlich ist, weshalb die Ehefrau bei Veräusserung der Möbel unmittelbar vor Konkurs besser fahren sollte als bei deren Rücknahme in natura, folgt auch daraus, dass sie nach der früheren Berechnungsweise Fr. 11'000.-- zu wenig erhält, also diejenige der Vorinstanz richtig ist.
Bei Werterhöhung des noch vorhandenen Einbringens ist aus der analogen Überlegung, dass die Ehefrau den ohne Zutun des Mannes eingetretenen Mehrwert für sich behalten darf, bei der Berechnung des Privilegs nicht der ursprüngliche geringere Wert der zurückgenommenen Sachen, sondern der zur Zeit des Konkurses gegebene höhere Wert einzustellen; andernfalls würde die Frau doppelt begünstigt: man überliesse ihr - mit Recht - den Mehrwert und würde - zu Unrecht - erst noch ihr Privileg um die Hälfte dieses Mehrwertes erhöhen.
Die Regelung des Frauengutsprivilegs kann allerdings für den gleichen Gesamtwert des Einbringens zu sehr verschiedenen Resultaten führen, je nach dem Verhältnis, in dem sich dieses aus Barkapital und dergl. (Art. 201 Abs. 3) und aus Sachwerten zusammensetzte. Die Ordnung des Art. 211 will den unterschiedlichen Risiken Rechnung tragen, denen einerseits eine Ersatzforderung, anderseits Sachwerte im Laufe der Ehe ausgesetzt sind. Während erstere zwar nominell auf einen festen Geldbetrag lautet, ihre Bonität aber von der Zahlungsfähigkeit des Mannes abhängt, sind die Sachwerte im allgemeinen der Entwertung durch den Gebrauch unterworfen, einzelne Arten aber auch der Aufwertung fähig. Zwischen diesen Gegebenheiten und Möglichkeiten will das System der Anrechnung gemäss Art. 211 einen gewissen Ausgleich herbeiführen.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Die Berufung wird abgewiesen und das Urteil des Obergerichtes des Kantons Zürich, II. Zivilkammer, vom 16. November 1954 bestätigt.
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Privilegio della moglie, secondo gli art. 211 CC e 219 quarta classe LEF. Per calcolare la parte privilegiata del credito della moglie per i suoi apporti, i beni che le sono restituiti in natura non devono essere iscritti al valore che avevano quando furono apportati bensi a quello che hanno al momento della restituzione.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 45
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Sachverhalt ab Seite 46
Am 13. November 1953 liess die Rekurrentin beim Betreibungsamt Kriens einen Eigentumsvorbehalt zulasten von Giulio Barazzutti eintragen. Da dieser in der Folge nach Littau und dann nach Luzern zog, erwirkte sie am 24. April 1954 beim Betreibungsamte Littau und hierauf am 11. November 1954 beim Betreibungsamte Luzern eine neue Eintragung. Gegen die Weigerung dieses letzten Amtes, ihr den Originalkaufvertrag zurückzugeben, den sie ihrem Eintragungsgesuch neben einem Auszug aus dem Register von Littau beigelegt hatte, führte sie Beschwerde mit dem Begehren, das Amt sei anzuweisen, ihr den Vertrag herauszugeben. Den abweisenden Entscheid der kantonalen Aufsichtsbehörde vom 3. Januar 1955 hat sie an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nach Art. 4 und 15 der ursprünglichen Fassung der Verordnung betr. die Eintragung der Eigentumsvorbehalte vom 19. Dezember 1910 war der Vertrag, der dem Amte im Falle einseitiger Anmeldung im Original oder in beglaubigter Abschrift vorgelegt werden musste (Art. 4 Ziff. 2 lit. a), dem Einleger auf Verlangen zurückzugeben (Art. 15 Abs. 2). Wenn der Erwerber seinen Wohnsitz wechselte, war der einseitigen Anmeldung zur Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug über eine nicht gelöschte Eintragung im Register eines andern Kreises (d.h. des frühern Wohnortes) beizulegen (Art. 4 Ziff. 2 lit. b). Die am 1. April 1954 in Kraft getretene Verordnung vom 23. Dezember 1953 hat diese Vorschriften insofern abgeändert, als die das Einverständnis der andern Partei bekundende Erklärung (Kaufvertrag usw.) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe zu den Akten des Amtes einzureichen, vom Amte aufzubewahren und dem Einleger (erst) nach Löschung des Eintrags zurückzugeben ist (Art. 4 Abs. 4, Art. 15 Abs. 1 und 2). Der Vorschrift, dass bei Wohnsitzwechsel des Erwerbers für die Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes als Ausweis genügt, fügt Art. 4 Abs. 5 neuer Fassung bei, dass die dort (d.h. am frühern Wohnort) aufbewahrten Aktenstücke (Art. 15) vom Registeramt des neuen Wohnortes auf Kosten des Anmeldenden einzuverlangen seien. Aus dieser neuen Regelung ergibt sich, dass das Amt, bei dem die zeitlich letzte Eintragung auf einseitige Anmeldung hin erfolgt ist, den Kaufvertrag (oder eine sonstige Erklärung, aus der sich das Einverständnis der andern Partei in allen wesentlichen Punkten ergibt) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe bei seinen Akten haben soll.
Dies bedeutet nun freilich nicht, dass dann, wenn die Eintragung am frühern Wohnorte vor dem Inkrafttreten der revidierten Bestimmungen erfolgt ist und der Anmeldende auf Grund von Art. 15 Abs. 2 alter Fassung den Vertrag zurückerhalten hat, das Registeramt des neuen Wohnortes berechtigt oder gar verpflichtet sei, vom Anmeldenden zu verlangen, dass er neben dem Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes den Kaufvertrag einreiche. Auch in einem solchen Falle genügt vielmehr jener Auszug als Ausweis. Von demjenigen, der einen unter dem frühern Recht eingetragenen Eigentumsvorbehalt am neuen Wohnorte des Erwerbers eintragen lassen will, die Einreichung weiterer Urkunden zu verlangen, ist mangels einer dahingehenden ausdrücklichen Vorschrift nicht statthaft. Noch weniger ist es die Meinung der revidierten Verordnung, dass die auf Grund von Art. 15 alter Fassung zurückgegebenen Kaufverträge in allen Fällen, auch wenn es sich nicht um die Eintragung am neuen Wohnorte des Erwerbers handelt, zu den Akten des Amtes einzufordern seien.
Im vorliegenden Falle ist die Einreichung des Kaufvertrags von der Rekurrentin aber auch gar nicht verlangt worden, sondern sie hat ihn, wie aus der Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde und der Rekursschrift an das Bundesgericht hervorgeht, bei der Anmeldung in Luzern zusammen mit dem Auszug aus dem Register von Littau von sich aus eingereicht. Unter diesen Umständen ist der Vertrag in Anwendung des revidierten Art. 15 aufzubewahren und erst nach Löschung des Eintrags zurückzugeben. Dass die Vorlegung des Auszugs aus dem Register des frühern Wohnortes genügt hätte, heisst nicht, dass das Amt des neuen Wohnortes ihn zurückzugeben habe, wenn er aus freien Stücken zusätzlich eingereicht worden ist. Jedenfalls erscheint das Vorgehen des Amtes angesichts des neuen Wortlautes von Art. 15 nicht als rechtswidrig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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de
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Eigentumsvorbehaltsregister. Eintragung eines erstmals vor dem 1. April 1954 eingetragenen Eigentumsvorbehalts am neuen Wohnort des Erwerbers.
Ist der Kaufvertrag einzureichen und vom Amte aufzubewahren? (Verordnung vom 19. Dezember 1910 /23. Dezember 1932 /23. Dezember 1953).
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de
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-45%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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1,219 |
81 III 45
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Sachverhalt ab Seite 46
Am 13. November 1953 liess die Rekurrentin beim Betreibungsamt Kriens einen Eigentumsvorbehalt zulasten von Giulio Barazzutti eintragen. Da dieser in der Folge nach Littau und dann nach Luzern zog, erwirkte sie am 24. April 1954 beim Betreibungsamte Littau und hierauf am 11. November 1954 beim Betreibungsamte Luzern eine neue Eintragung. Gegen die Weigerung dieses letzten Amtes, ihr den Originalkaufvertrag zurückzugeben, den sie ihrem Eintragungsgesuch neben einem Auszug aus dem Register von Littau beigelegt hatte, führte sie Beschwerde mit dem Begehren, das Amt sei anzuweisen, ihr den Vertrag herauszugeben. Den abweisenden Entscheid der kantonalen Aufsichtsbehörde vom 3. Januar 1955 hat sie an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nach Art. 4 und 15 der ursprünglichen Fassung der Verordnung betr. die Eintragung der Eigentumsvorbehalte vom 19. Dezember 1910 war der Vertrag, der dem Amte im Falle einseitiger Anmeldung im Original oder in beglaubigter Abschrift vorgelegt werden musste (Art. 4 Ziff. 2 lit. a), dem Einleger auf Verlangen zurückzugeben (Art. 15 Abs. 2). Wenn der Erwerber seinen Wohnsitz wechselte, war der einseitigen Anmeldung zur Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug über eine nicht gelöschte Eintragung im Register eines andern Kreises (d.h. des frühern Wohnortes) beizulegen (Art. 4 Ziff. 2 lit. b). Die am 1. April 1954 in Kraft getretene Verordnung vom 23. Dezember 1953 hat diese Vorschriften insofern abgeändert, als die das Einverständnis der andern Partei bekundende Erklärung (Kaufvertrag usw.) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe zu den Akten des Amtes einzureichen, vom Amte aufzubewahren und dem Einleger (erst) nach Löschung des Eintrags zurückzugeben ist (Art. 4 Abs. 4, Art. 15 Abs. 1 und 2). Der Vorschrift, dass bei Wohnsitzwechsel des Erwerbers für die Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes als Ausweis genügt, fügt Art. 4 Abs. 5 neuer Fassung bei, dass die dort (d.h. am frühern Wohnort) aufbewahrten Aktenstücke (Art. 15) vom Registeramt des neuen Wohnortes auf Kosten des Anmeldenden einzuverlangen seien. Aus dieser neuen Regelung ergibt sich, dass das Amt, bei dem die zeitlich letzte Eintragung auf einseitige Anmeldung hin erfolgt ist, den Kaufvertrag (oder eine sonstige Erklärung, aus der sich das Einverständnis der andern Partei in allen wesentlichen Punkten ergibt) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe bei seinen Akten haben soll.
Dies bedeutet nun freilich nicht, dass dann, wenn die Eintragung am frühern Wohnorte vor dem Inkrafttreten der revidierten Bestimmungen erfolgt ist und der Anmeldende auf Grund von Art. 15 Abs. 2 alter Fassung den Vertrag zurückerhalten hat, das Registeramt des neuen Wohnortes berechtigt oder gar verpflichtet sei, vom Anmeldenden zu verlangen, dass er neben dem Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes den Kaufvertrag einreiche. Auch in einem solchen Falle genügt vielmehr jener Auszug als Ausweis. Von demjenigen, der einen unter dem frühern Recht eingetragenen Eigentumsvorbehalt am neuen Wohnorte des Erwerbers eintragen lassen will, die Einreichung weiterer Urkunden zu verlangen, ist mangels einer dahingehenden ausdrücklichen Vorschrift nicht statthaft. Noch weniger ist es die Meinung der revidierten Verordnung, dass die auf Grund von Art. 15 alter Fassung zurückgegebenen Kaufverträge in allen Fällen, auch wenn es sich nicht um die Eintragung am neuen Wohnorte des Erwerbers handelt, zu den Akten des Amtes einzufordern seien.
Im vorliegenden Falle ist die Einreichung des Kaufvertrags von der Rekurrentin aber auch gar nicht verlangt worden, sondern sie hat ihn, wie aus der Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde und der Rekursschrift an das Bundesgericht hervorgeht, bei der Anmeldung in Luzern zusammen mit dem Auszug aus dem Register von Littau von sich aus eingereicht. Unter diesen Umständen ist der Vertrag in Anwendung des revidierten Art. 15 aufzubewahren und erst nach Löschung des Eintrags zurückzugeben. Dass die Vorlegung des Auszugs aus dem Register des frühern Wohnortes genügt hätte, heisst nicht, dass das Amt des neuen Wohnortes ihn zurückzugeben habe, wenn er aus freien Stücken zusätzlich eingereicht worden ist. Jedenfalls erscheint das Vorgehen des Amtes angesichts des neuen Wortlautes von Art. 15 nicht als rechtswidrig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Registre des pactes de réserve de propriété. Inscription au nouveau domicile de l'acquéreur d'un pacte de réserve de propriété inscrit pour la première fois avant le 1er avril 1954.
Le contrat de vente doit-il être produit et conservé par l'office? (Ordonnance du 19 décembre 1910 /23 décembre 1932 /23 décembre 1953).
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fr
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-45%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 45
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Sachverhalt ab Seite 46
Am 13. November 1953 liess die Rekurrentin beim Betreibungsamt Kriens einen Eigentumsvorbehalt zulasten von Giulio Barazzutti eintragen. Da dieser in der Folge nach Littau und dann nach Luzern zog, erwirkte sie am 24. April 1954 beim Betreibungsamte Littau und hierauf am 11. November 1954 beim Betreibungsamte Luzern eine neue Eintragung. Gegen die Weigerung dieses letzten Amtes, ihr den Originalkaufvertrag zurückzugeben, den sie ihrem Eintragungsgesuch neben einem Auszug aus dem Register von Littau beigelegt hatte, führte sie Beschwerde mit dem Begehren, das Amt sei anzuweisen, ihr den Vertrag herauszugeben. Den abweisenden Entscheid der kantonalen Aufsichtsbehörde vom 3. Januar 1955 hat sie an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nach Art. 4 und 15 der ursprünglichen Fassung der Verordnung betr. die Eintragung der Eigentumsvorbehalte vom 19. Dezember 1910 war der Vertrag, der dem Amte im Falle einseitiger Anmeldung im Original oder in beglaubigter Abschrift vorgelegt werden musste (Art. 4 Ziff. 2 lit. a), dem Einleger auf Verlangen zurückzugeben (Art. 15 Abs. 2). Wenn der Erwerber seinen Wohnsitz wechselte, war der einseitigen Anmeldung zur Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug über eine nicht gelöschte Eintragung im Register eines andern Kreises (d.h. des frühern Wohnortes) beizulegen (Art. 4 Ziff. 2 lit. b). Die am 1. April 1954 in Kraft getretene Verordnung vom 23. Dezember 1953 hat diese Vorschriften insofern abgeändert, als die das Einverständnis der andern Partei bekundende Erklärung (Kaufvertrag usw.) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe zu den Akten des Amtes einzureichen, vom Amte aufzubewahren und dem Einleger (erst) nach Löschung des Eintrags zurückzugeben ist (Art. 4 Abs. 4, Art. 15 Abs. 1 und 2). Der Vorschrift, dass bei Wohnsitzwechsel des Erwerbers für die Eintragung am neuen Wohnort ein beglaubigter Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes als Ausweis genügt, fügt Art. 4 Abs. 5 neuer Fassung bei, dass die dort (d.h. am frühern Wohnort) aufbewahrten Aktenstücke (Art. 15) vom Registeramt des neuen Wohnortes auf Kosten des Anmeldenden einzuverlangen seien. Aus dieser neuen Regelung ergibt sich, dass das Amt, bei dem die zeitlich letzte Eintragung auf einseitige Anmeldung hin erfolgt ist, den Kaufvertrag (oder eine sonstige Erklärung, aus der sich das Einverständnis der andern Partei in allen wesentlichen Punkten ergibt) im Original oder in beglaubigter Wiedergabe bei seinen Akten haben soll.
Dies bedeutet nun freilich nicht, dass dann, wenn die Eintragung am frühern Wohnorte vor dem Inkrafttreten der revidierten Bestimmungen erfolgt ist und der Anmeldende auf Grund von Art. 15 Abs. 2 alter Fassung den Vertrag zurückerhalten hat, das Registeramt des neuen Wohnortes berechtigt oder gar verpflichtet sei, vom Anmeldenden zu verlangen, dass er neben dem Auszug aus dem Register des frühern Wohnortes den Kaufvertrag einreiche. Auch in einem solchen Falle genügt vielmehr jener Auszug als Ausweis. Von demjenigen, der einen unter dem frühern Recht eingetragenen Eigentumsvorbehalt am neuen Wohnorte des Erwerbers eintragen lassen will, die Einreichung weiterer Urkunden zu verlangen, ist mangels einer dahingehenden ausdrücklichen Vorschrift nicht statthaft. Noch weniger ist es die Meinung der revidierten Verordnung, dass die auf Grund von Art. 15 alter Fassung zurückgegebenen Kaufverträge in allen Fällen, auch wenn es sich nicht um die Eintragung am neuen Wohnorte des Erwerbers handelt, zu den Akten des Amtes einzufordern seien.
Im vorliegenden Falle ist die Einreichung des Kaufvertrags von der Rekurrentin aber auch gar nicht verlangt worden, sondern sie hat ihn, wie aus der Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde und der Rekursschrift an das Bundesgericht hervorgeht, bei der Anmeldung in Luzern zusammen mit dem Auszug aus dem Register von Littau von sich aus eingereicht. Unter diesen Umständen ist der Vertrag in Anwendung des revidierten Art. 15 aufzubewahren und erst nach Löschung des Eintrags zurückzugeben. Dass die Vorlegung des Auszugs aus dem Register des frühern Wohnortes genügt hätte, heisst nicht, dass das Amt des neuen Wohnortes ihn zurückzugeben habe, wenn er aus freien Stücken zusätzlich eingereicht worden ist. Jedenfalls erscheint das Vorgehen des Amtes angesichts des neuen Wortlautes von Art. 15 nicht als rechtswidrig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Registro dei patti di riserva della proprietà. Iscrizione al nuovo domicilio dell'acquirente di un patto di riserva della proprietà iscritto per la prima volta avanti il 1o aprile 1954.
Deve il contratto di vendita essere prodotto e conservato dall'ufficio? (Regolamento del 19 dicembre 1910 /23 dicembre 1932 /23 dicembre 1953).
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 49
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Sachverhalt ab Seite 49
Mit Begehren vom 18. Oktober 1954 verlangte die Firma M. & H. Berger die Einleitung einer Betreibung gegen Felix Schrag in Bern für eine Forderung von "Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2% per Monat seit 1.9.50 von Fr. 545.--." Den Grund der Forderung bezeichnete sie wie folgt: "lt. Vertrag nebst vielen Mahnungen, Inkasso-Versuche, frühere Betreibungskosten und Spesen, wegen Nichteinhaltung des Vertrages." Das Betreibungsamt Bern 1 erliess einen entsprechenden Zahlungsbefehl. Der Schuldner erhob weder Rechtsvorschlag, noch führte er Beschwerde.
Am 7. März 1955 stellte die Gläubigerin das Fortsetzungsbegehren. Das Betreibungsamt pfändete am 14. März 1955 einen Teppich im Schätzungswerte von Fr. 150.--. Mit der Abschrift der Pfändungsurkunde stellte es der Gläubigerin eine Verfügung vom 21. März 1955 mit folgendem Dispositiv zu:
"Die Pfändung wird für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.50 vollzogen. Die auf dem Betreibungs- und Fortsetzungsbegehren zur Forderungssumme und zum Zinsfussansatz zusätzlich angebrachte Bemerkung, von Fr. 545.--, ist ungültig."
Gegen diesen Verfügung führte die Gläubigerin Beschwerde mit dem Antrag:
"Das Betreibungsamt Bern 1 sei zu verpflichten, unser Fortsetzungsbegehren... umgehend wie folgt zu vollziehen:
1) 1 1/2 % Zins (Verzugsgebühr) von Fr. 545.-- seit 1.9.1950 bis zum Tage der Zahlung vorerwähnter Zinsen, d.h. bis heute oder wann der Schuldner dann eben bezahlt, bezw. die Pfändung vollzogen wird.
2) Zum Zins sind zu schlagen die separate Forderung von Fr. 48.05 und alle aufgelaufenen Betreibungskosten.
3) Die Verfügung des Betreibungsamtes Bern 1 vom 21.3.55 sei aufzuheben."
Am 20. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt:
"Die Beschwerde wird dahin gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Bern angewiesen wird, die Pfändung zu vollziehen für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.1950 von Fr. 545.--."
Diesen Entscheid hat der Schuldner an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Begehren, die Verfügung des Betreibungsamtes sei wieder in Kraft zu setzen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Nach Art. 67 Ziff. 3 SchKG ist im Betreibungs begehren, mit dem die Einleitung einer Betreibung auf Geldzahlung verlangt wird, die Forderungssumme in gesetzlicher Schweizerwährung anzugeben, bei verzinslichen Forderungen ausserdem der Zinsfuss und der Tag, von dem an der Zins gefordert wird. Aus dieser Vorschrift ergibt sich, dass der Gläubiger, der Zinsen von einem bestimmten Kapital eintreiben will, diese dann nicht in einer Summe anzugeben braucht, wenn er sie neben der zu verzinsenden Kapitalsumme, d.h. als rein akzessorische Forderung, in Betreibung setzt. Verlangt er dagegen Zinsen von einem Kapitalguthaben, das nicht Gegenstand der Betreibung ist, so kann er sich nicht mit der Angabe der zu verzinsenden Summe, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs begnügen, sondern muss die Zinsforderung, die in diesem Falle den Charakter eines Hauptanspruchs hat, bestimmt beziffern. Ähnlich verhält es sich auch dann, wenn der Gläubiger den noch ausstehenden Teil eines ursprünglich höhern, durch Abzahlungen nach und nach verminderten Kapitalguthabens in Betreibung setzt und Zinsen nicht nur von dem bei Einleitung der Betreibung noch geschuldeten Betrag, sondern - bis zum Zeitpunkt der Zahlung - auch von den abbezahlten Teilbeträgen verlangt. In einem solchen Falle ist dem Gläubiger zuzumuten, die geforderten Zinsen mit Ausnahme derjenigen, die auf dem noch ausstehenden Kapitalbetrag seit der letzten Abzahlung laufen, in einer Summe anzugeben. Will man hierin nicht ein unerlässliches Erfordernis sehen, so muss von ihm doch zum mindesten verlangt werden, dass er genau angibt, welche Summe ursprünglich und nach jeder einzelnen Abzahlung geschuldet war und von wann bis wann eine jede dieser Kapitalsummen zu verzinsen ist (vgl. BGE 56 III 166). Betreibungsbegehren, die diesen Anforderungen nicht entsprechen, sind zurückzuweisen. Geschieht dies nicht, sondern erlässt das Betreibungsamt einen Zahlungsbefehl, der die Angaben des mangelhaften Betreibungsbegehrens wiederholt, so ist der Zahlungsbefehl wenigstens in Bezug auf die ungenügend bezeichnete Zinsforderung als nichtig anzusehen, da die auf die klare Bezeichnung der Forderung bezüglichen Bestimmungen wie z.B. diejenigen, die eine eindeutige Bezeichnung des Gläubigers verlangen (vgl. BGE 80 III 9 Erw. 2), zwingender Natur sind. Es ist namentlich im Hinblick auf die Vorschriften über den Rechtsvorschlag (Art. 74 SchKG), den Umfang der Pfändung und der Verwertung (Art. 97 Abs. 2 und 119 Abs. 2 SchKG) und die Verteilung (Art. 144 Abs. 3 SchKG) absolut notwendig, dass der Schuldner und das Betreibungsamt anhand der Angaben des Zahlungsbefehls sich ohne Schwierigkeiten genau davon Rechenschaft geben können, wieviel die Betreibungsforderung einschliesslich der Zinsen ausmacht.
Nach diesen Grundsätzen ist der vorliegende Zahlungsbefehl nichtig, soweit er sich auf Zinsen "von Fr. 545.--" bezieht. Soll es sich dabei nach der Meinung der Gläubigerin um Zinsen von einem Kapital handeln, das mit der Forderung von Fr. 48.05 nichts gemein hat, was möglich ist, da die Gläubigerin diese Forderung in der Beschwerde an die Vorinstanz als "separate Forderung" bezeichnete, so durften die Zinsen im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl nicht ohne bestimmte Bezifferung, als Nebenanspruch zur Kapitalforderung von Fr. 48.05, aufgeführt werden. Ist die Bezeichnung der Forderung aber so zu verstehen, dass der geforderte Kapitalbetrag von Fr. 48.05 der Rest eines Guthabens von ursprünglich Fr. 545.-- sei und dass der Schuldner neben den Zinsen auf der Restanz von Fr. 48.05 für die Zeit zwischen Fälligkeit und Zahlung auch noch Zinsen auf den getilgten Teilsummen schulde, welche Auslegung durch. die (freilich nicht sehr klaren) Angaben des Betreibungsbegehrens über den Forderungsgrund und dadurch nahegelegt wird, dass die Gläubigerin die Zinsen in der Beschwerde als "Verzugsgebühr" bezeichnet hat, so sind die Angaben des Zahlungsbefehls über die Zinsforderung auf jeden Fall deshalb zu bemängeln, weil daraus Zeitpunkt und Höhe der einzelnen Abzahlungen nicht ersichtlich sind. Angenommen schliesslich, der Betrag von Fr. 48.05 werde als Rest eines Kapitalguthabens von Fr. 545.-- gefordert und die Gläubigerin wolle neben der Kapitalrestanz von Fr. 48.05 Zinsen vom ganzen ursprünglichen Kapitalbetrag verlangen, bis dieser vollständig getilgt ist, wofür die rein wörtliche Auslegung des Betreibungsbegehrens spricht, so ist der Zahlungsbefehl hinsichtlich der Zinsen "von Fr. 545.--" aus dem gleichen Grunde unwirksam wie in dem zuerst besprochenen Falle, dass die Forderung von Fr. 48.05 und der zu verzinsende Betrag von Fr. 545.-- überhaupt nichts miteinander zu tun haben. Wer bis zur vollständigen Tilgung einer Forderung, die ratenweise abbezahlt wird, Zinsen vom ursprünglichen Kapitalbetrag verlangt, beansprucht damit in Wirklichkeit nicht Verzugszinsen, sondern eine - dazu noch äusserst rigorose - Konventionalstrafe. (18% pro Jahr von Fr. 545.-- sind mehr als 200% pro Jahr vom Restkapital von Fr. 48.05!) Eine solche lässt sich im Betreibungsverfahren keinesfalls als akzessorischer Zinsanspruch behandeln, der durch die Angabe des zu verzinsenden Betrags, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs genügend bezeichnet wäre, sondern muss im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl bestimmt beziffert werden, was eben nicht geschehen ist. Es ist daher nicht zu beanstanden, dass das Betreibungsamt angenommen hat, Zinsen "von Fr. 545.--" seien nicht wirksam in Betreibung gesetzt worden, sondern der eben wiedergegebene Zusatz zum Zinsbegehren sei ungültig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Entscheid aufgehoben und die Beschwerde der Gläubigerin abgewiesen.
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Betreibungsbegehren, Zahlungsbefehl. Welche Angaben sind zur Bezeichnung von Zinsforderungen notwendig? Folgen der ungenügenden Bezeichnung einer solchen Forderung (Art. 67 Ziff. 3 und Art. 69 Ziff. 1 SchKG).
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81 III 49
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Sachverhalt ab Seite 49
Mit Begehren vom 18. Oktober 1954 verlangte die Firma M. & H. Berger die Einleitung einer Betreibung gegen Felix Schrag in Bern für eine Forderung von "Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2% per Monat seit 1.9.50 von Fr. 545.--." Den Grund der Forderung bezeichnete sie wie folgt: "lt. Vertrag nebst vielen Mahnungen, Inkasso-Versuche, frühere Betreibungskosten und Spesen, wegen Nichteinhaltung des Vertrages." Das Betreibungsamt Bern 1 erliess einen entsprechenden Zahlungsbefehl. Der Schuldner erhob weder Rechtsvorschlag, noch führte er Beschwerde.
Am 7. März 1955 stellte die Gläubigerin das Fortsetzungsbegehren. Das Betreibungsamt pfändete am 14. März 1955 einen Teppich im Schätzungswerte von Fr. 150.--. Mit der Abschrift der Pfändungsurkunde stellte es der Gläubigerin eine Verfügung vom 21. März 1955 mit folgendem Dispositiv zu:
"Die Pfändung wird für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.50 vollzogen. Die auf dem Betreibungs- und Fortsetzungsbegehren zur Forderungssumme und zum Zinsfussansatz zusätzlich angebrachte Bemerkung, von Fr. 545.--, ist ungültig."
Gegen diesen Verfügung führte die Gläubigerin Beschwerde mit dem Antrag:
"Das Betreibungsamt Bern 1 sei zu verpflichten, unser Fortsetzungsbegehren... umgehend wie folgt zu vollziehen:
1) 1 1/2 % Zins (Verzugsgebühr) von Fr. 545.-- seit 1.9.1950 bis zum Tage der Zahlung vorerwähnter Zinsen, d.h. bis heute oder wann der Schuldner dann eben bezahlt, bezw. die Pfändung vollzogen wird.
2) Zum Zins sind zu schlagen die separate Forderung von Fr. 48.05 und alle aufgelaufenen Betreibungskosten.
3) Die Verfügung des Betreibungsamtes Bern 1 vom 21.3.55 sei aufzuheben."
Am 20. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt:
"Die Beschwerde wird dahin gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Bern angewiesen wird, die Pfändung zu vollziehen für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.1950 von Fr. 545.--."
Diesen Entscheid hat der Schuldner an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Begehren, die Verfügung des Betreibungsamtes sei wieder in Kraft zu setzen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Nach Art. 67 Ziff. 3 SchKG ist im Betreibungs begehren, mit dem die Einleitung einer Betreibung auf Geldzahlung verlangt wird, die Forderungssumme in gesetzlicher Schweizerwährung anzugeben, bei verzinslichen Forderungen ausserdem der Zinsfuss und der Tag, von dem an der Zins gefordert wird. Aus dieser Vorschrift ergibt sich, dass der Gläubiger, der Zinsen von einem bestimmten Kapital eintreiben will, diese dann nicht in einer Summe anzugeben braucht, wenn er sie neben der zu verzinsenden Kapitalsumme, d.h. als rein akzessorische Forderung, in Betreibung setzt. Verlangt er dagegen Zinsen von einem Kapitalguthaben, das nicht Gegenstand der Betreibung ist, so kann er sich nicht mit der Angabe der zu verzinsenden Summe, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs begnügen, sondern muss die Zinsforderung, die in diesem Falle den Charakter eines Hauptanspruchs hat, bestimmt beziffern. Ähnlich verhält es sich auch dann, wenn der Gläubiger den noch ausstehenden Teil eines ursprünglich höhern, durch Abzahlungen nach und nach verminderten Kapitalguthabens in Betreibung setzt und Zinsen nicht nur von dem bei Einleitung der Betreibung noch geschuldeten Betrag, sondern - bis zum Zeitpunkt der Zahlung - auch von den abbezahlten Teilbeträgen verlangt. In einem solchen Falle ist dem Gläubiger zuzumuten, die geforderten Zinsen mit Ausnahme derjenigen, die auf dem noch ausstehenden Kapitalbetrag seit der letzten Abzahlung laufen, in einer Summe anzugeben. Will man hierin nicht ein unerlässliches Erfordernis sehen, so muss von ihm doch zum mindesten verlangt werden, dass er genau angibt, welche Summe ursprünglich und nach jeder einzelnen Abzahlung geschuldet war und von wann bis wann eine jede dieser Kapitalsummen zu verzinsen ist (vgl. BGE 56 III 166). Betreibungsbegehren, die diesen Anforderungen nicht entsprechen, sind zurückzuweisen. Geschieht dies nicht, sondern erlässt das Betreibungsamt einen Zahlungsbefehl, der die Angaben des mangelhaften Betreibungsbegehrens wiederholt, so ist der Zahlungsbefehl wenigstens in Bezug auf die ungenügend bezeichnete Zinsforderung als nichtig anzusehen, da die auf die klare Bezeichnung der Forderung bezüglichen Bestimmungen wie z.B. diejenigen, die eine eindeutige Bezeichnung des Gläubigers verlangen (vgl. BGE 80 III 9 Erw. 2), zwingender Natur sind. Es ist namentlich im Hinblick auf die Vorschriften über den Rechtsvorschlag (Art. 74 SchKG), den Umfang der Pfändung und der Verwertung (Art. 97 Abs. 2 und 119 Abs. 2 SchKG) und die Verteilung (Art. 144 Abs. 3 SchKG) absolut notwendig, dass der Schuldner und das Betreibungsamt anhand der Angaben des Zahlungsbefehls sich ohne Schwierigkeiten genau davon Rechenschaft geben können, wieviel die Betreibungsforderung einschliesslich der Zinsen ausmacht.
Nach diesen Grundsätzen ist der vorliegende Zahlungsbefehl nichtig, soweit er sich auf Zinsen "von Fr. 545.--" bezieht. Soll es sich dabei nach der Meinung der Gläubigerin um Zinsen von einem Kapital handeln, das mit der Forderung von Fr. 48.05 nichts gemein hat, was möglich ist, da die Gläubigerin diese Forderung in der Beschwerde an die Vorinstanz als "separate Forderung" bezeichnete, so durften die Zinsen im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl nicht ohne bestimmte Bezifferung, als Nebenanspruch zur Kapitalforderung von Fr. 48.05, aufgeführt werden. Ist die Bezeichnung der Forderung aber so zu verstehen, dass der geforderte Kapitalbetrag von Fr. 48.05 der Rest eines Guthabens von ursprünglich Fr. 545.-- sei und dass der Schuldner neben den Zinsen auf der Restanz von Fr. 48.05 für die Zeit zwischen Fälligkeit und Zahlung auch noch Zinsen auf den getilgten Teilsummen schulde, welche Auslegung durch. die (freilich nicht sehr klaren) Angaben des Betreibungsbegehrens über den Forderungsgrund und dadurch nahegelegt wird, dass die Gläubigerin die Zinsen in der Beschwerde als "Verzugsgebühr" bezeichnet hat, so sind die Angaben des Zahlungsbefehls über die Zinsforderung auf jeden Fall deshalb zu bemängeln, weil daraus Zeitpunkt und Höhe der einzelnen Abzahlungen nicht ersichtlich sind. Angenommen schliesslich, der Betrag von Fr. 48.05 werde als Rest eines Kapitalguthabens von Fr. 545.-- gefordert und die Gläubigerin wolle neben der Kapitalrestanz von Fr. 48.05 Zinsen vom ganzen ursprünglichen Kapitalbetrag verlangen, bis dieser vollständig getilgt ist, wofür die rein wörtliche Auslegung des Betreibungsbegehrens spricht, so ist der Zahlungsbefehl hinsichtlich der Zinsen "von Fr. 545.--" aus dem gleichen Grunde unwirksam wie in dem zuerst besprochenen Falle, dass die Forderung von Fr. 48.05 und der zu verzinsende Betrag von Fr. 545.-- überhaupt nichts miteinander zu tun haben. Wer bis zur vollständigen Tilgung einer Forderung, die ratenweise abbezahlt wird, Zinsen vom ursprünglichen Kapitalbetrag verlangt, beansprucht damit in Wirklichkeit nicht Verzugszinsen, sondern eine - dazu noch äusserst rigorose - Konventionalstrafe. (18% pro Jahr von Fr. 545.-- sind mehr als 200% pro Jahr vom Restkapital von Fr. 48.05!) Eine solche lässt sich im Betreibungsverfahren keinesfalls als akzessorischer Zinsanspruch behandeln, der durch die Angabe des zu verzinsenden Betrags, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs genügend bezeichnet wäre, sondern muss im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl bestimmt beziffert werden, was eben nicht geschehen ist. Es ist daher nicht zu beanstanden, dass das Betreibungsamt angenommen hat, Zinsen "von Fr. 545.--" seien nicht wirksam in Betreibung gesetzt worden, sondern der eben wiedergegebene Zusatz zum Zinsbegehren sei ungültig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Entscheid aufgehoben und die Beschwerde der Gläubigerin abgewiesen.
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de
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Réquisition de poursuite. Commandement de payer.
Quelles indications faut-il donner lorsqu'on réclame des intérêts? Conséquences d'une désignation insuffisante d'une telle créance (art. 67 ch. 3 et art. 69 ch. 1 LP).
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fr
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debt enforcement and bankruptcy law
| 1,955 |
III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-49%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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1,223 |
81 III 49
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Sachverhalt ab Seite 49
Mit Begehren vom 18. Oktober 1954 verlangte die Firma M. & H. Berger die Einleitung einer Betreibung gegen Felix Schrag in Bern für eine Forderung von "Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2% per Monat seit 1.9.50 von Fr. 545.--." Den Grund der Forderung bezeichnete sie wie folgt: "lt. Vertrag nebst vielen Mahnungen, Inkasso-Versuche, frühere Betreibungskosten und Spesen, wegen Nichteinhaltung des Vertrages." Das Betreibungsamt Bern 1 erliess einen entsprechenden Zahlungsbefehl. Der Schuldner erhob weder Rechtsvorschlag, noch führte er Beschwerde.
Am 7. März 1955 stellte die Gläubigerin das Fortsetzungsbegehren. Das Betreibungsamt pfändete am 14. März 1955 einen Teppich im Schätzungswerte von Fr. 150.--. Mit der Abschrift der Pfändungsurkunde stellte es der Gläubigerin eine Verfügung vom 21. März 1955 mit folgendem Dispositiv zu:
"Die Pfändung wird für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.50 vollzogen. Die auf dem Betreibungs- und Fortsetzungsbegehren zur Forderungssumme und zum Zinsfussansatz zusätzlich angebrachte Bemerkung, von Fr. 545.--, ist ungültig."
Gegen diesen Verfügung führte die Gläubigerin Beschwerde mit dem Antrag:
"Das Betreibungsamt Bern 1 sei zu verpflichten, unser Fortsetzungsbegehren... umgehend wie folgt zu vollziehen:
1) 1 1/2 % Zins (Verzugsgebühr) von Fr. 545.-- seit 1.9.1950 bis zum Tage der Zahlung vorerwähnter Zinsen, d.h. bis heute oder wann der Schuldner dann eben bezahlt, bezw. die Pfändung vollzogen wird.
2) Zum Zins sind zu schlagen die separate Forderung von Fr. 48.05 und alle aufgelaufenen Betreibungskosten.
3) Die Verfügung des Betreibungsamtes Bern 1 vom 21.3.55 sei aufzuheben."
Am 20. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt:
"Die Beschwerde wird dahin gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Bern angewiesen wird, die Pfändung zu vollziehen für den Betrag von Fr. 48.05 nebst Zins zu 1 1/2 % per Monat seit 1.9.1950 von Fr. 545.--."
Diesen Entscheid hat der Schuldner an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Begehren, die Verfügung des Betreibungsamtes sei wieder in Kraft zu setzen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Nach Art. 67 Ziff. 3 SchKG ist im Betreibungs begehren, mit dem die Einleitung einer Betreibung auf Geldzahlung verlangt wird, die Forderungssumme in gesetzlicher Schweizerwährung anzugeben, bei verzinslichen Forderungen ausserdem der Zinsfuss und der Tag, von dem an der Zins gefordert wird. Aus dieser Vorschrift ergibt sich, dass der Gläubiger, der Zinsen von einem bestimmten Kapital eintreiben will, diese dann nicht in einer Summe anzugeben braucht, wenn er sie neben der zu verzinsenden Kapitalsumme, d.h. als rein akzessorische Forderung, in Betreibung setzt. Verlangt er dagegen Zinsen von einem Kapitalguthaben, das nicht Gegenstand der Betreibung ist, so kann er sich nicht mit der Angabe der zu verzinsenden Summe, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs begnügen, sondern muss die Zinsforderung, die in diesem Falle den Charakter eines Hauptanspruchs hat, bestimmt beziffern. Ähnlich verhält es sich auch dann, wenn der Gläubiger den noch ausstehenden Teil eines ursprünglich höhern, durch Abzahlungen nach und nach verminderten Kapitalguthabens in Betreibung setzt und Zinsen nicht nur von dem bei Einleitung der Betreibung noch geschuldeten Betrag, sondern - bis zum Zeitpunkt der Zahlung - auch von den abbezahlten Teilbeträgen verlangt. In einem solchen Falle ist dem Gläubiger zuzumuten, die geforderten Zinsen mit Ausnahme derjenigen, die auf dem noch ausstehenden Kapitalbetrag seit der letzten Abzahlung laufen, in einer Summe anzugeben. Will man hierin nicht ein unerlässliches Erfordernis sehen, so muss von ihm doch zum mindesten verlangt werden, dass er genau angibt, welche Summe ursprünglich und nach jeder einzelnen Abzahlung geschuldet war und von wann bis wann eine jede dieser Kapitalsummen zu verzinsen ist (vgl. BGE 56 III 166). Betreibungsbegehren, die diesen Anforderungen nicht entsprechen, sind zurückzuweisen. Geschieht dies nicht, sondern erlässt das Betreibungsamt einen Zahlungsbefehl, der die Angaben des mangelhaften Betreibungsbegehrens wiederholt, so ist der Zahlungsbefehl wenigstens in Bezug auf die ungenügend bezeichnete Zinsforderung als nichtig anzusehen, da die auf die klare Bezeichnung der Forderung bezüglichen Bestimmungen wie z.B. diejenigen, die eine eindeutige Bezeichnung des Gläubigers verlangen (vgl. BGE 80 III 9 Erw. 2), zwingender Natur sind. Es ist namentlich im Hinblick auf die Vorschriften über den Rechtsvorschlag (Art. 74 SchKG), den Umfang der Pfändung und der Verwertung (Art. 97 Abs. 2 und 119 Abs. 2 SchKG) und die Verteilung (Art. 144 Abs. 3 SchKG) absolut notwendig, dass der Schuldner und das Betreibungsamt anhand der Angaben des Zahlungsbefehls sich ohne Schwierigkeiten genau davon Rechenschaft geben können, wieviel die Betreibungsforderung einschliesslich der Zinsen ausmacht.
Nach diesen Grundsätzen ist der vorliegende Zahlungsbefehl nichtig, soweit er sich auf Zinsen "von Fr. 545.--" bezieht. Soll es sich dabei nach der Meinung der Gläubigerin um Zinsen von einem Kapital handeln, das mit der Forderung von Fr. 48.05 nichts gemein hat, was möglich ist, da die Gläubigerin diese Forderung in der Beschwerde an die Vorinstanz als "separate Forderung" bezeichnete, so durften die Zinsen im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl nicht ohne bestimmte Bezifferung, als Nebenanspruch zur Kapitalforderung von Fr. 48.05, aufgeführt werden. Ist die Bezeichnung der Forderung aber so zu verstehen, dass der geforderte Kapitalbetrag von Fr. 48.05 der Rest eines Guthabens von ursprünglich Fr. 545.-- sei und dass der Schuldner neben den Zinsen auf der Restanz von Fr. 48.05 für die Zeit zwischen Fälligkeit und Zahlung auch noch Zinsen auf den getilgten Teilsummen schulde, welche Auslegung durch. die (freilich nicht sehr klaren) Angaben des Betreibungsbegehrens über den Forderungsgrund und dadurch nahegelegt wird, dass die Gläubigerin die Zinsen in der Beschwerde als "Verzugsgebühr" bezeichnet hat, so sind die Angaben des Zahlungsbefehls über die Zinsforderung auf jeden Fall deshalb zu bemängeln, weil daraus Zeitpunkt und Höhe der einzelnen Abzahlungen nicht ersichtlich sind. Angenommen schliesslich, der Betrag von Fr. 48.05 werde als Rest eines Kapitalguthabens von Fr. 545.-- gefordert und die Gläubigerin wolle neben der Kapitalrestanz von Fr. 48.05 Zinsen vom ganzen ursprünglichen Kapitalbetrag verlangen, bis dieser vollständig getilgt ist, wofür die rein wörtliche Auslegung des Betreibungsbegehrens spricht, so ist der Zahlungsbefehl hinsichtlich der Zinsen "von Fr. 545.--" aus dem gleichen Grunde unwirksam wie in dem zuerst besprochenen Falle, dass die Forderung von Fr. 48.05 und der zu verzinsende Betrag von Fr. 545.-- überhaupt nichts miteinander zu tun haben. Wer bis zur vollständigen Tilgung einer Forderung, die ratenweise abbezahlt wird, Zinsen vom ursprünglichen Kapitalbetrag verlangt, beansprucht damit in Wirklichkeit nicht Verzugszinsen, sondern eine - dazu noch äusserst rigorose - Konventionalstrafe. (18% pro Jahr von Fr. 545.-- sind mehr als 200% pro Jahr vom Restkapital von Fr. 48.05!) Eine solche lässt sich im Betreibungsverfahren keinesfalls als akzessorischer Zinsanspruch behandeln, der durch die Angabe des zu verzinsenden Betrags, des Zinsfusses und des Anfangstermins des Zinsenlaufs genügend bezeichnet wäre, sondern muss im Betreibungsbegehren und im Zahlungsbefehl bestimmt beziffert werden, was eben nicht geschehen ist. Es ist daher nicht zu beanstanden, dass das Betreibungsamt angenommen hat, Zinsen "von Fr. 545.--" seien nicht wirksam in Betreibung gesetzt worden, sondern der eben wiedergegebene Zusatz zum Zinsbegehren sei ungültig.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird gutgeheissen, der angefochtene Entscheid aufgehoben und die Beschwerde der Gläubigerin abgewiesen.
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de
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Domanda d'esecuzione. Precetto esecutivo.
Quali indicazioni debbono essere fornite quando è chiesto il pagamento di interessi? Conseguenze d'una designazione insufficiente d'un siffatto credito (art. 67 cifra 3 e art. 69 cifra 1 LEF).
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it
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debt enforcement and bankruptcy law
| 1,955 |
III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-49%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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1,224 |
81 III 54
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Sachverhalt ab Seite 54
In der Betreibung, die Alfred Gut gegen Hans Glaus führt, pfändete das Betreibungsamt Hergiswil am See am 27. August 1954 mehrere Einrichtungsgegenstände. Diese wurden von der Ehefrau des Schuldners "gemäss Faustpfandvertrag und eingebrachtem Frauengut als Eigentum angesprochen." Da der Gläubiger diese Ansprache bestritt, klagte Frau Glaus auf Feststellung ihres Eigentums. Mit Urteil vom 2. Februar 1955, zugestellt am 14. Februar 1955, wies das Kantonsgericht Nidwalden ihre Klage ab. Hierauf machte Frau Glaus am 26. Februar 1955 an den gepfändeten Gegenständen ein Faustpfandrecht geltend. Am gleichen Tag setzte das Betreibungsamt dem Gläubiger gemäss Art. 106 SchKG Frist zur Bestreitung dieses Anspruchs. Gegen diese Verfügung führte der Gläubiger Beschwerde, weil Frau Glaus die Anmeldung ihres Pfandanspruchs arglistig verzögert und damit ihr Widerspruchsrecht verwirkt habe. Am 4. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen. Gegen diesen Entscheid rekurriert der Gläubiger an das Bundesgericht mit dem Antrag, das Widerspruchsrecht der Frau Glaus sei als verwirkt zu erklären und das vom Betreibungsamt eingeleitete Widerspruchsverfahren einzustellen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Im Gegensatz zur frühern Praxis, die den Grundsatz aufgestellt hatte, dass Drittansprachen bei Gefahr der Verwirkung des Widerspruchsrechts binnen zehn Tagen seit sicherer Kenntnisnahme von der Pfändung der betreffenden Gegenstände anzumelden seien, nimmt die neuere Rechtsprechung des Bundesgerichts an, der Dritte verwirke jenes Recht nur, wenn er die Anmeldung arglistig verzögere. Diese Voraussetzung ist, wie in BGE 78 III 71ff. ausgeführt, nicht bloss dann gegeben, wenn sich der Dritte wesentlich und hauptsächlich gerade von der Absicht, das Betreibungsverfahren in die Länge zu ziehen, hat leiten lassen. Vielmehr verdient eine Verzögerung der Anmeldung immer dann mit Verwirkungsfolge bedacht zu werden, wenn der Dritte sich der mit seinem Zuwarten verbundenen Hemmung des Betreibungsverfahrens bewusst war und für sein Verhalten keinen oder doch keinen ernsthaften Grund hatte (a.a.O. S. 74).
Im vorliegenden Falle kann entgegen der Ansicht des Betreibungsamtes und der Vorinstanz keine Rede davon sein, dass die Ehefrau des Schuldners ihr Faustpfandrecht schon bei der Pfändung geltend gemacht habe, was die Annahme einer arglistigen Verzögerung von vornherein ausschlösse. Sie hat damals zwar von einem Faustpfandvertrag gesprochen, aber gestützt auf diesen Vertrag und die Behauptung, dass man es mit eingebrachtem Frauengut zu tun habe, nicht ein Faustpfandrecht, sondern das Eigentum an den gepfändeten Gegenständen beansprucht. Nachdem der Gläubiger ihr Eigentum bestritten hatte, hat sie auf Feststellung ihres Eigentums geklagt und im Prozess die Auffassung vertreten lassen, der "Schuldschein mit Faustpfandabtretung" vom 1. Dezember 1953, der offenbar mit dem in der Pfändungsurkunde erwähnten Faustpfandvertrag identisch ist, sei "im Widerspruchsverfahren wirkungslos, also rechtlich für die Frage eines dinglichen Anspruchs der Klägerin auf die Möbel unerheblich". Die Faustpfandansprache hat sie erst am 26. Februar 1955, also ein halbes Jahr nach der Pfändung angemeldet.
Man kann sich ernstlich fragen, ob nicht Frau Glaus damit, dass sie auf Grund des Faustpfandvertrags zunächst nicht ein Pfandrecht, sondern das Eigentum beanspruchte und im Eigentumsprozess die erwähnte Erklärung abgeben liess, implicite darauf verzichtet habe, in der hängigen Betreibung ein Pfandrecht zu beanspruchen. Auf jeden Fall aber muss sie sich bei der gegebenen Sachlage den Vorwurf gefallen lassen, die Anmeldung dieses Anspruchs im Sinne der herrschenden Praxis arglistig verzögert zu haben. Sie wurde nicht etwa erst durch das ihr am 14. Februar 1955 zugestellte Urteil über die Klage auf Feststellung des Eigentums darüber belehrt, dass sie anstelle des Eigentums allenfalls ein Pfandrecht an den streitigen Gegenständen beanspruchen könnte. Dass vielleicht ein solches Recht in Frage kommen könnte, muss ihr vielmehr schon bei der Pfändung bewusst gewesen sein, da sie sich ja schon damals auf das Bestehen eines Faustpfandvertrags berief. Sie hatte deshalb allen Anlass, neben dem Eigentum als Eventualanspruch auch das Pfandrecht geltend zu machen. Wenn sie das getan hätte, so hätte das Widerspruchsverfahren über beide Ansprachen zugleich durchgeführt werden können (BGE 69 III 39). Einen ernsthaften Grund dafür, zunächst nur die Eigentumsansprache anzumelden und mit der Pfandansprache erst nach der Abweisung der Eigentumsklage aufzutreten, hatte sie nicht. Es konnte ihr auch nicht entgehen, dass ein solches Vorgehen dazu angetan war, das Betreibungsverfahren zu hemmen. Nach der erwähnten Rechtsprechung muss deshalb die Befugnis zur Geltendmachung des Faustpfandrechts in der vorliegenden Betreibung als verwirkt gelten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die vom Betreibungsamt Hergiswil a/See am 26. Februar 1955 erlassene Fristansetzung aufgehoben.
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de
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Widerspruchsverfahren (Art. 106 ff. SchKG). Meldepflicht des Dritten.
Anmeldung eines Pfandanspruchs nach gerichtlicher Abweisung des zunächst angemeldeten Eigentumsanspruchs.
Verwirkung des Widerspruchsrechts wegen arglistiger Verzögerung der Anmeldung.
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de
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-54%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 54
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Sachverhalt ab Seite 54
In der Betreibung, die Alfred Gut gegen Hans Glaus führt, pfändete das Betreibungsamt Hergiswil am See am 27. August 1954 mehrere Einrichtungsgegenstände. Diese wurden von der Ehefrau des Schuldners "gemäss Faustpfandvertrag und eingebrachtem Frauengut als Eigentum angesprochen." Da der Gläubiger diese Ansprache bestritt, klagte Frau Glaus auf Feststellung ihres Eigentums. Mit Urteil vom 2. Februar 1955, zugestellt am 14. Februar 1955, wies das Kantonsgericht Nidwalden ihre Klage ab. Hierauf machte Frau Glaus am 26. Februar 1955 an den gepfändeten Gegenständen ein Faustpfandrecht geltend. Am gleichen Tag setzte das Betreibungsamt dem Gläubiger gemäss Art. 106 SchKG Frist zur Bestreitung dieses Anspruchs. Gegen diese Verfügung führte der Gläubiger Beschwerde, weil Frau Glaus die Anmeldung ihres Pfandanspruchs arglistig verzögert und damit ihr Widerspruchsrecht verwirkt habe. Am 4. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen. Gegen diesen Entscheid rekurriert der Gläubiger an das Bundesgericht mit dem Antrag, das Widerspruchsrecht der Frau Glaus sei als verwirkt zu erklären und das vom Betreibungsamt eingeleitete Widerspruchsverfahren einzustellen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Im Gegensatz zur frühern Praxis, die den Grundsatz aufgestellt hatte, dass Drittansprachen bei Gefahr der Verwirkung des Widerspruchsrechts binnen zehn Tagen seit sicherer Kenntnisnahme von der Pfändung der betreffenden Gegenstände anzumelden seien, nimmt die neuere Rechtsprechung des Bundesgerichts an, der Dritte verwirke jenes Recht nur, wenn er die Anmeldung arglistig verzögere. Diese Voraussetzung ist, wie in BGE 78 III 71ff. ausgeführt, nicht bloss dann gegeben, wenn sich der Dritte wesentlich und hauptsächlich gerade von der Absicht, das Betreibungsverfahren in die Länge zu ziehen, hat leiten lassen. Vielmehr verdient eine Verzögerung der Anmeldung immer dann mit Verwirkungsfolge bedacht zu werden, wenn der Dritte sich der mit seinem Zuwarten verbundenen Hemmung des Betreibungsverfahrens bewusst war und für sein Verhalten keinen oder doch keinen ernsthaften Grund hatte (a.a.O. S. 74).
Im vorliegenden Falle kann entgegen der Ansicht des Betreibungsamtes und der Vorinstanz keine Rede davon sein, dass die Ehefrau des Schuldners ihr Faustpfandrecht schon bei der Pfändung geltend gemacht habe, was die Annahme einer arglistigen Verzögerung von vornherein ausschlösse. Sie hat damals zwar von einem Faustpfandvertrag gesprochen, aber gestützt auf diesen Vertrag und die Behauptung, dass man es mit eingebrachtem Frauengut zu tun habe, nicht ein Faustpfandrecht, sondern das Eigentum an den gepfändeten Gegenständen beansprucht. Nachdem der Gläubiger ihr Eigentum bestritten hatte, hat sie auf Feststellung ihres Eigentums geklagt und im Prozess die Auffassung vertreten lassen, der "Schuldschein mit Faustpfandabtretung" vom 1. Dezember 1953, der offenbar mit dem in der Pfändungsurkunde erwähnten Faustpfandvertrag identisch ist, sei "im Widerspruchsverfahren wirkungslos, also rechtlich für die Frage eines dinglichen Anspruchs der Klägerin auf die Möbel unerheblich". Die Faustpfandansprache hat sie erst am 26. Februar 1955, also ein halbes Jahr nach der Pfändung angemeldet.
Man kann sich ernstlich fragen, ob nicht Frau Glaus damit, dass sie auf Grund des Faustpfandvertrags zunächst nicht ein Pfandrecht, sondern das Eigentum beanspruchte und im Eigentumsprozess die erwähnte Erklärung abgeben liess, implicite darauf verzichtet habe, in der hängigen Betreibung ein Pfandrecht zu beanspruchen. Auf jeden Fall aber muss sie sich bei der gegebenen Sachlage den Vorwurf gefallen lassen, die Anmeldung dieses Anspruchs im Sinne der herrschenden Praxis arglistig verzögert zu haben. Sie wurde nicht etwa erst durch das ihr am 14. Februar 1955 zugestellte Urteil über die Klage auf Feststellung des Eigentums darüber belehrt, dass sie anstelle des Eigentums allenfalls ein Pfandrecht an den streitigen Gegenständen beanspruchen könnte. Dass vielleicht ein solches Recht in Frage kommen könnte, muss ihr vielmehr schon bei der Pfändung bewusst gewesen sein, da sie sich ja schon damals auf das Bestehen eines Faustpfandvertrags berief. Sie hatte deshalb allen Anlass, neben dem Eigentum als Eventualanspruch auch das Pfandrecht geltend zu machen. Wenn sie das getan hätte, so hätte das Widerspruchsverfahren über beide Ansprachen zugleich durchgeführt werden können (BGE 69 III 39). Einen ernsthaften Grund dafür, zunächst nur die Eigentumsansprache anzumelden und mit der Pfandansprache erst nach der Abweisung der Eigentumsklage aufzutreten, hatte sie nicht. Es konnte ihr auch nicht entgehen, dass ein solches Vorgehen dazu angetan war, das Betreibungsverfahren zu hemmen. Nach der erwähnten Rechtsprechung muss deshalb die Befugnis zur Geltendmachung des Faustpfandrechts in der vorliegenden Betreibung als verwirkt gelten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die vom Betreibungsamt Hergiswil a/See am 26. Februar 1955 erlassene Fristansetzung aufgehoben.
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Procédure de revendication (art. 106 et suiv. LP). Obligation pour le tiers de présenter sa revendication.
Revendication d'un droit de gage présentée après qu'un jugement a rejeté une première revendication d'un droit de propriété.
Péremption du droit de revendiquer résultant du fait que le tiers a tardé astucieusement à présenter sa revendication.
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-54%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 54
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Sachverhalt ab Seite 54
In der Betreibung, die Alfred Gut gegen Hans Glaus führt, pfändete das Betreibungsamt Hergiswil am See am 27. August 1954 mehrere Einrichtungsgegenstände. Diese wurden von der Ehefrau des Schuldners "gemäss Faustpfandvertrag und eingebrachtem Frauengut als Eigentum angesprochen." Da der Gläubiger diese Ansprache bestritt, klagte Frau Glaus auf Feststellung ihres Eigentums. Mit Urteil vom 2. Februar 1955, zugestellt am 14. Februar 1955, wies das Kantonsgericht Nidwalden ihre Klage ab. Hierauf machte Frau Glaus am 26. Februar 1955 an den gepfändeten Gegenständen ein Faustpfandrecht geltend. Am gleichen Tag setzte das Betreibungsamt dem Gläubiger gemäss Art. 106 SchKG Frist zur Bestreitung dieses Anspruchs. Gegen diese Verfügung führte der Gläubiger Beschwerde, weil Frau Glaus die Anmeldung ihres Pfandanspruchs arglistig verzögert und damit ihr Widerspruchsrecht verwirkt habe. Am 4. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen. Gegen diesen Entscheid rekurriert der Gläubiger an das Bundesgericht mit dem Antrag, das Widerspruchsrecht der Frau Glaus sei als verwirkt zu erklären und das vom Betreibungsamt eingeleitete Widerspruchsverfahren einzustellen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Im Gegensatz zur frühern Praxis, die den Grundsatz aufgestellt hatte, dass Drittansprachen bei Gefahr der Verwirkung des Widerspruchsrechts binnen zehn Tagen seit sicherer Kenntnisnahme von der Pfändung der betreffenden Gegenstände anzumelden seien, nimmt die neuere Rechtsprechung des Bundesgerichts an, der Dritte verwirke jenes Recht nur, wenn er die Anmeldung arglistig verzögere. Diese Voraussetzung ist, wie in BGE 78 III 71ff. ausgeführt, nicht bloss dann gegeben, wenn sich der Dritte wesentlich und hauptsächlich gerade von der Absicht, das Betreibungsverfahren in die Länge zu ziehen, hat leiten lassen. Vielmehr verdient eine Verzögerung der Anmeldung immer dann mit Verwirkungsfolge bedacht zu werden, wenn der Dritte sich der mit seinem Zuwarten verbundenen Hemmung des Betreibungsverfahrens bewusst war und für sein Verhalten keinen oder doch keinen ernsthaften Grund hatte (a.a.O. S. 74).
Im vorliegenden Falle kann entgegen der Ansicht des Betreibungsamtes und der Vorinstanz keine Rede davon sein, dass die Ehefrau des Schuldners ihr Faustpfandrecht schon bei der Pfändung geltend gemacht habe, was die Annahme einer arglistigen Verzögerung von vornherein ausschlösse. Sie hat damals zwar von einem Faustpfandvertrag gesprochen, aber gestützt auf diesen Vertrag und die Behauptung, dass man es mit eingebrachtem Frauengut zu tun habe, nicht ein Faustpfandrecht, sondern das Eigentum an den gepfändeten Gegenständen beansprucht. Nachdem der Gläubiger ihr Eigentum bestritten hatte, hat sie auf Feststellung ihres Eigentums geklagt und im Prozess die Auffassung vertreten lassen, der "Schuldschein mit Faustpfandabtretung" vom 1. Dezember 1953, der offenbar mit dem in der Pfändungsurkunde erwähnten Faustpfandvertrag identisch ist, sei "im Widerspruchsverfahren wirkungslos, also rechtlich für die Frage eines dinglichen Anspruchs der Klägerin auf die Möbel unerheblich". Die Faustpfandansprache hat sie erst am 26. Februar 1955, also ein halbes Jahr nach der Pfändung angemeldet.
Man kann sich ernstlich fragen, ob nicht Frau Glaus damit, dass sie auf Grund des Faustpfandvertrags zunächst nicht ein Pfandrecht, sondern das Eigentum beanspruchte und im Eigentumsprozess die erwähnte Erklärung abgeben liess, implicite darauf verzichtet habe, in der hängigen Betreibung ein Pfandrecht zu beanspruchen. Auf jeden Fall aber muss sie sich bei der gegebenen Sachlage den Vorwurf gefallen lassen, die Anmeldung dieses Anspruchs im Sinne der herrschenden Praxis arglistig verzögert zu haben. Sie wurde nicht etwa erst durch das ihr am 14. Februar 1955 zugestellte Urteil über die Klage auf Feststellung des Eigentums darüber belehrt, dass sie anstelle des Eigentums allenfalls ein Pfandrecht an den streitigen Gegenständen beanspruchen könnte. Dass vielleicht ein solches Recht in Frage kommen könnte, muss ihr vielmehr schon bei der Pfändung bewusst gewesen sein, da sie sich ja schon damals auf das Bestehen eines Faustpfandvertrags berief. Sie hatte deshalb allen Anlass, neben dem Eigentum als Eventualanspruch auch das Pfandrecht geltend zu machen. Wenn sie das getan hätte, so hätte das Widerspruchsverfahren über beide Ansprachen zugleich durchgeführt werden können (BGE 69 III 39). Einen ernsthaften Grund dafür, zunächst nur die Eigentumsansprache anzumelden und mit der Pfandansprache erst nach der Abweisung der Eigentumsklage aufzutreten, hatte sie nicht. Es konnte ihr auch nicht entgehen, dass ein solches Vorgehen dazu angetan war, das Betreibungsverfahren zu hemmen. Nach der erwähnten Rechtsprechung muss deshalb die Befugnis zur Geltendmachung des Faustpfandrechts in der vorliegenden Betreibung als verwirkt gelten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die vom Betreibungsamt Hergiswil a/See am 26. Februar 1955 erlassene Fristansetzung aufgehoben.
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Procedura di rivendicazione (art. 106 sgg. LEF). Obbligo del terzo di notificare la sua rivendicazione.
Notifica d'un diritto di pegno dopo che una prima rivendicazione del diritto di proprietà è stata respinta giudizialmente.
Decadenza dal diritto di rivendicare risultante dal fatto che il terzo ha tardato con astuzia a notificare la rivendicazione.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 57
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Sachverhalt ab Seite 57
Am 23. Dezember 1954 arrestierte das Betreibungsamt Arlesheim für eine Forderung der Rekurrentin gegen die Manufattura tessile ticinese San Giorgio S. A. 68 im Zollfreilager Basel-Münchenstein liegende Kisten mit ca. 4500 Stück Herrenhemden im Schätzungswerte von Fr. 54'000.--. Am 19. Januar 1955 arrestierte es für die gleiche Forderung noch 28 Kisten Baumwollstoffe im Schätzungswerte von Fr. 22'000.--. Adolf Segmüller machte an diesen Waren ein Faustpfandrecht für Fr. 60'000.-- nebst 6% Zins seit 24. Juni 1954 geltend. Dieses hat als anerkannt zu gelten, da die Rekurrentin die ihr gemäss Art. 109 SchKG angesetzte Klagefrist nicht benutzte.
Nachdem der Pfandgläubiger unter Berufung darauf, dass der Pfandvertrag ihm das Recht der freihändigen privaten Verwertung einräume, das Betreibungsamt ersucht hatte, der Lagerhalterin mitzuteilen, dass er über die arrestierten Gegenstände verfügen dürfe, schrieb das Betreibungsamt der Rekurrentin am 29. Januar 1955:
"Wollen Sie davon Kenntnis nehmen, dass wir die gesamte verarrestierte Ware herausgeben werden.
Der Schuldner und der Faustpfandansprecher sind uns über den Mehrerlös abrechnungspflichtig.
Dieser Mehrerlös ist gepfändet.
Es steht Ihnen frei, gegenüber unserer Verfügung Beschwerde einzuleiten."
Die Beschwerde, mit welcher die Rekurrentin die Aufhebung dieser Verfügung verlangte, ist von der kantonalen Aufsichtsbehörde am 14. März 1955 abgewiesen worden. Hiegegen richtet sich der vorliegende Rekurs an das Bundesgericht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Das Bundesgericht hat längst entschieden, dass der Faustpfandgläubiger das ihm vom Schuldner eingeräumte Recht, das Pfand selbst zu verwerten, im Konkurs des Schuldners nicht ausüben kann (BGE 44 III 49; vgl auch schonBGE 24 II 445/6 = Sep. ausg. 1 S. 193). Zur Begründung wurde auf Art. 198, 232 Ziff. 4, 256 und 262 SchKG hingewiesen. Aus diesen Bestimmungen ergibt sich, dass verpfändete Vermögensstücke unter Vorbehalt des Vorzugsrechts des Pfandgläubigers zur Konkursmasse gezogen werden, dem Konkursamt zur Verfügung zu stellen sind und amtlich verwertet werden. Der Grund dafür, dass die amtliche Verwertung der Pfänder durch Vereinbarung zwischen dem Schuldner und dem Pfandgläubiger für den Fall des Konkurses nicht ausgeschlossen werden kann, liegt darin, dass man es bei den erwähnten Bestimmungen mit verfahrensrechtlichen Vorschriften zu tun hat, die im Interesse der Gesamtheit der Konkursgläubiger aufgestellt sind.
Einen ähnlichen Charakter hat auch die aus Art. 98 Abs. 4, Art. 122 und 126 SchKG sich ergebende Regel, dass gepfändete Sachen amtlich zu verwerten sind, auch wenn ein Dritter daran ein Pfandrecht besitzt. Die Anwendung dieser den Interessen der Pfändungsgläubiger dienenden Verfahrensregel können der Schuldner und der Faustpfandgläubiger ebenfalls nicht verhindern, indem sie im Pfandvertrag das Selbstverkaufsrecht des Pfandgläubigers stipulieren. Dieses kann also im Falle der Pfändung der verpfändeten Gegenstände so wenig wie im Konkurs über den Pfandschuldner ausgeübt werden. Das gleiche muss auch für den Fall des Arrestes gelten, der eine Sicherungsmassnahme darstellt, die dazu bestimmt ist, die Pfändung und Verwertung zugunsten des Arrestgläubigers zu ermöglichen.
JAEGER sagt in N. 8 zu Art. 38 SchKG freilich, eine Abmachung, die dem Faustpfandgläubiger das Recht zum Selbstverkauf gewährt, falle "nur" nach Ausbruch des Konkurses über den Schuldner als ungültig dahin. In Übereinstimmung damit nimmt OFTINGER an, die Pfändung durch einen Dritten hindere die private Verwertung des Pfandes nicht (N. 53 zu Art. 891 ZGB). OFTINGER begründet jedoch seine Auffassung nicht, und JAEGER begnügt sich mit dem Hinweis auf BGE 24 II Nr. 57 (S. 445/6) = Sep. ausg. 1 Nr. 45 (S. 193), der fehlgeht, weil dieser Entscheid die Frage offen gelassen hat, ob das Selbstverkaufsrecht im Falle der Pfändung gelte.
Wenn Art. 316 k SchKG für den Fall des Nachlassvertrages mit Vermögensabtretung bestimmt, der Faustpfandgläubiger könne die Faustpfänder freihändig oder börsenmässig verwerten, sofern ihm der Pfandvertrag das Recht hiezu gebe, so lässt sich hieraus entgegen der Ansicht der Vorinstanz kein Argument dafür gewinnen, dass dieses Recht dem Pfandgläubiger auch im Falle der Pfändung erhalten bleibe. Art. 316 k räumt dem Faustpfandgläubiger überhaupt eine sehr freie Stellung ein. Er braucht das Pfand nicht abzuliefern und kann es (vorbehältlich einer im Nachlassvertrag enthaltenen Stundung der Pfandforderung) zur Verwertung bringen, wann es ihm passt. Unter diesen Umständen ist es nur folgerichtig, dass ihm auch das Recht zum privaten Verkauf gewahrt bleibt. Als eine Vorschrift, die sich aus der ganz besondern Stellung der Faustpfandgläubiger im Nachlassliquidationsverfahren erklärt, kann aber der auf das Selbstverkaufsrecht bezügliche Abschnitt von Art. 316 k im Falle der Pfändung nicht entsprechend angewendet werden. Es handelt sich dabei vielmehr um eine nur für den Liquidationsvergleich gültige Ausnahmevorschrift.
Die Erwägung der Vorinstanz, dass der Pfändungsbzw. Arrestgläubiger durch die Pfändung bzw. den Arrest keine bessern Rechte erwerben könne, als der Schuldner sie hatte, schlägt ebenfalls nicht durch. Sie ist deshalb verfehlt, weil die Pfändungsgläubiger wie die Konkursmasse von Gesetzes wegen einen eigenen Anspruch auf amtliche Verwertung der Pfänder haben, den der Schuldner ihnen nicht entziehen kann, indem er dem Pfandgläubiger das Recht zum privaten Verkauf einräumt.
Die Annahme, dass das Selbstverkaufsrecht nicht mehr ausgeübt werden kann, nachdem die Pfandsachen gepfändet oder arrestiert worden sind, führt nicht etwa zu unhaltbaren Konsequenzen. Den schutzwürdigen Interessen des Pfandgläubigers wird im Pfändungsverfahren durch das Deckungsprinzip (Art. 126 SchKG) Rechnung getragen. Um so weniger liesse es sich rechtfertigen, die private Verwertung in diesem Verfahren zuzulassen, sie dagegen im Konkurs auszuschliessen, wo das Deckungsprinzip nicht gilt. Das Umgekehrte liesse sich eher verstehen. Auf der andern Seite wird durch den Ausschluss der privaten Verwertung von gepfändeten Pfandgegenständen vermieden, dass die Pfändungsgläubiger einer allfälligen Verschleuderung dieser Gegenstände durch den Pfandgläubiger hilflos zusehen müssen. Diese Gefahr kann namentlich dann aktuell werden, wenn es sich wie im vorliegenden Fall um Sachen handelt, für die kein Markt- oder Börsenpreis besteht. Die von der Vorinstanz erwähnte Möglichkeit, dem Pfandgläubiger ein Kaufsangebot zu machen oder ihn unter Umständen auf Schadenersatz zu belangen, bietet den Pfändungsgläubigern gegen diese Gefahr keinen hinlänglichen Schutz.
Die Beschwerde der Rekurrentin gegen die Verfügung des Betreibungsamtes vom 29. Januar 1955 ist demnach begründet.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die Verfügung des Betreibungsamtes Arlesheim vom 29. Januar 1955 aufgehoben.
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Pfändung und private Pfandverwertung. Das dem Faustpfandgläubiger durch den Pfandvertrag eingeräumte Recht, die Pfandsachen privat zu verwerten, kann im Falle der Pfändung oder Arrestierung dieser Sachen so wenig wie im Konkurs über den Pfandschuldner ausgeübt werden.
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Sachverhalt ab Seite 57
Am 23. Dezember 1954 arrestierte das Betreibungsamt Arlesheim für eine Forderung der Rekurrentin gegen die Manufattura tessile ticinese San Giorgio S. A. 68 im Zollfreilager Basel-Münchenstein liegende Kisten mit ca. 4500 Stück Herrenhemden im Schätzungswerte von Fr. 54'000.--. Am 19. Januar 1955 arrestierte es für die gleiche Forderung noch 28 Kisten Baumwollstoffe im Schätzungswerte von Fr. 22'000.--. Adolf Segmüller machte an diesen Waren ein Faustpfandrecht für Fr. 60'000.-- nebst 6% Zins seit 24. Juni 1954 geltend. Dieses hat als anerkannt zu gelten, da die Rekurrentin die ihr gemäss Art. 109 SchKG angesetzte Klagefrist nicht benutzte.
Nachdem der Pfandgläubiger unter Berufung darauf, dass der Pfandvertrag ihm das Recht der freihändigen privaten Verwertung einräume, das Betreibungsamt ersucht hatte, der Lagerhalterin mitzuteilen, dass er über die arrestierten Gegenstände verfügen dürfe, schrieb das Betreibungsamt der Rekurrentin am 29. Januar 1955:
"Wollen Sie davon Kenntnis nehmen, dass wir die gesamte verarrestierte Ware herausgeben werden.
Der Schuldner und der Faustpfandansprecher sind uns über den Mehrerlös abrechnungspflichtig.
Dieser Mehrerlös ist gepfändet.
Es steht Ihnen frei, gegenüber unserer Verfügung Beschwerde einzuleiten."
Die Beschwerde, mit welcher die Rekurrentin die Aufhebung dieser Verfügung verlangte, ist von der kantonalen Aufsichtsbehörde am 14. März 1955 abgewiesen worden. Hiegegen richtet sich der vorliegende Rekurs an das Bundesgericht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Das Bundesgericht hat längst entschieden, dass der Faustpfandgläubiger das ihm vom Schuldner eingeräumte Recht, das Pfand selbst zu verwerten, im Konkurs des Schuldners nicht ausüben kann (BGE 44 III 49; vgl auch schonBGE 24 II 445/6 = Sep. ausg. 1 S. 193). Zur Begründung wurde auf Art. 198, 232 Ziff. 4, 256 und 262 SchKG hingewiesen. Aus diesen Bestimmungen ergibt sich, dass verpfändete Vermögensstücke unter Vorbehalt des Vorzugsrechts des Pfandgläubigers zur Konkursmasse gezogen werden, dem Konkursamt zur Verfügung zu stellen sind und amtlich verwertet werden. Der Grund dafür, dass die amtliche Verwertung der Pfänder durch Vereinbarung zwischen dem Schuldner und dem Pfandgläubiger für den Fall des Konkurses nicht ausgeschlossen werden kann, liegt darin, dass man es bei den erwähnten Bestimmungen mit verfahrensrechtlichen Vorschriften zu tun hat, die im Interesse der Gesamtheit der Konkursgläubiger aufgestellt sind.
Einen ähnlichen Charakter hat auch die aus Art. 98 Abs. 4, Art. 122 und 126 SchKG sich ergebende Regel, dass gepfändete Sachen amtlich zu verwerten sind, auch wenn ein Dritter daran ein Pfandrecht besitzt. Die Anwendung dieser den Interessen der Pfändungsgläubiger dienenden Verfahrensregel können der Schuldner und der Faustpfandgläubiger ebenfalls nicht verhindern, indem sie im Pfandvertrag das Selbstverkaufsrecht des Pfandgläubigers stipulieren. Dieses kann also im Falle der Pfändung der verpfändeten Gegenstände so wenig wie im Konkurs über den Pfandschuldner ausgeübt werden. Das gleiche muss auch für den Fall des Arrestes gelten, der eine Sicherungsmassnahme darstellt, die dazu bestimmt ist, die Pfändung und Verwertung zugunsten des Arrestgläubigers zu ermöglichen.
JAEGER sagt in N. 8 zu Art. 38 SchKG freilich, eine Abmachung, die dem Faustpfandgläubiger das Recht zum Selbstverkauf gewährt, falle "nur" nach Ausbruch des Konkurses über den Schuldner als ungültig dahin. In Übereinstimmung damit nimmt OFTINGER an, die Pfändung durch einen Dritten hindere die private Verwertung des Pfandes nicht (N. 53 zu Art. 891 ZGB). OFTINGER begründet jedoch seine Auffassung nicht, und JAEGER begnügt sich mit dem Hinweis auf BGE 24 II Nr. 57 (S. 445/6) = Sep. ausg. 1 Nr. 45 (S. 193), der fehlgeht, weil dieser Entscheid die Frage offen gelassen hat, ob das Selbstverkaufsrecht im Falle der Pfändung gelte.
Wenn Art. 316 k SchKG für den Fall des Nachlassvertrages mit Vermögensabtretung bestimmt, der Faustpfandgläubiger könne die Faustpfänder freihändig oder börsenmässig verwerten, sofern ihm der Pfandvertrag das Recht hiezu gebe, so lässt sich hieraus entgegen der Ansicht der Vorinstanz kein Argument dafür gewinnen, dass dieses Recht dem Pfandgläubiger auch im Falle der Pfändung erhalten bleibe. Art. 316 k räumt dem Faustpfandgläubiger überhaupt eine sehr freie Stellung ein. Er braucht das Pfand nicht abzuliefern und kann es (vorbehältlich einer im Nachlassvertrag enthaltenen Stundung der Pfandforderung) zur Verwertung bringen, wann es ihm passt. Unter diesen Umständen ist es nur folgerichtig, dass ihm auch das Recht zum privaten Verkauf gewahrt bleibt. Als eine Vorschrift, die sich aus der ganz besondern Stellung der Faustpfandgläubiger im Nachlassliquidationsverfahren erklärt, kann aber der auf das Selbstverkaufsrecht bezügliche Abschnitt von Art. 316 k im Falle der Pfändung nicht entsprechend angewendet werden. Es handelt sich dabei vielmehr um eine nur für den Liquidationsvergleich gültige Ausnahmevorschrift.
Die Erwägung der Vorinstanz, dass der Pfändungsbzw. Arrestgläubiger durch die Pfändung bzw. den Arrest keine bessern Rechte erwerben könne, als der Schuldner sie hatte, schlägt ebenfalls nicht durch. Sie ist deshalb verfehlt, weil die Pfändungsgläubiger wie die Konkursmasse von Gesetzes wegen einen eigenen Anspruch auf amtliche Verwertung der Pfänder haben, den der Schuldner ihnen nicht entziehen kann, indem er dem Pfandgläubiger das Recht zum privaten Verkauf einräumt.
Die Annahme, dass das Selbstverkaufsrecht nicht mehr ausgeübt werden kann, nachdem die Pfandsachen gepfändet oder arrestiert worden sind, führt nicht etwa zu unhaltbaren Konsequenzen. Den schutzwürdigen Interessen des Pfandgläubigers wird im Pfändungsverfahren durch das Deckungsprinzip (Art. 126 SchKG) Rechnung getragen. Um so weniger liesse es sich rechtfertigen, die private Verwertung in diesem Verfahren zuzulassen, sie dagegen im Konkurs auszuschliessen, wo das Deckungsprinzip nicht gilt. Das Umgekehrte liesse sich eher verstehen. Auf der andern Seite wird durch den Ausschluss der privaten Verwertung von gepfändeten Pfandgegenständen vermieden, dass die Pfändungsgläubiger einer allfälligen Verschleuderung dieser Gegenstände durch den Pfandgläubiger hilflos zusehen müssen. Diese Gefahr kann namentlich dann aktuell werden, wenn es sich wie im vorliegenden Fall um Sachen handelt, für die kein Markt- oder Börsenpreis besteht. Die von der Vorinstanz erwähnte Möglichkeit, dem Pfandgläubiger ein Kaufsangebot zu machen oder ihn unter Umständen auf Schadenersatz zu belangen, bietet den Pfändungsgläubigern gegen diese Gefahr keinen hinlänglichen Schutz.
Die Beschwerde der Rekurrentin gegen die Verfügung des Betreibungsamtes vom 29. Januar 1955 ist demnach begründet.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die Verfügung des Betreibungsamtes Arlesheim vom 29. Januar 1955 aufgehoben.
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Saisie et réalisation du gage par le créancier lui-même. Le droit que le contrat de constitution de gage confère au créancier de réaliser lui-même les biens donnés en gage ne peut être exercé pas plus en cas de saisie ou de séquestre qu'en cas de faillite du débiteur.
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Am 23. Dezember 1954 arrestierte das Betreibungsamt Arlesheim für eine Forderung der Rekurrentin gegen die Manufattura tessile ticinese San Giorgio S. A. 68 im Zollfreilager Basel-Münchenstein liegende Kisten mit ca. 4500 Stück Herrenhemden im Schätzungswerte von Fr. 54'000.--. Am 19. Januar 1955 arrestierte es für die gleiche Forderung noch 28 Kisten Baumwollstoffe im Schätzungswerte von Fr. 22'000.--. Adolf Segmüller machte an diesen Waren ein Faustpfandrecht für Fr. 60'000.-- nebst 6% Zins seit 24. Juni 1954 geltend. Dieses hat als anerkannt zu gelten, da die Rekurrentin die ihr gemäss Art. 109 SchKG angesetzte Klagefrist nicht benutzte.
Nachdem der Pfandgläubiger unter Berufung darauf, dass der Pfandvertrag ihm das Recht der freihändigen privaten Verwertung einräume, das Betreibungsamt ersucht hatte, der Lagerhalterin mitzuteilen, dass er über die arrestierten Gegenstände verfügen dürfe, schrieb das Betreibungsamt der Rekurrentin am 29. Januar 1955:
"Wollen Sie davon Kenntnis nehmen, dass wir die gesamte verarrestierte Ware herausgeben werden.
Der Schuldner und der Faustpfandansprecher sind uns über den Mehrerlös abrechnungspflichtig.
Dieser Mehrerlös ist gepfändet.
Es steht Ihnen frei, gegenüber unserer Verfügung Beschwerde einzuleiten."
Die Beschwerde, mit welcher die Rekurrentin die Aufhebung dieser Verfügung verlangte, ist von der kantonalen Aufsichtsbehörde am 14. März 1955 abgewiesen worden. Hiegegen richtet sich der vorliegende Rekurs an das Bundesgericht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Das Bundesgericht hat längst entschieden, dass der Faustpfandgläubiger das ihm vom Schuldner eingeräumte Recht, das Pfand selbst zu verwerten, im Konkurs des Schuldners nicht ausüben kann (BGE 44 III 49; vgl auch schonBGE 24 II 445/6 = Sep. ausg. 1 S. 193). Zur Begründung wurde auf Art. 198, 232 Ziff. 4, 256 und 262 SchKG hingewiesen. Aus diesen Bestimmungen ergibt sich, dass verpfändete Vermögensstücke unter Vorbehalt des Vorzugsrechts des Pfandgläubigers zur Konkursmasse gezogen werden, dem Konkursamt zur Verfügung zu stellen sind und amtlich verwertet werden. Der Grund dafür, dass die amtliche Verwertung der Pfänder durch Vereinbarung zwischen dem Schuldner und dem Pfandgläubiger für den Fall des Konkurses nicht ausgeschlossen werden kann, liegt darin, dass man es bei den erwähnten Bestimmungen mit verfahrensrechtlichen Vorschriften zu tun hat, die im Interesse der Gesamtheit der Konkursgläubiger aufgestellt sind.
Einen ähnlichen Charakter hat auch die aus Art. 98 Abs. 4, Art. 122 und 126 SchKG sich ergebende Regel, dass gepfändete Sachen amtlich zu verwerten sind, auch wenn ein Dritter daran ein Pfandrecht besitzt. Die Anwendung dieser den Interessen der Pfändungsgläubiger dienenden Verfahrensregel können der Schuldner und der Faustpfandgläubiger ebenfalls nicht verhindern, indem sie im Pfandvertrag das Selbstverkaufsrecht des Pfandgläubigers stipulieren. Dieses kann also im Falle der Pfändung der verpfändeten Gegenstände so wenig wie im Konkurs über den Pfandschuldner ausgeübt werden. Das gleiche muss auch für den Fall des Arrestes gelten, der eine Sicherungsmassnahme darstellt, die dazu bestimmt ist, die Pfändung und Verwertung zugunsten des Arrestgläubigers zu ermöglichen.
JAEGER sagt in N. 8 zu Art. 38 SchKG freilich, eine Abmachung, die dem Faustpfandgläubiger das Recht zum Selbstverkauf gewährt, falle "nur" nach Ausbruch des Konkurses über den Schuldner als ungültig dahin. In Übereinstimmung damit nimmt OFTINGER an, die Pfändung durch einen Dritten hindere die private Verwertung des Pfandes nicht (N. 53 zu Art. 891 ZGB). OFTINGER begründet jedoch seine Auffassung nicht, und JAEGER begnügt sich mit dem Hinweis auf BGE 24 II Nr. 57 (S. 445/6) = Sep. ausg. 1 Nr. 45 (S. 193), der fehlgeht, weil dieser Entscheid die Frage offen gelassen hat, ob das Selbstverkaufsrecht im Falle der Pfändung gelte.
Wenn Art. 316 k SchKG für den Fall des Nachlassvertrages mit Vermögensabtretung bestimmt, der Faustpfandgläubiger könne die Faustpfänder freihändig oder börsenmässig verwerten, sofern ihm der Pfandvertrag das Recht hiezu gebe, so lässt sich hieraus entgegen der Ansicht der Vorinstanz kein Argument dafür gewinnen, dass dieses Recht dem Pfandgläubiger auch im Falle der Pfändung erhalten bleibe. Art. 316 k räumt dem Faustpfandgläubiger überhaupt eine sehr freie Stellung ein. Er braucht das Pfand nicht abzuliefern und kann es (vorbehältlich einer im Nachlassvertrag enthaltenen Stundung der Pfandforderung) zur Verwertung bringen, wann es ihm passt. Unter diesen Umständen ist es nur folgerichtig, dass ihm auch das Recht zum privaten Verkauf gewahrt bleibt. Als eine Vorschrift, die sich aus der ganz besondern Stellung der Faustpfandgläubiger im Nachlassliquidationsverfahren erklärt, kann aber der auf das Selbstverkaufsrecht bezügliche Abschnitt von Art. 316 k im Falle der Pfändung nicht entsprechend angewendet werden. Es handelt sich dabei vielmehr um eine nur für den Liquidationsvergleich gültige Ausnahmevorschrift.
Die Erwägung der Vorinstanz, dass der Pfändungsbzw. Arrestgläubiger durch die Pfändung bzw. den Arrest keine bessern Rechte erwerben könne, als der Schuldner sie hatte, schlägt ebenfalls nicht durch. Sie ist deshalb verfehlt, weil die Pfändungsgläubiger wie die Konkursmasse von Gesetzes wegen einen eigenen Anspruch auf amtliche Verwertung der Pfänder haben, den der Schuldner ihnen nicht entziehen kann, indem er dem Pfandgläubiger das Recht zum privaten Verkauf einräumt.
Die Annahme, dass das Selbstverkaufsrecht nicht mehr ausgeübt werden kann, nachdem die Pfandsachen gepfändet oder arrestiert worden sind, führt nicht etwa zu unhaltbaren Konsequenzen. Den schutzwürdigen Interessen des Pfandgläubigers wird im Pfändungsverfahren durch das Deckungsprinzip (Art. 126 SchKG) Rechnung getragen. Um so weniger liesse es sich rechtfertigen, die private Verwertung in diesem Verfahren zuzulassen, sie dagegen im Konkurs auszuschliessen, wo das Deckungsprinzip nicht gilt. Das Umgekehrte liesse sich eher verstehen. Auf der andern Seite wird durch den Ausschluss der privaten Verwertung von gepfändeten Pfandgegenständen vermieden, dass die Pfändungsgläubiger einer allfälligen Verschleuderung dieser Gegenstände durch den Pfandgläubiger hilflos zusehen müssen. Diese Gefahr kann namentlich dann aktuell werden, wenn es sich wie im vorliegenden Fall um Sachen handelt, für die kein Markt- oder Börsenpreis besteht. Die von der Vorinstanz erwähnte Möglichkeit, dem Pfandgläubiger ein Kaufsangebot zu machen oder ihn unter Umständen auf Schadenersatz zu belangen, bietet den Pfändungsgläubigern gegen diese Gefahr keinen hinlänglichen Schutz.
Die Beschwerde der Rekurrentin gegen die Verfügung des Betreibungsamtes vom 29. Januar 1955 ist demnach begründet.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
In Gutheissung des Rekurses werden der angefochtene Entscheid und die Verfügung des Betreibungsamtes Arlesheim vom 29. Januar 1955 aufgehoben.
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Pignoramento e realizzazione del pegno da parte del creditore stesso. Il diritto che il contratto di costituzione del pegno conferisce al creditore di realizzare egli stesso i beni costituiti in pegno non può essere esercitato in caso di pignoramento o di sequestro. cosi come non può esserlo in caso di fallimento del debitore.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 61
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Sachverhalt ab Seite 61
Aus dem Tatbestand:
A.- Der am 9. November 1953 verstorbene Fritz Pfäffii hatte seinem Mieter Hans Schleith durch Vertrag vom 20. Juni 1953 ein Kaufsrecht in bezug auf seine Liegenschaften in Murten eingeräumt. Der Preis wurde auf Fr. 20'995.-- festgesetzt, zahlbar durch Übernahme der Hypothekarschulden von Fr. 16'000.-- Kapital und Barleistung des Restbetrages an die Berechtigten. Das Kaufsrecht darf nach den vertraglichen Bestimmungen erst nach dem Tode des Eigentümers ausgeübt werden. Es ist seit dem 10. Juli 1953 im Grundbuch vorgemerkt.
B.- In der Grundpfandbetreibung gegen die Verlassenschaft Pfäffii kam es am 7. März 1955 zur Steigerung. In den vom 14. Februar an aufgelegten Steigerungsbedingungen war bemerkt: "Es erfolgen zwei Ausrufe: 1/Ausruf: mit Kaufrecht zu Gunsten des Hans Schleith...; 2/Ausruf: ohne das Kaufrecht." An der Steigerung bot nun beim ersten Ausruf (mit dem Kaufsrecht) Hans Schleith Fr. 20'995.--, während sich keine andern Bieter meldeten. Hierauf nahm das Betreibungsamt einen zweiten Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vor, wobei die Eheleute Brechbühl den Zuschlag zum Höchstangebot von Fr. 23'500.-- erhielten.
C.- Auf Beschwerde des Hans Schleith hob die kantonale Aufsichtsbehörde mit Entscheid vom 8. April 1955 den Zuschlag samt den ihm vorausgegangenen Verwertungsmassnahmen auf.
D.- Mit vorliegendem Rekurs beantragen die Eheleute Brechbühl die Aufhebung des kantonalen Entscheides, die Abweisung der von Schleith geführten Beschwerde und die Bestätigung des an sie erfolgten Zuschlages zum Preise von Fr. 23'500.-- ohne Belastung mit dem Kaufsrecht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Ein doppelter Aufruf ist in dem (nach Art. 156 SchKG auch im Grundpfandverwertungsverfahren anwendbaren) Art. 142 SchKG für den Fall vorgesehen, dass eine Liegenschaft ohne Zustimmung des vorgehenden Grundpfandgläubigers mit einer Dienstbarkeit oder Grundlast belastet ist. Damit wird der Vorschrift von Art. 812 Abs. 2 ZGB Rechnung getragen, der bestimmt, dass das Grundpfandrecht einer später ohne Zustimmung der Pfandgläubiger auf das Grundstück gelegten Dienstbarkeit oder Grundlast vorgehe, und dass die spätere Belastung zu löschen sei, "sobald bei der Pfandverwertung ihr Bestand den vorgehenden Pfandgläubiger schädigt." Nach Art. 104 VZG sind - zweifellos dem Sinn der erwähnten Gesetzesvorschriften entsprechend - die im Grundbuch vorgemerkten persönlichen Rechte ebenfalls der für Dienstbarkeiten und Grundlasten geltenden Regelung unterworfen. Im übrigen wird die Anordnung eines Doppelaufrufs von einem Begehren von Pfandgläubigern abhängig gemacht, wofür ihnen bei Zustellung des Lastenverzeichnisses Frist anzusetzen ist. Für die Durchführung der Verwertung nach dem Prinzip des Doppelaufrufs enthält Art. 56 VZG nähere Anweisungen, die nach Art. 102 VZG auch bei der Grundpfandverwertung gelten. Danach bleibt der Meistbieter im ersten Aufruf (mit der Last) bei seinem Angebot behaftet bis nach Schluss eines allfälligen zweiten Aufrufs ohne die Last. Namentlich aber soll ein zweiter Aufruf gar nicht stattfinden, wenn der erste bereits ein zur Befriedigung des Gläubigers ausreichendes Angebot zeitigt oder der durch die Last Begünstigte einen Fehlbetrag sofort bezahlt. Denn unter solchen Umständen wirkt sich eben die Last (oder Vormerkung) nicht zum Nachteil der vorgehenden Grundpfandgläubiger aus, was allein (nach der grundlegenden Bestimmung von Art. 812 Abs. 2 ZGB) ihre Löschung rechtfertigen würde.
Der angefochtene Entscheid tut zutreffend dar, dass bei der Vorbereitung und Durchführung der Steigerung in verschiedener Hinsicht gegen diese Vorschriften verstossen wurde. Einmal liegt nichts dafür vor, dass ein Grundpfandgläubiger den doppelten Aufruf der Liegenschaften verlangt hätte. Indessen darf auch nicht angenommen werden, die Grundpfandgläubiger seien damit einverstanden gewesen, dass die Liegenschaften mit dem Kaufsrecht versteigert würden. Vielmehr war die Vormerkung dieses Rechtes gar nicht (unter der Rubrik "Andere Lasten") im Lastenverzeichnis aufgeführt, weshalb die in dessen gedrucktem Text enthaltene Fristansetzung sich nicht auf das streitige Kaufsrecht beziehen liess. Diese Lücke des Lastenverzeichnisses dürfte darauf zurückzuführen sein, dass der vom Betreibungsamt eingeholte Grundbuchauszug die Vormerkung unerwähnt gelassen hatte. Vor allem aber wurde, obwohl sich beim ersten Aufruf (mit dem Kaufsrecht) ein die Grundpfandforderungen völlig deckendes Angebot ergeben hatte, ein zweiter Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vorgenommen, also grundlos und entgegen der ausdrücklichen Vorschrift von Art. 56 lit. a VZG. Das Betreibungsamt hat dies denn auch in seinem Bericht zur Beschwerde des Hans Schleith zugegeben und die Gutheissung der Beschwerde beantragt. Bei dieser Sachlage war der regelwidrige Zuschlag samt dem in verschiedener Hinsicht fehlerhaften vorausgegangenen Verfahren in der Tat aufzuheben.
2. Um den zweiten Aufruf, bei dem sie den Zuschlag erhielten, dennoch zu rechtfertigen, bringen die Rekurrenten vor, das Betreibungsamt habe dieses Verfahren bereits in den Steigerungsbedingungen vorgesehen, somit hätten diese und nicht erst der Zuschlag angefochten werden müssen; die erst gegen den Zuschlag geführte Beschwerde sei verspätet. Allein die Anzeige eines doppelten Aufrufes laut den Steigerungsbedingungen durfte dahin verstanden werden, es handle sich um einen bedingten Doppelaufruf gemäss den dafür geltenden Vorschriften. Niemand brauchte anzunehmen, das Betreibungsamt werde auch bei genügendem Ergebnis des ersten Aufrufes, mit der Last, zu einem - in diesem Falle des zureichenden Grundes entbehrenden - zweiten Aufrufe schreiten. Erst als dann an der Steigerung in solch regelwidriger Weise verfahren wurde, ergab sich ein Anlass zur Beschwerde, und Schleith hat diese binnen zehn Tagen nach der Steigerung eingereicht.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Doppelaufruf des zu verwertenden Grundstücks: Unter welchen Voraussetzungen ist er in den Steigerungsbedingungen vorzusehen, und in welchen Fällen hat der zweite Aufruf alsdann stattzufinden? Art. 812 Abs. 2 ZGB, 142 /156 SchKG, 56 /102 und 104 VZG.
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Sachverhalt ab Seite 61
Aus dem Tatbestand:
A.- Der am 9. November 1953 verstorbene Fritz Pfäffii hatte seinem Mieter Hans Schleith durch Vertrag vom 20. Juni 1953 ein Kaufsrecht in bezug auf seine Liegenschaften in Murten eingeräumt. Der Preis wurde auf Fr. 20'995.-- festgesetzt, zahlbar durch Übernahme der Hypothekarschulden von Fr. 16'000.-- Kapital und Barleistung des Restbetrages an die Berechtigten. Das Kaufsrecht darf nach den vertraglichen Bestimmungen erst nach dem Tode des Eigentümers ausgeübt werden. Es ist seit dem 10. Juli 1953 im Grundbuch vorgemerkt.
B.- In der Grundpfandbetreibung gegen die Verlassenschaft Pfäffii kam es am 7. März 1955 zur Steigerung. In den vom 14. Februar an aufgelegten Steigerungsbedingungen war bemerkt: "Es erfolgen zwei Ausrufe: 1/Ausruf: mit Kaufrecht zu Gunsten des Hans Schleith...; 2/Ausruf: ohne das Kaufrecht." An der Steigerung bot nun beim ersten Ausruf (mit dem Kaufsrecht) Hans Schleith Fr. 20'995.--, während sich keine andern Bieter meldeten. Hierauf nahm das Betreibungsamt einen zweiten Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vor, wobei die Eheleute Brechbühl den Zuschlag zum Höchstangebot von Fr. 23'500.-- erhielten.
C.- Auf Beschwerde des Hans Schleith hob die kantonale Aufsichtsbehörde mit Entscheid vom 8. April 1955 den Zuschlag samt den ihm vorausgegangenen Verwertungsmassnahmen auf.
D.- Mit vorliegendem Rekurs beantragen die Eheleute Brechbühl die Aufhebung des kantonalen Entscheides, die Abweisung der von Schleith geführten Beschwerde und die Bestätigung des an sie erfolgten Zuschlages zum Preise von Fr. 23'500.-- ohne Belastung mit dem Kaufsrecht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Ein doppelter Aufruf ist in dem (nach Art. 156 SchKG auch im Grundpfandverwertungsverfahren anwendbaren) Art. 142 SchKG für den Fall vorgesehen, dass eine Liegenschaft ohne Zustimmung des vorgehenden Grundpfandgläubigers mit einer Dienstbarkeit oder Grundlast belastet ist. Damit wird der Vorschrift von Art. 812 Abs. 2 ZGB Rechnung getragen, der bestimmt, dass das Grundpfandrecht einer später ohne Zustimmung der Pfandgläubiger auf das Grundstück gelegten Dienstbarkeit oder Grundlast vorgehe, und dass die spätere Belastung zu löschen sei, "sobald bei der Pfandverwertung ihr Bestand den vorgehenden Pfandgläubiger schädigt." Nach Art. 104 VZG sind - zweifellos dem Sinn der erwähnten Gesetzesvorschriften entsprechend - die im Grundbuch vorgemerkten persönlichen Rechte ebenfalls der für Dienstbarkeiten und Grundlasten geltenden Regelung unterworfen. Im übrigen wird die Anordnung eines Doppelaufrufs von einem Begehren von Pfandgläubigern abhängig gemacht, wofür ihnen bei Zustellung des Lastenverzeichnisses Frist anzusetzen ist. Für die Durchführung der Verwertung nach dem Prinzip des Doppelaufrufs enthält Art. 56 VZG nähere Anweisungen, die nach Art. 102 VZG auch bei der Grundpfandverwertung gelten. Danach bleibt der Meistbieter im ersten Aufruf (mit der Last) bei seinem Angebot behaftet bis nach Schluss eines allfälligen zweiten Aufrufs ohne die Last. Namentlich aber soll ein zweiter Aufruf gar nicht stattfinden, wenn der erste bereits ein zur Befriedigung des Gläubigers ausreichendes Angebot zeitigt oder der durch die Last Begünstigte einen Fehlbetrag sofort bezahlt. Denn unter solchen Umständen wirkt sich eben die Last (oder Vormerkung) nicht zum Nachteil der vorgehenden Grundpfandgläubiger aus, was allein (nach der grundlegenden Bestimmung von Art. 812 Abs. 2 ZGB) ihre Löschung rechtfertigen würde.
Der angefochtene Entscheid tut zutreffend dar, dass bei der Vorbereitung und Durchführung der Steigerung in verschiedener Hinsicht gegen diese Vorschriften verstossen wurde. Einmal liegt nichts dafür vor, dass ein Grundpfandgläubiger den doppelten Aufruf der Liegenschaften verlangt hätte. Indessen darf auch nicht angenommen werden, die Grundpfandgläubiger seien damit einverstanden gewesen, dass die Liegenschaften mit dem Kaufsrecht versteigert würden. Vielmehr war die Vormerkung dieses Rechtes gar nicht (unter der Rubrik "Andere Lasten") im Lastenverzeichnis aufgeführt, weshalb die in dessen gedrucktem Text enthaltene Fristansetzung sich nicht auf das streitige Kaufsrecht beziehen liess. Diese Lücke des Lastenverzeichnisses dürfte darauf zurückzuführen sein, dass der vom Betreibungsamt eingeholte Grundbuchauszug die Vormerkung unerwähnt gelassen hatte. Vor allem aber wurde, obwohl sich beim ersten Aufruf (mit dem Kaufsrecht) ein die Grundpfandforderungen völlig deckendes Angebot ergeben hatte, ein zweiter Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vorgenommen, also grundlos und entgegen der ausdrücklichen Vorschrift von Art. 56 lit. a VZG. Das Betreibungsamt hat dies denn auch in seinem Bericht zur Beschwerde des Hans Schleith zugegeben und die Gutheissung der Beschwerde beantragt. Bei dieser Sachlage war der regelwidrige Zuschlag samt dem in verschiedener Hinsicht fehlerhaften vorausgegangenen Verfahren in der Tat aufzuheben.
2. Um den zweiten Aufruf, bei dem sie den Zuschlag erhielten, dennoch zu rechtfertigen, bringen die Rekurrenten vor, das Betreibungsamt habe dieses Verfahren bereits in den Steigerungsbedingungen vorgesehen, somit hätten diese und nicht erst der Zuschlag angefochten werden müssen; die erst gegen den Zuschlag geführte Beschwerde sei verspätet. Allein die Anzeige eines doppelten Aufrufes laut den Steigerungsbedingungen durfte dahin verstanden werden, es handle sich um einen bedingten Doppelaufruf gemäss den dafür geltenden Vorschriften. Niemand brauchte anzunehmen, das Betreibungsamt werde auch bei genügendem Ergebnis des ersten Aufrufes, mit der Last, zu einem - in diesem Falle des zureichenden Grundes entbehrenden - zweiten Aufrufe schreiten. Erst als dann an der Steigerung in solch regelwidriger Weise verfahren wurde, ergab sich ein Anlass zur Beschwerde, und Schleith hat diese binnen zehn Tagen nach der Steigerung eingereicht.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Double mise à prix de l'immeuble à réaliser: En quels cas doit-on la prévoir dans les conditions de vente et dans quels cas la seconde mise à prix doit-elle alors avoir lieu? Art. 812 al. 2 CC, 142 /156 LP, 56 /102 et 104 ORI.
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-61%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 61
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Sachverhalt ab Seite 61
Aus dem Tatbestand:
A.- Der am 9. November 1953 verstorbene Fritz Pfäffii hatte seinem Mieter Hans Schleith durch Vertrag vom 20. Juni 1953 ein Kaufsrecht in bezug auf seine Liegenschaften in Murten eingeräumt. Der Preis wurde auf Fr. 20'995.-- festgesetzt, zahlbar durch Übernahme der Hypothekarschulden von Fr. 16'000.-- Kapital und Barleistung des Restbetrages an die Berechtigten. Das Kaufsrecht darf nach den vertraglichen Bestimmungen erst nach dem Tode des Eigentümers ausgeübt werden. Es ist seit dem 10. Juli 1953 im Grundbuch vorgemerkt.
B.- In der Grundpfandbetreibung gegen die Verlassenschaft Pfäffii kam es am 7. März 1955 zur Steigerung. In den vom 14. Februar an aufgelegten Steigerungsbedingungen war bemerkt: "Es erfolgen zwei Ausrufe: 1/Ausruf: mit Kaufrecht zu Gunsten des Hans Schleith...; 2/Ausruf: ohne das Kaufrecht." An der Steigerung bot nun beim ersten Ausruf (mit dem Kaufsrecht) Hans Schleith Fr. 20'995.--, während sich keine andern Bieter meldeten. Hierauf nahm das Betreibungsamt einen zweiten Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vor, wobei die Eheleute Brechbühl den Zuschlag zum Höchstangebot von Fr. 23'500.-- erhielten.
C.- Auf Beschwerde des Hans Schleith hob die kantonale Aufsichtsbehörde mit Entscheid vom 8. April 1955 den Zuschlag samt den ihm vorausgegangenen Verwertungsmassnahmen auf.
D.- Mit vorliegendem Rekurs beantragen die Eheleute Brechbühl die Aufhebung des kantonalen Entscheides, die Abweisung der von Schleith geführten Beschwerde und die Bestätigung des an sie erfolgten Zuschlages zum Preise von Fr. 23'500.-- ohne Belastung mit dem Kaufsrecht.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Ein doppelter Aufruf ist in dem (nach Art. 156 SchKG auch im Grundpfandverwertungsverfahren anwendbaren) Art. 142 SchKG für den Fall vorgesehen, dass eine Liegenschaft ohne Zustimmung des vorgehenden Grundpfandgläubigers mit einer Dienstbarkeit oder Grundlast belastet ist. Damit wird der Vorschrift von Art. 812 Abs. 2 ZGB Rechnung getragen, der bestimmt, dass das Grundpfandrecht einer später ohne Zustimmung der Pfandgläubiger auf das Grundstück gelegten Dienstbarkeit oder Grundlast vorgehe, und dass die spätere Belastung zu löschen sei, "sobald bei der Pfandverwertung ihr Bestand den vorgehenden Pfandgläubiger schädigt." Nach Art. 104 VZG sind - zweifellos dem Sinn der erwähnten Gesetzesvorschriften entsprechend - die im Grundbuch vorgemerkten persönlichen Rechte ebenfalls der für Dienstbarkeiten und Grundlasten geltenden Regelung unterworfen. Im übrigen wird die Anordnung eines Doppelaufrufs von einem Begehren von Pfandgläubigern abhängig gemacht, wofür ihnen bei Zustellung des Lastenverzeichnisses Frist anzusetzen ist. Für die Durchführung der Verwertung nach dem Prinzip des Doppelaufrufs enthält Art. 56 VZG nähere Anweisungen, die nach Art. 102 VZG auch bei der Grundpfandverwertung gelten. Danach bleibt der Meistbieter im ersten Aufruf (mit der Last) bei seinem Angebot behaftet bis nach Schluss eines allfälligen zweiten Aufrufs ohne die Last. Namentlich aber soll ein zweiter Aufruf gar nicht stattfinden, wenn der erste bereits ein zur Befriedigung des Gläubigers ausreichendes Angebot zeitigt oder der durch die Last Begünstigte einen Fehlbetrag sofort bezahlt. Denn unter solchen Umständen wirkt sich eben die Last (oder Vormerkung) nicht zum Nachteil der vorgehenden Grundpfandgläubiger aus, was allein (nach der grundlegenden Bestimmung von Art. 812 Abs. 2 ZGB) ihre Löschung rechtfertigen würde.
Der angefochtene Entscheid tut zutreffend dar, dass bei der Vorbereitung und Durchführung der Steigerung in verschiedener Hinsicht gegen diese Vorschriften verstossen wurde. Einmal liegt nichts dafür vor, dass ein Grundpfandgläubiger den doppelten Aufruf der Liegenschaften verlangt hätte. Indessen darf auch nicht angenommen werden, die Grundpfandgläubiger seien damit einverstanden gewesen, dass die Liegenschaften mit dem Kaufsrecht versteigert würden. Vielmehr war die Vormerkung dieses Rechtes gar nicht (unter der Rubrik "Andere Lasten") im Lastenverzeichnis aufgeführt, weshalb die in dessen gedrucktem Text enthaltene Fristansetzung sich nicht auf das streitige Kaufsrecht beziehen liess. Diese Lücke des Lastenverzeichnisses dürfte darauf zurückzuführen sein, dass der vom Betreibungsamt eingeholte Grundbuchauszug die Vormerkung unerwähnt gelassen hatte. Vor allem aber wurde, obwohl sich beim ersten Aufruf (mit dem Kaufsrecht) ein die Grundpfandforderungen völlig deckendes Angebot ergeben hatte, ein zweiter Aufruf (ohne das Kaufsrecht) vorgenommen, also grundlos und entgegen der ausdrücklichen Vorschrift von Art. 56 lit. a VZG. Das Betreibungsamt hat dies denn auch in seinem Bericht zur Beschwerde des Hans Schleith zugegeben und die Gutheissung der Beschwerde beantragt. Bei dieser Sachlage war der regelwidrige Zuschlag samt dem in verschiedener Hinsicht fehlerhaften vorausgegangenen Verfahren in der Tat aufzuheben.
2. Um den zweiten Aufruf, bei dem sie den Zuschlag erhielten, dennoch zu rechtfertigen, bringen die Rekurrenten vor, das Betreibungsamt habe dieses Verfahren bereits in den Steigerungsbedingungen vorgesehen, somit hätten diese und nicht erst der Zuschlag angefochten werden müssen; die erst gegen den Zuschlag geführte Beschwerde sei verspätet. Allein die Anzeige eines doppelten Aufrufes laut den Steigerungsbedingungen durfte dahin verstanden werden, es handle sich um einen bedingten Doppelaufruf gemäss den dafür geltenden Vorschriften. Niemand brauchte anzunehmen, das Betreibungsamt werde auch bei genügendem Ergebnis des ersten Aufrufes, mit der Last, zu einem - in diesem Falle des zureichenden Grundes entbehrenden - zweiten Aufrufe schreiten. Erst als dann an der Steigerung in solch regelwidriger Weise verfahren wurde, ergab sich ein Anlass zur Beschwerde, und Schleith hat diese binnen zehn Tagen nach der Steigerung eingereicht.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Doppio incanto del fondo da realizzare: in quali casi deve essere previsto nelle condizioni dell'incanto e in quali casi il secondo incanto deve essere eseguito? Art. 812 cp. 2 CC, 142 /156 LEF, 56 /102 e 104 RFF.
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81 III 65
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Sachverhalt ab Seite 65
A.- Nachdem der im Konkurs über Theo Müller zustande gekommene Nachlassvertrag am 9. Dezember 1954 bestätigt und infolgedessen der Konkurs am 23. Dezember widerrufen worden war, führte im April 1955 die Rekurrentin gegen das Konkursamt Beschwerde mit dem Begehren, dieses sei zur sofortigen Zahlung der AHV-Beiträge für die Zeit vom 4. Oktober bis 10. Dezember 1954 zu verhalten, in welcher Zeit der Konkursbeamte als Massaverwalter die AHV-Abrechnungen mit der Kasse hätte erledigen sollen, aber nur mangelhaft erledigt habe.
Die kantonale Aufsichtsbehörde ist auf diese Beschwerde nicht eingetreten, weil mit dem Widerruf des Konkurses und der Wiedereinsetzung des Schuldners in die freie Verfügung über sein Vermögen die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als solchen beendigt gewesen sei; wenn der Konkursbeamte noch weiter sich mit der Sache befasse, so nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern als privatrechtlicher Vertreter des Schuldners. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Unterlassung von solchen richten könne, die ein Organ der Zwangsvollstreckung oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornehme oder vorzunehmen habe, könne das Verhalten des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrages nicht Gegenstand einer Beschwerde an die Aufsichtsbehörde sein. Nach Erledigung des Konkursverfahrens durch Widerruf des Konkurses habe der Konkursbeamte lediglich gegenüber dem Schuldner noch die Abrechnung zu erstatten. Selbst wenn Dritte gegenüber der Konkursmasse oder gegenüber dem Konkursverwalter Forderungsansprüche erhöben, die dieser nicht anerkenne, so sei dafür weder während des Konkursverfahrens noch nachher der Weg der Rechtsverzögerungs- oder Verweigerungsbeschwerde an die Aufsichtsbehörde gegeben, sondern einzig der ordentliche Richter zuständig.
B.- Mit dem vorliegenden Rekurs hält die Beschwerdeführerin an ihrem Begehren fest. Sie führt aus, zu Unrecht nehme die Vorinstanz an, die Beschwerde beziehe sich nicht auf die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung. Gerade das sei der Fall, denn eben in und bezüglich der Zeit bis zur Bestätigung des Nachlassvertrages und zum Konkurswiderruf hätte das Konkursamt als Konkursverwaltung über die ihm anvertrauten AHV-Gelder abrechnen und diese abliefern sollen, habe diese Pflicht aber vernachlässigt; sie sei mit dem Konkurswiderruf nicht erloschen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nachdem der Konkurs widerrufen und der Schuldner wieder in die Verfügung über sein Vermögen eingesetzt worden ist, besteht kein Konkursverfahren mehr und hat die ehemalige Konkursverwaltung keine Verfügungen mehr zu treffen; sie kann daher auch nicht mehr mittels Beschwerde verhalten werden, solche vorzunehmen. Zu Unrecht behauptet die Rekurrentin dies mit der Begründung, sie verlange vom ehemaligen Konkursverwalter ja nur und gerade die Vornahme von Vorkehren, die er damals, als er noch in amtlicher Funktion stand, hätte von Amtes wegen vornehmen sollen, aber pflichtwidrig unterlassen habe. Selbst solche Verfügungen jedoch, die zur Zeit seiner amtlichen Funktion in die Zuständigkeit und Pflicht des Konkursverwalters fielen, kann dieser vom Moment an, da er jene Funktion eben nicht mehr ausübt, nicht mehr abändern bzw. nachholen, daher auch nicht mittels Beschwerde dazu verhalten werden. Auch handelt es sich vorliegend nicht etwa um einen vollstreckungsrechtlichen Anspruch gegen das Konkursamt als Vertreter des Justiz- und Vollstreckungsfiskus, der mittels Aufsichtsbeschwerde geltend gemacht werden könnte (vgl. BGE 35 I 482, BGE 76 III 84ff.); vielmehr untersteht der ehemalige Konkursverwalter überhaupt nicht mehr der Aufsichtsbeschwerde. Hat er sich damals als Konkursverwalter einer schuldhaften Pflichtverletzung schuldig gemacht und dadurch Schaden verursacht, kann er allenfalls gemäss Art. 5 SchKG auf Schadenersatz belangt werden, aber vor dem Zivilrichter, nicht vor den Aufsichtsbehörden. Wo die Aufsichtsbeschwerde nicht mehr zur Erreichung eines praktischen Verfahrenszweckes zu führen geeignet ist, kann sie auch nicht zur blossen Feststellung einer behaupteten schuldhaften Pflichtverletzung benutzt werden, was darauf hinausliefe, dass die Aufsichtsbehörde dem Zivilrichter in seiner Beurteilung vorgriffe.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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de
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Beschwerde gegen den gewesenen Konkursverwalter ist nach Widerruf des Konkurses nicht mehr zulässig, auch nicht mit dem Begehren auf Nachholung von Handlungen, die jener zur Zeit seiner amtlichen Funktion hätte vornehmen sollen.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 65
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Sachverhalt ab Seite 65
A.- Nachdem der im Konkurs über Theo Müller zustande gekommene Nachlassvertrag am 9. Dezember 1954 bestätigt und infolgedessen der Konkurs am 23. Dezember widerrufen worden war, führte im April 1955 die Rekurrentin gegen das Konkursamt Beschwerde mit dem Begehren, dieses sei zur sofortigen Zahlung der AHV-Beiträge für die Zeit vom 4. Oktober bis 10. Dezember 1954 zu verhalten, in welcher Zeit der Konkursbeamte als Massaverwalter die AHV-Abrechnungen mit der Kasse hätte erledigen sollen, aber nur mangelhaft erledigt habe.
Die kantonale Aufsichtsbehörde ist auf diese Beschwerde nicht eingetreten, weil mit dem Widerruf des Konkurses und der Wiedereinsetzung des Schuldners in die freie Verfügung über sein Vermögen die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als solchen beendigt gewesen sei; wenn der Konkursbeamte noch weiter sich mit der Sache befasse, so nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern als privatrechtlicher Vertreter des Schuldners. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Unterlassung von solchen richten könne, die ein Organ der Zwangsvollstreckung oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornehme oder vorzunehmen habe, könne das Verhalten des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrages nicht Gegenstand einer Beschwerde an die Aufsichtsbehörde sein. Nach Erledigung des Konkursverfahrens durch Widerruf des Konkurses habe der Konkursbeamte lediglich gegenüber dem Schuldner noch die Abrechnung zu erstatten. Selbst wenn Dritte gegenüber der Konkursmasse oder gegenüber dem Konkursverwalter Forderungsansprüche erhöben, die dieser nicht anerkenne, so sei dafür weder während des Konkursverfahrens noch nachher der Weg der Rechtsverzögerungs- oder Verweigerungsbeschwerde an die Aufsichtsbehörde gegeben, sondern einzig der ordentliche Richter zuständig.
B.- Mit dem vorliegenden Rekurs hält die Beschwerdeführerin an ihrem Begehren fest. Sie führt aus, zu Unrecht nehme die Vorinstanz an, die Beschwerde beziehe sich nicht auf die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung. Gerade das sei der Fall, denn eben in und bezüglich der Zeit bis zur Bestätigung des Nachlassvertrages und zum Konkurswiderruf hätte das Konkursamt als Konkursverwaltung über die ihm anvertrauten AHV-Gelder abrechnen und diese abliefern sollen, habe diese Pflicht aber vernachlässigt; sie sei mit dem Konkurswiderruf nicht erloschen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nachdem der Konkurs widerrufen und der Schuldner wieder in die Verfügung über sein Vermögen eingesetzt worden ist, besteht kein Konkursverfahren mehr und hat die ehemalige Konkursverwaltung keine Verfügungen mehr zu treffen; sie kann daher auch nicht mehr mittels Beschwerde verhalten werden, solche vorzunehmen. Zu Unrecht behauptet die Rekurrentin dies mit der Begründung, sie verlange vom ehemaligen Konkursverwalter ja nur und gerade die Vornahme von Vorkehren, die er damals, als er noch in amtlicher Funktion stand, hätte von Amtes wegen vornehmen sollen, aber pflichtwidrig unterlassen habe. Selbst solche Verfügungen jedoch, die zur Zeit seiner amtlichen Funktion in die Zuständigkeit und Pflicht des Konkursverwalters fielen, kann dieser vom Moment an, da er jene Funktion eben nicht mehr ausübt, nicht mehr abändern bzw. nachholen, daher auch nicht mittels Beschwerde dazu verhalten werden. Auch handelt es sich vorliegend nicht etwa um einen vollstreckungsrechtlichen Anspruch gegen das Konkursamt als Vertreter des Justiz- und Vollstreckungsfiskus, der mittels Aufsichtsbeschwerde geltend gemacht werden könnte (vgl. BGE 35 I 482, BGE 76 III 84ff.); vielmehr untersteht der ehemalige Konkursverwalter überhaupt nicht mehr der Aufsichtsbeschwerde. Hat er sich damals als Konkursverwalter einer schuldhaften Pflichtverletzung schuldig gemacht und dadurch Schaden verursacht, kann er allenfalls gemäss Art. 5 SchKG auf Schadenersatz belangt werden, aber vor dem Zivilrichter, nicht vor den Aufsichtsbehörden. Wo die Aufsichtsbeschwerde nicht mehr zur Erreichung eines praktischen Verfahrenszweckes zu führen geeignet ist, kann sie auch nicht zur blossen Feststellung einer behaupteten schuldhaften Pflichtverletzung benutzt werden, was darauf hinausliefe, dass die Aufsichtsbehörde dem Zivilrichter in seiner Beurteilung vorgriffe.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Une fois la faillite révoquée, il n'est plus possible de porter plainte contre la personne qui exerçait les fonctions d'administrateur, même si la plainte tend à faire exécuter des opérations qui rentraient dans ses attributions.
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Sachverhalt ab Seite 65
A.- Nachdem der im Konkurs über Theo Müller zustande gekommene Nachlassvertrag am 9. Dezember 1954 bestätigt und infolgedessen der Konkurs am 23. Dezember widerrufen worden war, führte im April 1955 die Rekurrentin gegen das Konkursamt Beschwerde mit dem Begehren, dieses sei zur sofortigen Zahlung der AHV-Beiträge für die Zeit vom 4. Oktober bis 10. Dezember 1954 zu verhalten, in welcher Zeit der Konkursbeamte als Massaverwalter die AHV-Abrechnungen mit der Kasse hätte erledigen sollen, aber nur mangelhaft erledigt habe.
Die kantonale Aufsichtsbehörde ist auf diese Beschwerde nicht eingetreten, weil mit dem Widerruf des Konkurses und der Wiedereinsetzung des Schuldners in die freie Verfügung über sein Vermögen die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als solchen beendigt gewesen sei; wenn der Konkursbeamte noch weiter sich mit der Sache befasse, so nicht in amtlicher Eigenschaft, sondern als privatrechtlicher Vertreter des Schuldners. Da sich die Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG grundsätzlich nur gegen Massregeln bzw. die Unterlassung von solchen richten könne, die ein Organ der Zwangsvollstreckung oder der Sachwalter im Nachlassverfahren im Rahmen seiner amtlichen Befugnisse vornehme oder vorzunehmen habe, könne das Verhalten des Konkursamtes beim Vollzug des Nachlassvertrages nicht Gegenstand einer Beschwerde an die Aufsichtsbehörde sein. Nach Erledigung des Konkursverfahrens durch Widerruf des Konkurses habe der Konkursbeamte lediglich gegenüber dem Schuldner noch die Abrechnung zu erstatten. Selbst wenn Dritte gegenüber der Konkursmasse oder gegenüber dem Konkursverwalter Forderungsansprüche erhöben, die dieser nicht anerkenne, so sei dafür weder während des Konkursverfahrens noch nachher der Weg der Rechtsverzögerungs- oder Verweigerungsbeschwerde an die Aufsichtsbehörde gegeben, sondern einzig der ordentliche Richter zuständig.
B.- Mit dem vorliegenden Rekurs hält die Beschwerdeführerin an ihrem Begehren fest. Sie führt aus, zu Unrecht nehme die Vorinstanz an, die Beschwerde beziehe sich nicht auf die amtliche Tätigkeit des Konkursamtes als Konkursverwaltung. Gerade das sei der Fall, denn eben in und bezüglich der Zeit bis zur Bestätigung des Nachlassvertrages und zum Konkurswiderruf hätte das Konkursamt als Konkursverwaltung über die ihm anvertrauten AHV-Gelder abrechnen und diese abliefern sollen, habe diese Pflicht aber vernachlässigt; sie sei mit dem Konkurswiderruf nicht erloschen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
Nachdem der Konkurs widerrufen und der Schuldner wieder in die Verfügung über sein Vermögen eingesetzt worden ist, besteht kein Konkursverfahren mehr und hat die ehemalige Konkursverwaltung keine Verfügungen mehr zu treffen; sie kann daher auch nicht mehr mittels Beschwerde verhalten werden, solche vorzunehmen. Zu Unrecht behauptet die Rekurrentin dies mit der Begründung, sie verlange vom ehemaligen Konkursverwalter ja nur und gerade die Vornahme von Vorkehren, die er damals, als er noch in amtlicher Funktion stand, hätte von Amtes wegen vornehmen sollen, aber pflichtwidrig unterlassen habe. Selbst solche Verfügungen jedoch, die zur Zeit seiner amtlichen Funktion in die Zuständigkeit und Pflicht des Konkursverwalters fielen, kann dieser vom Moment an, da er jene Funktion eben nicht mehr ausübt, nicht mehr abändern bzw. nachholen, daher auch nicht mittels Beschwerde dazu verhalten werden. Auch handelt es sich vorliegend nicht etwa um einen vollstreckungsrechtlichen Anspruch gegen das Konkursamt als Vertreter des Justiz- und Vollstreckungsfiskus, der mittels Aufsichtsbeschwerde geltend gemacht werden könnte (vgl. BGE 35 I 482, BGE 76 III 84ff.); vielmehr untersteht der ehemalige Konkursverwalter überhaupt nicht mehr der Aufsichtsbeschwerde. Hat er sich damals als Konkursverwalter einer schuldhaften Pflichtverletzung schuldig gemacht und dadurch Schaden verursacht, kann er allenfalls gemäss Art. 5 SchKG auf Schadenersatz belangt werden, aber vor dem Zivilrichter, nicht vor den Aufsichtsbehörden. Wo die Aufsichtsbeschwerde nicht mehr zur Erreichung eines praktischen Verfahrenszweckes zu führen geeignet ist, kann sie auch nicht zur blossen Feststellung einer behaupteten schuldhaften Pflichtverletzung benutzt werden, was darauf hinausliefe, dass die Aufsichtsbehörde dem Zivilrichter in seiner Beurteilung vorgriffe.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Dopo la rivocazione del fallimento non è più possible di reclamare contro l'operato dell'ex amministratore, neppure per chiedere che proceda a operazioni che rientravano nelle sue mansioni.
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-65%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 67
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Sachverhalt ab Seite 68
Am 7. Februar 1955 fertigte das Betreibungsamt Gansingen für eine Forderung der City-Umbau A. G. in Zürich gegen Frl. Meier in Zürich im Betrage von Fr. 340.-- (rückständige Schuldbriefzinsen) nebst Zins und Kosten einen Zahlungsbefehl für die Betreibung auf Verwertung eines Grundpfandes (der Liegenschaft Nr. 25 in Gansingen) aus. Die Zustellung an die Schuldnerin erfolgte durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief, den die Schuldnerin, weil ihre Adresse im Betreibungsbegehren unrichtig angegeben worden war, erst am 11. Februar 1955 erhielt.
Am 7. Februar richtete das Betreibungsamt an die Allgemeine Aargauische Ersparniskasse in Aarau, die ihm vom Grundbuchamt als Grundpfandgläubigerin im 1. Rang angegeben worden war, die Mitteilung, der Gläubiger im 3. Rang habe Grundpfandbetreibung eingeleitet und die Zinssperre nach Art. 91 VZG verlangt, wovon die beiden Mieter in Kenntnis gesetzt worden seien. Da die Ersparniskasse antwortete, ihr Schuldbrief sei an Emil M. in Adliswil übertragen worden und werde vermutlich von der Schweiz. Bankgesellschaft in Wohlen verwahrt und verwaltet, gab das Betreibungsamt am 9. Februar dieser Bank von der Mietzinssperre Kenntnis.
Am 17. Februar 1955 führte die Schuldnerin gegen das Betreibungsamt Beschwerde. Sie beantragte "Annullierung des am 7. Februar 1955 ausgefertigten Zahlungsbefehls und dessen Neuerstellung unter Kostenfolge für das Betreibungsamt Gansingen", weil die Zustellung in ungesetzlicher Weise erfolgt sei. Ausserdem beantragte sie, dem Betreibungsamt sei eine Rüge zu erteilen, weil es der Ersparniskasse und der Bankgesellschaft zu Unrecht die Mietzinssperre angezeigt und damit ihren Kredit geschädigt habe. Die untere Aufsichtsbehörde schrieb das Beschwerdeverfahren am 21. Februar 1955 als durch Rückzug der Betreibung erledigt ab.
Hiegegen rekurrierte die Schuldnerin an die kantonale Aufsichtsbehörde mit den Anträgen, "dass
1. die Kosten von Fr. 17.50 vom Betreibungsamt Gansingen dem Beschwerdeführer (Schuldner) zurückzuerstatten seien;
2. das Vorliegen einer unangemessenen Verfügung seitens des Betreibungsamtes Gansingen im Hinblick auf einen eventuellen Kreditschädigungsprozess festgestellt und dem fehlbaren Beamten zumindest eine Rüge erteilt werde."
Am 30. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt, der Rekurs werde abgewiesen, soweit darauf einzutreten sei.
Diesen Entscheid hat die Schuldnerin unter Erneuerung der vor der kantonalen Aufsichtsbehörde gestellten Anträge an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Aus einem Schreiben der Genossenschaftlichen Zentralbank (Vertreterin der Gläubigerin) an die Rekurrentin vom 28. Februar 1955, das diese im kantonalen Verfahren eingereicht hat, ergibt sich, dass der Kostenbetrag von Fr. 17.50, dessen Rückerstattung verlangt wird, sich wie folgt zusammensetzt:
Fr. 4.10 : Zahlungsbefehl
1.20 : "einfordern d. Gl. Grundbuchamt"
2.60 : Anzeige an die zwei Mieter
1.40 : Aufforderung an die Schuldnerin
2.80 : Anzeige Grundpfandgläubiger
1.40 : Rechtsvorschlag Zürich
2.60 : Anzeige an die Mieter: Löschung
1.40 : Anzeige an die Schuldnerin z. H. der Gläubiger.
Entgegen der Auffassung der Vorinstanz ist anzunehmen, dass schon die Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde auf Rückerstattung dieser Gebühren zielte. Die Rekurrentin verlangte damals Annullierung und Neuerstellung des Zahlungsbefehls "unter Kostenfolge für das Betreibungsamt". Diese Wendung darf dahin ausgelegt werden, dass die Rekurrentin mit ihrer Beschwerde den Erlass aller mit dem ersten Zahlungsbefehl zusammenhängenden Kosten (die ihr erst später im einzelnen bekannt wurden) erreichen wollte.
2. Art. 17 GebT, der nach dem Randtitel von der "Anwendung des Tarifs bei Aufhebung einer Verfügung" handelt, schreibt vor: "Für ungültige Verfügungen ist keine Gebühr (Entschädigung) zu entrichten, sofern den Beamten ein Verschulden trifft; hierüber sowie über die Rückerstattung entscheidet die Aufsichtsbehörde." a) Die postalische Zustellung des Zahlungsbefehls entsprach den gesetzlichen Vorschriften nicht, weil sie nicht in der "nach der Postordnung für Bestellung gerichtlicher Akten zu befolgenden Weise" (Art. 72 SchKG), sondern durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief erfolgte. Wegen vorschriftswidriger Zustellungsweise ist jedoch ein Zahlungsbefehl nach der Rechtsprechung nicht aufzuheben, wenn feststeht, dass der Schuldner ihn trotz dem bei der Zustellung begangenen Fehler persönlich erhalten hat (BGE 54 III 250). So verhält es sich unstreitig im vorliegenden Falle. Der Zahlungsbefehl vom 7. Februar 1955 ist also nicht ungültig. Die Kosten dieses Zahlungsbefehls sind daher nicht zurückzuerstatten.
b) Die Anzeige der Mietzinssperre an die Mieter scheint entgegen Art. 91 VZG schon vor der Zustellung des Zahlungsbefehls an die Rekurrentin erfolgt zu sein. Sie deswegen als ungültig zu bezeichnen und die Rückerstattung der dafür erhobenen Kosten anzuordnen, kommt aber nicht in Frage, weil sie wenige Tage später doch hätte erfolgen müssen.
c) Dass das Betreibungsamt von der Einleitung einer Grundpfandbetreibung mit Mietzinssperre den übrigen Grundpfandgläubigern sogleich Kenntnis zu geben habe, ist nirgends vorgeschrieben. Die übrigen Grundpfandgläubiger sind erst zu verständigen, wenn es zur Steigerung kommt (Art. 156 SchKG und Art. 102 VZG in Verbindung mit Art. 139 SchKG und Art. 30 VZG). Die Anzeigen an die Ersparniskasse und die Bankgesellschaft hätten daher auf Begehren der Rekurrentin aufgehoben werden müssen, wenn nicht die Betreibung infolge Rückzugs wegen der am 18. Februar 1955 an die Gläubigerin geleisteten Zahlung ohnehin erloschen wäre, und verdienen daher, im Sinne von Art. 17 GebT als ungültige Verfügungen betrachtet zu werden. Der Erlass dieser unnötigen, vom Gesetz nicht vorgesehenen Verfügungen muss dem Betreibungsbeamten zum Verschulden angerechnet werden, wenn er auch ohne Zweifel im Glauben war, richtig zu handeln. Die Kosten dieser Anzeige (Fr. 2.80) sind deshalb zurückzuerstatten.
d) Darüber, wieso die übrigen in der Kostenaufstellung erwähnten Amtshandlungen ungültig seien, hat die Rekurrentin keine Ausführungen gemacht. Soweit mit dem Rekurs die Rückerstattung der Kosten dieser Verfügungen verlangt wird, ist also darauf nicht einzutreten.
3. Das Begehren, im Hinblick auf einen allfälligen Schadenersatzprozess gegen den Betreibungsbeamten das "Vorliegen einer unangemessenen Verfügung" festzustellen, ist schon deswegen unzulässig, weil eine Beschwerde nach Art. 21 SchKG nur die Aufhebung oder Berichtigung einer bestimmten Verfügung oder die Vollziehung von Handlungen, deren Vornahme der Beamte unbegründetermassen verweigert oder verzögert hat, zum Ziel haben kann.
Auf den Antrag, dem Betreibungsbeamten sei eine Rüge zu erteilen, ist nicht einzutreten, weil das Bundesgericht über die Betreibungs- und Konkursbeamten, die kantonale Beamte sind, keine Disziplinargewalt besitzt (BGE 43 III 93, BGE 59 III 66).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird in dem Sinne teilweise gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Gansingen angewiesen wird, der Rekurrentin den Betrag von Fr. 2.80 zurückzuerstatten. Im übrigen wird der Rekurs abgewiesen, soweit darauf einzutreten ist.
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Rückerstattung der Gebühren für ungültige Verfügungen (Art. 17 GebT). Sind zurückzuerstatten a) die Kosten eines entgegen Art. 72 SchKG durch gewöhnlichen Chargébrief zugestellten Zahlungsbefehls? b) die Kosten einer entgegen Art. 91 VZG vor Zustellung des Zahlungsbefehls an den Schuldner erfolgten Anzeige der Mietzinssperre an die Mieter? c) die Kosten einervom Gesetz nicht vorgesehenen Mitteilung an die nicht betreibenden Grundpfandgläubiger über die Anordnung der Mietzinssperre? Beschwerde zwecks Vorbereitung einer Schadenersatzklage gegen den Betreibungsbeamten? (Art. 21 SchKG).
Rekurs gegen einen Entscheid der kantonalen Aufsichtsbehörde, der die Anordnung von Disziplinarmassnahmen (Art. 14 SchKG) ablehnt?
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Sachverhalt ab Seite 68
Am 7. Februar 1955 fertigte das Betreibungsamt Gansingen für eine Forderung der City-Umbau A. G. in Zürich gegen Frl. Meier in Zürich im Betrage von Fr. 340.-- (rückständige Schuldbriefzinsen) nebst Zins und Kosten einen Zahlungsbefehl für die Betreibung auf Verwertung eines Grundpfandes (der Liegenschaft Nr. 25 in Gansingen) aus. Die Zustellung an die Schuldnerin erfolgte durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief, den die Schuldnerin, weil ihre Adresse im Betreibungsbegehren unrichtig angegeben worden war, erst am 11. Februar 1955 erhielt.
Am 7. Februar richtete das Betreibungsamt an die Allgemeine Aargauische Ersparniskasse in Aarau, die ihm vom Grundbuchamt als Grundpfandgläubigerin im 1. Rang angegeben worden war, die Mitteilung, der Gläubiger im 3. Rang habe Grundpfandbetreibung eingeleitet und die Zinssperre nach Art. 91 VZG verlangt, wovon die beiden Mieter in Kenntnis gesetzt worden seien. Da die Ersparniskasse antwortete, ihr Schuldbrief sei an Emil M. in Adliswil übertragen worden und werde vermutlich von der Schweiz. Bankgesellschaft in Wohlen verwahrt und verwaltet, gab das Betreibungsamt am 9. Februar dieser Bank von der Mietzinssperre Kenntnis.
Am 17. Februar 1955 führte die Schuldnerin gegen das Betreibungsamt Beschwerde. Sie beantragte "Annullierung des am 7. Februar 1955 ausgefertigten Zahlungsbefehls und dessen Neuerstellung unter Kostenfolge für das Betreibungsamt Gansingen", weil die Zustellung in ungesetzlicher Weise erfolgt sei. Ausserdem beantragte sie, dem Betreibungsamt sei eine Rüge zu erteilen, weil es der Ersparniskasse und der Bankgesellschaft zu Unrecht die Mietzinssperre angezeigt und damit ihren Kredit geschädigt habe. Die untere Aufsichtsbehörde schrieb das Beschwerdeverfahren am 21. Februar 1955 als durch Rückzug der Betreibung erledigt ab.
Hiegegen rekurrierte die Schuldnerin an die kantonale Aufsichtsbehörde mit den Anträgen, "dass
1. die Kosten von Fr. 17.50 vom Betreibungsamt Gansingen dem Beschwerdeführer (Schuldner) zurückzuerstatten seien;
2. das Vorliegen einer unangemessenen Verfügung seitens des Betreibungsamtes Gansingen im Hinblick auf einen eventuellen Kreditschädigungsprozess festgestellt und dem fehlbaren Beamten zumindest eine Rüge erteilt werde."
Am 30. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt, der Rekurs werde abgewiesen, soweit darauf einzutreten sei.
Diesen Entscheid hat die Schuldnerin unter Erneuerung der vor der kantonalen Aufsichtsbehörde gestellten Anträge an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Aus einem Schreiben der Genossenschaftlichen Zentralbank (Vertreterin der Gläubigerin) an die Rekurrentin vom 28. Februar 1955, das diese im kantonalen Verfahren eingereicht hat, ergibt sich, dass der Kostenbetrag von Fr. 17.50, dessen Rückerstattung verlangt wird, sich wie folgt zusammensetzt:
Fr. 4.10 : Zahlungsbefehl
1.20 : "einfordern d. Gl. Grundbuchamt"
2.60 : Anzeige an die zwei Mieter
1.40 : Aufforderung an die Schuldnerin
2.80 : Anzeige Grundpfandgläubiger
1.40 : Rechtsvorschlag Zürich
2.60 : Anzeige an die Mieter: Löschung
1.40 : Anzeige an die Schuldnerin z. H. der Gläubiger.
Entgegen der Auffassung der Vorinstanz ist anzunehmen, dass schon die Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde auf Rückerstattung dieser Gebühren zielte. Die Rekurrentin verlangte damals Annullierung und Neuerstellung des Zahlungsbefehls "unter Kostenfolge für das Betreibungsamt". Diese Wendung darf dahin ausgelegt werden, dass die Rekurrentin mit ihrer Beschwerde den Erlass aller mit dem ersten Zahlungsbefehl zusammenhängenden Kosten (die ihr erst später im einzelnen bekannt wurden) erreichen wollte.
2. Art. 17 GebT, der nach dem Randtitel von der "Anwendung des Tarifs bei Aufhebung einer Verfügung" handelt, schreibt vor: "Für ungültige Verfügungen ist keine Gebühr (Entschädigung) zu entrichten, sofern den Beamten ein Verschulden trifft; hierüber sowie über die Rückerstattung entscheidet die Aufsichtsbehörde." a) Die postalische Zustellung des Zahlungsbefehls entsprach den gesetzlichen Vorschriften nicht, weil sie nicht in der "nach der Postordnung für Bestellung gerichtlicher Akten zu befolgenden Weise" (Art. 72 SchKG), sondern durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief erfolgte. Wegen vorschriftswidriger Zustellungsweise ist jedoch ein Zahlungsbefehl nach der Rechtsprechung nicht aufzuheben, wenn feststeht, dass der Schuldner ihn trotz dem bei der Zustellung begangenen Fehler persönlich erhalten hat (BGE 54 III 250). So verhält es sich unstreitig im vorliegenden Falle. Der Zahlungsbefehl vom 7. Februar 1955 ist also nicht ungültig. Die Kosten dieses Zahlungsbefehls sind daher nicht zurückzuerstatten.
b) Die Anzeige der Mietzinssperre an die Mieter scheint entgegen Art. 91 VZG schon vor der Zustellung des Zahlungsbefehls an die Rekurrentin erfolgt zu sein. Sie deswegen als ungültig zu bezeichnen und die Rückerstattung der dafür erhobenen Kosten anzuordnen, kommt aber nicht in Frage, weil sie wenige Tage später doch hätte erfolgen müssen.
c) Dass das Betreibungsamt von der Einleitung einer Grundpfandbetreibung mit Mietzinssperre den übrigen Grundpfandgläubigern sogleich Kenntnis zu geben habe, ist nirgends vorgeschrieben. Die übrigen Grundpfandgläubiger sind erst zu verständigen, wenn es zur Steigerung kommt (Art. 156 SchKG und Art. 102 VZG in Verbindung mit Art. 139 SchKG und Art. 30 VZG). Die Anzeigen an die Ersparniskasse und die Bankgesellschaft hätten daher auf Begehren der Rekurrentin aufgehoben werden müssen, wenn nicht die Betreibung infolge Rückzugs wegen der am 18. Februar 1955 an die Gläubigerin geleisteten Zahlung ohnehin erloschen wäre, und verdienen daher, im Sinne von Art. 17 GebT als ungültige Verfügungen betrachtet zu werden. Der Erlass dieser unnötigen, vom Gesetz nicht vorgesehenen Verfügungen muss dem Betreibungsbeamten zum Verschulden angerechnet werden, wenn er auch ohne Zweifel im Glauben war, richtig zu handeln. Die Kosten dieser Anzeige (Fr. 2.80) sind deshalb zurückzuerstatten.
d) Darüber, wieso die übrigen in der Kostenaufstellung erwähnten Amtshandlungen ungültig seien, hat die Rekurrentin keine Ausführungen gemacht. Soweit mit dem Rekurs die Rückerstattung der Kosten dieser Verfügungen verlangt wird, ist also darauf nicht einzutreten.
3. Das Begehren, im Hinblick auf einen allfälligen Schadenersatzprozess gegen den Betreibungsbeamten das "Vorliegen einer unangemessenen Verfügung" festzustellen, ist schon deswegen unzulässig, weil eine Beschwerde nach Art. 21 SchKG nur die Aufhebung oder Berichtigung einer bestimmten Verfügung oder die Vollziehung von Handlungen, deren Vornahme der Beamte unbegründetermassen verweigert oder verzögert hat, zum Ziel haben kann.
Auf den Antrag, dem Betreibungsbeamten sei eine Rüge zu erteilen, ist nicht einzutreten, weil das Bundesgericht über die Betreibungs- und Konkursbeamten, die kantonale Beamte sind, keine Disziplinargewalt besitzt (BGE 43 III 93, BGE 59 III 66).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird in dem Sinne teilweise gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Gansingen angewiesen wird, der Rekurrentin den Betrag von Fr. 2.80 zurückzuerstatten. Im übrigen wird der Rekurs abgewiesen, soweit darauf einzutreten ist.
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Restitution des émoluments payés pour des opérations nulles (art. 17 du Tarif). Doit-on restituer: a) les frais d'un commandement de payer notifié par simple lettre recommandée contrairement à ce que prescrit l'art. 72 LP? b) les frais d'un avis adressé aux locataires les informant de l'immobilisation des loyers avant la notification du commandement de payer au débiteur? c) les frais d'une communication non prévue par la loi aux créanciers hypothécaires non poursuivants les avisant de l'immobilisation des loyers? Est-il possible de porter plainte en vue de préparer une action en dommages-intérêts contre les préposés aux offices de poursuite?
Recours contre une décision de l'autorité cantonale de surveillance qui refuse de prendre des mesures disciplinaires (art. 14 LP)?
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Sachverhalt ab Seite 68
Am 7. Februar 1955 fertigte das Betreibungsamt Gansingen für eine Forderung der City-Umbau A. G. in Zürich gegen Frl. Meier in Zürich im Betrage von Fr. 340.-- (rückständige Schuldbriefzinsen) nebst Zins und Kosten einen Zahlungsbefehl für die Betreibung auf Verwertung eines Grundpfandes (der Liegenschaft Nr. 25 in Gansingen) aus. Die Zustellung an die Schuldnerin erfolgte durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief, den die Schuldnerin, weil ihre Adresse im Betreibungsbegehren unrichtig angegeben worden war, erst am 11. Februar 1955 erhielt.
Am 7. Februar richtete das Betreibungsamt an die Allgemeine Aargauische Ersparniskasse in Aarau, die ihm vom Grundbuchamt als Grundpfandgläubigerin im 1. Rang angegeben worden war, die Mitteilung, der Gläubiger im 3. Rang habe Grundpfandbetreibung eingeleitet und die Zinssperre nach Art. 91 VZG verlangt, wovon die beiden Mieter in Kenntnis gesetzt worden seien. Da die Ersparniskasse antwortete, ihr Schuldbrief sei an Emil M. in Adliswil übertragen worden und werde vermutlich von der Schweiz. Bankgesellschaft in Wohlen verwahrt und verwaltet, gab das Betreibungsamt am 9. Februar dieser Bank von der Mietzinssperre Kenntnis.
Am 17. Februar 1955 führte die Schuldnerin gegen das Betreibungsamt Beschwerde. Sie beantragte "Annullierung des am 7. Februar 1955 ausgefertigten Zahlungsbefehls und dessen Neuerstellung unter Kostenfolge für das Betreibungsamt Gansingen", weil die Zustellung in ungesetzlicher Weise erfolgt sei. Ausserdem beantragte sie, dem Betreibungsamt sei eine Rüge zu erteilen, weil es der Ersparniskasse und der Bankgesellschaft zu Unrecht die Mietzinssperre angezeigt und damit ihren Kredit geschädigt habe. Die untere Aufsichtsbehörde schrieb das Beschwerdeverfahren am 21. Februar 1955 als durch Rückzug der Betreibung erledigt ab.
Hiegegen rekurrierte die Schuldnerin an die kantonale Aufsichtsbehörde mit den Anträgen, "dass
1. die Kosten von Fr. 17.50 vom Betreibungsamt Gansingen dem Beschwerdeführer (Schuldner) zurückzuerstatten seien;
2. das Vorliegen einer unangemessenen Verfügung seitens des Betreibungsamtes Gansingen im Hinblick auf einen eventuellen Kreditschädigungsprozess festgestellt und dem fehlbaren Beamten zumindest eine Rüge erteilt werde."
Am 30. April 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde erkannt, der Rekurs werde abgewiesen, soweit darauf einzutreten sei.
Diesen Entscheid hat die Schuldnerin unter Erneuerung der vor der kantonalen Aufsichtsbehörde gestellten Anträge an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. Aus einem Schreiben der Genossenschaftlichen Zentralbank (Vertreterin der Gläubigerin) an die Rekurrentin vom 28. Februar 1955, das diese im kantonalen Verfahren eingereicht hat, ergibt sich, dass der Kostenbetrag von Fr. 17.50, dessen Rückerstattung verlangt wird, sich wie folgt zusammensetzt:
Fr. 4.10 : Zahlungsbefehl
1.20 : "einfordern d. Gl. Grundbuchamt"
2.60 : Anzeige an die zwei Mieter
1.40 : Aufforderung an die Schuldnerin
2.80 : Anzeige Grundpfandgläubiger
1.40 : Rechtsvorschlag Zürich
2.60 : Anzeige an die Mieter: Löschung
1.40 : Anzeige an die Schuldnerin z. H. der Gläubiger.
Entgegen der Auffassung der Vorinstanz ist anzunehmen, dass schon die Beschwerde an die untere Aufsichtsbehörde auf Rückerstattung dieser Gebühren zielte. Die Rekurrentin verlangte damals Annullierung und Neuerstellung des Zahlungsbefehls "unter Kostenfolge für das Betreibungsamt". Diese Wendung darf dahin ausgelegt werden, dass die Rekurrentin mit ihrer Beschwerde den Erlass aller mit dem ersten Zahlungsbefehl zusammenhängenden Kosten (die ihr erst später im einzelnen bekannt wurden) erreichen wollte.
2. Art. 17 GebT, der nach dem Randtitel von der "Anwendung des Tarifs bei Aufhebung einer Verfügung" handelt, schreibt vor: "Für ungültige Verfügungen ist keine Gebühr (Entschädigung) zu entrichten, sofern den Beamten ein Verschulden trifft; hierüber sowie über die Rückerstattung entscheidet die Aufsichtsbehörde." a) Die postalische Zustellung des Zahlungsbefehls entsprach den gesetzlichen Vorschriften nicht, weil sie nicht in der "nach der Postordnung für Bestellung gerichtlicher Akten zu befolgenden Weise" (Art. 72 SchKG), sondern durch gewöhnlichen eingeschriebenen Brief erfolgte. Wegen vorschriftswidriger Zustellungsweise ist jedoch ein Zahlungsbefehl nach der Rechtsprechung nicht aufzuheben, wenn feststeht, dass der Schuldner ihn trotz dem bei der Zustellung begangenen Fehler persönlich erhalten hat (BGE 54 III 250). So verhält es sich unstreitig im vorliegenden Falle. Der Zahlungsbefehl vom 7. Februar 1955 ist also nicht ungültig. Die Kosten dieses Zahlungsbefehls sind daher nicht zurückzuerstatten.
b) Die Anzeige der Mietzinssperre an die Mieter scheint entgegen Art. 91 VZG schon vor der Zustellung des Zahlungsbefehls an die Rekurrentin erfolgt zu sein. Sie deswegen als ungültig zu bezeichnen und die Rückerstattung der dafür erhobenen Kosten anzuordnen, kommt aber nicht in Frage, weil sie wenige Tage später doch hätte erfolgen müssen.
c) Dass das Betreibungsamt von der Einleitung einer Grundpfandbetreibung mit Mietzinssperre den übrigen Grundpfandgläubigern sogleich Kenntnis zu geben habe, ist nirgends vorgeschrieben. Die übrigen Grundpfandgläubiger sind erst zu verständigen, wenn es zur Steigerung kommt (Art. 156 SchKG und Art. 102 VZG in Verbindung mit Art. 139 SchKG und Art. 30 VZG). Die Anzeigen an die Ersparniskasse und die Bankgesellschaft hätten daher auf Begehren der Rekurrentin aufgehoben werden müssen, wenn nicht die Betreibung infolge Rückzugs wegen der am 18. Februar 1955 an die Gläubigerin geleisteten Zahlung ohnehin erloschen wäre, und verdienen daher, im Sinne von Art. 17 GebT als ungültige Verfügungen betrachtet zu werden. Der Erlass dieser unnötigen, vom Gesetz nicht vorgesehenen Verfügungen muss dem Betreibungsbeamten zum Verschulden angerechnet werden, wenn er auch ohne Zweifel im Glauben war, richtig zu handeln. Die Kosten dieser Anzeige (Fr. 2.80) sind deshalb zurückzuerstatten.
d) Darüber, wieso die übrigen in der Kostenaufstellung erwähnten Amtshandlungen ungültig seien, hat die Rekurrentin keine Ausführungen gemacht. Soweit mit dem Rekurs die Rückerstattung der Kosten dieser Verfügungen verlangt wird, ist also darauf nicht einzutreten.
3. Das Begehren, im Hinblick auf einen allfälligen Schadenersatzprozess gegen den Betreibungsbeamten das "Vorliegen einer unangemessenen Verfügung" festzustellen, ist schon deswegen unzulässig, weil eine Beschwerde nach Art. 21 SchKG nur die Aufhebung oder Berichtigung einer bestimmten Verfügung oder die Vollziehung von Handlungen, deren Vornahme der Beamte unbegründetermassen verweigert oder verzögert hat, zum Ziel haben kann.
Auf den Antrag, dem Betreibungsbeamten sei eine Rüge zu erteilen, ist nicht einzutreten, weil das Bundesgericht über die Betreibungs- und Konkursbeamten, die kantonale Beamte sind, keine Disziplinargewalt besitzt (BGE 43 III 93, BGE 59 III 66).
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird in dem Sinne teilweise gutgeheissen, dass das Betreibungsamt Gansingen angewiesen wird, der Rekurrentin den Betrag von Fr. 2.80 zurückzuerstatten. Im übrigen wird der Rekurs abgewiesen, soweit darauf einzutreten ist.
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Restituzione di tasse percepite per atti esecutivi annullati (art. 17 TarLEF). Vanno restituite: a) le spese d'un precetto esecutivo notificato mediante semplice lettera raccomandata contrariamente a quanto prescrive l'art. 72 LEF? b) le spese dell'avviso mandato agli inquilini, prima della notifica del precetto esecutivo al debitore, che ingiunge loro di pagare d'ora innanzi la pigione solo all'ufficio? c) le spese d'una comunicazione, non prevista dalla legge, ai creditori ipotecari non procedenti per informarli che agli inquilini è stato ingiunto di pagare la pigione all'ufficio? Reclamo ai fini di preparare un'azione di risarcimento dei danni contro l'Ufficiale d'esecuzione? (art. 21 LEF).
Ricorso contro una decisione dell'Autorità cantonale di vigilanza che si è rifiutata d'infliggere una pena disciplinare (art. 14 LEF)?
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81 III 7
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Sachverhalt ab Seite 7
In der Betreibung Nr. 5187 des Christian Iten in Freiburg gegen Josef Graf pfändete das Betreibungsamt Luzern am 23. Juni 1954 eine komplette Doppelschlafzimmereinrichtung und zwei Eisenbetten. Am 7. Juni 1954 retinierte das Betreibungsamt die gleichen Gegenstände auf Begehren von A. Bollinger für fälligen Mietzins von Fr. 70.- und laufenden Mietzins von Fr. 175.--. Für diese beiden Beträge leitete Bollinger rechtzeitig Betreibung auf Pfandverwertung ein (Betreibungen Nr. 7443 und 11403). Auf Grund der von Iten und Bollinger gestellten Verwertungsbegehren wurden die gepfändeten und retinierten Gegenstände am 7. Dezember 1954 öffentlich versteigert.
Am 3. Januar 1955 teilte das Betreibungsamt dem Retentionsgläubiger Bollinger unter Bezugnahme auf die Betreibung Nr. 5187 mit, dass der Pfändungsgläubiger Iten sein Retentionsrecht an den verwerteten Gegenständen bestreite, und setzte ihm eine zehntägige Frist zur Klage auf Anerkennung jenes Rechtes an. Gegen diese Verfügung führte Bollinger Beschwerde mit den Anträgen, sie sei in dem Sinne abzuändern, dass die Klagefrist nicht ihm, sondern Iten angesetzt werde; im Falle der Abweisung der Beschwerde sei ihm eine neue Klagefrist anzusetzen. Von der untern und am 12. Februar 1955 auch von der obern kantonalen Aufsichtsbehörde abgewiesen, erneuert er vor Bundesgericht seine Anträge.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Abweichung von BGE 50 III 113, wo der Prozess über das vom Pfändungsgläubiger bestrittene Retentionsrecht des Vermieters in das Kollokationsverfahren gemäss Art. 146 ff. SchKG verwiesen worden war, hat das Bundesgericht in BGE 54 III 5 ff. entschieden, dieser Streit sei im Widerspruchsverfahren auszutragen, wobei die Klägerrolle mit Rücksicht auf den Gewahrsam des Schuldners gemäss Art. 106/107 SchKG dem Vermieter zufalle. In BGE 68 III 57 ff. und BGE 77 III 163 ff. wurde sodann erklärt, dass dieser Grundsatz auch dann anwendbar sei, wenn der Vermieter sich nicht damit begnügt, sein Retentionsrecht in der Pfändungsbetreibung geltend zu machen, wie es in den früher beurteilten Fällen geschehen war, sondern wenn er die bereits gepfändeten Gegenstände in ein Retentionsverzeichnis aufnehmen lässt und für seine Mietzinsforderung Pfandbetreibung einleitet. Dieser Praxis entspricht das Vorgehen des Betreibungsamtes Luzern im heutigen Falle, der in allen wesentlichen Punkten genau gleich liegt wie die Fälle, mit denen sich das Bundesgericht in den beiden zuletzt genannten Entscheiden zu befassen hatte. Von dieser gefestigten Rechtsprechung abzugehen, geben die Ausführungen des Rekurrenten, der sich (wie übrigens auch STUDER in den Blättern f. Schuldbetreibung und Konkurs 1952 S. 163/65) mit den beiden neuesten Entscheiden überhaupt nicht auseinandersetzt, keinen Anlass. Der Umstand, dass der Streit zwischen dem Pfändungs- und dem Retentionsgläubiger über das Retentionsrecht erst nach der Verwertung auszutragen ist (BGE 50 III 113, BGE 54 III 7, BGE 65 III 8), hindert keineswegs, diesen Streit ins Widerspruchsverfahren zu verweisen; denn dieses kann sich nach ausdrücklicher Gesetzesvorschrift auch noch auf den unverteilten Verwertungserlös beziehen (Art. 107 Abs. 4 SchKG). Auch der Hinweis des Rekurrenten darauf, dass das Retentionsrecht des Vermieters ein "gesetzliches" Recht ist, steht der Anwendung von Art. 106 ff. SchKG selbstverständlich nicht im Wege. Die Tatsache, dass der Retentionsgläubiger insofern das stärkere Recht besitzt denn der Pfändungsgläubiger, als seine Forderung im Falle der Anerkennung oder gerichtlichen Feststellung des Retentionsrechts vor derjenigen des Pfändungsgläubigers gedeckt wird, zwingt ebenfalls nicht dazu, den Streit über den Bestand des Retentionsrechts nicht dem Widerspruchs-, sondern dem Kollokationsverfahren zu unterwerfen. Die Befürchtung des Rekurrenten, dass der Retentionsgläubiger bei Anwendung von Art. 107 SchKG unter Umständen in einem weit entlegenen Kanton (gemeint: am Wohnsitz eines vom Ort der Retention entfernt wohnenden Pfändungsgläubigers) prozessieren müsse, kann schon deshalb kein stichhaltiges Argument gegen den Austrag des Streits über das Retentionsrecht im Widerspruchsverfahren abgeben, weil mit Unzukömmlichkeiten, wie der Rekurrent sie befürchtet, praktisch kaum zu rechnen ist. Der Gerichtsstand der Widerspruchsklage bestimmt sich mangels einer bundesgesetzlichen Vorschrift hierüber unter Vorbehalt von Art. 59 BV und der für interkantonale Konflikte geltenden Regeln nach kantonalem Prozessrecht. Art. 59 BV kommt in Fällen wie dem vorliegenden nicht zur Anwendung, weil die Widerspruchsklage um Sachen nicht als persönliche Ansprache gilt. Dass das kantonale Prozessrecht im Kanton, wo die streitigen Sachen liegen und retiniert wurden, und im andern Kanton, wo der Pfändungsgläubiger wohnt, für die Widerspruchsklage nach Art. 107 SchKG übereinstimmend den Wohnsitz des beklagten Pfändungsgläubigers als ausschliesslichen Gerichtsstand vorsieht, dürfte nur selten vorkommen, weil viele kantonale Prozessgesetze für solche Klagen den Gerichtsstand des Betreibungsortes oder denjenigen des Sachortes kennen (vgl. GULDENER, Das schweiz. Zivilprozessrecht, I S. 72 Anm. 31 und 32, S. 69 Anm. 15 b und S. 70 Anm. 16, 17). Stehen aber die Zuständigkeitsvorschriften der in Frage kommenden Kantone miteinander im Widerspruch, so geniesst von Bundesrechts wegen der Gerichtsstand des Sachortes den Vorrang (vgl. BGE 58 I 233, wo dies für den Fall des Konfliktes zwischen den Gerichtsständen des Sach- und des Betreibungsortes gesagt wurde, und BGE 34 I 729, wo festgestellt wurde, dass im Konfliktsfall der Gerichtsstand des Wohnortes des Beklagten höchstens neben demjenigen des Sachortes, jedenfalls aber nicht als ausschliesslicher in Betracht komme). - Gegen die Zuweisung der Klägerrolle an den Retentionsgläubiger lässt sich schliesslich auch nicht die Tatsache ins Feld führen, dass der Verwertungserlös, um den der Streit praktisch geht, nicht im Gewahrsam des Schuldners, sondern des Betreibungsamtes ist. Für die Verteilung der Parteirollen im Widerspruchsverfahren ist der Gewahrsam zur Zeit der Pfändung massgebend (BGE 80 III 115), und in diesem Zeitpunkt befand sich das verwertete Mobiliar eben im Gewahrsam des Schuldners (Art. 106 SchKG).
2. Auch der Eventualantrag des Rekurrenten auf Ansetzung einer neuen Klagefrist kann nicht geschützt werden. Die Einreichung einer Beschwerde gegen eine Fristansetzung hemmt den Ablauf der Frist nicht von selbst, sondern nur dann, wenn die Aufsichtsbehörde oder deren Präsident der Beschwerde aufschiebende Wirkung erteilt (Art. 36 SchKG). Eine solche Anordnung, die zu treffen oder nicht zu treffen im freien Ermessen der angegangenen Behörde steht (BGE 59 III 208), ist im vorliegenden Falle nicht erlassen worden. Die Ansetzung einer neuen Frist ist daher nicht möglich.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Der Streit über das Retentionsrecht des Vermieters an zugunsten eines andern Gläubigers gepfändeten Gegenständen ist auch dann im Widerspruchsverfahren gemäss Art. 106 /107 SchKG auszutragen, wenn nach der Pfändung eine Retentionsurkunde aufgenommen und Pfandbetreibung eingeleitet worden ist (Bestätigung der Rechtsprechung). Aufschiebende Wirkung der Beschwerde gegen eine Klagefristansetzung? (Art. 36 SchKG).
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Sachverhalt ab Seite 7
In der Betreibung Nr. 5187 des Christian Iten in Freiburg gegen Josef Graf pfändete das Betreibungsamt Luzern am 23. Juni 1954 eine komplette Doppelschlafzimmereinrichtung und zwei Eisenbetten. Am 7. Juni 1954 retinierte das Betreibungsamt die gleichen Gegenstände auf Begehren von A. Bollinger für fälligen Mietzins von Fr. 70.- und laufenden Mietzins von Fr. 175.--. Für diese beiden Beträge leitete Bollinger rechtzeitig Betreibung auf Pfandverwertung ein (Betreibungen Nr. 7443 und 11403). Auf Grund der von Iten und Bollinger gestellten Verwertungsbegehren wurden die gepfändeten und retinierten Gegenstände am 7. Dezember 1954 öffentlich versteigert.
Am 3. Januar 1955 teilte das Betreibungsamt dem Retentionsgläubiger Bollinger unter Bezugnahme auf die Betreibung Nr. 5187 mit, dass der Pfändungsgläubiger Iten sein Retentionsrecht an den verwerteten Gegenständen bestreite, und setzte ihm eine zehntägige Frist zur Klage auf Anerkennung jenes Rechtes an. Gegen diese Verfügung führte Bollinger Beschwerde mit den Anträgen, sie sei in dem Sinne abzuändern, dass die Klagefrist nicht ihm, sondern Iten angesetzt werde; im Falle der Abweisung der Beschwerde sei ihm eine neue Klagefrist anzusetzen. Von der untern und am 12. Februar 1955 auch von der obern kantonalen Aufsichtsbehörde abgewiesen, erneuert er vor Bundesgericht seine Anträge.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Abweichung von BGE 50 III 113, wo der Prozess über das vom Pfändungsgläubiger bestrittene Retentionsrecht des Vermieters in das Kollokationsverfahren gemäss Art. 146 ff. SchKG verwiesen worden war, hat das Bundesgericht in BGE 54 III 5 ff. entschieden, dieser Streit sei im Widerspruchsverfahren auszutragen, wobei die Klägerrolle mit Rücksicht auf den Gewahrsam des Schuldners gemäss Art. 106/107 SchKG dem Vermieter zufalle. In BGE 68 III 57 ff. und BGE 77 III 163 ff. wurde sodann erklärt, dass dieser Grundsatz auch dann anwendbar sei, wenn der Vermieter sich nicht damit begnügt, sein Retentionsrecht in der Pfändungsbetreibung geltend zu machen, wie es in den früher beurteilten Fällen geschehen war, sondern wenn er die bereits gepfändeten Gegenstände in ein Retentionsverzeichnis aufnehmen lässt und für seine Mietzinsforderung Pfandbetreibung einleitet. Dieser Praxis entspricht das Vorgehen des Betreibungsamtes Luzern im heutigen Falle, der in allen wesentlichen Punkten genau gleich liegt wie die Fälle, mit denen sich das Bundesgericht in den beiden zuletzt genannten Entscheiden zu befassen hatte. Von dieser gefestigten Rechtsprechung abzugehen, geben die Ausführungen des Rekurrenten, der sich (wie übrigens auch STUDER in den Blättern f. Schuldbetreibung und Konkurs 1952 S. 163/65) mit den beiden neuesten Entscheiden überhaupt nicht auseinandersetzt, keinen Anlass. Der Umstand, dass der Streit zwischen dem Pfändungs- und dem Retentionsgläubiger über das Retentionsrecht erst nach der Verwertung auszutragen ist (BGE 50 III 113, BGE 54 III 7, BGE 65 III 8), hindert keineswegs, diesen Streit ins Widerspruchsverfahren zu verweisen; denn dieses kann sich nach ausdrücklicher Gesetzesvorschrift auch noch auf den unverteilten Verwertungserlös beziehen (Art. 107 Abs. 4 SchKG). Auch der Hinweis des Rekurrenten darauf, dass das Retentionsrecht des Vermieters ein "gesetzliches" Recht ist, steht der Anwendung von Art. 106 ff. SchKG selbstverständlich nicht im Wege. Die Tatsache, dass der Retentionsgläubiger insofern das stärkere Recht besitzt denn der Pfändungsgläubiger, als seine Forderung im Falle der Anerkennung oder gerichtlichen Feststellung des Retentionsrechts vor derjenigen des Pfändungsgläubigers gedeckt wird, zwingt ebenfalls nicht dazu, den Streit über den Bestand des Retentionsrechts nicht dem Widerspruchs-, sondern dem Kollokationsverfahren zu unterwerfen. Die Befürchtung des Rekurrenten, dass der Retentionsgläubiger bei Anwendung von Art. 107 SchKG unter Umständen in einem weit entlegenen Kanton (gemeint: am Wohnsitz eines vom Ort der Retention entfernt wohnenden Pfändungsgläubigers) prozessieren müsse, kann schon deshalb kein stichhaltiges Argument gegen den Austrag des Streits über das Retentionsrecht im Widerspruchsverfahren abgeben, weil mit Unzukömmlichkeiten, wie der Rekurrent sie befürchtet, praktisch kaum zu rechnen ist. Der Gerichtsstand der Widerspruchsklage bestimmt sich mangels einer bundesgesetzlichen Vorschrift hierüber unter Vorbehalt von Art. 59 BV und der für interkantonale Konflikte geltenden Regeln nach kantonalem Prozessrecht. Art. 59 BV kommt in Fällen wie dem vorliegenden nicht zur Anwendung, weil die Widerspruchsklage um Sachen nicht als persönliche Ansprache gilt. Dass das kantonale Prozessrecht im Kanton, wo die streitigen Sachen liegen und retiniert wurden, und im andern Kanton, wo der Pfändungsgläubiger wohnt, für die Widerspruchsklage nach Art. 107 SchKG übereinstimmend den Wohnsitz des beklagten Pfändungsgläubigers als ausschliesslichen Gerichtsstand vorsieht, dürfte nur selten vorkommen, weil viele kantonale Prozessgesetze für solche Klagen den Gerichtsstand des Betreibungsortes oder denjenigen des Sachortes kennen (vgl. GULDENER, Das schweiz. Zivilprozessrecht, I S. 72 Anm. 31 und 32, S. 69 Anm. 15 b und S. 70 Anm. 16, 17). Stehen aber die Zuständigkeitsvorschriften der in Frage kommenden Kantone miteinander im Widerspruch, so geniesst von Bundesrechts wegen der Gerichtsstand des Sachortes den Vorrang (vgl. BGE 58 I 233, wo dies für den Fall des Konfliktes zwischen den Gerichtsständen des Sach- und des Betreibungsortes gesagt wurde, und BGE 34 I 729, wo festgestellt wurde, dass im Konfliktsfall der Gerichtsstand des Wohnortes des Beklagten höchstens neben demjenigen des Sachortes, jedenfalls aber nicht als ausschliesslicher in Betracht komme). - Gegen die Zuweisung der Klägerrolle an den Retentionsgläubiger lässt sich schliesslich auch nicht die Tatsache ins Feld führen, dass der Verwertungserlös, um den der Streit praktisch geht, nicht im Gewahrsam des Schuldners, sondern des Betreibungsamtes ist. Für die Verteilung der Parteirollen im Widerspruchsverfahren ist der Gewahrsam zur Zeit der Pfändung massgebend (BGE 80 III 115), und in diesem Zeitpunkt befand sich das verwertete Mobiliar eben im Gewahrsam des Schuldners (Art. 106 SchKG).
2. Auch der Eventualantrag des Rekurrenten auf Ansetzung einer neuen Klagefrist kann nicht geschützt werden. Die Einreichung einer Beschwerde gegen eine Fristansetzung hemmt den Ablauf der Frist nicht von selbst, sondern nur dann, wenn die Aufsichtsbehörde oder deren Präsident der Beschwerde aufschiebende Wirkung erteilt (Art. 36 SchKG). Eine solche Anordnung, die zu treffen oder nicht zu treffen im freien Ermessen der angegangenen Behörde steht (BGE 59 III 208), ist im vorliegenden Falle nicht erlassen worden. Die Ansetzung einer neuen Frist ist daher nicht möglich.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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Le litige ayant pour objet le droit de rétention du bailleur sur des biens saisis au profit d'un autre créancier doit également être tranché dans la procédure de revendication des art. 106 à 107 LP, même si l'inventaire des biens soumis au droit de rétention a été pris et une poursuite en réalisation de gage, engagée après la saisie (confirmation de la jurisprudence). Effet suspensif de la plainte contre une fixation de délai (art. 36 LP).
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81 III 7
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Sachverhalt ab Seite 7
In der Betreibung Nr. 5187 des Christian Iten in Freiburg gegen Josef Graf pfändete das Betreibungsamt Luzern am 23. Juni 1954 eine komplette Doppelschlafzimmereinrichtung und zwei Eisenbetten. Am 7. Juni 1954 retinierte das Betreibungsamt die gleichen Gegenstände auf Begehren von A. Bollinger für fälligen Mietzins von Fr. 70.- und laufenden Mietzins von Fr. 175.--. Für diese beiden Beträge leitete Bollinger rechtzeitig Betreibung auf Pfandverwertung ein (Betreibungen Nr. 7443 und 11403). Auf Grund der von Iten und Bollinger gestellten Verwertungsbegehren wurden die gepfändeten und retinierten Gegenstände am 7. Dezember 1954 öffentlich versteigert.
Am 3. Januar 1955 teilte das Betreibungsamt dem Retentionsgläubiger Bollinger unter Bezugnahme auf die Betreibung Nr. 5187 mit, dass der Pfändungsgläubiger Iten sein Retentionsrecht an den verwerteten Gegenständen bestreite, und setzte ihm eine zehntägige Frist zur Klage auf Anerkennung jenes Rechtes an. Gegen diese Verfügung führte Bollinger Beschwerde mit den Anträgen, sie sei in dem Sinne abzuändern, dass die Klagefrist nicht ihm, sondern Iten angesetzt werde; im Falle der Abweisung der Beschwerde sei ihm eine neue Klagefrist anzusetzen. Von der untern und am 12. Februar 1955 auch von der obern kantonalen Aufsichtsbehörde abgewiesen, erneuert er vor Bundesgericht seine Anträge.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Abweichung von BGE 50 III 113, wo der Prozess über das vom Pfändungsgläubiger bestrittene Retentionsrecht des Vermieters in das Kollokationsverfahren gemäss Art. 146 ff. SchKG verwiesen worden war, hat das Bundesgericht in BGE 54 III 5 ff. entschieden, dieser Streit sei im Widerspruchsverfahren auszutragen, wobei die Klägerrolle mit Rücksicht auf den Gewahrsam des Schuldners gemäss Art. 106/107 SchKG dem Vermieter zufalle. In BGE 68 III 57 ff. und BGE 77 III 163 ff. wurde sodann erklärt, dass dieser Grundsatz auch dann anwendbar sei, wenn der Vermieter sich nicht damit begnügt, sein Retentionsrecht in der Pfändungsbetreibung geltend zu machen, wie es in den früher beurteilten Fällen geschehen war, sondern wenn er die bereits gepfändeten Gegenstände in ein Retentionsverzeichnis aufnehmen lässt und für seine Mietzinsforderung Pfandbetreibung einleitet. Dieser Praxis entspricht das Vorgehen des Betreibungsamtes Luzern im heutigen Falle, der in allen wesentlichen Punkten genau gleich liegt wie die Fälle, mit denen sich das Bundesgericht in den beiden zuletzt genannten Entscheiden zu befassen hatte. Von dieser gefestigten Rechtsprechung abzugehen, geben die Ausführungen des Rekurrenten, der sich (wie übrigens auch STUDER in den Blättern f. Schuldbetreibung und Konkurs 1952 S. 163/65) mit den beiden neuesten Entscheiden überhaupt nicht auseinandersetzt, keinen Anlass. Der Umstand, dass der Streit zwischen dem Pfändungs- und dem Retentionsgläubiger über das Retentionsrecht erst nach der Verwertung auszutragen ist (BGE 50 III 113, BGE 54 III 7, BGE 65 III 8), hindert keineswegs, diesen Streit ins Widerspruchsverfahren zu verweisen; denn dieses kann sich nach ausdrücklicher Gesetzesvorschrift auch noch auf den unverteilten Verwertungserlös beziehen (Art. 107 Abs. 4 SchKG). Auch der Hinweis des Rekurrenten darauf, dass das Retentionsrecht des Vermieters ein "gesetzliches" Recht ist, steht der Anwendung von Art. 106 ff. SchKG selbstverständlich nicht im Wege. Die Tatsache, dass der Retentionsgläubiger insofern das stärkere Recht besitzt denn der Pfändungsgläubiger, als seine Forderung im Falle der Anerkennung oder gerichtlichen Feststellung des Retentionsrechts vor derjenigen des Pfändungsgläubigers gedeckt wird, zwingt ebenfalls nicht dazu, den Streit über den Bestand des Retentionsrechts nicht dem Widerspruchs-, sondern dem Kollokationsverfahren zu unterwerfen. Die Befürchtung des Rekurrenten, dass der Retentionsgläubiger bei Anwendung von Art. 107 SchKG unter Umständen in einem weit entlegenen Kanton (gemeint: am Wohnsitz eines vom Ort der Retention entfernt wohnenden Pfändungsgläubigers) prozessieren müsse, kann schon deshalb kein stichhaltiges Argument gegen den Austrag des Streits über das Retentionsrecht im Widerspruchsverfahren abgeben, weil mit Unzukömmlichkeiten, wie der Rekurrent sie befürchtet, praktisch kaum zu rechnen ist. Der Gerichtsstand der Widerspruchsklage bestimmt sich mangels einer bundesgesetzlichen Vorschrift hierüber unter Vorbehalt von Art. 59 BV und der für interkantonale Konflikte geltenden Regeln nach kantonalem Prozessrecht. Art. 59 BV kommt in Fällen wie dem vorliegenden nicht zur Anwendung, weil die Widerspruchsklage um Sachen nicht als persönliche Ansprache gilt. Dass das kantonale Prozessrecht im Kanton, wo die streitigen Sachen liegen und retiniert wurden, und im andern Kanton, wo der Pfändungsgläubiger wohnt, für die Widerspruchsklage nach Art. 107 SchKG übereinstimmend den Wohnsitz des beklagten Pfändungsgläubigers als ausschliesslichen Gerichtsstand vorsieht, dürfte nur selten vorkommen, weil viele kantonale Prozessgesetze für solche Klagen den Gerichtsstand des Betreibungsortes oder denjenigen des Sachortes kennen (vgl. GULDENER, Das schweiz. Zivilprozessrecht, I S. 72 Anm. 31 und 32, S. 69 Anm. 15 b und S. 70 Anm. 16, 17). Stehen aber die Zuständigkeitsvorschriften der in Frage kommenden Kantone miteinander im Widerspruch, so geniesst von Bundesrechts wegen der Gerichtsstand des Sachortes den Vorrang (vgl. BGE 58 I 233, wo dies für den Fall des Konfliktes zwischen den Gerichtsständen des Sach- und des Betreibungsortes gesagt wurde, und BGE 34 I 729, wo festgestellt wurde, dass im Konfliktsfall der Gerichtsstand des Wohnortes des Beklagten höchstens neben demjenigen des Sachortes, jedenfalls aber nicht als ausschliesslicher in Betracht komme). - Gegen die Zuweisung der Klägerrolle an den Retentionsgläubiger lässt sich schliesslich auch nicht die Tatsache ins Feld führen, dass der Verwertungserlös, um den der Streit praktisch geht, nicht im Gewahrsam des Schuldners, sondern des Betreibungsamtes ist. Für die Verteilung der Parteirollen im Widerspruchsverfahren ist der Gewahrsam zur Zeit der Pfändung massgebend (BGE 80 III 115), und in diesem Zeitpunkt befand sich das verwertete Mobiliar eben im Gewahrsam des Schuldners (Art. 106 SchKG).
2. Auch der Eventualantrag des Rekurrenten auf Ansetzung einer neuen Klagefrist kann nicht geschützt werden. Die Einreichung einer Beschwerde gegen eine Fristansetzung hemmt den Ablauf der Frist nicht von selbst, sondern nur dann, wenn die Aufsichtsbehörde oder deren Präsident der Beschwerde aufschiebende Wirkung erteilt (Art. 36 SchKG). Eine solche Anordnung, die zu treffen oder nicht zu treffen im freien Ermessen der angegangenen Behörde steht (BGE 59 III 208), ist im vorliegenden Falle nicht erlassen worden. Die Ansetzung einer neuen Frist ist daher nicht möglich.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird abgewiesen.
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La contestazione riguardante il diritto di ritenzione del locatore su beni pignorati in favore di un altro creditore dev'essere decisa nella procedura di rivendicazione degli art. 106 e 107 LEF anche quando, dopo il pignoramento, sia stato allestito l'inventario dei beni soggetti al diritto di ritenzione e sia stata promossa un'esecuzione in via di realizzazione del pegno (conferma della giurisprudenza). Effetto sospensivo del reclamo contro un'assegnazione di termine (art. 36 LEF).
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it
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81 III 73
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Sachverhalt ab Seite 73
A.- Im Konkurs des L. in Kreuzlingen meldete dessen Schwiegermutter, Frau B., eine restliche Darlehensforderung von Fr. 8200.-- mit Faustpfandrecht gemäss Vertrag vom 24. September 1950 an. Anderseits enthielt die von der Ehefrau des Schuldners angemeldete Frauengutsforderung von insgesamt Fr. 17'500.-- einen Posten von Fr. 8500.-- mit der Grundangabe: "Erhalten von Mutter B. im Jahre 1937 und an L. gegeben". Da sich beide Forderungen auf die Beihilfen der Frau B. bezogen, konnten nicht beide nebeneinander berücksichtigt werden. Die Konkursverwaltung hielt vorerst dafür, es handle sich um Einbringen der Ehefrau. Sie kollozierte deren Frauengutsforderung im ganzen Betrage von Fr. 17'500.--, je zur Hälfte in 4. und 5. Klasse, wies dagegen die Eingabe der Frau B. ab.
B.- Diese erhob gegen die Masse Klage auf Kollokation gemäss ihrer Eingabe, während die Kollokation der Frau L. unangefochten blieb. Für den Fall, dass zwischen der Masse und Frau B. ein Vergleich zustande komme, erklärte sich indessen Frau L. bereit, auf den erwähnten Teilbetrag von Fr. 8500. -, und zwar auf je Fr. 4250.-- in 4. und 5. Klasse, zu verzichten. Hierauf schloss die Masse mit Frau B. am 17. April 1952 folgenden Vergleich:
"1. An Stelle der von Frau B. s. Zt. angemeldeten faustpfandgesicherten Forderung von Fr. 8200.-- werden Fr. 6500.-- und deren vorzugsweise Begleichung aus den für die ursprüngliche Forderung angemeldeten Pfandgegenständen anerkannt.
2. Die Verzichtserklärung von Frau Rosa L.-B. ist Bestandteil dieses Vergleichs. Danach verzichtet sie bei Zustandekommen des Vergleiches auf Fr. 4250.-- ihrer in 4. Klasse und Fr. 4250.-- ihrer in 5. Klasse kollozierten Ansprüche..."
Demgemäss wurden die Kollokationen der Frau B. (mit Hinweis auf den Vergleich) und der Frau L. (mit Hinweis auf den Verzicht) geändert.
C.- Ein in 5. Klasse kollozierter Gläubiger F. focht die neue Kollokation der Frau B. an, indem er das ihr zuerkannte Pfandrecht als anfechtbar und ungültig bezeichnete. Die Beklagte erklärte im Laufe des Prozesses, das Pfandrecht nur für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch nehmen zu wollen. Diesem Erfolg der Klage entsprechend, erhielt der Kläger durch Urteil des Obergerichts vom 16. September 1954 "vom Erlös der Pfandgegenstände einen Anteil, der Fr. 4250.-- übersteigt. jedoch Fr. 6500.-- nicht überschreitet", zugesprochen. Das weitergehende Klagebegehren wurde auch vom Obergericht abgewiesen.
D.- Mit vorliegender Berufung hält der Kläger an seinem Klagebegehren in vollem Umfange fest.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. Mit der Angabe "Streitwert: Fr. 6500.--" bezieht sich der Berufungskläger auf den Forderungsbetrag, für den der Beklagten im abgeänderten Kollokationsplan ein Pfandrecht zuerkannt wurde. Diese Angabe trifft auf alle Fälle für das bundesgerichtliche Verfahren nicht mehr zu, da die Beklagte ihre Pfandansprache schon in kantonaler Instanz ermässigt, nämlich das Pfandrecht nur noch für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch genommen und das Obergericht demgemäss dem Kläger einen allfälligen Mehrerlös der Pfänder zugesprochen hat. Aber auch wenn man die Streitwertangabe dahin berichtigt, dass der Betrag von Fr. 6500.-- durch denjenigen von Fr. 4250.-- ersetzt wird, erweist sie sich als ungenügend. Streitig ist nicht die Forderung (gegen die der Kläger nichts eingewendet hat, und die er als der Beklagten zustehend auch vor Bundesgericht anerkennt; Seite 4 der Berufungsschrift), sondern einzig das Pfandrecht. Dessen Wert ist nun aber von vornherein nicht nur durch den Betrag der Forderung, für die das Pfand haften soll, sondern auch durch den Wert der Pfandgegenstände begrenzt. Dass dieser Wert jenen Betrag erreiche, ist nicht ohne weiteres anzunehmen. Im Streit um ein Pfandrecht muss sich die von Art. 55 Abs. 1 lit. a OG verlangte Streitwertangabe daher grundsätzlich auf zwei Zahlen stützen: den pfandgesicherten Forderungsbetrag und den Wert der Pfänder. Die Angabe jenes Betrages genügt nur, wenn die streitigen Pfänder dafür offensichtlich volle Deckung bieten. Im vorliegenden Falle ist aber der wahre Wert der Pfänder nicht offenkundig. Es handelt sich um Mobilien, die im Klage- und im Berufungsbegehren wie auch in der angefochtenen Kollokationsverfügung gar nicht genannt sind. In den Akten nach allfälligen Wertangaben zu forschen, namentlich das Konkursinventar an Hand des Pfandvertrages nachzuprüfen und die Summe der dort für die Pfandsachen eingesetzten Schätzungswerte zu ermitteln, ist nicht Sache des Bundesgerichtes. Vielmehr hat der Berufungskläger den Wert des Streitgegenstandes anzugeben, was hier nicht in sachentsprechender Weise geschehen ist.
2. Auf die Berufung kann somit mangels genügender Streitwertangabe nicht eingetreten werden (BGE 71 II 252). Die einfach auf den Forderungsbetrag, für den die Pfänder in Anspruch genommen werden, anspielende Angabe des Berufungsklägers erweist sich noch um so mehr als mangelhaft, wenn man die Natur des Kollokationsprozesses in Betracht zieht. Wie der Kollokationsplan selbst, so hat auch ein auf dessen Änderung lautendes Urteil im Sinne von Art. 250 SchKG nur Wirkung für das Konkursverfahren. Es handelt sich lediglich um die Bereinigung der Passivmasse im Hinblick auf die Verteilung der Konkursaktiven. Beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht wurde bisher freilich der (den zu sichernden Forderungsbetrag nicht erreichende) Wert der Pfänder als Streitwert betrachtet (FAVRE, Cours de droit des poursuites, 303;BGE 29 II 761= Sep.-Aug. 6 S. 356;BGE 48 II 412). Indessen kann daran nicht festgehalten werden, nachdem die Rechtsprechung dazu übergegangen ist, bei Bemessung des Streitwertes einer Kollokationsklage jene beschränkte Rechtskraftwirkung des Kollokationsurteils zu berücksichtigen. In der Tat hat, wenn sich die Kollokationsklage auf den gültigen Bestand einer Forderung bezieht, als Streitwert nicht mehr wie nach der frühern Betrachtungsweise der streitige Forderungsbetrag, sondern die dafür zu erwartende Konkursdividende zu gelten (BGE 65 III 28ff.;BGE 65 II 43). Das hat zur Folge, dass in solchen Fällen eine nur den streitigen Forderungsbetrag nennende Streitwertangabe ungenügend ist, da auch die darauf vermutlich entfallende Konkursdividende und damit der Betrag des wahren Streitinteresses genannt werden muss (BGE 79 III 172). Demgemäss ist beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht zu beachten, dass bei dessen Wegfall die als solche unbestrittene Forderung immerhin in 5. (oder allenfalls sogar in einer privilegierten) Klasse am Konkursergebnis teilnimmt. Nur die Differenz macht das Streitinteresse des Pfandansprechers aus, und nur sie ("der Betrag, um welchen der Anteil des Beklagten an der Konkursmasse herabgesetzt wird") kann, wenn sich der Pfandansprecher in der Beklagtenrolle befindet, nach Art. 250 Abs. 3 SchKG zur Befriedigung des Klägers dienen. Sie macht also den mit der Klage höchstens erzielbaren Prozessgewinn aus, der übrigens mit einem allfällig überschüssigen Betrag, nach Deckung von Forderung und Prozesskosten des Klägers, in die allgemeine Konkursmasse fällt (BGE 57 III 154; JAEGER, N. 10 und 11 zu Art. 250 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch S. 789/90; FREY, Der Prozessgewinn, in Bl. für Schuldbetreibung und Konkurs 11 S. 39/40). Nun schweigt sich die vorliegende Streitwertangabe nicht nur über den Wert der Pfänder, sondern auch über die mutmassliche Konkursdividende für die Forderungen der 5. Klasse und damit über ein weiteres Element zur Berechnung des wahren Streitwertes aus. Auch das angefochtene Urteil enthält darüber keine Feststellungen, die der Berufung stillschweigend zugrunde gelegt sein könnten. Somit vermag die Angabe des Berufungsklägers nicht darzutun, dass das massgebende Streitinteresse den für die Berufung an das Bundesgericht erforderlichen Betrag von Fr. 4000.-- erreicht.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Auf die Berufung wird nicht eingetreten.
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Streitwertangabe im Berufungsverfahren (Art. 55 Abs. 1 lit. a OG). Streitwert im Prozess über ein Pfandrecht bei unbestrittener Forderung (Erw. 1), - insbesondere in einem Kollokationsstreit nach Art. 250 SchKG (Erw. 2).
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81 III 73
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Sachverhalt ab Seite 73
A.- Im Konkurs des L. in Kreuzlingen meldete dessen Schwiegermutter, Frau B., eine restliche Darlehensforderung von Fr. 8200.-- mit Faustpfandrecht gemäss Vertrag vom 24. September 1950 an. Anderseits enthielt die von der Ehefrau des Schuldners angemeldete Frauengutsforderung von insgesamt Fr. 17'500.-- einen Posten von Fr. 8500.-- mit der Grundangabe: "Erhalten von Mutter B. im Jahre 1937 und an L. gegeben". Da sich beide Forderungen auf die Beihilfen der Frau B. bezogen, konnten nicht beide nebeneinander berücksichtigt werden. Die Konkursverwaltung hielt vorerst dafür, es handle sich um Einbringen der Ehefrau. Sie kollozierte deren Frauengutsforderung im ganzen Betrage von Fr. 17'500.--, je zur Hälfte in 4. und 5. Klasse, wies dagegen die Eingabe der Frau B. ab.
B.- Diese erhob gegen die Masse Klage auf Kollokation gemäss ihrer Eingabe, während die Kollokation der Frau L. unangefochten blieb. Für den Fall, dass zwischen der Masse und Frau B. ein Vergleich zustande komme, erklärte sich indessen Frau L. bereit, auf den erwähnten Teilbetrag von Fr. 8500. -, und zwar auf je Fr. 4250.-- in 4. und 5. Klasse, zu verzichten. Hierauf schloss die Masse mit Frau B. am 17. April 1952 folgenden Vergleich:
"1. An Stelle der von Frau B. s. Zt. angemeldeten faustpfandgesicherten Forderung von Fr. 8200.-- werden Fr. 6500.-- und deren vorzugsweise Begleichung aus den für die ursprüngliche Forderung angemeldeten Pfandgegenständen anerkannt.
2. Die Verzichtserklärung von Frau Rosa L.-B. ist Bestandteil dieses Vergleichs. Danach verzichtet sie bei Zustandekommen des Vergleiches auf Fr. 4250.-- ihrer in 4. Klasse und Fr. 4250.-- ihrer in 5. Klasse kollozierten Ansprüche..."
Demgemäss wurden die Kollokationen der Frau B. (mit Hinweis auf den Vergleich) und der Frau L. (mit Hinweis auf den Verzicht) geändert.
C.- Ein in 5. Klasse kollozierter Gläubiger F. focht die neue Kollokation der Frau B. an, indem er das ihr zuerkannte Pfandrecht als anfechtbar und ungültig bezeichnete. Die Beklagte erklärte im Laufe des Prozesses, das Pfandrecht nur für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch nehmen zu wollen. Diesem Erfolg der Klage entsprechend, erhielt der Kläger durch Urteil des Obergerichts vom 16. September 1954 "vom Erlös der Pfandgegenstände einen Anteil, der Fr. 4250.-- übersteigt. jedoch Fr. 6500.-- nicht überschreitet", zugesprochen. Das weitergehende Klagebegehren wurde auch vom Obergericht abgewiesen.
D.- Mit vorliegender Berufung hält der Kläger an seinem Klagebegehren in vollem Umfange fest.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. Mit der Angabe "Streitwert: Fr. 6500.--" bezieht sich der Berufungskläger auf den Forderungsbetrag, für den der Beklagten im abgeänderten Kollokationsplan ein Pfandrecht zuerkannt wurde. Diese Angabe trifft auf alle Fälle für das bundesgerichtliche Verfahren nicht mehr zu, da die Beklagte ihre Pfandansprache schon in kantonaler Instanz ermässigt, nämlich das Pfandrecht nur noch für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch genommen und das Obergericht demgemäss dem Kläger einen allfälligen Mehrerlös der Pfänder zugesprochen hat. Aber auch wenn man die Streitwertangabe dahin berichtigt, dass der Betrag von Fr. 6500.-- durch denjenigen von Fr. 4250.-- ersetzt wird, erweist sie sich als ungenügend. Streitig ist nicht die Forderung (gegen die der Kläger nichts eingewendet hat, und die er als der Beklagten zustehend auch vor Bundesgericht anerkennt; Seite 4 der Berufungsschrift), sondern einzig das Pfandrecht. Dessen Wert ist nun aber von vornherein nicht nur durch den Betrag der Forderung, für die das Pfand haften soll, sondern auch durch den Wert der Pfandgegenstände begrenzt. Dass dieser Wert jenen Betrag erreiche, ist nicht ohne weiteres anzunehmen. Im Streit um ein Pfandrecht muss sich die von Art. 55 Abs. 1 lit. a OG verlangte Streitwertangabe daher grundsätzlich auf zwei Zahlen stützen: den pfandgesicherten Forderungsbetrag und den Wert der Pfänder. Die Angabe jenes Betrages genügt nur, wenn die streitigen Pfänder dafür offensichtlich volle Deckung bieten. Im vorliegenden Falle ist aber der wahre Wert der Pfänder nicht offenkundig. Es handelt sich um Mobilien, die im Klage- und im Berufungsbegehren wie auch in der angefochtenen Kollokationsverfügung gar nicht genannt sind. In den Akten nach allfälligen Wertangaben zu forschen, namentlich das Konkursinventar an Hand des Pfandvertrages nachzuprüfen und die Summe der dort für die Pfandsachen eingesetzten Schätzungswerte zu ermitteln, ist nicht Sache des Bundesgerichtes. Vielmehr hat der Berufungskläger den Wert des Streitgegenstandes anzugeben, was hier nicht in sachentsprechender Weise geschehen ist.
2. Auf die Berufung kann somit mangels genügender Streitwertangabe nicht eingetreten werden (BGE 71 II 252). Die einfach auf den Forderungsbetrag, für den die Pfänder in Anspruch genommen werden, anspielende Angabe des Berufungsklägers erweist sich noch um so mehr als mangelhaft, wenn man die Natur des Kollokationsprozesses in Betracht zieht. Wie der Kollokationsplan selbst, so hat auch ein auf dessen Änderung lautendes Urteil im Sinne von Art. 250 SchKG nur Wirkung für das Konkursverfahren. Es handelt sich lediglich um die Bereinigung der Passivmasse im Hinblick auf die Verteilung der Konkursaktiven. Beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht wurde bisher freilich der (den zu sichernden Forderungsbetrag nicht erreichende) Wert der Pfänder als Streitwert betrachtet (FAVRE, Cours de droit des poursuites, 303;BGE 29 II 761= Sep.-Aug. 6 S. 356;BGE 48 II 412). Indessen kann daran nicht festgehalten werden, nachdem die Rechtsprechung dazu übergegangen ist, bei Bemessung des Streitwertes einer Kollokationsklage jene beschränkte Rechtskraftwirkung des Kollokationsurteils zu berücksichtigen. In der Tat hat, wenn sich die Kollokationsklage auf den gültigen Bestand einer Forderung bezieht, als Streitwert nicht mehr wie nach der frühern Betrachtungsweise der streitige Forderungsbetrag, sondern die dafür zu erwartende Konkursdividende zu gelten (BGE 65 III 28ff.;BGE 65 II 43). Das hat zur Folge, dass in solchen Fällen eine nur den streitigen Forderungsbetrag nennende Streitwertangabe ungenügend ist, da auch die darauf vermutlich entfallende Konkursdividende und damit der Betrag des wahren Streitinteresses genannt werden muss (BGE 79 III 172). Demgemäss ist beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht zu beachten, dass bei dessen Wegfall die als solche unbestrittene Forderung immerhin in 5. (oder allenfalls sogar in einer privilegierten) Klasse am Konkursergebnis teilnimmt. Nur die Differenz macht das Streitinteresse des Pfandansprechers aus, und nur sie ("der Betrag, um welchen der Anteil des Beklagten an der Konkursmasse herabgesetzt wird") kann, wenn sich der Pfandansprecher in der Beklagtenrolle befindet, nach Art. 250 Abs. 3 SchKG zur Befriedigung des Klägers dienen. Sie macht also den mit der Klage höchstens erzielbaren Prozessgewinn aus, der übrigens mit einem allfällig überschüssigen Betrag, nach Deckung von Forderung und Prozesskosten des Klägers, in die allgemeine Konkursmasse fällt (BGE 57 III 154; JAEGER, N. 10 und 11 zu Art. 250 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch S. 789/90; FREY, Der Prozessgewinn, in Bl. für Schuldbetreibung und Konkurs 11 S. 39/40). Nun schweigt sich die vorliegende Streitwertangabe nicht nur über den Wert der Pfänder, sondern auch über die mutmassliche Konkursdividende für die Forderungen der 5. Klasse und damit über ein weiteres Element zur Berechnung des wahren Streitwertes aus. Auch das angefochtene Urteil enthält darüber keine Feststellungen, die der Berufung stillschweigend zugrunde gelegt sein könnten. Somit vermag die Angabe des Berufungsklägers nicht darzutun, dass das massgebende Streitinteresse den für die Berufung an das Bundesgericht erforderlichen Betrag von Fr. 4000.-- erreicht.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Auf die Berufung wird nicht eingetreten.
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Indication de la valeur litigieuse dans la procédure de recours en réforme (art. 55 al. 1 lettre a OJ). Valeur litigieuse en cas de procès portant sur un droit de gage garantissant une créance non contestée (cons. 1);
- spécialement dans un procès en contestation de l'état de collocation selon l'art. 250 LP (cons. 2).
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81 III 73
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Sachverhalt ab Seite 73
A.- Im Konkurs des L. in Kreuzlingen meldete dessen Schwiegermutter, Frau B., eine restliche Darlehensforderung von Fr. 8200.-- mit Faustpfandrecht gemäss Vertrag vom 24. September 1950 an. Anderseits enthielt die von der Ehefrau des Schuldners angemeldete Frauengutsforderung von insgesamt Fr. 17'500.-- einen Posten von Fr. 8500.-- mit der Grundangabe: "Erhalten von Mutter B. im Jahre 1937 und an L. gegeben". Da sich beide Forderungen auf die Beihilfen der Frau B. bezogen, konnten nicht beide nebeneinander berücksichtigt werden. Die Konkursverwaltung hielt vorerst dafür, es handle sich um Einbringen der Ehefrau. Sie kollozierte deren Frauengutsforderung im ganzen Betrage von Fr. 17'500.--, je zur Hälfte in 4. und 5. Klasse, wies dagegen die Eingabe der Frau B. ab.
B.- Diese erhob gegen die Masse Klage auf Kollokation gemäss ihrer Eingabe, während die Kollokation der Frau L. unangefochten blieb. Für den Fall, dass zwischen der Masse und Frau B. ein Vergleich zustande komme, erklärte sich indessen Frau L. bereit, auf den erwähnten Teilbetrag von Fr. 8500. -, und zwar auf je Fr. 4250.-- in 4. und 5. Klasse, zu verzichten. Hierauf schloss die Masse mit Frau B. am 17. April 1952 folgenden Vergleich:
"1. An Stelle der von Frau B. s. Zt. angemeldeten faustpfandgesicherten Forderung von Fr. 8200.-- werden Fr. 6500.-- und deren vorzugsweise Begleichung aus den für die ursprüngliche Forderung angemeldeten Pfandgegenständen anerkannt.
2. Die Verzichtserklärung von Frau Rosa L.-B. ist Bestandteil dieses Vergleichs. Danach verzichtet sie bei Zustandekommen des Vergleiches auf Fr. 4250.-- ihrer in 4. Klasse und Fr. 4250.-- ihrer in 5. Klasse kollozierten Ansprüche..."
Demgemäss wurden die Kollokationen der Frau B. (mit Hinweis auf den Vergleich) und der Frau L. (mit Hinweis auf den Verzicht) geändert.
C.- Ein in 5. Klasse kollozierter Gläubiger F. focht die neue Kollokation der Frau B. an, indem er das ihr zuerkannte Pfandrecht als anfechtbar und ungültig bezeichnete. Die Beklagte erklärte im Laufe des Prozesses, das Pfandrecht nur für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch nehmen zu wollen. Diesem Erfolg der Klage entsprechend, erhielt der Kläger durch Urteil des Obergerichts vom 16. September 1954 "vom Erlös der Pfandgegenstände einen Anteil, der Fr. 4250.-- übersteigt. jedoch Fr. 6500.-- nicht überschreitet", zugesprochen. Das weitergehende Klagebegehren wurde auch vom Obergericht abgewiesen.
D.- Mit vorliegender Berufung hält der Kläger an seinem Klagebegehren in vollem Umfange fest.
Erwägungen
Das Bundesgericht zieht in Erwägung:
1. Mit der Angabe "Streitwert: Fr. 6500.--" bezieht sich der Berufungskläger auf den Forderungsbetrag, für den der Beklagten im abgeänderten Kollokationsplan ein Pfandrecht zuerkannt wurde. Diese Angabe trifft auf alle Fälle für das bundesgerichtliche Verfahren nicht mehr zu, da die Beklagte ihre Pfandansprache schon in kantonaler Instanz ermässigt, nämlich das Pfandrecht nur noch für einen Forderungsbetrag von Fr. 4250.-- in Anspruch genommen und das Obergericht demgemäss dem Kläger einen allfälligen Mehrerlös der Pfänder zugesprochen hat. Aber auch wenn man die Streitwertangabe dahin berichtigt, dass der Betrag von Fr. 6500.-- durch denjenigen von Fr. 4250.-- ersetzt wird, erweist sie sich als ungenügend. Streitig ist nicht die Forderung (gegen die der Kläger nichts eingewendet hat, und die er als der Beklagten zustehend auch vor Bundesgericht anerkennt; Seite 4 der Berufungsschrift), sondern einzig das Pfandrecht. Dessen Wert ist nun aber von vornherein nicht nur durch den Betrag der Forderung, für die das Pfand haften soll, sondern auch durch den Wert der Pfandgegenstände begrenzt. Dass dieser Wert jenen Betrag erreiche, ist nicht ohne weiteres anzunehmen. Im Streit um ein Pfandrecht muss sich die von Art. 55 Abs. 1 lit. a OG verlangte Streitwertangabe daher grundsätzlich auf zwei Zahlen stützen: den pfandgesicherten Forderungsbetrag und den Wert der Pfänder. Die Angabe jenes Betrages genügt nur, wenn die streitigen Pfänder dafür offensichtlich volle Deckung bieten. Im vorliegenden Falle ist aber der wahre Wert der Pfänder nicht offenkundig. Es handelt sich um Mobilien, die im Klage- und im Berufungsbegehren wie auch in der angefochtenen Kollokationsverfügung gar nicht genannt sind. In den Akten nach allfälligen Wertangaben zu forschen, namentlich das Konkursinventar an Hand des Pfandvertrages nachzuprüfen und die Summe der dort für die Pfandsachen eingesetzten Schätzungswerte zu ermitteln, ist nicht Sache des Bundesgerichtes. Vielmehr hat der Berufungskläger den Wert des Streitgegenstandes anzugeben, was hier nicht in sachentsprechender Weise geschehen ist.
2. Auf die Berufung kann somit mangels genügender Streitwertangabe nicht eingetreten werden (BGE 71 II 252). Die einfach auf den Forderungsbetrag, für den die Pfänder in Anspruch genommen werden, anspielende Angabe des Berufungsklägers erweist sich noch um so mehr als mangelhaft, wenn man die Natur des Kollokationsprozesses in Betracht zieht. Wie der Kollokationsplan selbst, so hat auch ein auf dessen Änderung lautendes Urteil im Sinne von Art. 250 SchKG nur Wirkung für das Konkursverfahren. Es handelt sich lediglich um die Bereinigung der Passivmasse im Hinblick auf die Verteilung der Konkursaktiven. Beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht wurde bisher freilich der (den zu sichernden Forderungsbetrag nicht erreichende) Wert der Pfänder als Streitwert betrachtet (FAVRE, Cours de droit des poursuites, 303;BGE 29 II 761= Sep.-Aug. 6 S. 356;BGE 48 II 412). Indessen kann daran nicht festgehalten werden, nachdem die Rechtsprechung dazu übergegangen ist, bei Bemessung des Streitwertes einer Kollokationsklage jene beschränkte Rechtskraftwirkung des Kollokationsurteils zu berücksichtigen. In der Tat hat, wenn sich die Kollokationsklage auf den gültigen Bestand einer Forderung bezieht, als Streitwert nicht mehr wie nach der frühern Betrachtungsweise der streitige Forderungsbetrag, sondern die dafür zu erwartende Konkursdividende zu gelten (BGE 65 III 28ff.;BGE 65 II 43). Das hat zur Folge, dass in solchen Fällen eine nur den streitigen Forderungsbetrag nennende Streitwertangabe ungenügend ist, da auch die darauf vermutlich entfallende Konkursdividende und damit der Betrag des wahren Streitinteresses genannt werden muss (BGE 79 III 172). Demgemäss ist beim Kollokationsstreit über ein Pfandrecht zu beachten, dass bei dessen Wegfall die als solche unbestrittene Forderung immerhin in 5. (oder allenfalls sogar in einer privilegierten) Klasse am Konkursergebnis teilnimmt. Nur die Differenz macht das Streitinteresse des Pfandansprechers aus, und nur sie ("der Betrag, um welchen der Anteil des Beklagten an der Konkursmasse herabgesetzt wird") kann, wenn sich der Pfandansprecher in der Beklagtenrolle befindet, nach Art. 250 Abs. 3 SchKG zur Befriedigung des Klägers dienen. Sie macht also den mit der Klage höchstens erzielbaren Prozessgewinn aus, der übrigens mit einem allfällig überschüssigen Betrag, nach Deckung von Forderung und Prozesskosten des Klägers, in die allgemeine Konkursmasse fällt (BGE 57 III 154; JAEGER, N. 10 und 11 zu Art. 250 SchKG; BLUMENSTEIN, Handbuch S. 789/90; FREY, Der Prozessgewinn, in Bl. für Schuldbetreibung und Konkurs 11 S. 39/40). Nun schweigt sich die vorliegende Streitwertangabe nicht nur über den Wert der Pfänder, sondern auch über die mutmassliche Konkursdividende für die Forderungen der 5. Klasse und damit über ein weiteres Element zur Berechnung des wahren Streitwertes aus. Auch das angefochtene Urteil enthält darüber keine Feststellungen, die der Berufung stillschweigend zugrunde gelegt sein könnten. Somit vermag die Angabe des Berufungsklägers nicht darzutun, dass das massgebende Streitinteresse den für die Berufung an das Bundesgericht erforderlichen Betrag von Fr. 4000.-- erreicht.
Dispositiv
Demnach erkennt das Bundesgericht:
Auf die Berufung wird nicht eingetreten.
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Indicazione del valore litigioso nella procedura di ricorso per riforma (art. 55 cp. 1 lett. a OG). Valore litigioso nel processo concernente un diritto di pegno a garanzia d'un credito incontestato (consid. 1);
- segnatamente quando l'azione è volta ad impugnare la graduatoria a'sensi dell'art. 250 LEF (consid. 2).
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81 III 78
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Sachverhalt ab Seite 78
A.- Mediante contratto 14 luglio 1954 la ditta Gähwiler e figlio a Crocifisso vendeva a Walter Oetiker un automobile marca IFA al prezzo di 5800 fr. con riserva della proprietà. Le parti stipulavano le seguenti condizioni di pagamento: "Fr. 2500.-- sofort bei Ablieferung, Rest bei monatlichen Raten von Fr. 140.-- auf 2 Jahre".
L'Ufficio d'esecuzione di Locarno si rifiutava d'iscrivere il patto di riserva della proprietà perchè, contrariamente a quanto prescrive l'art. 7 lett. i del Regolamento 19 dicembre 1910 del Tribunale federale, non indicava la scadenza delle singole rate mensili o almeno quella della prima rata.
Contro questo rifiuto la venditrice interponeva reclamo, che era respinto dall'Autorità cantonale di vigilanza con decisione 16 maggio 1955.
B.- La ditta Gähwiler e figlio si è aggravata alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, chiedendo che sia annullata la decisione cantonale e ingiunto all'ufficio d'iscrivere il patto di riservata proprietà.
Erwägungen
Considerando in diritto:
A norma dell'art. 7 lett. i del Regolamento precitato del Tribunale federale, l'iscrizione d'un patto di riserva della proprietà deve menzionare: La scadenza del credito e, se furono pattuiti dei pagamenti rateali, anche gli importi delle diverse rate ed i rispettivi termini di scadenza. Si tratta quindi di sapere se l'indicazione della scadenza delle rate fosse in concreto una condizione essenziale per la validità dell'iscrizione. La risposta dev'essere negativa. Lo scopo perseguito dal legislatore con la disposizione citata è manifestamente quello di permettere al compratore e soprattutto al pubblico di rendersi conto esattamente delle condizioni in cui dev'essere soluto il residuo prezzo. Generalmente, le parti stabiliscono le modalità del pagamento delle rate in modo preciso; ciò non è però strettamente necessario. Un'indicazione come quella contenuta nel patto litigioso è indubbiamente sufficiente: essa precisa la scadenza del credito (in due anni, ossia il 14 luglio 1956, atteso che ovviamente il termine biennale comincia a correre dalla data del contratto); indica che la somma di 2500 fr. è pagata in contanti, circostanza dalla quale si desume facilmente che il residuo debito è di 3300 fr.; precisa infine che questo importo dovrà essere pagato mediante rate mensili di 140 fr. In siffatte condizioni appare eccessivo chiedere anche il termine di scadenza esatto della prima rata; dal testo del contratto si inferisce senz'altro ch'essa doveva essere pagata il 14 agosto 1954. Concedesi che le autorità di esecuzione non possono modificare le pattuizioni delle parti e debbono iscrivere un patto di riserva della proprietà cosí com'è notificato o, se non soddisfa le esigenze formali della legge, rifiutarne l'iscrizione. In concreto l'ufficio ha però fatto prova d'un formalismo eccessivo considerando che l'indicazione del termine di scadenza della prima rata fosse una condizione essenziale per l'iscrizione del patto.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto e la querelata decisione 16 maggio 1955 dell'Autorità cantonale di vigilanza è annullata. All'Ufficio d'esecuzione di Locarno è ingiunto d'iscrivere il patto di riserva della proprietà a dipendenza del contratto di compravendita 14 luglio 1954.
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Art. 7 lit. i der Verordnung des Bundesgerichts vom 19. Dezember 1910 betreffend die Eintragung der Eigentumsvorbehalte. Ist zur Gültigkeit der Eintragung in jedem Falle die genaue Angabe der Verfalltermine der Raten unerlässlich?
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81 III 78
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Sachverhalt ab Seite 78
A.- Mediante contratto 14 luglio 1954 la ditta Gähwiler e figlio a Crocifisso vendeva a Walter Oetiker un automobile marca IFA al prezzo di 5800 fr. con riserva della proprietà. Le parti stipulavano le seguenti condizioni di pagamento: "Fr. 2500.-- sofort bei Ablieferung, Rest bei monatlichen Raten von Fr. 140.-- auf 2 Jahre".
L'Ufficio d'esecuzione di Locarno si rifiutava d'iscrivere il patto di riserva della proprietà perchè, contrariamente a quanto prescrive l'art. 7 lett. i del Regolamento 19 dicembre 1910 del Tribunale federale, non indicava la scadenza delle singole rate mensili o almeno quella della prima rata.
Contro questo rifiuto la venditrice interponeva reclamo, che era respinto dall'Autorità cantonale di vigilanza con decisione 16 maggio 1955.
B.- La ditta Gähwiler e figlio si è aggravata alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, chiedendo che sia annullata la decisione cantonale e ingiunto all'ufficio d'iscrivere il patto di riservata proprietà.
Erwägungen
Considerando in diritto:
A norma dell'art. 7 lett. i del Regolamento precitato del Tribunale federale, l'iscrizione d'un patto di riserva della proprietà deve menzionare: La scadenza del credito e, se furono pattuiti dei pagamenti rateali, anche gli importi delle diverse rate ed i rispettivi termini di scadenza. Si tratta quindi di sapere se l'indicazione della scadenza delle rate fosse in concreto una condizione essenziale per la validità dell'iscrizione. La risposta dev'essere negativa. Lo scopo perseguito dal legislatore con la disposizione citata è manifestamente quello di permettere al compratore e soprattutto al pubblico di rendersi conto esattamente delle condizioni in cui dev'essere soluto il residuo prezzo. Generalmente, le parti stabiliscono le modalità del pagamento delle rate in modo preciso; ciò non è però strettamente necessario. Un'indicazione come quella contenuta nel patto litigioso è indubbiamente sufficiente: essa precisa la scadenza del credito (in due anni, ossia il 14 luglio 1956, atteso che ovviamente il termine biennale comincia a correre dalla data del contratto); indica che la somma di 2500 fr. è pagata in contanti, circostanza dalla quale si desume facilmente che il residuo debito è di 3300 fr.; precisa infine che questo importo dovrà essere pagato mediante rate mensili di 140 fr. In siffatte condizioni appare eccessivo chiedere anche il termine di scadenza esatto della prima rata; dal testo del contratto si inferisce senz'altro ch'essa doveva essere pagata il 14 agosto 1954. Concedesi che le autorità di esecuzione non possono modificare le pattuizioni delle parti e debbono iscrivere un patto di riserva della proprietà cosí com'è notificato o, se non soddisfa le esigenze formali della legge, rifiutarne l'iscrizione. In concreto l'ufficio ha però fatto prova d'un formalismo eccessivo considerando che l'indicazione del termine di scadenza della prima rata fosse una condizione essenziale per l'iscrizione del patto.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto e la querelata decisione 16 maggio 1955 dell'Autorità cantonale di vigilanza è annullata. All'Ufficio d'esecuzione di Locarno è ingiunto d'iscrivere il patto di riserva della proprietà a dipendenza del contratto di compravendita 14 luglio 1954.
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Art. 7 lettre i de l'ordonnance du TF du 19 décembre 1910 concernant l'inscription des pactes de réserve de propriété. Est-il toujours indispensable pour la validité de l'inscription d'indiquer exactement la date de l'échéance des acomptes?
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A.- Mediante contratto 14 luglio 1954 la ditta Gähwiler e figlio a Crocifisso vendeva a Walter Oetiker un automobile marca IFA al prezzo di 5800 fr. con riserva della proprietà. Le parti stipulavano le seguenti condizioni di pagamento: "Fr. 2500.-- sofort bei Ablieferung, Rest bei monatlichen Raten von Fr. 140.-- auf 2 Jahre".
L'Ufficio d'esecuzione di Locarno si rifiutava d'iscrivere il patto di riserva della proprietà perchè, contrariamente a quanto prescrive l'art. 7 lett. i del Regolamento 19 dicembre 1910 del Tribunale federale, non indicava la scadenza delle singole rate mensili o almeno quella della prima rata.
Contro questo rifiuto la venditrice interponeva reclamo, che era respinto dall'Autorità cantonale di vigilanza con decisione 16 maggio 1955.
B.- La ditta Gähwiler e figlio si è aggravata alla Camera di esecuzione e dei fallimenti del Tribunale federale, chiedendo che sia annullata la decisione cantonale e ingiunto all'ufficio d'iscrivere il patto di riservata proprietà.
Erwägungen
Considerando in diritto:
A norma dell'art. 7 lett. i del Regolamento precitato del Tribunale federale, l'iscrizione d'un patto di riserva della proprietà deve menzionare: La scadenza del credito e, se furono pattuiti dei pagamenti rateali, anche gli importi delle diverse rate ed i rispettivi termini di scadenza. Si tratta quindi di sapere se l'indicazione della scadenza delle rate fosse in concreto una condizione essenziale per la validità dell'iscrizione. La risposta dev'essere negativa. Lo scopo perseguito dal legislatore con la disposizione citata è manifestamente quello di permettere al compratore e soprattutto al pubblico di rendersi conto esattamente delle condizioni in cui dev'essere soluto il residuo prezzo. Generalmente, le parti stabiliscono le modalità del pagamento delle rate in modo preciso; ciò non è però strettamente necessario. Un'indicazione come quella contenuta nel patto litigioso è indubbiamente sufficiente: essa precisa la scadenza del credito (in due anni, ossia il 14 luglio 1956, atteso che ovviamente il termine biennale comincia a correre dalla data del contratto); indica che la somma di 2500 fr. è pagata in contanti, circostanza dalla quale si desume facilmente che il residuo debito è di 3300 fr.; precisa infine che questo importo dovrà essere pagato mediante rate mensili di 140 fr. In siffatte condizioni appare eccessivo chiedere anche il termine di scadenza esatto della prima rata; dal testo del contratto si inferisce senz'altro ch'essa doveva essere pagata il 14 agosto 1954. Concedesi che le autorità di esecuzione non possono modificare le pattuizioni delle parti e debbono iscrivere un patto di riserva della proprietà cosí com'è notificato o, se non soddisfa le esigenze formali della legge, rifiutarne l'iscrizione. In concreto l'ufficio ha però fatto prova d'un formalismo eccessivo considerando che l'indicazione del termine di scadenza della prima rata fosse una condizione essenziale per l'iscrizione del patto.
Dispositiv
La Camera di esecuzione e dei fallimenti pronuncia:
Il ricorso è accolto e la querelata decisione 16 maggio 1955 dell'Autorità cantonale di vigilanza è annullata. All'Ufficio d'esecuzione di Locarno è ingiunto d'iscrivere il patto di riserva della proprietà a dipendenza del contratto di compravendita 14 luglio 1954.
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Art. 7 lett. i del Regolamento del Tribunale federale 19 dicembre 1910 concernente l'iscrizione dei patti di riserva della proprietà. L'esatta indicazione del termine di scadenza dei pagamenti rateali è in ogni caso indispensabile per la validità dell'iscrizione?
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81 III 81
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Sachverhalt ab Seite 82
Die Handelsbank Luzern A. G. machte an zwei Theater-Kinomaschinen, die in Betreibungen gegen Josef Hort gepfändet worden waren, einen Eigentumsvorbehalt geltend, den die Gläubigerin Kredit- und Verwaltungsbank Zug A. G. bestritt. Hierauf setzte das Betreibungsamt Zürich 2 der Handelsbank am 26. Oktober 1954 in Anwendung von Art. 107 SchKG Frist zur Klage auf Anerkennung ihres Anspruchs. Die Fristansetzung ging der Handelsbank am 27. Oktober 1954 zu. Diese leitete die Klage erst am 8. November 1954 ein. Am gleichen Tage führte sie bei der untern Aufsichtsbehörde Beschwerde mit dem Antrag, die Fristansetzung sei aufzuheben und das Betreibungsamt anzuweisen, die Klagefrist gemäss Art. 109 SchKG der Gläubigerin anzusetzen. Am 16. November 1954 stellte sie ausserdem das Gesuch um Wiederherstellung der am 6. November 1954 abgelaufenen Beschwerdefrist. Die untere Aufsichtsbehörde wies dieses Gesuch ab und trat auf die Beschwerde nicht ein. Die obere kantonale Aufsichtsbehörde hat dagegen am 14. Mai 1955 die versäumte Beschwerdefrist wiederhergestellt und die Beschwerde gutgeheissen.
Diesen Entscheid hat die Kredit- und Verwaltungsbank an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Übereinstimmung mit der Auffassung, zu welcher der Bundesrat als Oberaufsichtsbehörde im Betreibungswesen sich bekannt hatte (vgl. die in BGE 33 I 106 Erw. 2 = Sep. ausg. 10 S. 85 zitierten bundesrätlichen Entscheide), hat das Bundesgericht zunächst in ständiger Rechtsprechung angenommen, bei Versäumung von Fristen des SchKG gebe es, vom Falle des nachträglichen Rechtsvorschlags (Art. 77 SchKG) abgesehen, keine Wiederherstellung, weil das SchKG eine solche Möglichkeit nicht vorsehe und eine analoge Anwendung von Art. 77, der eine Ausnahmevorschrift zum Schutze des materiellen Rechts darstelle, nicht zulässig sei (BGE 24 I 532 und BGE 33 I 106= Sep. ausg. 1 S. 264 und 10 S. 85, BGE 40 III 328, BGE 47 III 83 oben, BGE 54 III 109, BGE 59 III 253 Erw. 2). Die Wiederherstellung wurde von Bundesrat und Bundesgericht insbesondere abgelehnt für die Beschwerdefrist im Sinne von Art. 17 Abs. 2 (Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 1 Nr. 72, BGE 47 III 83 oben, BGE 59 III 253), die Frist für die Weiterziehung an die obere kantonale Aufsichtsbehörde gemäss Art. 18 Abs. 1 (Archiv 3 Nr. 54) und die Frist für den Bekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1 SchKG (BGE 40 III 328). In BGE 67 III 70ff. hat dann aber das Bundesgericht die Wiederherstellung der infolge eines unverschuldeten Hindernisses versäumten Weiterziehungsfrist von Art. 18 SchKG gestützt auf Art. 43 aoG (der dem Art. 35 des geltenden OG entspricht) mit der Begründung gestattet, dieser in den allgemeinen Bestimmungen des OG enthaltene Grundsatz sei zunächst im Rekursverfahren vor Bundesgericht nach Art. 19 SchKG anwendbar, auf das der Abschnitt IV bis des OG (heute: der dritte Titel, Art. 75 ff.) Bezug nehme; seine Anwendung dränge sich aber auch für das Verfahren der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde auf; sei doch solche Weiterziehung vom Bundesrecht vorgesehen, das auch die dabei zu beobachtende Frist bestimme (Art. 18 SchKG).
An diesem letzten Entscheide ist auf jeden Fall insofern festzuhalten, als er die Wiederherstellung der Rekursfrist von Art. 19 SchKG zulässt. Art. 35 OG, der unter den "Allgemeinen Bestimmungen" im Abschnitt über "Gemeinsame Verfahrensvorschriften" steht und allgemein von Wiederherstellung gegen die Folgen der Versäumung "einer Frist" spricht, gilt zweifellos für alle Fristen, die in den vom OG geregelten Verfahren vor Bundesgericht zu beobachten sind. Zu diesen Verfahren gehört der Rekurs an das Bundesgericht in Schuldbetreibungs- und Konkurssachen. Also ist Art. 35 OG auf die Frist für dieses Rechtsmittel anwendbar. Der Umstand, dass diese Frist nicht im OG selber, sondern im SchKG festgesetzt ist, kann hieran nichts ändern; dies um so weniger, als das OG in Art. 75 ff. immerhin mehrfach auf die Rekursfrist Bezug nimmt (vgl. Art. 76 und vor allem Art. 77 Abs. 2 und Art. 78 Abs. 2, die sich mit ihrem Beginn und der Frage ihrer Unterbrechung durch ein Revisions- oder Erläuterungsgesuch befassen).
Für die Frist zur Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde und für die Frist zur Beschwerde selber gilt dagegen Art. 35 OG als eine Vorschrift, die für die Fristen in bundesgerichtlichen Verfahren aufgestellt worden ist, nicht unmittelbar. Es kann sich nur fragen, ob sich die analoge Anwendung dieser Vorschrift auf jene Fristen rechtfertige.
2. In BGE 67 III 71/72 hat das Bundesgericht die Vorschrift des OG über die Wiederherstellung deshalb als im Verfahren der Weiterziehung nach Art. 18 SchKG anwendbar erachtet, weil das Bundesrecht dieses Rechtsmittel vorsieht und auch die dabei zu beobachtende Frist festsetzt. Das gleiche lässt sich auch von der Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG sagen. Aus der Tatsache, dass das Bundesrecht einen bestimmten Rechtsbehelf zur Verfügung stellt und die Frist regelt, innert der er ergriffen werden kann, folgt jedoch zunächst bloss, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung selbst dann, wenn der Rechtsbehelf in der Anrufung einer kantonalen Behörde besteht und das daran anschliessende Verfahren vom kantonalen Recht geregelt wird, sich nur aus dem Bundesrecht, nicht etwa auch aus dem kantonalen Verfahrensrecht ergeben kann (vgl. Archiv 2 Nr. 72 S. 169). Nur das Bundesrecht kann anordnen, dass die Folgen der Versäumung einer von ihm festgesetzten Frist unter gewissen Voraussetzungen nicht eintreten. Der Umstand, dass ein Rechtsbehelf vom Bundesrecht vorgesehen und befristet ist, kann dagegen für sich allein keinen genügenden Grund dafür bilden, beim Zutreffen der in Art. 35 OG genannten Voraussetzungen die Wiederherstellung zu gestatten. Beim Entscheid darüber, ob ein solcher Rechtsbehelf hinsichtlich der Wiederherstellung gegen die Folgen der Fristversäumung den Rechtshandlungen gleichgestellt werden dürfe, die Art. 35 OG ins Auge fasst, sind vielmehr seine Natur und seine Funktion in Betracht zu ziehen und ist zu prüfen, welche Bedeutung der Tatsache zukommt, dass eine Vorschrift, welche die Wiederherstellung der Frist für den in Frage stehenden Behelf ausdrücklich erlauben würde, nicht besteht.
a) Die Beschwerde im Sinne von Art. 17 Abs. 1 und 2 SchKG ist ein Rechtsmittel, das dazu dient, gesetzwidrige oder unangemessene Verfügungen des Betreibungs- oder Konkursamtes aufheben oder berichtigen zu lassen (Art. 21 SchKG). Mit der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde im Sinne von Art. 18 Abs. 1 können Entscheide der untern Aufsichtsbehörde wegen Gesetzwidrigkeit oder Unangemessenheit angefochten werden. Wie der Rekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1, der gegen gesetzwidrige Entscheide der obern kantonalen Aufsichtsbehörde ergriffen werden kann, sind also die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung Rechtsmittel, die den am Zwangsvollstreckungsverfahren beteiligten Personen gewährt wurden, damit sie erreichen können, dass dieses Verfahren ordnungsgemäss durchgeführt werde. Die drei in Frage stehenden Rechtsbehelfe stimmen demnach in ihrer Natur und ihrem Zweck so weitgehend überein und hängen überdies verfahrensmässig so eng zusammen, dass es naheliegt, sie hinsichtlich der Wiederherstellung der dafür festgesetzten Fristen gleich zu behandeln, d.h. den für den Rekurs an das Bundesgericht geltenden Art. 35 OG auf die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung entsprechend anzuwenden.
b) Die in der frühern Rechtsprechung betonte Tatsache, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung der Beschwerde- und der Weiterziehungsfrist weder im SchKG noch in einem andern Bundesgesetz ausdrücklich vorgesehen ist, würde die entsprechende Anwendung von Art. 35 OG auf diese Fristen dann verbieten, wenn anzunehmen wäre, dass die Bundesgesetzgebung mit ihrem Stillschweigen jene Möglichkeit ausschliessen wolle. Für diese Annahme bestehen jedoch keine zureichenden Gründe.
In erster Linie ist zu sagen, dass Art. 35 OG nicht etwa eine Ausnahmevorschrift ist, die sich nur gerade aus den Besonderheiten des bundesgerichtlichen Verfahrens erklären liesse. Die Möglichkeit, versäumte Fristen in gewissen Fällen wiederherzustellen, entspricht vielmehr einem von altersher und weitherum anerkannten Verfahrensgrundsatze. Art. 35 OG setzt das Bestehen dieses Grundsatzes voraus, indem er einschränkend bestimmt, Wiederherstellung könne nur dann erteilt werden, wenn der Gesuchsteller oder sein Vertreter durch ein unverschuldetes Hindernis abgehalten wurde, innert der Frist zu handeln, und binnen 10 Tagen nach Wegfall des Hindernisses unter Angabe desselben die Wiederherstellung verlangt und die versäumte Rechtshandlung nachholt. Es verhält sich also nicht so, dass deswegen, weil Art. 35 OG den Charakter einer Ausnahme hätte, die Wiederherstellung überall dort, wo sie nicht ausdrücklich vorgesehen ist, als ausgeschlossen gelten müsste.
Die Annahme, dass die Bundesgesetzgebung die Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 SchKG verbieten wolle, lässt sich aber auch nicht mit der Erwägung begründen, dass sich aus ihrer Zulassung ernstliche Unzukömmlichkeiten ergäben. Die in Art. 35 OG umschriebenen Voraussetzungen der Wiederherstellung sind so streng und erweisen sich erfahrungsgemäss so selten als gegeben, und missbräuchliche Versuche, die Wiederherstellung zu erlangen, lassen sich im allgemeinen so leicht entlarven, dass die Verzögerungen des Verfahrens und die Unsicherheit, welche die Anwendung von Art. 35 OG auf die Fristen für die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung mit sich bringen kann, praktisch nicht erheblich ins Gewicht fallen. Es ist aber auch nicht zu befürchten, dass die Ermöglichung nachträglicher Beschwerdeführung und Weiterziehung im Falle unverschuldeter Verhinderung an rechtzeitigem Handeln das Verfahren in Verwirrung bringen könnte. Wo inzwischen Massnahmen getroffen worden sind, die nicht mehr rückgängig gemacht werden können, muss eben der nachträglichen Beschwerde oder Weiterziehung nach Art. 21 SchKG ein Erfolg versagt bleiben. Im übrigen sind die Nachteile, die aus der Wiederherstellung einer abgelaufenen Frist entstehen können, bei der Beschwerde und der kantonalen Weiterziehung auf jeden Fall nicht grösser als beim Rekurs ans Bundesgericht, wo die Wiederherstellung ausdrücklich zugelassen ist, und kommt Art. 35 OG auf Gebieten zur Anwendung, wo man gegen die Infragestellung eines Entscheides nach Ablauf der Rechtsmittelfrist viel eher Bedenken haben könnte als im Betreibungsrecht. (Man denke z.B. an den Fall der Weiterziehung eines Scheidungsurteils nach Ablauf der Berufungsfrist.)
Schliesslich lässt sich ein auf Ausschluss der Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 gerichteter Gesetzeswille auch nicht durch Gegenschluss daraus herleiten, dass das SchKG für den Fall unverschuldeter Versäumung der Frist für den Rechtsvorschlag (Art. 74) in Art. 77 eine besondere Vorschrift aufgestellt hat. Diese Tatsache lässt sich damit erklären, dass es sich beim Rechtsvorschlag um einen Rechtsbehelf eigener Art handelt, bei dem das Bedürfnis nach einer Wiederherstellungsmöglichkeit im Hinblick auf die weittragenden Folgen seiner Unterlassung besonders augenfällig ist. Dazu kommt, dass der Gesetzgeber den Entscheid darüber, ob die Rechtsvorschlagsfrist ohne Verschulden versäumt worden sei, nicht dem Betreibungsamt, bei dem der Rechtsvorschlag normalerweise anzubringen ist, sondern dem Richter übertragen wollte. Dies konnte nur durch eine ausdrückliche Vorschrift geschehen. Unter diesen Umständen darf dem Art. 77 nur die positive Bedeutung zugeschrieben werden, dass die Wiederherstellung der Frist für den Rechtsvorschlag unter den in dieser Bestimmung genannten Voraussetzungen und im hier festgesetzten Verfahren erlangt werden kann, nicht auch die negative Bedeutung, dass eine Wiederherstellung bei keiner andern Frist des SchKG in Frage komme.
Der in BGE 67 III 70ff. aufgestellte Grundsatz ist also zu bestätigen und dahin zu ergänzen, dass die Möglichkeit der Wiederherstellung nach Art. 35 OG auch für die Beschwerdefrist von Art. 17 Abs. 2 SchKG anerkannt wird (während im vorliegenden Falle dahingestellt bleiben kann, wie es sich in dieser Hinsicht mit andern Fristen des SchKG, insbesondere mit den Klagefristen von Art. 107 und 109 verhalte).
Die Vorinstanz ist demnach auf das Wiederherstellungsgesuch der Handelsbank, das den formellen Anforderungen von Art. 35 OG genügt, mit Recht eingetreten.
3. In der Sache selbst kann dagegen der Vorinstanz nicht beigestimmt werden. Der erste Grund der in Frage stehenden Fristversäumnis liegt darin, dass die Handelsbank die ihr am 27. Oktober 1954 zugestellte Fristansetzung so spät an Dr. G. in Zürich, der für die Einleitung des Widerspruchsprozesses sorgen sollte, abgesandt hat, dass sie bei diesem erst am 3. November 1954 eintraf. So lange zu zögern, dass dem Vertreter für die Einleitung der Klage nur drei Tage blieben, war nachlässig und unvorsichtig; dies um so mehr, als die Handelsbank bei gehöriger Aufmerksamkeit erkennen konnte, dass Dr. G., der nicht Rechtsanwalt, sondern Wirtschaftskonsulent ist, nicht in der Lage war, die Klage selber anzuheben, sondern seinerseits einen Anwalt beiziehen musste. Der zweite Grund der Verspätung liegt darin, dass die Ehefrau Dr. G.s, welcher der Postbote die eingeschriebene Sendung der Handelsbank befugterweise ablieferte, diesen Brief versehentlich mit mehreren gleichzeitig eingetroffenen Militärpostsachen in ein ausschliesslich der Ablage der Militärpost dienendes Fach im Büroschrank Dr. G.s legte, und dass Dr. G., der die Militärkorrespondenz über das Wochenende zu erledigen pflegte, ihn dort erst am Sonntag, dem 7. November 1954 (also nach Ablauf der Beschwerdefrist) vorfand. Für das Versehen seiner Frau, das, wie auch die Vorinstanz annimmt, nicht entschuldbar ist, muss Dr. G. einstehen. Die Vorinstanz hat freilich festgestellt, dass seine Ehefrau nie, auch nicht aushilfsweise, in seiner (neben der Wohnung gelegenen) Praxis tätig war und keinen Auftrag hatte, Postsachen für ihn entgegenzunehmen, sondern im Gegenteil von ihm die Weisung erhalten hatte, auf das Läuten des Postboten nicht zu reagieren, und keinen Briefkastenschlüssel besass. Dieser Sachverhalt vermag ihn jedoch nicht zu entlasten. Wer berufsmässig Geschäfte für Dritte besorgt, muss dafür sorgen, dass Postsendungen, die in seiner Abwesenheit von einer gemäss Postordnung empfangsberechtigten Person entgegengenommen werden, ihm unverzüglich vorgelegt werden. Was Dr. G. vorgekehrt hat, diente nicht der Sicherung des Empfangs der während seiner Abwesenheit eintreffenden eingeschriebenen Sendungen, sondern der Vereitelung ihrer Zustellung. Auf diese eigentümlichen Vorkehren durfte er sich nicht verlassen. Unter diesen Umständen kann keine Rede davon sein, dass ein unverschuldetes Hindernis der rechtzeitigen Beschwerdeführung im Wege gestanden sei.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird dahin gutgeheissen, dass der angefochtene Entscheid aufgehoben, das Wiederherstellungsgesuch abgewiesen und auf die Beschwerde nicht eingetreten wird.
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de
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Die Beschwerdefrist (Art. 17 Abs. 2 SchKG) kann wie die Frist für den Rekurs an das Bundesgericht (Art. 19 Abs. 1 SchKG) und die Frist für die Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde (Art. 18 Abs. 1 SchKG) wiederhergestellt werden, wenn die Voraussetzungen von Art. 35 OG erfüllt sind. Sind der Beschwerdeführer und sein Vertreter durch ein unverschuldetes Hindernis von der Einhaltung der Beschwerdefrist abgehalten worden?
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-81%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 81
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Sachverhalt ab Seite 82
Die Handelsbank Luzern A. G. machte an zwei Theater-Kinomaschinen, die in Betreibungen gegen Josef Hort gepfändet worden waren, einen Eigentumsvorbehalt geltend, den die Gläubigerin Kredit- und Verwaltungsbank Zug A. G. bestritt. Hierauf setzte das Betreibungsamt Zürich 2 der Handelsbank am 26. Oktober 1954 in Anwendung von Art. 107 SchKG Frist zur Klage auf Anerkennung ihres Anspruchs. Die Fristansetzung ging der Handelsbank am 27. Oktober 1954 zu. Diese leitete die Klage erst am 8. November 1954 ein. Am gleichen Tage führte sie bei der untern Aufsichtsbehörde Beschwerde mit dem Antrag, die Fristansetzung sei aufzuheben und das Betreibungsamt anzuweisen, die Klagefrist gemäss Art. 109 SchKG der Gläubigerin anzusetzen. Am 16. November 1954 stellte sie ausserdem das Gesuch um Wiederherstellung der am 6. November 1954 abgelaufenen Beschwerdefrist. Die untere Aufsichtsbehörde wies dieses Gesuch ab und trat auf die Beschwerde nicht ein. Die obere kantonale Aufsichtsbehörde hat dagegen am 14. Mai 1955 die versäumte Beschwerdefrist wiederhergestellt und die Beschwerde gutgeheissen.
Diesen Entscheid hat die Kredit- und Verwaltungsbank an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Übereinstimmung mit der Auffassung, zu welcher der Bundesrat als Oberaufsichtsbehörde im Betreibungswesen sich bekannt hatte (vgl. die in BGE 33 I 106 Erw. 2 = Sep. ausg. 10 S. 85 zitierten bundesrätlichen Entscheide), hat das Bundesgericht zunächst in ständiger Rechtsprechung angenommen, bei Versäumung von Fristen des SchKG gebe es, vom Falle des nachträglichen Rechtsvorschlags (Art. 77 SchKG) abgesehen, keine Wiederherstellung, weil das SchKG eine solche Möglichkeit nicht vorsehe und eine analoge Anwendung von Art. 77, der eine Ausnahmevorschrift zum Schutze des materiellen Rechts darstelle, nicht zulässig sei (BGE 24 I 532 und BGE 33 I 106= Sep. ausg. 1 S. 264 und 10 S. 85, BGE 40 III 328, BGE 47 III 83 oben, BGE 54 III 109, BGE 59 III 253 Erw. 2). Die Wiederherstellung wurde von Bundesrat und Bundesgericht insbesondere abgelehnt für die Beschwerdefrist im Sinne von Art. 17 Abs. 2 (Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 1 Nr. 72, BGE 47 III 83 oben, BGE 59 III 253), die Frist für die Weiterziehung an die obere kantonale Aufsichtsbehörde gemäss Art. 18 Abs. 1 (Archiv 3 Nr. 54) und die Frist für den Bekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1 SchKG (BGE 40 III 328). In BGE 67 III 70ff. hat dann aber das Bundesgericht die Wiederherstellung der infolge eines unverschuldeten Hindernisses versäumten Weiterziehungsfrist von Art. 18 SchKG gestützt auf Art. 43 aoG (der dem Art. 35 des geltenden OG entspricht) mit der Begründung gestattet, dieser in den allgemeinen Bestimmungen des OG enthaltene Grundsatz sei zunächst im Rekursverfahren vor Bundesgericht nach Art. 19 SchKG anwendbar, auf das der Abschnitt IV bis des OG (heute: der dritte Titel, Art. 75 ff.) Bezug nehme; seine Anwendung dränge sich aber auch für das Verfahren der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde auf; sei doch solche Weiterziehung vom Bundesrecht vorgesehen, das auch die dabei zu beobachtende Frist bestimme (Art. 18 SchKG).
An diesem letzten Entscheide ist auf jeden Fall insofern festzuhalten, als er die Wiederherstellung der Rekursfrist von Art. 19 SchKG zulässt. Art. 35 OG, der unter den "Allgemeinen Bestimmungen" im Abschnitt über "Gemeinsame Verfahrensvorschriften" steht und allgemein von Wiederherstellung gegen die Folgen der Versäumung "einer Frist" spricht, gilt zweifellos für alle Fristen, die in den vom OG geregelten Verfahren vor Bundesgericht zu beobachten sind. Zu diesen Verfahren gehört der Rekurs an das Bundesgericht in Schuldbetreibungs- und Konkurssachen. Also ist Art. 35 OG auf die Frist für dieses Rechtsmittel anwendbar. Der Umstand, dass diese Frist nicht im OG selber, sondern im SchKG festgesetzt ist, kann hieran nichts ändern; dies um so weniger, als das OG in Art. 75 ff. immerhin mehrfach auf die Rekursfrist Bezug nimmt (vgl. Art. 76 und vor allem Art. 77 Abs. 2 und Art. 78 Abs. 2, die sich mit ihrem Beginn und der Frage ihrer Unterbrechung durch ein Revisions- oder Erläuterungsgesuch befassen).
Für die Frist zur Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde und für die Frist zur Beschwerde selber gilt dagegen Art. 35 OG als eine Vorschrift, die für die Fristen in bundesgerichtlichen Verfahren aufgestellt worden ist, nicht unmittelbar. Es kann sich nur fragen, ob sich die analoge Anwendung dieser Vorschrift auf jene Fristen rechtfertige.
2. In BGE 67 III 71/72 hat das Bundesgericht die Vorschrift des OG über die Wiederherstellung deshalb als im Verfahren der Weiterziehung nach Art. 18 SchKG anwendbar erachtet, weil das Bundesrecht dieses Rechtsmittel vorsieht und auch die dabei zu beobachtende Frist festsetzt. Das gleiche lässt sich auch von der Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG sagen. Aus der Tatsache, dass das Bundesrecht einen bestimmten Rechtsbehelf zur Verfügung stellt und die Frist regelt, innert der er ergriffen werden kann, folgt jedoch zunächst bloss, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung selbst dann, wenn der Rechtsbehelf in der Anrufung einer kantonalen Behörde besteht und das daran anschliessende Verfahren vom kantonalen Recht geregelt wird, sich nur aus dem Bundesrecht, nicht etwa auch aus dem kantonalen Verfahrensrecht ergeben kann (vgl. Archiv 2 Nr. 72 S. 169). Nur das Bundesrecht kann anordnen, dass die Folgen der Versäumung einer von ihm festgesetzten Frist unter gewissen Voraussetzungen nicht eintreten. Der Umstand, dass ein Rechtsbehelf vom Bundesrecht vorgesehen und befristet ist, kann dagegen für sich allein keinen genügenden Grund dafür bilden, beim Zutreffen der in Art. 35 OG genannten Voraussetzungen die Wiederherstellung zu gestatten. Beim Entscheid darüber, ob ein solcher Rechtsbehelf hinsichtlich der Wiederherstellung gegen die Folgen der Fristversäumung den Rechtshandlungen gleichgestellt werden dürfe, die Art. 35 OG ins Auge fasst, sind vielmehr seine Natur und seine Funktion in Betracht zu ziehen und ist zu prüfen, welche Bedeutung der Tatsache zukommt, dass eine Vorschrift, welche die Wiederherstellung der Frist für den in Frage stehenden Behelf ausdrücklich erlauben würde, nicht besteht.
a) Die Beschwerde im Sinne von Art. 17 Abs. 1 und 2 SchKG ist ein Rechtsmittel, das dazu dient, gesetzwidrige oder unangemessene Verfügungen des Betreibungs- oder Konkursamtes aufheben oder berichtigen zu lassen (Art. 21 SchKG). Mit der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde im Sinne von Art. 18 Abs. 1 können Entscheide der untern Aufsichtsbehörde wegen Gesetzwidrigkeit oder Unangemessenheit angefochten werden. Wie der Rekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1, der gegen gesetzwidrige Entscheide der obern kantonalen Aufsichtsbehörde ergriffen werden kann, sind also die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung Rechtsmittel, die den am Zwangsvollstreckungsverfahren beteiligten Personen gewährt wurden, damit sie erreichen können, dass dieses Verfahren ordnungsgemäss durchgeführt werde. Die drei in Frage stehenden Rechtsbehelfe stimmen demnach in ihrer Natur und ihrem Zweck so weitgehend überein und hängen überdies verfahrensmässig so eng zusammen, dass es naheliegt, sie hinsichtlich der Wiederherstellung der dafür festgesetzten Fristen gleich zu behandeln, d.h. den für den Rekurs an das Bundesgericht geltenden Art. 35 OG auf die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung entsprechend anzuwenden.
b) Die in der frühern Rechtsprechung betonte Tatsache, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung der Beschwerde- und der Weiterziehungsfrist weder im SchKG noch in einem andern Bundesgesetz ausdrücklich vorgesehen ist, würde die entsprechende Anwendung von Art. 35 OG auf diese Fristen dann verbieten, wenn anzunehmen wäre, dass die Bundesgesetzgebung mit ihrem Stillschweigen jene Möglichkeit ausschliessen wolle. Für diese Annahme bestehen jedoch keine zureichenden Gründe.
In erster Linie ist zu sagen, dass Art. 35 OG nicht etwa eine Ausnahmevorschrift ist, die sich nur gerade aus den Besonderheiten des bundesgerichtlichen Verfahrens erklären liesse. Die Möglichkeit, versäumte Fristen in gewissen Fällen wiederherzustellen, entspricht vielmehr einem von altersher und weitherum anerkannten Verfahrensgrundsatze. Art. 35 OG setzt das Bestehen dieses Grundsatzes voraus, indem er einschränkend bestimmt, Wiederherstellung könne nur dann erteilt werden, wenn der Gesuchsteller oder sein Vertreter durch ein unverschuldetes Hindernis abgehalten wurde, innert der Frist zu handeln, und binnen 10 Tagen nach Wegfall des Hindernisses unter Angabe desselben die Wiederherstellung verlangt und die versäumte Rechtshandlung nachholt. Es verhält sich also nicht so, dass deswegen, weil Art. 35 OG den Charakter einer Ausnahme hätte, die Wiederherstellung überall dort, wo sie nicht ausdrücklich vorgesehen ist, als ausgeschlossen gelten müsste.
Die Annahme, dass die Bundesgesetzgebung die Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 SchKG verbieten wolle, lässt sich aber auch nicht mit der Erwägung begründen, dass sich aus ihrer Zulassung ernstliche Unzukömmlichkeiten ergäben. Die in Art. 35 OG umschriebenen Voraussetzungen der Wiederherstellung sind so streng und erweisen sich erfahrungsgemäss so selten als gegeben, und missbräuchliche Versuche, die Wiederherstellung zu erlangen, lassen sich im allgemeinen so leicht entlarven, dass die Verzögerungen des Verfahrens und die Unsicherheit, welche die Anwendung von Art. 35 OG auf die Fristen für die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung mit sich bringen kann, praktisch nicht erheblich ins Gewicht fallen. Es ist aber auch nicht zu befürchten, dass die Ermöglichung nachträglicher Beschwerdeführung und Weiterziehung im Falle unverschuldeter Verhinderung an rechtzeitigem Handeln das Verfahren in Verwirrung bringen könnte. Wo inzwischen Massnahmen getroffen worden sind, die nicht mehr rückgängig gemacht werden können, muss eben der nachträglichen Beschwerde oder Weiterziehung nach Art. 21 SchKG ein Erfolg versagt bleiben. Im übrigen sind die Nachteile, die aus der Wiederherstellung einer abgelaufenen Frist entstehen können, bei der Beschwerde und der kantonalen Weiterziehung auf jeden Fall nicht grösser als beim Rekurs ans Bundesgericht, wo die Wiederherstellung ausdrücklich zugelassen ist, und kommt Art. 35 OG auf Gebieten zur Anwendung, wo man gegen die Infragestellung eines Entscheides nach Ablauf der Rechtsmittelfrist viel eher Bedenken haben könnte als im Betreibungsrecht. (Man denke z.B. an den Fall der Weiterziehung eines Scheidungsurteils nach Ablauf der Berufungsfrist.)
Schliesslich lässt sich ein auf Ausschluss der Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 gerichteter Gesetzeswille auch nicht durch Gegenschluss daraus herleiten, dass das SchKG für den Fall unverschuldeter Versäumung der Frist für den Rechtsvorschlag (Art. 74) in Art. 77 eine besondere Vorschrift aufgestellt hat. Diese Tatsache lässt sich damit erklären, dass es sich beim Rechtsvorschlag um einen Rechtsbehelf eigener Art handelt, bei dem das Bedürfnis nach einer Wiederherstellungsmöglichkeit im Hinblick auf die weittragenden Folgen seiner Unterlassung besonders augenfällig ist. Dazu kommt, dass der Gesetzgeber den Entscheid darüber, ob die Rechtsvorschlagsfrist ohne Verschulden versäumt worden sei, nicht dem Betreibungsamt, bei dem der Rechtsvorschlag normalerweise anzubringen ist, sondern dem Richter übertragen wollte. Dies konnte nur durch eine ausdrückliche Vorschrift geschehen. Unter diesen Umständen darf dem Art. 77 nur die positive Bedeutung zugeschrieben werden, dass die Wiederherstellung der Frist für den Rechtsvorschlag unter den in dieser Bestimmung genannten Voraussetzungen und im hier festgesetzten Verfahren erlangt werden kann, nicht auch die negative Bedeutung, dass eine Wiederherstellung bei keiner andern Frist des SchKG in Frage komme.
Der in BGE 67 III 70ff. aufgestellte Grundsatz ist also zu bestätigen und dahin zu ergänzen, dass die Möglichkeit der Wiederherstellung nach Art. 35 OG auch für die Beschwerdefrist von Art. 17 Abs. 2 SchKG anerkannt wird (während im vorliegenden Falle dahingestellt bleiben kann, wie es sich in dieser Hinsicht mit andern Fristen des SchKG, insbesondere mit den Klagefristen von Art. 107 und 109 verhalte).
Die Vorinstanz ist demnach auf das Wiederherstellungsgesuch der Handelsbank, das den formellen Anforderungen von Art. 35 OG genügt, mit Recht eingetreten.
3. In der Sache selbst kann dagegen der Vorinstanz nicht beigestimmt werden. Der erste Grund der in Frage stehenden Fristversäumnis liegt darin, dass die Handelsbank die ihr am 27. Oktober 1954 zugestellte Fristansetzung so spät an Dr. G. in Zürich, der für die Einleitung des Widerspruchsprozesses sorgen sollte, abgesandt hat, dass sie bei diesem erst am 3. November 1954 eintraf. So lange zu zögern, dass dem Vertreter für die Einleitung der Klage nur drei Tage blieben, war nachlässig und unvorsichtig; dies um so mehr, als die Handelsbank bei gehöriger Aufmerksamkeit erkennen konnte, dass Dr. G., der nicht Rechtsanwalt, sondern Wirtschaftskonsulent ist, nicht in der Lage war, die Klage selber anzuheben, sondern seinerseits einen Anwalt beiziehen musste. Der zweite Grund der Verspätung liegt darin, dass die Ehefrau Dr. G.s, welcher der Postbote die eingeschriebene Sendung der Handelsbank befugterweise ablieferte, diesen Brief versehentlich mit mehreren gleichzeitig eingetroffenen Militärpostsachen in ein ausschliesslich der Ablage der Militärpost dienendes Fach im Büroschrank Dr. G.s legte, und dass Dr. G., der die Militärkorrespondenz über das Wochenende zu erledigen pflegte, ihn dort erst am Sonntag, dem 7. November 1954 (also nach Ablauf der Beschwerdefrist) vorfand. Für das Versehen seiner Frau, das, wie auch die Vorinstanz annimmt, nicht entschuldbar ist, muss Dr. G. einstehen. Die Vorinstanz hat freilich festgestellt, dass seine Ehefrau nie, auch nicht aushilfsweise, in seiner (neben der Wohnung gelegenen) Praxis tätig war und keinen Auftrag hatte, Postsachen für ihn entgegenzunehmen, sondern im Gegenteil von ihm die Weisung erhalten hatte, auf das Läuten des Postboten nicht zu reagieren, und keinen Briefkastenschlüssel besass. Dieser Sachverhalt vermag ihn jedoch nicht zu entlasten. Wer berufsmässig Geschäfte für Dritte besorgt, muss dafür sorgen, dass Postsendungen, die in seiner Abwesenheit von einer gemäss Postordnung empfangsberechtigten Person entgegengenommen werden, ihm unverzüglich vorgelegt werden. Was Dr. G. vorgekehrt hat, diente nicht der Sicherung des Empfangs der während seiner Abwesenheit eintreffenden eingeschriebenen Sendungen, sondern der Vereitelung ihrer Zustellung. Auf diese eigentümlichen Vorkehren durfte er sich nicht verlassen. Unter diesen Umständen kann keine Rede davon sein, dass ein unverschuldetes Hindernis der rechtzeitigen Beschwerdeführung im Wege gestanden sei.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird dahin gutgeheissen, dass der angefochtene Entscheid aufgehoben, das Wiederherstellungsgesuch abgewiesen und auf die Beschwerde nicht eingetreten wird.
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De même que le délai pour recourir au Tribunal fédéral (art. 19 al. 1 LP) et le délai pour recourir à l'autorité supérieure de surveillance contre la décision de l'autorité inférieure (art. 18 al. 1 LP), le délai prévu pour la plainte (art. 17 al. 2 LP) est susceptible de restitution lorsque les conditions de l'art. 35 OJ sont réalisées. Le plaignant et son représentant ont-ils été empêchés sans leur faute d'observer le délai prévu pour la plainte?
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-81%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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Sachverhalt ab Seite 82
Die Handelsbank Luzern A. G. machte an zwei Theater-Kinomaschinen, die in Betreibungen gegen Josef Hort gepfändet worden waren, einen Eigentumsvorbehalt geltend, den die Gläubigerin Kredit- und Verwaltungsbank Zug A. G. bestritt. Hierauf setzte das Betreibungsamt Zürich 2 der Handelsbank am 26. Oktober 1954 in Anwendung von Art. 107 SchKG Frist zur Klage auf Anerkennung ihres Anspruchs. Die Fristansetzung ging der Handelsbank am 27. Oktober 1954 zu. Diese leitete die Klage erst am 8. November 1954 ein. Am gleichen Tage führte sie bei der untern Aufsichtsbehörde Beschwerde mit dem Antrag, die Fristansetzung sei aufzuheben und das Betreibungsamt anzuweisen, die Klagefrist gemäss Art. 109 SchKG der Gläubigerin anzusetzen. Am 16. November 1954 stellte sie ausserdem das Gesuch um Wiederherstellung der am 6. November 1954 abgelaufenen Beschwerdefrist. Die untere Aufsichtsbehörde wies dieses Gesuch ab und trat auf die Beschwerde nicht ein. Die obere kantonale Aufsichtsbehörde hat dagegen am 14. Mai 1955 die versäumte Beschwerdefrist wiederhergestellt und die Beschwerde gutgeheissen.
Diesen Entscheid hat die Kredit- und Verwaltungsbank an das Bundesgericht weitergezogen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In Übereinstimmung mit der Auffassung, zu welcher der Bundesrat als Oberaufsichtsbehörde im Betreibungswesen sich bekannt hatte (vgl. die in BGE 33 I 106 Erw. 2 = Sep. ausg. 10 S. 85 zitierten bundesrätlichen Entscheide), hat das Bundesgericht zunächst in ständiger Rechtsprechung angenommen, bei Versäumung von Fristen des SchKG gebe es, vom Falle des nachträglichen Rechtsvorschlags (Art. 77 SchKG) abgesehen, keine Wiederherstellung, weil das SchKG eine solche Möglichkeit nicht vorsehe und eine analoge Anwendung von Art. 77, der eine Ausnahmevorschrift zum Schutze des materiellen Rechts darstelle, nicht zulässig sei (BGE 24 I 532 und BGE 33 I 106= Sep. ausg. 1 S. 264 und 10 S. 85, BGE 40 III 328, BGE 47 III 83 oben, BGE 54 III 109, BGE 59 III 253 Erw. 2). Die Wiederherstellung wurde von Bundesrat und Bundesgericht insbesondere abgelehnt für die Beschwerdefrist im Sinne von Art. 17 Abs. 2 (Archiv für Schuldbetreibung und Konkurs 1 Nr. 72, BGE 47 III 83 oben, BGE 59 III 253), die Frist für die Weiterziehung an die obere kantonale Aufsichtsbehörde gemäss Art. 18 Abs. 1 (Archiv 3 Nr. 54) und die Frist für den Bekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1 SchKG (BGE 40 III 328). In BGE 67 III 70ff. hat dann aber das Bundesgericht die Wiederherstellung der infolge eines unverschuldeten Hindernisses versäumten Weiterziehungsfrist von Art. 18 SchKG gestützt auf Art. 43 aoG (der dem Art. 35 des geltenden OG entspricht) mit der Begründung gestattet, dieser in den allgemeinen Bestimmungen des OG enthaltene Grundsatz sei zunächst im Rekursverfahren vor Bundesgericht nach Art. 19 SchKG anwendbar, auf das der Abschnitt IV bis des OG (heute: der dritte Titel, Art. 75 ff.) Bezug nehme; seine Anwendung dränge sich aber auch für das Verfahren der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde auf; sei doch solche Weiterziehung vom Bundesrecht vorgesehen, das auch die dabei zu beobachtende Frist bestimme (Art. 18 SchKG).
An diesem letzten Entscheide ist auf jeden Fall insofern festzuhalten, als er die Wiederherstellung der Rekursfrist von Art. 19 SchKG zulässt. Art. 35 OG, der unter den "Allgemeinen Bestimmungen" im Abschnitt über "Gemeinsame Verfahrensvorschriften" steht und allgemein von Wiederherstellung gegen die Folgen der Versäumung "einer Frist" spricht, gilt zweifellos für alle Fristen, die in den vom OG geregelten Verfahren vor Bundesgericht zu beobachten sind. Zu diesen Verfahren gehört der Rekurs an das Bundesgericht in Schuldbetreibungs- und Konkurssachen. Also ist Art. 35 OG auf die Frist für dieses Rechtsmittel anwendbar. Der Umstand, dass diese Frist nicht im OG selber, sondern im SchKG festgesetzt ist, kann hieran nichts ändern; dies um so weniger, als das OG in Art. 75 ff. immerhin mehrfach auf die Rekursfrist Bezug nimmt (vgl. Art. 76 und vor allem Art. 77 Abs. 2 und Art. 78 Abs. 2, die sich mit ihrem Beginn und der Frage ihrer Unterbrechung durch ein Revisions- oder Erläuterungsgesuch befassen).
Für die Frist zur Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde und für die Frist zur Beschwerde selber gilt dagegen Art. 35 OG als eine Vorschrift, die für die Fristen in bundesgerichtlichen Verfahren aufgestellt worden ist, nicht unmittelbar. Es kann sich nur fragen, ob sich die analoge Anwendung dieser Vorschrift auf jene Fristen rechtfertige.
2. In BGE 67 III 71/72 hat das Bundesgericht die Vorschrift des OG über die Wiederherstellung deshalb als im Verfahren der Weiterziehung nach Art. 18 SchKG anwendbar erachtet, weil das Bundesrecht dieses Rechtsmittel vorsieht und auch die dabei zu beobachtende Frist festsetzt. Das gleiche lässt sich auch von der Beschwerde im Sinne von Art. 17 SchKG sagen. Aus der Tatsache, dass das Bundesrecht einen bestimmten Rechtsbehelf zur Verfügung stellt und die Frist regelt, innert der er ergriffen werden kann, folgt jedoch zunächst bloss, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung selbst dann, wenn der Rechtsbehelf in der Anrufung einer kantonalen Behörde besteht und das daran anschliessende Verfahren vom kantonalen Recht geregelt wird, sich nur aus dem Bundesrecht, nicht etwa auch aus dem kantonalen Verfahrensrecht ergeben kann (vgl. Archiv 2 Nr. 72 S. 169). Nur das Bundesrecht kann anordnen, dass die Folgen der Versäumung einer von ihm festgesetzten Frist unter gewissen Voraussetzungen nicht eintreten. Der Umstand, dass ein Rechtsbehelf vom Bundesrecht vorgesehen und befristet ist, kann dagegen für sich allein keinen genügenden Grund dafür bilden, beim Zutreffen der in Art. 35 OG genannten Voraussetzungen die Wiederherstellung zu gestatten. Beim Entscheid darüber, ob ein solcher Rechtsbehelf hinsichtlich der Wiederherstellung gegen die Folgen der Fristversäumung den Rechtshandlungen gleichgestellt werden dürfe, die Art. 35 OG ins Auge fasst, sind vielmehr seine Natur und seine Funktion in Betracht zu ziehen und ist zu prüfen, welche Bedeutung der Tatsache zukommt, dass eine Vorschrift, welche die Wiederherstellung der Frist für den in Frage stehenden Behelf ausdrücklich erlauben würde, nicht besteht.
a) Die Beschwerde im Sinne von Art. 17 Abs. 1 und 2 SchKG ist ein Rechtsmittel, das dazu dient, gesetzwidrige oder unangemessene Verfügungen des Betreibungs- oder Konkursamtes aufheben oder berichtigen zu lassen (Art. 21 SchKG). Mit der Weiterziehung von der untern an die obere kantonale Aufsichtsbehörde im Sinne von Art. 18 Abs. 1 können Entscheide der untern Aufsichtsbehörde wegen Gesetzwidrigkeit oder Unangemessenheit angefochten werden. Wie der Rekurs an das Bundesgericht gemäss Art. 19 Abs. 1, der gegen gesetzwidrige Entscheide der obern kantonalen Aufsichtsbehörde ergriffen werden kann, sind also die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung Rechtsmittel, die den am Zwangsvollstreckungsverfahren beteiligten Personen gewährt wurden, damit sie erreichen können, dass dieses Verfahren ordnungsgemäss durchgeführt werde. Die drei in Frage stehenden Rechtsbehelfe stimmen demnach in ihrer Natur und ihrem Zweck so weitgehend überein und hängen überdies verfahrensmässig so eng zusammen, dass es naheliegt, sie hinsichtlich der Wiederherstellung der dafür festgesetzten Fristen gleich zu behandeln, d.h. den für den Rekurs an das Bundesgericht geltenden Art. 35 OG auf die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung entsprechend anzuwenden.
b) Die in der frühern Rechtsprechung betonte Tatsache, dass die Möglichkeit einer Wiederherstellung der Beschwerde- und der Weiterziehungsfrist weder im SchKG noch in einem andern Bundesgesetz ausdrücklich vorgesehen ist, würde die entsprechende Anwendung von Art. 35 OG auf diese Fristen dann verbieten, wenn anzunehmen wäre, dass die Bundesgesetzgebung mit ihrem Stillschweigen jene Möglichkeit ausschliessen wolle. Für diese Annahme bestehen jedoch keine zureichenden Gründe.
In erster Linie ist zu sagen, dass Art. 35 OG nicht etwa eine Ausnahmevorschrift ist, die sich nur gerade aus den Besonderheiten des bundesgerichtlichen Verfahrens erklären liesse. Die Möglichkeit, versäumte Fristen in gewissen Fällen wiederherzustellen, entspricht vielmehr einem von altersher und weitherum anerkannten Verfahrensgrundsatze. Art. 35 OG setzt das Bestehen dieses Grundsatzes voraus, indem er einschränkend bestimmt, Wiederherstellung könne nur dann erteilt werden, wenn der Gesuchsteller oder sein Vertreter durch ein unverschuldetes Hindernis abgehalten wurde, innert der Frist zu handeln, und binnen 10 Tagen nach Wegfall des Hindernisses unter Angabe desselben die Wiederherstellung verlangt und die versäumte Rechtshandlung nachholt. Es verhält sich also nicht so, dass deswegen, weil Art. 35 OG den Charakter einer Ausnahme hätte, die Wiederherstellung überall dort, wo sie nicht ausdrücklich vorgesehen ist, als ausgeschlossen gelten müsste.
Die Annahme, dass die Bundesgesetzgebung die Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 SchKG verbieten wolle, lässt sich aber auch nicht mit der Erwägung begründen, dass sich aus ihrer Zulassung ernstliche Unzukömmlichkeiten ergäben. Die in Art. 35 OG umschriebenen Voraussetzungen der Wiederherstellung sind so streng und erweisen sich erfahrungsgemäss so selten als gegeben, und missbräuchliche Versuche, die Wiederherstellung zu erlangen, lassen sich im allgemeinen so leicht entlarven, dass die Verzögerungen des Verfahrens und die Unsicherheit, welche die Anwendung von Art. 35 OG auf die Fristen für die Beschwerde und die kantonale Weiterziehung mit sich bringen kann, praktisch nicht erheblich ins Gewicht fallen. Es ist aber auch nicht zu befürchten, dass die Ermöglichung nachträglicher Beschwerdeführung und Weiterziehung im Falle unverschuldeter Verhinderung an rechtzeitigem Handeln das Verfahren in Verwirrung bringen könnte. Wo inzwischen Massnahmen getroffen worden sind, die nicht mehr rückgängig gemacht werden können, muss eben der nachträglichen Beschwerde oder Weiterziehung nach Art. 21 SchKG ein Erfolg versagt bleiben. Im übrigen sind die Nachteile, die aus der Wiederherstellung einer abgelaufenen Frist entstehen können, bei der Beschwerde und der kantonalen Weiterziehung auf jeden Fall nicht grösser als beim Rekurs ans Bundesgericht, wo die Wiederherstellung ausdrücklich zugelassen ist, und kommt Art. 35 OG auf Gebieten zur Anwendung, wo man gegen die Infragestellung eines Entscheides nach Ablauf der Rechtsmittelfrist viel eher Bedenken haben könnte als im Betreibungsrecht. (Man denke z.B. an den Fall der Weiterziehung eines Scheidungsurteils nach Ablauf der Berufungsfrist.)
Schliesslich lässt sich ein auf Ausschluss der Wiederherstellung der Fristen von Art. 17 Abs. 2 und Art. 18 Abs. 1 gerichteter Gesetzeswille auch nicht durch Gegenschluss daraus herleiten, dass das SchKG für den Fall unverschuldeter Versäumung der Frist für den Rechtsvorschlag (Art. 74) in Art. 77 eine besondere Vorschrift aufgestellt hat. Diese Tatsache lässt sich damit erklären, dass es sich beim Rechtsvorschlag um einen Rechtsbehelf eigener Art handelt, bei dem das Bedürfnis nach einer Wiederherstellungsmöglichkeit im Hinblick auf die weittragenden Folgen seiner Unterlassung besonders augenfällig ist. Dazu kommt, dass der Gesetzgeber den Entscheid darüber, ob die Rechtsvorschlagsfrist ohne Verschulden versäumt worden sei, nicht dem Betreibungsamt, bei dem der Rechtsvorschlag normalerweise anzubringen ist, sondern dem Richter übertragen wollte. Dies konnte nur durch eine ausdrückliche Vorschrift geschehen. Unter diesen Umständen darf dem Art. 77 nur die positive Bedeutung zugeschrieben werden, dass die Wiederherstellung der Frist für den Rechtsvorschlag unter den in dieser Bestimmung genannten Voraussetzungen und im hier festgesetzten Verfahren erlangt werden kann, nicht auch die negative Bedeutung, dass eine Wiederherstellung bei keiner andern Frist des SchKG in Frage komme.
Der in BGE 67 III 70ff. aufgestellte Grundsatz ist also zu bestätigen und dahin zu ergänzen, dass die Möglichkeit der Wiederherstellung nach Art. 35 OG auch für die Beschwerdefrist von Art. 17 Abs. 2 SchKG anerkannt wird (während im vorliegenden Falle dahingestellt bleiben kann, wie es sich in dieser Hinsicht mit andern Fristen des SchKG, insbesondere mit den Klagefristen von Art. 107 und 109 verhalte).
Die Vorinstanz ist demnach auf das Wiederherstellungsgesuch der Handelsbank, das den formellen Anforderungen von Art. 35 OG genügt, mit Recht eingetreten.
3. In der Sache selbst kann dagegen der Vorinstanz nicht beigestimmt werden. Der erste Grund der in Frage stehenden Fristversäumnis liegt darin, dass die Handelsbank die ihr am 27. Oktober 1954 zugestellte Fristansetzung so spät an Dr. G. in Zürich, der für die Einleitung des Widerspruchsprozesses sorgen sollte, abgesandt hat, dass sie bei diesem erst am 3. November 1954 eintraf. So lange zu zögern, dass dem Vertreter für die Einleitung der Klage nur drei Tage blieben, war nachlässig und unvorsichtig; dies um so mehr, als die Handelsbank bei gehöriger Aufmerksamkeit erkennen konnte, dass Dr. G., der nicht Rechtsanwalt, sondern Wirtschaftskonsulent ist, nicht in der Lage war, die Klage selber anzuheben, sondern seinerseits einen Anwalt beiziehen musste. Der zweite Grund der Verspätung liegt darin, dass die Ehefrau Dr. G.s, welcher der Postbote die eingeschriebene Sendung der Handelsbank befugterweise ablieferte, diesen Brief versehentlich mit mehreren gleichzeitig eingetroffenen Militärpostsachen in ein ausschliesslich der Ablage der Militärpost dienendes Fach im Büroschrank Dr. G.s legte, und dass Dr. G., der die Militärkorrespondenz über das Wochenende zu erledigen pflegte, ihn dort erst am Sonntag, dem 7. November 1954 (also nach Ablauf der Beschwerdefrist) vorfand. Für das Versehen seiner Frau, das, wie auch die Vorinstanz annimmt, nicht entschuldbar ist, muss Dr. G. einstehen. Die Vorinstanz hat freilich festgestellt, dass seine Ehefrau nie, auch nicht aushilfsweise, in seiner (neben der Wohnung gelegenen) Praxis tätig war und keinen Auftrag hatte, Postsachen für ihn entgegenzunehmen, sondern im Gegenteil von ihm die Weisung erhalten hatte, auf das Läuten des Postboten nicht zu reagieren, und keinen Briefkastenschlüssel besass. Dieser Sachverhalt vermag ihn jedoch nicht zu entlasten. Wer berufsmässig Geschäfte für Dritte besorgt, muss dafür sorgen, dass Postsendungen, die in seiner Abwesenheit von einer gemäss Postordnung empfangsberechtigten Person entgegengenommen werden, ihm unverzüglich vorgelegt werden. Was Dr. G. vorgekehrt hat, diente nicht der Sicherung des Empfangs der während seiner Abwesenheit eintreffenden eingeschriebenen Sendungen, sondern der Vereitelung ihrer Zustellung. Auf diese eigentümlichen Vorkehren durfte er sich nicht verlassen. Unter diesen Umständen kann keine Rede davon sein, dass ein unverschuldetes Hindernis der rechtzeitigen Beschwerdeführung im Wege gestanden sei.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird dahin gutgeheissen, dass der angefochtene Entscheid aufgehoben, das Wiederherstellungsgesuch abgewiesen und auf die Beschwerde nicht eingetreten wird.
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de
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La restituzione per inosservanza del termine di reclamo (art. 17 cp. 2 LEF) può essere accordata, se sono adempiute le condizioni dell'art. 35 OG, nello stesso modo che in caso d'inosservanza del termine per ricorrere al Tribunale federale (art. 19 cp. 1 LEF) e del termine per presentare ricorso all'autorità superiore di vigilanza contro la decisione dell'autorità inferiore (art. 18 cp. 1 LEF). Sono l'autore del reclamo e il suo rappresentante stati impediti senza loro colpa di osservare il termine previsto per il reclamo?
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it
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debt enforcement and bankruptcy law
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III
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1,251 |
81 III 90
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Sachverhalt ab Seite 90
In der zur Prosequierung des Arrestes Nr. 859 gegen René Michel in Grenoble eingeleiteten Betreibung Nr. 54899 pfändete das Betreibungsamt Bern 2 am 2. Februar 1955 ein "Guthaben von Fr. 852.65 (hinterlegt bei der Obergerichtskanzlei Bern)" sowie eine Forderung des Schuldners gegen Rudolf Reinhardt und am 3. März 1955 auf besonderes Verlangen des Gläubigers (des heutigen Rekurrenten) ausserdem "den vom Schuldner bis zum 15. März 1955 an das Obergericht zu leistenden Gerichtskostenvorschuss zu Handen des Appellationshofes von Fr. 2000.--" Diese Pfändung wurde dem Obergericht am 7. März 1955 angezeigt. Am 15. März 1955 zahlte der Anwalt des Schuldners den Betrag von Fr. 2000.-- auf das Postcheckkonto der Obergerichtskanzlei ein.
Nachdem der Gläubiger das Verwertungsbegehren gestellt hatte, ersuchte das Betreibungsamt die Obergerichtskanzlei um Überweisung der bei ihr liegenden Beträge, eventuell um Bericht, ob überhaupt zugunsten des Schuldners ein Saldo resultiere und wann dieser zur Auszahlung gelangen könne. Die Obergerichtskanzlei antwortete am 29. April 1955, zur Zeit könne noch nicht gesagt werden, ob von den Prozesskostenvorschüssen des Schuldners ein Überschuss verbleiben und wie hoch dieser sein werde.
Am 1. Juni 1955 führte der Gläubiger Beschwerde mit dem Antrag, dem Betreibungsamt sei "zu verbieten, den in der Betreibung Nr. 54899 am 3. März 1955 gepfändeten und seither geleisteten Gerichtskostenvorschuss im Betrage von Fr. 2000.-- aus dem Pfandnexus zu entlassen"; eventuell sei es anzuweisen, diesen Vorschuss nach Art. 98 SchKG in amtliche Verwahrung zu nehmen. Am 16. Juni 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen.
Diesen Entscheid hat der Gläubiger an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Antrag, es sei aufzuheben und die Sache sei zu neuer Beurteilung an die Vorinstanz zurückzuweisen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
In der Rekursschrift ist nach Art. 79 Abs. 1 OG anzugeben, welche Abänderung des angefochtenen Entscheides beantragt wird. Der Antrag auf Rückweisung der Sache an die Vorinstanz genügt diesem Erfordernis, das gemäss Art. 55 lit. b OG auch für die Berufungsschrift gilt, nach der Rechtsprechung zu dieser letzten Bestimmung nur dann, wenn das Bundesgericht auch bei Zugrundelegung einer für den Weiterziehenden günstigen Rechtsauffassung nicht ohne weiteres materiell zu dessen Gunsten entscheiden könnte, sondern die Sache eben an die Vorinstanz zurückweisen müsste (BGE 71 II 186; Urteil vom 8. Juli 1954 i.S. Waren-Giro-Genossenschaft gegen Konkursmasse der "Neue Weinkellereien A.-G."). Dass es sich im vorliegenden Falle so verhalte, behauptet der Rekurrent selber nicht. Es ist denn auch nicht zu sehen, was das Bundesgericht im Falle, dass der angefochtene Entscheid bundesrechtswidrig wäre, daran hindern könnte, auf entsprechenden Antrag hin sogleich einen neuen Sachentscheid zu fällen. Der vom Rekurrenten formulierte Rekursantrag wird also der Vorschrift von Art. 79 OG, die in dem zur Diskussion stehenden Punkte gleich wie Art. 55 lit. b auszulegen ist, nicht gerecht. Ob man über diesen Mangel hinwegsehen könnte, wenn wenigstens aus der Rekursbegründung klipp und klar hervorginge, welche materielle Änderung des angefochtenen Entscheides der Rekurrent erreichen möchte, kann dahingestellt bleiben, weil auch die Rekursbegründung nicht eindeutig erkennen lässt, worauf der Rekurrent abzielt. Insbesondere geht daraus nicht klar hervor, or er nur den Eventual- oder auch den Hauptantrag der Beschwerde aufrechterhalten will. Auf blosse Mutmassungen über die Absichten des Rekurrenten hat sich das Bundesgericht keinesfalls einzulassen.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Auf den Rekurs wird nicht eingetreten.
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Rekurs an das Bundesgericht. Wann genügt der blosse Antrag auf Rückweisung an die Vorinstanz der Vorschrift von Art. 79 OG?
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debt enforcement and bankruptcy law
| 1,955 |
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81 III 90
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Sachverhalt ab Seite 90
In der zur Prosequierung des Arrestes Nr. 859 gegen René Michel in Grenoble eingeleiteten Betreibung Nr. 54899 pfändete das Betreibungsamt Bern 2 am 2. Februar 1955 ein "Guthaben von Fr. 852.65 (hinterlegt bei der Obergerichtskanzlei Bern)" sowie eine Forderung des Schuldners gegen Rudolf Reinhardt und am 3. März 1955 auf besonderes Verlangen des Gläubigers (des heutigen Rekurrenten) ausserdem "den vom Schuldner bis zum 15. März 1955 an das Obergericht zu leistenden Gerichtskostenvorschuss zu Handen des Appellationshofes von Fr. 2000.--" Diese Pfändung wurde dem Obergericht am 7. März 1955 angezeigt. Am 15. März 1955 zahlte der Anwalt des Schuldners den Betrag von Fr. 2000.-- auf das Postcheckkonto der Obergerichtskanzlei ein.
Nachdem der Gläubiger das Verwertungsbegehren gestellt hatte, ersuchte das Betreibungsamt die Obergerichtskanzlei um Überweisung der bei ihr liegenden Beträge, eventuell um Bericht, ob überhaupt zugunsten des Schuldners ein Saldo resultiere und wann dieser zur Auszahlung gelangen könne. Die Obergerichtskanzlei antwortete am 29. April 1955, zur Zeit könne noch nicht gesagt werden, ob von den Prozesskostenvorschüssen des Schuldners ein Überschuss verbleiben und wie hoch dieser sein werde.
Am 1. Juni 1955 führte der Gläubiger Beschwerde mit dem Antrag, dem Betreibungsamt sei "zu verbieten, den in der Betreibung Nr. 54899 am 3. März 1955 gepfändeten und seither geleisteten Gerichtskostenvorschuss im Betrage von Fr. 2000.-- aus dem Pfandnexus zu entlassen"; eventuell sei es anzuweisen, diesen Vorschuss nach Art. 98 SchKG in amtliche Verwahrung zu nehmen. Am 16. Juni 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen.
Diesen Entscheid hat der Gläubiger an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Antrag, es sei aufzuheben und die Sache sei zu neuer Beurteilung an die Vorinstanz zurückzuweisen.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
In der Rekursschrift ist nach Art. 79 Abs. 1 OG anzugeben, welche Abänderung des angefochtenen Entscheides beantragt wird. Der Antrag auf Rückweisung der Sache an die Vorinstanz genügt diesem Erfordernis, das gemäss Art. 55 lit. b OG auch für die Berufungsschrift gilt, nach der Rechtsprechung zu dieser letzten Bestimmung nur dann, wenn das Bundesgericht auch bei Zugrundelegung einer für den Weiterziehenden günstigen Rechtsauffassung nicht ohne weiteres materiell zu dessen Gunsten entscheiden könnte, sondern die Sache eben an die Vorinstanz zurückweisen müsste (BGE 71 II 186; Urteil vom 8. Juli 1954 i.S. Waren-Giro-Genossenschaft gegen Konkursmasse der "Neue Weinkellereien A.-G."). Dass es sich im vorliegenden Falle so verhalte, behauptet der Rekurrent selber nicht. Es ist denn auch nicht zu sehen, was das Bundesgericht im Falle, dass der angefochtene Entscheid bundesrechtswidrig wäre, daran hindern könnte, auf entsprechenden Antrag hin sogleich einen neuen Sachentscheid zu fällen. Der vom Rekurrenten formulierte Rekursantrag wird also der Vorschrift von Art. 79 OG, die in dem zur Diskussion stehenden Punkte gleich wie Art. 55 lit. b auszulegen ist, nicht gerecht. Ob man über diesen Mangel hinwegsehen könnte, wenn wenigstens aus der Rekursbegründung klipp und klar hervorginge, welche materielle Änderung des angefochtenen Entscheides der Rekurrent erreichen möchte, kann dahingestellt bleiben, weil auch die Rekursbegründung nicht eindeutig erkennen lässt, worauf der Rekurrent abzielt. Insbesondere geht daraus nicht klar hervor, or er nur den Eventual- oder auch den Hauptantrag der Beschwerde aufrechterhalten will. Auf blosse Mutmassungen über die Absichten des Rekurrenten hat sich das Bundesgericht keinesfalls einzulassen.
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Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Auf den Rekurs wird nicht eingetreten.
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Recours au Tribunal fédéral. A quelles conditions des conclusions tendant simplement au renvoi de la cause à la juridiction cantonale peuvent-elles être considérées comme suffisantes au regard de l'art. 79 OJ?
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fr
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debt enforcement and bankruptcy law
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In der zur Prosequierung des Arrestes Nr. 859 gegen René Michel in Grenoble eingeleiteten Betreibung Nr. 54899 pfändete das Betreibungsamt Bern 2 am 2. Februar 1955 ein "Guthaben von Fr. 852.65 (hinterlegt bei der Obergerichtskanzlei Bern)" sowie eine Forderung des Schuldners gegen Rudolf Reinhardt und am 3. März 1955 auf besonderes Verlangen des Gläubigers (des heutigen Rekurrenten) ausserdem "den vom Schuldner bis zum 15. März 1955 an das Obergericht zu leistenden Gerichtskostenvorschuss zu Handen des Appellationshofes von Fr. 2000.--" Diese Pfändung wurde dem Obergericht am 7. März 1955 angezeigt. Am 15. März 1955 zahlte der Anwalt des Schuldners den Betrag von Fr. 2000.-- auf das Postcheckkonto der Obergerichtskanzlei ein.
Nachdem der Gläubiger das Verwertungsbegehren gestellt hatte, ersuchte das Betreibungsamt die Obergerichtskanzlei um Überweisung der bei ihr liegenden Beträge, eventuell um Bericht, ob überhaupt zugunsten des Schuldners ein Saldo resultiere und wann dieser zur Auszahlung gelangen könne. Die Obergerichtskanzlei antwortete am 29. April 1955, zur Zeit könne noch nicht gesagt werden, ob von den Prozesskostenvorschüssen des Schuldners ein Überschuss verbleiben und wie hoch dieser sein werde.
Am 1. Juni 1955 führte der Gläubiger Beschwerde mit dem Antrag, dem Betreibungsamt sei "zu verbieten, den in der Betreibung Nr. 54899 am 3. März 1955 gepfändeten und seither geleisteten Gerichtskostenvorschuss im Betrage von Fr. 2000.-- aus dem Pfandnexus zu entlassen"; eventuell sei es anzuweisen, diesen Vorschuss nach Art. 98 SchKG in amtliche Verwahrung zu nehmen. Am 16. Juni 1955 hat die kantonale Aufsichtsbehörde die Beschwerde abgewiesen.
Diesen Entscheid hat der Gläubiger an das Bundesgericht weitergezogen mit dem Antrag, es sei aufzuheben und die Sache sei zu neuer Beurteilung an die Vorinstanz zurückzuweisen.
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Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
In der Rekursschrift ist nach Art. 79 Abs. 1 OG anzugeben, welche Abänderung des angefochtenen Entscheides beantragt wird. Der Antrag auf Rückweisung der Sache an die Vorinstanz genügt diesem Erfordernis, das gemäss Art. 55 lit. b OG auch für die Berufungsschrift gilt, nach der Rechtsprechung zu dieser letzten Bestimmung nur dann, wenn das Bundesgericht auch bei Zugrundelegung einer für den Weiterziehenden günstigen Rechtsauffassung nicht ohne weiteres materiell zu dessen Gunsten entscheiden könnte, sondern die Sache eben an die Vorinstanz zurückweisen müsste (BGE 71 II 186; Urteil vom 8. Juli 1954 i.S. Waren-Giro-Genossenschaft gegen Konkursmasse der "Neue Weinkellereien A.-G."). Dass es sich im vorliegenden Falle so verhalte, behauptet der Rekurrent selber nicht. Es ist denn auch nicht zu sehen, was das Bundesgericht im Falle, dass der angefochtene Entscheid bundesrechtswidrig wäre, daran hindern könnte, auf entsprechenden Antrag hin sogleich einen neuen Sachentscheid zu fällen. Der vom Rekurrenten formulierte Rekursantrag wird also der Vorschrift von Art. 79 OG, die in dem zur Diskussion stehenden Punkte gleich wie Art. 55 lit. b auszulegen ist, nicht gerecht. Ob man über diesen Mangel hinwegsehen könnte, wenn wenigstens aus der Rekursbegründung klipp und klar hervorginge, welche materielle Änderung des angefochtenen Entscheides der Rekurrent erreichen möchte, kann dahingestellt bleiben, weil auch die Rekursbegründung nicht eindeutig erkennen lässt, worauf der Rekurrent abzielt. Insbesondere geht daraus nicht klar hervor, or er nur den Eventual- oder auch den Hauptantrag der Beschwerde aufrechterhalten will. Auf blosse Mutmassungen über die Absichten des Rekurrenten hat sich das Bundesgericht keinesfalls einzulassen.
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Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Auf den Rekurs wird nicht eingetreten.
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Ricorso al Tribunale federale. In quali casi conclusioni intese semplicemente al rinvio della causa alla giurisdizione cantonale possono essere considerate sufficienti tenuto conto dell'art. 79 OG?
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81 III 92
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Sachverhalt ab Seite 92
Le 18 mai 1953, Robert Zufferey a déposé une réquisition de poursuite contre les époux Julien et Françoise Salamin, à qui il réclamait le paiement d'une créance de 2584 fr. 05 en principal. Les commandements de payer ne furent pas frappés d'opposition. Le 21 juillet 1953, le créancier demanda la continuation de la poursuite. L'office saisit d'abord plusieurs immeubles appartenant à l'épouse, puis, le 27 janvier 1954, il compléta cette mesure en saisissant encore deux immeubles du mari; il ne dressa qu'un seul procès-verbal de saisie. En novembre 1954, le créancier requit la vente des biens saisis. Le 23 novembre, Me Tabin, avocat de dame Salamin, paya Robert Zufferey, qui lui céda ses droits contre les débiteurs. Me Tabin renonça alors à la saisie des biens de Françoise Salamin et demanda que la poursuite fût continuée contre le mari.
Le 9 décembre 1954, Julien Salamin a, par une plainte, demandé l'annulation de la poursuite exercée contre lui. Il alléguait que cette procédure violait l'art. 70 al. 2 LP.
Débouté par les autorités de surveillance cantonales, il défère la cause au Tribunal fédéral.
Erwägungen
Considérant en droit:
Lorsque des codébiteurs sont poursuivis simultanément, une procédure unique se révélerait fréquemment impraticable. Ce serait le cas, par exemple, s'ils ne sont pas tous sujets à la poursuite par voie de saisie, s'ils ne relèvent pas du même for, s'ils sont soumis à des délais différents ou encore si des créanciers personnels à l'un d'eux veulent participer à la saisie (cf. RO 28 I 81, 63 III 14). Aussi chacun des codébiteurs doit-il être, dès le début, le sujet d'une poursuite indépendante (art. 70 al. 2 LP; circulaire no 15 de la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, du 16 février 1906). D'autre part, les biens d'un codébiteur ne doivent servir qu'à payer ses propres dettes. Il est donc nécessaire qu'on sache pour quel montant il est poursuivi personnellement. Sinon il est impossible de procéder régulièrement à la saisie, à la réalisation et à la distribution des deniers (cf. art. 97 al. 2, 119 al. 2, 144 et suiv. LP). Une procédure qui viole ces principes ne saurait être menée à chef et est radicalement nulle.
En l'espèce, on se trouve en présence d'une pareille poursuite unique interdite par la loi. La réquisition de poursuite n'indique pas pour quel montant chaque codébiteur est poursuivi et on ne peut admettre d'emblée ni qu'ils soient tenus chacun pour la moitié de 2584 fr. 05 ni qu'ils répondent de cette dette solidairement (cf. RO 67 III 141). En outre, l'office n'a dressé qu'un seul procès-verbal de saisie et a considéré simplement la saisie de biens du mari comme une saisie complémentaire. Une telle procédure, dans laquelle ni les dettes ni les biens des débiteurs ne sont séparés, ne saurait être continuée régulièrement.
Il est vrai que, depuis l'intervention de Me Tabin, on a affaire à un seul débiteur et que la réalisation ne saurait plus porter que sur les biens de Julien Salamin. Mais cette procédure repose sur un commandement de payer qui, vu la teneur de la réquisition de poursuite, ne pouvait indiquer le montant pour lequel chaque débiteur était poursuivi personnellement. Elle reste donc entachée d'un vice qui entraîne sa nullité.
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Wie verhält es sich mit einer Betreibung, die gegen mehrere Schuldner gemeinsam angehoben wird? Art. 70 Abs. 2 SchKG.
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-III-92%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 III 92
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Sachverhalt ab Seite 92
Le 18 mai 1953, Robert Zufferey a déposé une réquisition de poursuite contre les époux Julien et Françoise Salamin, à qui il réclamait le paiement d'une créance de 2584 fr. 05 en principal. Les commandements de payer ne furent pas frappés d'opposition. Le 21 juillet 1953, le créancier demanda la continuation de la poursuite. L'office saisit d'abord plusieurs immeubles appartenant à l'épouse, puis, le 27 janvier 1954, il compléta cette mesure en saisissant encore deux immeubles du mari; il ne dressa qu'un seul procès-verbal de saisie. En novembre 1954, le créancier requit la vente des biens saisis. Le 23 novembre, Me Tabin, avocat de dame Salamin, paya Robert Zufferey, qui lui céda ses droits contre les débiteurs. Me Tabin renonça alors à la saisie des biens de Françoise Salamin et demanda que la poursuite fût continuée contre le mari.
Le 9 décembre 1954, Julien Salamin a, par une plainte, demandé l'annulation de la poursuite exercée contre lui. Il alléguait que cette procédure violait l'art. 70 al. 2 LP.
Débouté par les autorités de surveillance cantonales, il défère la cause au Tribunal fédéral.
Erwägungen
Considérant en droit:
Lorsque des codébiteurs sont poursuivis simultanément, une procédure unique se révélerait fréquemment impraticable. Ce serait le cas, par exemple, s'ils ne sont pas tous sujets à la poursuite par voie de saisie, s'ils ne relèvent pas du même for, s'ils sont soumis à des délais différents ou encore si des créanciers personnels à l'un d'eux veulent participer à la saisie (cf. RO 28 I 81, 63 III 14). Aussi chacun des codébiteurs doit-il être, dès le début, le sujet d'une poursuite indépendante (art. 70 al. 2 LP; circulaire no 15 de la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, du 16 février 1906). D'autre part, les biens d'un codébiteur ne doivent servir qu'à payer ses propres dettes. Il est donc nécessaire qu'on sache pour quel montant il est poursuivi personnellement. Sinon il est impossible de procéder régulièrement à la saisie, à la réalisation et à la distribution des deniers (cf. art. 97 al. 2, 119 al. 2, 144 et suiv. LP). Une procédure qui viole ces principes ne saurait être menée à chef et est radicalement nulle.
En l'espèce, on se trouve en présence d'une pareille poursuite unique interdite par la loi. La réquisition de poursuite n'indique pas pour quel montant chaque codébiteur est poursuivi et on ne peut admettre d'emblée ni qu'ils soient tenus chacun pour la moitié de 2584 fr. 05 ni qu'ils répondent de cette dette solidairement (cf. RO 67 III 141). En outre, l'office n'a dressé qu'un seul procès-verbal de saisie et a considéré simplement la saisie de biens du mari comme une saisie complémentaire. Une telle procédure, dans laquelle ni les dettes ni les biens des débiteurs ne sont séparés, ne saurait être continuée régulièrement.
Il est vrai que, depuis l'intervention de Me Tabin, on a affaire à un seul débiteur et que la réalisation ne saurait plus porter que sur les biens de Julien Salamin. Mais cette procédure repose sur un commandement de payer qui, vu la teneur de la réquisition de poursuite, ne pouvait indiquer le montant pour lequel chaque débiteur était poursuivi personnellement. Elle reste donc entachée d'un vice qui entraîne sa nullité.
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Quid lorsqu'une poursuite est dirigée collectivement contre plusieurs débiteurs? (art. 70 al. 2 LP).
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 92
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Sachverhalt ab Seite 92
Le 18 mai 1953, Robert Zufferey a déposé une réquisition de poursuite contre les époux Julien et Françoise Salamin, à qui il réclamait le paiement d'une créance de 2584 fr. 05 en principal. Les commandements de payer ne furent pas frappés d'opposition. Le 21 juillet 1953, le créancier demanda la continuation de la poursuite. L'office saisit d'abord plusieurs immeubles appartenant à l'épouse, puis, le 27 janvier 1954, il compléta cette mesure en saisissant encore deux immeubles du mari; il ne dressa qu'un seul procès-verbal de saisie. En novembre 1954, le créancier requit la vente des biens saisis. Le 23 novembre, Me Tabin, avocat de dame Salamin, paya Robert Zufferey, qui lui céda ses droits contre les débiteurs. Me Tabin renonça alors à la saisie des biens de Françoise Salamin et demanda que la poursuite fût continuée contre le mari.
Le 9 décembre 1954, Julien Salamin a, par une plainte, demandé l'annulation de la poursuite exercée contre lui. Il alléguait que cette procédure violait l'art. 70 al. 2 LP.
Débouté par les autorités de surveillance cantonales, il défère la cause au Tribunal fédéral.
Erwägungen
Considérant en droit:
Lorsque des codébiteurs sont poursuivis simultanément, une procédure unique se révélerait fréquemment impraticable. Ce serait le cas, par exemple, s'ils ne sont pas tous sujets à la poursuite par voie de saisie, s'ils ne relèvent pas du même for, s'ils sont soumis à des délais différents ou encore si des créanciers personnels à l'un d'eux veulent participer à la saisie (cf. RO 28 I 81, 63 III 14). Aussi chacun des codébiteurs doit-il être, dès le début, le sujet d'une poursuite indépendante (art. 70 al. 2 LP; circulaire no 15 de la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, du 16 février 1906). D'autre part, les biens d'un codébiteur ne doivent servir qu'à payer ses propres dettes. Il est donc nécessaire qu'on sache pour quel montant il est poursuivi personnellement. Sinon il est impossible de procéder régulièrement à la saisie, à la réalisation et à la distribution des deniers (cf. art. 97 al. 2, 119 al. 2, 144 et suiv. LP). Une procédure qui viole ces principes ne saurait être menée à chef et est radicalement nulle.
En l'espèce, on se trouve en présence d'une pareille poursuite unique interdite par la loi. La réquisition de poursuite n'indique pas pour quel montant chaque codébiteur est poursuivi et on ne peut admettre d'emblée ni qu'ils soient tenus chacun pour la moitié de 2584 fr. 05 ni qu'ils répondent de cette dette solidairement (cf. RO 67 III 141). En outre, l'office n'a dressé qu'un seul procès-verbal de saisie et a considéré simplement la saisie de biens du mari comme une saisie complémentaire. Une telle procédure, dans laquelle ni les dettes ni les biens des débiteurs ne sont séparés, ne saurait être continuée régulièrement.
Il est vrai que, depuis l'intervention de Me Tabin, on a affaire à un seul débiteur et que la réalisation ne saurait plus porter que sur les biens de Julien Salamin. Mais cette procédure repose sur un commandement de payer qui, vu la teneur de la réquisition de poursuite, ne pouvait indiquer le montant pour lequel chaque débiteur était poursuivi personnellement. Elle reste donc entachée d'un vice qui entraîne sa nullité.
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Come occorre procedere quando un'esecuzione è diretta collettivamente contro più debitori? Art. 70 cp. 2 LEF.
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 94
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Sachverhalt ab Seite 94
A.- A la requête de Paul Meunier S. à r. 1., l'Office des poursuites de Genève a notifié à Paul Vannay le commandement de payer no 164 651, pour 11 454 fr. 20. Le débiteur fit opposition à la poursuite, mais délivra à la créancière, le 11 mars 1955, la déclaration suivante:
"Je soussigné ... déclare donner mainlevée, par la présente, de l'opposition que j'ai formée au commandement de payer no 164 651, à concurrence de 3914 fr. 60 ..."
Paul Meunier S. à r. 1. requit la continuation de la poursuite pour ce montant. L'office des poursuites considéra la déclaration du 11 mars 1955 comme un retrait partiel de l'opposition et procéda à la saisie le 21 juillet 1955.
B.- Le 23 juillet, Vannay a porté plainte à l'Autorité de surveillance des offices de poursuite pour dettes et de faillite du canton de Genève, en prenant les conclusions suivantes:
"Dire et prononcer que la déclaration de M. Vannay du 11 mars 1955 est nulle quant à ses effets juridiques et ne peut permettre d'obtenir la continuation de la poursuite no 164 651.
Annuler la saisie effectuée dans ladite poursuite et effectuée le 21 crt."
Il alléguait, en invoquant les arrêts Gerber (RO 43 III 293) et Bernardoni (RO 63 III 146), que le débiteur ne saurait accorder la mainlevée de l'opposition qu'il a formée; seul - ajoutait-il - le juge est compétent pour prononcer la mainlevée, de sorte que la déclaration du 11 mars 1955 est nulle.
Par décision du 7 septembre 1955, l'Autorité de surveillance a considéré que la plainte ne visait aucune mesure de l'office et l'a déclarée irrecevable. Au surplus - a-t-elle dit - l'office des poursuites a tenu avec raison la déclaration du 11 mars pour un retrait d'opposition, de sorte que la plainte n'est pas fondée.
C.- Le débiteur défère la cause au Tribunal fédéral, en reprenant les conclusions et les moyens qu'il a énoncés dans l'instance cantonale.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. (La plainte est recevable.)
2. Dans les arrêts cités par le recourant, le Tribunal fédéral a jugé que le débiteur ne pouvait donner mainlevée provisoire de l'opposition ou retirer celle-ci tout en se réservant d'intenter une action en libération de dette. Mais le recourant se trompe lorsqu'il croit cette jurisprudence applicable en l'espèce. Par sa déclaration du 11 mars 1955, en effet, il a donné purement et simplement "mainlevée" de son opposition, à concurrence de 3914 fr. 60 cts, sans préciser qu'il n'entendait accorder qu'une mainlevée provisoire ou qu'il se réservait l'ouverture d'une action en libération de dette. Une telle déclaration ne peut être interprétée que comme un retrait partiel de l'opposition. L'office a donc eu raison de continuer la poursuite pour 3914 fr. 60.
Dispositiv
Par ces motifs, la Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est rejeté dans le sens des considérants.
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Auslegung einer "Rechtsöffnungserklärung" des Schuldners nach erhobenem Rechtsvorschlag.
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81 III 94
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Sachverhalt ab Seite 94
A.- A la requête de Paul Meunier S. à r. 1., l'Office des poursuites de Genève a notifié à Paul Vannay le commandement de payer no 164 651, pour 11 454 fr. 20. Le débiteur fit opposition à la poursuite, mais délivra à la créancière, le 11 mars 1955, la déclaration suivante:
"Je soussigné ... déclare donner mainlevée, par la présente, de l'opposition que j'ai formée au commandement de payer no 164 651, à concurrence de 3914 fr. 60 ..."
Paul Meunier S. à r. 1. requit la continuation de la poursuite pour ce montant. L'office des poursuites considéra la déclaration du 11 mars 1955 comme un retrait partiel de l'opposition et procéda à la saisie le 21 juillet 1955.
B.- Le 23 juillet, Vannay a porté plainte à l'Autorité de surveillance des offices de poursuite pour dettes et de faillite du canton de Genève, en prenant les conclusions suivantes:
"Dire et prononcer que la déclaration de M. Vannay du 11 mars 1955 est nulle quant à ses effets juridiques et ne peut permettre d'obtenir la continuation de la poursuite no 164 651.
Annuler la saisie effectuée dans ladite poursuite et effectuée le 21 crt."
Il alléguait, en invoquant les arrêts Gerber (RO 43 III 293) et Bernardoni (RO 63 III 146), que le débiteur ne saurait accorder la mainlevée de l'opposition qu'il a formée; seul - ajoutait-il - le juge est compétent pour prononcer la mainlevée, de sorte que la déclaration du 11 mars 1955 est nulle.
Par décision du 7 septembre 1955, l'Autorité de surveillance a considéré que la plainte ne visait aucune mesure de l'office et l'a déclarée irrecevable. Au surplus - a-t-elle dit - l'office des poursuites a tenu avec raison la déclaration du 11 mars pour un retrait d'opposition, de sorte que la plainte n'est pas fondée.
C.- Le débiteur défère la cause au Tribunal fédéral, en reprenant les conclusions et les moyens qu'il a énoncés dans l'instance cantonale.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. (La plainte est recevable.)
2. Dans les arrêts cités par le recourant, le Tribunal fédéral a jugé que le débiteur ne pouvait donner mainlevée provisoire de l'opposition ou retirer celle-ci tout en se réservant d'intenter une action en libération de dette. Mais le recourant se trompe lorsqu'il croit cette jurisprudence applicable en l'espèce. Par sa déclaration du 11 mars 1955, en effet, il a donné purement et simplement "mainlevée" de son opposition, à concurrence de 3914 fr. 60 cts, sans préciser qu'il n'entendait accorder qu'une mainlevée provisoire ou qu'il se réservait l'ouverture d'une action en libération de dette. Une telle déclaration ne peut être interprétée que comme un retrait partiel de l'opposition. L'office a donc eu raison de continuer la poursuite pour 3914 fr. 60.
Dispositiv
Par ces motifs, la Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est rejeté dans le sens des considérants.
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Interprétation d'une déclaration par laquelle le débiteur "donne mainlevée" de son opposition à la poursuite.
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81 III 94
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Sachverhalt ab Seite 94
A.- A la requête de Paul Meunier S. à r. 1., l'Office des poursuites de Genève a notifié à Paul Vannay le commandement de payer no 164 651, pour 11 454 fr. 20. Le débiteur fit opposition à la poursuite, mais délivra à la créancière, le 11 mars 1955, la déclaration suivante:
"Je soussigné ... déclare donner mainlevée, par la présente, de l'opposition que j'ai formée au commandement de payer no 164 651, à concurrence de 3914 fr. 60 ..."
Paul Meunier S. à r. 1. requit la continuation de la poursuite pour ce montant. L'office des poursuites considéra la déclaration du 11 mars 1955 comme un retrait partiel de l'opposition et procéda à la saisie le 21 juillet 1955.
B.- Le 23 juillet, Vannay a porté plainte à l'Autorité de surveillance des offices de poursuite pour dettes et de faillite du canton de Genève, en prenant les conclusions suivantes:
"Dire et prononcer que la déclaration de M. Vannay du 11 mars 1955 est nulle quant à ses effets juridiques et ne peut permettre d'obtenir la continuation de la poursuite no 164 651.
Annuler la saisie effectuée dans ladite poursuite et effectuée le 21 crt."
Il alléguait, en invoquant les arrêts Gerber (RO 43 III 293) et Bernardoni (RO 63 III 146), que le débiteur ne saurait accorder la mainlevée de l'opposition qu'il a formée; seul - ajoutait-il - le juge est compétent pour prononcer la mainlevée, de sorte que la déclaration du 11 mars 1955 est nulle.
Par décision du 7 septembre 1955, l'Autorité de surveillance a considéré que la plainte ne visait aucune mesure de l'office et l'a déclarée irrecevable. Au surplus - a-t-elle dit - l'office des poursuites a tenu avec raison la déclaration du 11 mars pour un retrait d'opposition, de sorte que la plainte n'est pas fondée.
C.- Le débiteur défère la cause au Tribunal fédéral, en reprenant les conclusions et les moyens qu'il a énoncés dans l'instance cantonale.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. (La plainte est recevable.)
2. Dans les arrêts cités par le recourant, le Tribunal fédéral a jugé que le débiteur ne pouvait donner mainlevée provisoire de l'opposition ou retirer celle-ci tout en se réservant d'intenter une action en libération de dette. Mais le recourant se trompe lorsqu'il croit cette jurisprudence applicable en l'espèce. Par sa déclaration du 11 mars 1955, en effet, il a donné purement et simplement "mainlevée" de son opposition, à concurrence de 3914 fr. 60 cts, sans préciser qu'il n'entendait accorder qu'une mainlevée provisoire ou qu'il se réservait l'ouverture d'une action en libération de dette. Une telle déclaration ne peut être interprétée que comme un retrait partiel de l'opposition. L'office a donc eu raison de continuer la poursuite pour 3914 fr. 60.
Dispositiv
Par ces motifs, la Chambre des poursuites et des faillites prononce:
Le recours est rejeté dans le sens des considérants.
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Interpretazione di una dichiarazione con la quale il debitore "pronuncia il rigetto" della sua opposizione al precetto esecutivo.
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81 III 96
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Sachverhalt ab Seite 96
A.- A la requête de Vauthy et de Dresco, l'Office des poursuites de Lausanne-Est a ordonné une saisie de salaire au préjudice d'Aloïs Dufey et a fixé à 590 fr. par mois le montant indispensable au débiteur et à sa famille. Cette somme comprenait notamment 70 fr. pour l'entretien d'un enfant de quatre ans et demi, 80 fr. pour celui d'un enfant de neuf ans et un montant de 30 fr. qui, selon le barème appliqué, était destiné à couvrir les dépenses suivantes: "un spectacle par mois, journal, tabac, pinte, quête à l'église, ampoules électriques et vaisselle à remplacer, courses en tram, culture de l'esprit, pharmacie, ports et téléphones, impondérables".
B.- Sur plainte des créanciers, la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois a fixé à 540 fr. le minimum vital du débiteur. Elle a arbitré à 130 fr. la somme nécessaire à l'entretien des deux enfants.
En outre, elle a considéré que les dépenses pour lesquelles l'office avait compté 30 fr. n'étaient pas indispensables pour assurer l'existence du débiteur et de sa famille, qu'elles étaient destinées à ce qu'il est convenu d'appeler le superflu et ne pouvaient dès lors être retenues dans le minimum vital.
C.- Dufey recourt à la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, en concluant à l'annulation de la décision cantonale et au rejet de la plainte.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Selon l'art. 19 LP, le recours au Tribunal fédéral est ouvert pour violation de la loi, déni de justice et retard non justifié. En matière de saisie de salaire, la juridiction fédérale revoit donc librement la manière dont l'autorité de surveillance a interprété la notion du minimum vital, qui est un concept juridique. Elle peut notamment vérifier si la juridiction cantonale n'a pas compris dans ce minimum des dépenses qui, par leur nature, n'y rentrent pas ou a écarté à tort des frais qui devraient y être comptés (cf. par exemple RO 45 III 82, 69 III 41, 70 III 8, 71 III 50 et 77 III 160 et 162). En revanche, la fixation des montants qui doivent être laissés au débiteur pour couvrir les dépenses indispensables est une question d'appréciation, que le Tribunal fédéral revoit seulement si l'autorité de surveillance a jugé arbitrairement (RO 51 III 69).
2. En l'espèce, la juridiction vaudoise a considéré que chacun des montants fixés par l'office des poursuites pour l'entretien des enfants était équitable en lui-même; mais - a-t-elle ajouté - on doit opérer une déduction de 20 fr. pour tenir compte que les deux enfants du débiteur sont élevés ensemble. Le recourant critique en vain ce chef de la décision cantonale. C'est un fait d'expérience que les frais d'entretien sont proportionnellement plus élevés pour un seul enfant que pour plusieurs enfants qui vivent ensemble, même s'ils sont de sexes différents - on ignore ce qu'il en est en l'espèce - et si leurs âges ne sont pas très rapprochés. Dès lors, en opérant pour ce motif une réduction de 20 fr., l'autorité de surveillance n'a pas outrepassé les limites de son pouvoir d'appréciation.
3. Pour retrancher 30 fr. du minimum insaisissable fixé par l'office des poursuites, la juridiction cantonale est partie de l'idée qu'on ne devait laisser au débiteur que le montant indispensable pour assurer son existence physique. Cette notion du minimum vital est trop étroite. Même si le débiteur est sous le coup d'une saisie de salaire, il a droit, ainsi que sa famille, à un modeste montant destiné à satisfaire ses besoins culturels et à meubler ses loisirs. De même, on doit lui laisser une petite somme pour prendre le tramway ou le train en cas de nécessité, acheter du papier à lettres et des timbres-poste, téléphoner occasionnellement, etc. (cf. ELMER, Die Bestimmung des unpfändbaren Lohnes auf Ende 1951, 1952, p. 3 à 7). Enfin, le montant de 30 fr. que l'autorité de surveillance a refusé d'admettre comprenait des dépenses évidemment indispensables, savoir les frais de remplacement des ampoules électriques et de la vaisselle.
Dès lors, la décision cantonale viole l'art. 93 LP, ce qui entraîne son annulation. La cause doit être renvoyée à l'autorité de surveillance, qui ajoutera au minimum vital du recourant un montant destiné à couvrir les dépenses qui viennent d'être relevées.
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Lohnpfändung, Notbedarf, Art. 93 SchK G. Überprüfungsbefugnis des Bundesgerichts (Erw. 1).
Zum Notbedarf gehört ein bescheidener Betrag für kulturelle Bedürfnisse und für Freizeitbetätigung (Erw. 3).
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A.- A la requête de Vauthy et de Dresco, l'Office des poursuites de Lausanne-Est a ordonné une saisie de salaire au préjudice d'Aloïs Dufey et a fixé à 590 fr. par mois le montant indispensable au débiteur et à sa famille. Cette somme comprenait notamment 70 fr. pour l'entretien d'un enfant de quatre ans et demi, 80 fr. pour celui d'un enfant de neuf ans et un montant de 30 fr. qui, selon le barème appliqué, était destiné à couvrir les dépenses suivantes: "un spectacle par mois, journal, tabac, pinte, quête à l'église, ampoules électriques et vaisselle à remplacer, courses en tram, culture de l'esprit, pharmacie, ports et téléphones, impondérables".
B.- Sur plainte des créanciers, la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois a fixé à 540 fr. le minimum vital du débiteur. Elle a arbitré à 130 fr. la somme nécessaire à l'entretien des deux enfants.
En outre, elle a considéré que les dépenses pour lesquelles l'office avait compté 30 fr. n'étaient pas indispensables pour assurer l'existence du débiteur et de sa famille, qu'elles étaient destinées à ce qu'il est convenu d'appeler le superflu et ne pouvaient dès lors être retenues dans le minimum vital.
C.- Dufey recourt à la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, en concluant à l'annulation de la décision cantonale et au rejet de la plainte.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Selon l'art. 19 LP, le recours au Tribunal fédéral est ouvert pour violation de la loi, déni de justice et retard non justifié. En matière de saisie de salaire, la juridiction fédérale revoit donc librement la manière dont l'autorité de surveillance a interprété la notion du minimum vital, qui est un concept juridique. Elle peut notamment vérifier si la juridiction cantonale n'a pas compris dans ce minimum des dépenses qui, par leur nature, n'y rentrent pas ou a écarté à tort des frais qui devraient y être comptés (cf. par exemple RO 45 III 82, 69 III 41, 70 III 8, 71 III 50 et 77 III 160 et 162). En revanche, la fixation des montants qui doivent être laissés au débiteur pour couvrir les dépenses indispensables est une question d'appréciation, que le Tribunal fédéral revoit seulement si l'autorité de surveillance a jugé arbitrairement (RO 51 III 69).
2. En l'espèce, la juridiction vaudoise a considéré que chacun des montants fixés par l'office des poursuites pour l'entretien des enfants était équitable en lui-même; mais - a-t-elle ajouté - on doit opérer une déduction de 20 fr. pour tenir compte que les deux enfants du débiteur sont élevés ensemble. Le recourant critique en vain ce chef de la décision cantonale. C'est un fait d'expérience que les frais d'entretien sont proportionnellement plus élevés pour un seul enfant que pour plusieurs enfants qui vivent ensemble, même s'ils sont de sexes différents - on ignore ce qu'il en est en l'espèce - et si leurs âges ne sont pas très rapprochés. Dès lors, en opérant pour ce motif une réduction de 20 fr., l'autorité de surveillance n'a pas outrepassé les limites de son pouvoir d'appréciation.
3. Pour retrancher 30 fr. du minimum insaisissable fixé par l'office des poursuites, la juridiction cantonale est partie de l'idée qu'on ne devait laisser au débiteur que le montant indispensable pour assurer son existence physique. Cette notion du minimum vital est trop étroite. Même si le débiteur est sous le coup d'une saisie de salaire, il a droit, ainsi que sa famille, à un modeste montant destiné à satisfaire ses besoins culturels et à meubler ses loisirs. De même, on doit lui laisser une petite somme pour prendre le tramway ou le train en cas de nécessité, acheter du papier à lettres et des timbres-poste, téléphoner occasionnellement, etc. (cf. ELMER, Die Bestimmung des unpfändbaren Lohnes auf Ende 1951, 1952, p. 3 à 7). Enfin, le montant de 30 fr. que l'autorité de surveillance a refusé d'admettre comprenait des dépenses évidemment indispensables, savoir les frais de remplacement des ampoules électriques et de la vaisselle.
Dès lors, la décision cantonale viole l'art. 93 LP, ce qui entraîne son annulation. La cause doit être renvoyée à l'autorité de surveillance, qui ajoutera au minimum vital du recourant un montant destiné à couvrir les dépenses qui viennent d'être relevées.
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Saisie de salaire, minimum vital, art. 93 LP. Pouvoir d'examen du Tribunal fédéral (consid. 1).
Le minimum vital doit comprendre un modeste montant pour les besoins culturels et les loisirs (consid. 3).
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A.- A la requête de Vauthy et de Dresco, l'Office des poursuites de Lausanne-Est a ordonné une saisie de salaire au préjudice d'Aloïs Dufey et a fixé à 590 fr. par mois le montant indispensable au débiteur et à sa famille. Cette somme comprenait notamment 70 fr. pour l'entretien d'un enfant de quatre ans et demi, 80 fr. pour celui d'un enfant de neuf ans et un montant de 30 fr. qui, selon le barème appliqué, était destiné à couvrir les dépenses suivantes: "un spectacle par mois, journal, tabac, pinte, quête à l'église, ampoules électriques et vaisselle à remplacer, courses en tram, culture de l'esprit, pharmacie, ports et téléphones, impondérables".
B.- Sur plainte des créanciers, la Chambre des poursuites et faillites du Tribunal cantonal vaudois a fixé à 540 fr. le minimum vital du débiteur. Elle a arbitré à 130 fr. la somme nécessaire à l'entretien des deux enfants.
En outre, elle a considéré que les dépenses pour lesquelles l'office avait compté 30 fr. n'étaient pas indispensables pour assurer l'existence du débiteur et de sa famille, qu'elles étaient destinées à ce qu'il est convenu d'appeler le superflu et ne pouvaient dès lors être retenues dans le minimum vital.
C.- Dufey recourt à la Chambre des poursuites et des faillites du Tribunal fédéral, en concluant à l'annulation de la décision cantonale et au rejet de la plainte.
Erwägungen
Considérant en droit:
1. Selon l'art. 19 LP, le recours au Tribunal fédéral est ouvert pour violation de la loi, déni de justice et retard non justifié. En matière de saisie de salaire, la juridiction fédérale revoit donc librement la manière dont l'autorité de surveillance a interprété la notion du minimum vital, qui est un concept juridique. Elle peut notamment vérifier si la juridiction cantonale n'a pas compris dans ce minimum des dépenses qui, par leur nature, n'y rentrent pas ou a écarté à tort des frais qui devraient y être comptés (cf. par exemple RO 45 III 82, 69 III 41, 70 III 8, 71 III 50 et 77 III 160 et 162). En revanche, la fixation des montants qui doivent être laissés au débiteur pour couvrir les dépenses indispensables est une question d'appréciation, que le Tribunal fédéral revoit seulement si l'autorité de surveillance a jugé arbitrairement (RO 51 III 69).
2. En l'espèce, la juridiction vaudoise a considéré que chacun des montants fixés par l'office des poursuites pour l'entretien des enfants était équitable en lui-même; mais - a-t-elle ajouté - on doit opérer une déduction de 20 fr. pour tenir compte que les deux enfants du débiteur sont élevés ensemble. Le recourant critique en vain ce chef de la décision cantonale. C'est un fait d'expérience que les frais d'entretien sont proportionnellement plus élevés pour un seul enfant que pour plusieurs enfants qui vivent ensemble, même s'ils sont de sexes différents - on ignore ce qu'il en est en l'espèce - et si leurs âges ne sont pas très rapprochés. Dès lors, en opérant pour ce motif une réduction de 20 fr., l'autorité de surveillance n'a pas outrepassé les limites de son pouvoir d'appréciation.
3. Pour retrancher 30 fr. du minimum insaisissable fixé par l'office des poursuites, la juridiction cantonale est partie de l'idée qu'on ne devait laisser au débiteur que le montant indispensable pour assurer son existence physique. Cette notion du minimum vital est trop étroite. Même si le débiteur est sous le coup d'une saisie de salaire, il a droit, ainsi que sa famille, à un modeste montant destiné à satisfaire ses besoins culturels et à meubler ses loisirs. De même, on doit lui laisser une petite somme pour prendre le tramway ou le train en cas de nécessité, acheter du papier à lettres et des timbres-poste, téléphoner occasionnellement, etc. (cf. ELMER, Die Bestimmung des unpfändbaren Lohnes auf Ende 1951, 1952, p. 3 à 7). Enfin, le montant de 30 fr. que l'autorité de surveillance a refusé d'admettre comprenait des dépenses évidemment indispensables, savoir les frais de remplacement des ampoules électriques et de la vaisselle.
Dès lors, la décision cantonale viole l'art. 93 LP, ce qui entraîne son annulation. La cause doit être renvoyée à l'autorité de surveillance, qui ajoutera au minimum vital du recourant un montant destiné à couvrir les dépenses qui viennent d'être relevées.
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fr
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Pignoramento del salario, minimo vitale, art. 93 LEF. Potere d'esame del Tribunale federale (consid. 1).
Il minimo vitale deve comprendere un modesto importo per i bisogni culturali e per gli svaghi (consid. 3).
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it
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debt enforcement and bankruptcy law
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81 III 98
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Sachverhalt ab Seite 99
A.- Das Grundstück Nr. 104 in Aesch (Luzern) ging infolge Kaufvertrages vom 20. April 1943 in das Eigentum der Frau Karolina Lang-Waller über. Diese schuldet dem Verkäufer Heinrich Stocker laut rechtskräftigem Urteil vom 12. Dezember 1945 einen restlichen Preisbetrag von Fr. 2500.--. Noch während des Forderungsprozesses belastete sie das Grundstück mit einer Pfandverschreibung zugunsten ihres Ehemannes Jakob Lang für ein Darlehen von Fr. 3000.-- und verkaufte es dann an Otto Gürber. In der für jene Preisforderung angehobenen Betreibung ging Stocker leer aus; er erhielt am 6. September 1946 einen definitiven Verlustschein im Betrage von Fr. 3005.95. Nun focht er mit Erfolg die von der Schuldnerin vorgenommene Grundpfandbelastung wie auch den Verkauf des Grundstückes an Gürber an (Urteile des luzernischen Obergerichtes vom 11. Juli 1951 und 13. Januar 1954). Gegen Gürber hatte er am 23. August 1949, vor Anhebung des Anfechtungsprozesses gegen ihn, eine gerichtliche Anordnung des Inhaltes erwirkt, dass auf dem in Frage stehenden Grundstück im Grundbuch eine Verfügungsbeschränkung "zur Sicherung der Ansprüche des Petenten in der Höhe von Fr. 3000. -" vorzumerken sei. Die Vormerkung vom 25. gleichen Monats lautet: "Verfügungsbeschränkung gemäss Art. 960 Ziff. 1 ZGB z. G. Stocker Heinrich, Aesch".
B.- Gürber verkaufte das Grundstück während des gegen ihn angehobenen Anfechtungsprozesses an Robert Hess weiter, der am 8. Januar 1954 als neuer Eigentümer eingetragen wurde. Die Schuldnerin versuchte den Verlustschein vom 6. September 1946 auf dem Beschwerdewege nichtig erklären zu lassen, was ihr aber nicht gelang (BGE 80 III 74). Als nun Stocker das Grundstück für die Verlustscheinsforderung pfänden lassen wollte, widersetzte sich Hess dem Vollzuge, und das Betreibungsamt hielt daher das Pfändungsbegehren für nicht vollziehbar. Es wurde dann aber auf Beschwerde des Gläubigers von der untern Aufsichtsbehörde angewiesen, das Grundstück zu pfänden, und die von der Schuldnerin und vom derzeit eingetragenen Grundeigentümer Hess angerufene obere kantonale Aufsichtsbehörde bestätigte diese Anordnung mit Entscheid vom 22. Juni 1955, im wesentlichen aus folgenden Gründen: Das nicht mehr auf den Namen der Schuldnerin eingetragene Grundstück kann unter besondern Umständen gleichwohl gepfändet werden, namentlich wenn der Gläubiger (gemäss Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG) glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Das trifft nun zunächst gegenüber dem Rechtsvorgänger des jetzt eingetragenen Eigentümers Hess, Otto Gürber, zu, denn er ist gemäss rechtskräftigem Anfechtungsurteil verpflichtet, das Grundstück zur Zwangsvollstreckung für die Verlustscheinsforderung des Heinrich Stocker zur Verfügung zu stellen. An dieses Urteil ist aber auch Hess gebunden, weil die zugunsten des Gläubigers vorgemerkte Verfügungsbeschränkung auch ihm gegenüber wirkt. Die Einwendung, die Verfügungsbeschränkung sei ungültig, weil zur Sicherung von Geldforderungen bestimmt, geht fehl; denn nach der Begründung der richterlichen Anordnung handelte es sich um die Sicherung eines paulianischen Anfechtungsanspruches, was durch solche Vormerkung geschehen darf (Homberger, N. 11 zu Art. 960 ZGB). Auch die summarische Formulierung der Vormerkung macht sie nicht unwirksam; sie wird durch die Belege erläutert. - Endlich bemerkt das Obergericht, nach der Pfändung werde nicht etwa ein Widerspruchsverfahren einzuleiten sein; denn die Rechtskraft des im Anfechtungsstreit ergangenen Urteils dürfe nicht mehr in Frage gestellt werden.
C.- Gegen diesen Entscheid haben die Schuldnerin und Hess rekurriert. Sie halten daran fest, dass die Pfändung unzulässig und die Beschwerde des Gläubigers unbegründet sei. Eventuell beantragen sie die Anordnung eines Widerspruchsverfahrens mit Klägerrolle des Gläubigers nach Art. 109 SchKG.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In welchen Fällen ein nicht auf den Namen des betriebenen Schuldners eingetragenes Grundstück gleichwohl gepfändet werden darf, ist in Art. 10 Abs. 1 VZG näher bestimmt. Hier kommt nur Ziff. 3 daselbst in Frage, wonach ein solches Grundstück der Pfändung unterliegt, wenn der Gläubiger glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Der angefochtene Entscheid bejaht diese Voraussetzung im vorliegenden Falle, weil der bestehende Eintrag auf Robert Hess das wirkliche Rechtsverhältnis nicht richtig wiedergebe. Denn nach dem im Anfechtungsprozess gegen Gürber ergangenen Urteil vom 13. Januar 1954 sei für den Gläubiger die Rechtslage die gleiche, wie wenn das Grundstück noch im Eigentum der Schuldnerin stünde. Gürber habe nach diesem Urteil nur formell als Eigentümer gelten können, der Gläubiger habe aber das Grundstück als Eigentum der Schuldnerin in Anspruch nehmen dürfen. Insoweit habe der Grundbucheintrag des Rechtsgrundes entbehrt und sei demnach unrichtig gewesen, was nun kraft der zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung auch gegenüber dem derzeit eingetragenen Hess gelte.
Diese Erwägungen legen indessen der Anfechtungsklage Wirkungen bei, die ihr nicht zukommen. Die Anfechtung nach Art. 285 ff. SchKG betrifft keineswegs die materielle Gültigkeit der Übertragung und zielt gar nicht darauf ab, den Eintrag des Eigentums auf den Dritten als unrichtig, d.h. ungerechtfertigt im Sinne von Art. 974/975 ZGB erklären zu lassen. Die durch das Urteil gegen Gürber erwiesene Anfechtbarkeit des Kaufvertrages hat den Übergang des Eigentums auf ihn nicht gehindert, sondern bloss ein auch ihm gegenüber wirksames Beschlagsrecht des Gläubigers Stocker begründet (vgl.BGE 47 III 92). Somit liegt der in Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG vorgesehene Fall hier nicht vor. Allein diese Vorschrift erweist sich als zu eng. Dem gesetzgeberischen Grund, auf dem sie beruht, ist weitergehend Rechnung zu tragen durch analoge Berücksichtigung des Falles einer vom Schuldner in anfechtbarer Weise vorgenommenen Übertragung. Das dem Art. 10 VZG zugrunde liegende, allen daselbst genannten Tatbeständen gemeinsame Motiv ist die entgegen dem Grundbucheintrag bestehende Möglichkeit der Zwangsvollstreckung, das Recht also, auf ein nicht auf den Betriebenen als Eigentümer eingetragenes Grundstück zu greifen. Ein solches Beschlags- und Verwertungsrecht besteht nun aber nicht nur in den in Art. 10 VZG vorgesehenen Fällen, sondern ebenso bei der erfolgreichen Anfechtung eines Kaufvertrages, durch den sich der Schuldner einer Sache entäussert hat. Dergestalt findet Art. 10 VZG in den Bestimmungen über die Anfechtungsklage (Art. 291 SchKG) die notwendige Ergänzung. Ob bei Anrufung eines Anfechtungstatbestandes ebenfalls blosse Glaubhaftmachung genüge, um die Pfändung zu rechtfertigen, oder ob es hiezu eines rechtskräftigen die Anfechtbarkeit bejahenden Urteils bedürfe, mag hier dahingestellt bleiben.
2. Hätte somit das im Anfechtungsprozess von Stocker erstrittene Urteil einen Rechtstitel zur Pfändung des Grundstücks gegenüber dem Anfechtungsbeklagten Gürber gebildet, so bleibt zu prüfen, ob auch Hess, der in den Anfechtungsprozess nicht verwickelt war, die Pfändung dulden müsse. Damit wird die Frage nach der Gültigkeit und Tragweite der schon lange vor dem Eigentumserwerb des Hess zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung aufgeworfen. Denn ohne diese Vormerkung könnte das gegen Gürber ergangene Urteil nicht auch gegen Hess wirken. Dieser müsste vielmehr selber (als bösgläubiger Dritter) gemäss Art. 290 SchKG auch noch mit einer Anfechtungsklage belangt werden.
Nun erscheint mindestens als glaubhaft gemacht, dass Hess infolge der erwähnten Vormerkung sich die Pfändung des von Gürber anfechtbar erworbenen Grundstückes ebenfalls gefallen lassen muss. Denn vorgemerkt ist (und war bereits zur Zeit des Eigentumsüberganges auf Hess) eine Verfügungsbeschränkung zugunsten des Gläubigers Stocker. Freilich lässt das Dispositiv der ihr zugrunde liegenden gerichtlichen Anordnung nicht klar erkennen, welcher Art der durch die Vormerkung zu sichernde Anspruch sei. Erst den Erwägungen ist zu entnehmen, dass es um eine von Stocker beabsichtigte Anfechtung des zwischen der Schuldnerin und Gürber abgeschlossenen Kaufvertrages ging. Das genügt aber, um die mit der Vormerkung gewünschte Wirkung "gegenüber jedem später erworbenen Rechte" gemäss Art. 960 Abs. 2 ZGB glaubhaft zu machen. In der Lehre ist anerkannt, dass auch Anfechtungsansprüche durch Vormerkung auf Grund von Art. 960 Ziff. 1 ZGB sichergestellt werden können (Homberger, N. 11 hiezu), worauf die vorinstanzliche Entscheidung mit Recht hinweist.
3. Ist die Pfändung somit vorzunehmen, so wird dann aber entgegen der Ansicht der kantonalen Aufsichtsbehörde das in Art. 10 Abs. 2 VZG vorbehaltene Widerspruchsverfahren auch im vorliegenden Falle einzuleiten sein. Gewiss wäre für ein solches Verfahren kein Raum, wenn das Grundstück noch im Eigentum des Anfechtungsbeklagten Gürber stünde. Dieser könnte das im Anfechtungsprozesse rechtskräftig anerkannte Beschlags- und Verwertungsrecht des Gläubigers für die Verlustscheinsforderung nicht neuerdings in Frage stellen, wie sich aus dem von der Vorinstanz angeführten Entscheide (BGE 44 III 6f.) ergibt. Über die Gültigkeit der Vormerkung und über deren Wirkungen gegenüber dem neuen Eigentümer Hess ist aber noch kein Urteil ergangen. Den betreibungsrechtlichen Aufsichtsbehörden steht nicht zu, über dessen Einwendungen endgültig (abgesehen von der oben erörterten Glaubhaftmachung) zu entscheiden. Das kann nur in einem sich an die Pfändung anschliessenden Verfahren, eben im Widerspruchsverfahren der Art. 106 ff. SchKG, geschehen. Freilich wird, wenn Hess es auf den Prozess ankommen lässt, die Anfechtbarkeit des Kaufvertrages Lang/Gürber infolge des zwischen diesen Parteien ergangenen Urteils als feststehend zu gelten haben (vgl. LEUCH, N. 11 c zu Art. 192 der bernischen ZPO, über die sog. Tatbestandswirkung des Urteils gegenüber Dritten). Es wird dann im neuen Verfahren nur zu entscheiden bleiben, ob die Verfügungsbeschränkung in der vorliegenden Fassung genügt, um die damit beabsichtigte Wirkung gegenüber neuen Erwerbern des Grundstückes zu entfalten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird im Sinne der Erwägungen abgewiesen.
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1. Wann ist ein nicht auf den Namen des betriebenen Schuldners eingetragenes Grundstück zu pfänden? Ausser den in Art. 10 Abs. 1 VZG vorgesehenen Fällen kommt die nach Art. 285 ff. SchKG anfechtbare Veräusserung durch den Schuldner an den jetzt eingetragenen Eigentümer in Betracht. 2. Hatte der Schuldner das Grundstück dem Rechtsvorgänger des jetzt eingetragenen Eigentümers laut rechtskräftigem Urteil in anfechtbarer Weise veräussert, und war vor dem Übergang auf den gegenwärtigen Eigentümer bereits eine Verfügungsbeschränkung nach Art. 960 Ziff. 1 ZGB zugunsten des Gläubigersvorgemerkt, so ist das Grundstück unter Vorbehalt eines Widerspruchsverfahrens über die Gültigkeit und die Wirkungen der Vormerkung zu pfänden.
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Sachverhalt ab Seite 99
A.- Das Grundstück Nr. 104 in Aesch (Luzern) ging infolge Kaufvertrages vom 20. April 1943 in das Eigentum der Frau Karolina Lang-Waller über. Diese schuldet dem Verkäufer Heinrich Stocker laut rechtskräftigem Urteil vom 12. Dezember 1945 einen restlichen Preisbetrag von Fr. 2500.--. Noch während des Forderungsprozesses belastete sie das Grundstück mit einer Pfandverschreibung zugunsten ihres Ehemannes Jakob Lang für ein Darlehen von Fr. 3000.-- und verkaufte es dann an Otto Gürber. In der für jene Preisforderung angehobenen Betreibung ging Stocker leer aus; er erhielt am 6. September 1946 einen definitiven Verlustschein im Betrage von Fr. 3005.95. Nun focht er mit Erfolg die von der Schuldnerin vorgenommene Grundpfandbelastung wie auch den Verkauf des Grundstückes an Gürber an (Urteile des luzernischen Obergerichtes vom 11. Juli 1951 und 13. Januar 1954). Gegen Gürber hatte er am 23. August 1949, vor Anhebung des Anfechtungsprozesses gegen ihn, eine gerichtliche Anordnung des Inhaltes erwirkt, dass auf dem in Frage stehenden Grundstück im Grundbuch eine Verfügungsbeschränkung "zur Sicherung der Ansprüche des Petenten in der Höhe von Fr. 3000. -" vorzumerken sei. Die Vormerkung vom 25. gleichen Monats lautet: "Verfügungsbeschränkung gemäss Art. 960 Ziff. 1 ZGB z. G. Stocker Heinrich, Aesch".
B.- Gürber verkaufte das Grundstück während des gegen ihn angehobenen Anfechtungsprozesses an Robert Hess weiter, der am 8. Januar 1954 als neuer Eigentümer eingetragen wurde. Die Schuldnerin versuchte den Verlustschein vom 6. September 1946 auf dem Beschwerdewege nichtig erklären zu lassen, was ihr aber nicht gelang (BGE 80 III 74). Als nun Stocker das Grundstück für die Verlustscheinsforderung pfänden lassen wollte, widersetzte sich Hess dem Vollzuge, und das Betreibungsamt hielt daher das Pfändungsbegehren für nicht vollziehbar. Es wurde dann aber auf Beschwerde des Gläubigers von der untern Aufsichtsbehörde angewiesen, das Grundstück zu pfänden, und die von der Schuldnerin und vom derzeit eingetragenen Grundeigentümer Hess angerufene obere kantonale Aufsichtsbehörde bestätigte diese Anordnung mit Entscheid vom 22. Juni 1955, im wesentlichen aus folgenden Gründen: Das nicht mehr auf den Namen der Schuldnerin eingetragene Grundstück kann unter besondern Umständen gleichwohl gepfändet werden, namentlich wenn der Gläubiger (gemäss Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG) glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Das trifft nun zunächst gegenüber dem Rechtsvorgänger des jetzt eingetragenen Eigentümers Hess, Otto Gürber, zu, denn er ist gemäss rechtskräftigem Anfechtungsurteil verpflichtet, das Grundstück zur Zwangsvollstreckung für die Verlustscheinsforderung des Heinrich Stocker zur Verfügung zu stellen. An dieses Urteil ist aber auch Hess gebunden, weil die zugunsten des Gläubigers vorgemerkte Verfügungsbeschränkung auch ihm gegenüber wirkt. Die Einwendung, die Verfügungsbeschränkung sei ungültig, weil zur Sicherung von Geldforderungen bestimmt, geht fehl; denn nach der Begründung der richterlichen Anordnung handelte es sich um die Sicherung eines paulianischen Anfechtungsanspruches, was durch solche Vormerkung geschehen darf (Homberger, N. 11 zu Art. 960 ZGB). Auch die summarische Formulierung der Vormerkung macht sie nicht unwirksam; sie wird durch die Belege erläutert. - Endlich bemerkt das Obergericht, nach der Pfändung werde nicht etwa ein Widerspruchsverfahren einzuleiten sein; denn die Rechtskraft des im Anfechtungsstreit ergangenen Urteils dürfe nicht mehr in Frage gestellt werden.
C.- Gegen diesen Entscheid haben die Schuldnerin und Hess rekurriert. Sie halten daran fest, dass die Pfändung unzulässig und die Beschwerde des Gläubigers unbegründet sei. Eventuell beantragen sie die Anordnung eines Widerspruchsverfahrens mit Klägerrolle des Gläubigers nach Art. 109 SchKG.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In welchen Fällen ein nicht auf den Namen des betriebenen Schuldners eingetragenes Grundstück gleichwohl gepfändet werden darf, ist in Art. 10 Abs. 1 VZG näher bestimmt. Hier kommt nur Ziff. 3 daselbst in Frage, wonach ein solches Grundstück der Pfändung unterliegt, wenn der Gläubiger glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Der angefochtene Entscheid bejaht diese Voraussetzung im vorliegenden Falle, weil der bestehende Eintrag auf Robert Hess das wirkliche Rechtsverhältnis nicht richtig wiedergebe. Denn nach dem im Anfechtungsprozess gegen Gürber ergangenen Urteil vom 13. Januar 1954 sei für den Gläubiger die Rechtslage die gleiche, wie wenn das Grundstück noch im Eigentum der Schuldnerin stünde. Gürber habe nach diesem Urteil nur formell als Eigentümer gelten können, der Gläubiger habe aber das Grundstück als Eigentum der Schuldnerin in Anspruch nehmen dürfen. Insoweit habe der Grundbucheintrag des Rechtsgrundes entbehrt und sei demnach unrichtig gewesen, was nun kraft der zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung auch gegenüber dem derzeit eingetragenen Hess gelte.
Diese Erwägungen legen indessen der Anfechtungsklage Wirkungen bei, die ihr nicht zukommen. Die Anfechtung nach Art. 285 ff. SchKG betrifft keineswegs die materielle Gültigkeit der Übertragung und zielt gar nicht darauf ab, den Eintrag des Eigentums auf den Dritten als unrichtig, d.h. ungerechtfertigt im Sinne von Art. 974/975 ZGB erklären zu lassen. Die durch das Urteil gegen Gürber erwiesene Anfechtbarkeit des Kaufvertrages hat den Übergang des Eigentums auf ihn nicht gehindert, sondern bloss ein auch ihm gegenüber wirksames Beschlagsrecht des Gläubigers Stocker begründet (vgl.BGE 47 III 92). Somit liegt der in Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG vorgesehene Fall hier nicht vor. Allein diese Vorschrift erweist sich als zu eng. Dem gesetzgeberischen Grund, auf dem sie beruht, ist weitergehend Rechnung zu tragen durch analoge Berücksichtigung des Falles einer vom Schuldner in anfechtbarer Weise vorgenommenen Übertragung. Das dem Art. 10 VZG zugrunde liegende, allen daselbst genannten Tatbeständen gemeinsame Motiv ist die entgegen dem Grundbucheintrag bestehende Möglichkeit der Zwangsvollstreckung, das Recht also, auf ein nicht auf den Betriebenen als Eigentümer eingetragenes Grundstück zu greifen. Ein solches Beschlags- und Verwertungsrecht besteht nun aber nicht nur in den in Art. 10 VZG vorgesehenen Fällen, sondern ebenso bei der erfolgreichen Anfechtung eines Kaufvertrages, durch den sich der Schuldner einer Sache entäussert hat. Dergestalt findet Art. 10 VZG in den Bestimmungen über die Anfechtungsklage (Art. 291 SchKG) die notwendige Ergänzung. Ob bei Anrufung eines Anfechtungstatbestandes ebenfalls blosse Glaubhaftmachung genüge, um die Pfändung zu rechtfertigen, oder ob es hiezu eines rechtskräftigen die Anfechtbarkeit bejahenden Urteils bedürfe, mag hier dahingestellt bleiben.
2. Hätte somit das im Anfechtungsprozess von Stocker erstrittene Urteil einen Rechtstitel zur Pfändung des Grundstücks gegenüber dem Anfechtungsbeklagten Gürber gebildet, so bleibt zu prüfen, ob auch Hess, der in den Anfechtungsprozess nicht verwickelt war, die Pfändung dulden müsse. Damit wird die Frage nach der Gültigkeit und Tragweite der schon lange vor dem Eigentumserwerb des Hess zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung aufgeworfen. Denn ohne diese Vormerkung könnte das gegen Gürber ergangene Urteil nicht auch gegen Hess wirken. Dieser müsste vielmehr selber (als bösgläubiger Dritter) gemäss Art. 290 SchKG auch noch mit einer Anfechtungsklage belangt werden.
Nun erscheint mindestens als glaubhaft gemacht, dass Hess infolge der erwähnten Vormerkung sich die Pfändung des von Gürber anfechtbar erworbenen Grundstückes ebenfalls gefallen lassen muss. Denn vorgemerkt ist (und war bereits zur Zeit des Eigentumsüberganges auf Hess) eine Verfügungsbeschränkung zugunsten des Gläubigers Stocker. Freilich lässt das Dispositiv der ihr zugrunde liegenden gerichtlichen Anordnung nicht klar erkennen, welcher Art der durch die Vormerkung zu sichernde Anspruch sei. Erst den Erwägungen ist zu entnehmen, dass es um eine von Stocker beabsichtigte Anfechtung des zwischen der Schuldnerin und Gürber abgeschlossenen Kaufvertrages ging. Das genügt aber, um die mit der Vormerkung gewünschte Wirkung "gegenüber jedem später erworbenen Rechte" gemäss Art. 960 Abs. 2 ZGB glaubhaft zu machen. In der Lehre ist anerkannt, dass auch Anfechtungsansprüche durch Vormerkung auf Grund von Art. 960 Ziff. 1 ZGB sichergestellt werden können (Homberger, N. 11 hiezu), worauf die vorinstanzliche Entscheidung mit Recht hinweist.
3. Ist die Pfändung somit vorzunehmen, so wird dann aber entgegen der Ansicht der kantonalen Aufsichtsbehörde das in Art. 10 Abs. 2 VZG vorbehaltene Widerspruchsverfahren auch im vorliegenden Falle einzuleiten sein. Gewiss wäre für ein solches Verfahren kein Raum, wenn das Grundstück noch im Eigentum des Anfechtungsbeklagten Gürber stünde. Dieser könnte das im Anfechtungsprozesse rechtskräftig anerkannte Beschlags- und Verwertungsrecht des Gläubigers für die Verlustscheinsforderung nicht neuerdings in Frage stellen, wie sich aus dem von der Vorinstanz angeführten Entscheide (BGE 44 III 6f.) ergibt. Über die Gültigkeit der Vormerkung und über deren Wirkungen gegenüber dem neuen Eigentümer Hess ist aber noch kein Urteil ergangen. Den betreibungsrechtlichen Aufsichtsbehörden steht nicht zu, über dessen Einwendungen endgültig (abgesehen von der oben erörterten Glaubhaftmachung) zu entscheiden. Das kann nur in einem sich an die Pfändung anschliessenden Verfahren, eben im Widerspruchsverfahren der Art. 106 ff. SchKG, geschehen. Freilich wird, wenn Hess es auf den Prozess ankommen lässt, die Anfechtbarkeit des Kaufvertrages Lang/Gürber infolge des zwischen diesen Parteien ergangenen Urteils als feststehend zu gelten haben (vgl. LEUCH, N. 11 c zu Art. 192 der bernischen ZPO, über die sog. Tatbestandswirkung des Urteils gegenüber Dritten). Es wird dann im neuen Verfahren nur zu entscheiden bleiben, ob die Verfügungsbeschränkung in der vorliegenden Fassung genügt, um die damit beabsichtigte Wirkung gegenüber neuen Erwerbern des Grundstückes zu entfalten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird im Sinne der Erwägungen abgewiesen.
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1. Quand y a-t-il lieu de saisir un immeuble non inscrit au nom du débiteur? Il y a lieu de prendre en considération, outre les cas prévus à l'art. 10 al. 1 ORI, le fait que l'immeuble a passé de la propriété du débiteur dans celle du propriétaire inscrit dans des conditions qui justifieraient la révocation du transfert en vertu des art. 285 et suiv. LP. 2. Lorsque, suivant un jugement passé en force de chose jugée, le débiteur a transféré l'immeuble à l'auteur du propriétaire inscrit dans des conditions qui justifiaient la révocation du transfert et que dès avant ce transfert le créancier se trouvait au bénéfice d'une restriction du droit d'aliéner en vertu de l'art. 960 ch. 1 CC, l'immeuble doit être saisi sous réserve de la procédure de revendication touchant la validité et les effets de l'annotation.
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A.- Das Grundstück Nr. 104 in Aesch (Luzern) ging infolge Kaufvertrages vom 20. April 1943 in das Eigentum der Frau Karolina Lang-Waller über. Diese schuldet dem Verkäufer Heinrich Stocker laut rechtskräftigem Urteil vom 12. Dezember 1945 einen restlichen Preisbetrag von Fr. 2500.--. Noch während des Forderungsprozesses belastete sie das Grundstück mit einer Pfandverschreibung zugunsten ihres Ehemannes Jakob Lang für ein Darlehen von Fr. 3000.-- und verkaufte es dann an Otto Gürber. In der für jene Preisforderung angehobenen Betreibung ging Stocker leer aus; er erhielt am 6. September 1946 einen definitiven Verlustschein im Betrage von Fr. 3005.95. Nun focht er mit Erfolg die von der Schuldnerin vorgenommene Grundpfandbelastung wie auch den Verkauf des Grundstückes an Gürber an (Urteile des luzernischen Obergerichtes vom 11. Juli 1951 und 13. Januar 1954). Gegen Gürber hatte er am 23. August 1949, vor Anhebung des Anfechtungsprozesses gegen ihn, eine gerichtliche Anordnung des Inhaltes erwirkt, dass auf dem in Frage stehenden Grundstück im Grundbuch eine Verfügungsbeschränkung "zur Sicherung der Ansprüche des Petenten in der Höhe von Fr. 3000. -" vorzumerken sei. Die Vormerkung vom 25. gleichen Monats lautet: "Verfügungsbeschränkung gemäss Art. 960 Ziff. 1 ZGB z. G. Stocker Heinrich, Aesch".
B.- Gürber verkaufte das Grundstück während des gegen ihn angehobenen Anfechtungsprozesses an Robert Hess weiter, der am 8. Januar 1954 als neuer Eigentümer eingetragen wurde. Die Schuldnerin versuchte den Verlustschein vom 6. September 1946 auf dem Beschwerdewege nichtig erklären zu lassen, was ihr aber nicht gelang (BGE 80 III 74). Als nun Stocker das Grundstück für die Verlustscheinsforderung pfänden lassen wollte, widersetzte sich Hess dem Vollzuge, und das Betreibungsamt hielt daher das Pfändungsbegehren für nicht vollziehbar. Es wurde dann aber auf Beschwerde des Gläubigers von der untern Aufsichtsbehörde angewiesen, das Grundstück zu pfänden, und die von der Schuldnerin und vom derzeit eingetragenen Grundeigentümer Hess angerufene obere kantonale Aufsichtsbehörde bestätigte diese Anordnung mit Entscheid vom 22. Juni 1955, im wesentlichen aus folgenden Gründen: Das nicht mehr auf den Namen der Schuldnerin eingetragene Grundstück kann unter besondern Umständen gleichwohl gepfändet werden, namentlich wenn der Gläubiger (gemäss Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG) glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Das trifft nun zunächst gegenüber dem Rechtsvorgänger des jetzt eingetragenen Eigentümers Hess, Otto Gürber, zu, denn er ist gemäss rechtskräftigem Anfechtungsurteil verpflichtet, das Grundstück zur Zwangsvollstreckung für die Verlustscheinsforderung des Heinrich Stocker zur Verfügung zu stellen. An dieses Urteil ist aber auch Hess gebunden, weil die zugunsten des Gläubigers vorgemerkte Verfügungsbeschränkung auch ihm gegenüber wirkt. Die Einwendung, die Verfügungsbeschränkung sei ungültig, weil zur Sicherung von Geldforderungen bestimmt, geht fehl; denn nach der Begründung der richterlichen Anordnung handelte es sich um die Sicherung eines paulianischen Anfechtungsanspruches, was durch solche Vormerkung geschehen darf (Homberger, N. 11 zu Art. 960 ZGB). Auch die summarische Formulierung der Vormerkung macht sie nicht unwirksam; sie wird durch die Belege erläutert. - Endlich bemerkt das Obergericht, nach der Pfändung werde nicht etwa ein Widerspruchsverfahren einzuleiten sein; denn die Rechtskraft des im Anfechtungsstreit ergangenen Urteils dürfe nicht mehr in Frage gestellt werden.
C.- Gegen diesen Entscheid haben die Schuldnerin und Hess rekurriert. Sie halten daran fest, dass die Pfändung unzulässig und die Beschwerde des Gläubigers unbegründet sei. Eventuell beantragen sie die Anordnung eines Widerspruchsverfahrens mit Klägerrolle des Gläubigers nach Art. 109 SchKG.
Erwägungen
Die Schuldbetreibungs- und Konkurskammer zieht in Erwägung:
1. In welchen Fällen ein nicht auf den Namen des betriebenen Schuldners eingetragenes Grundstück gleichwohl gepfändet werden darf, ist in Art. 10 Abs. 1 VZG näher bestimmt. Hier kommt nur Ziff. 3 daselbst in Frage, wonach ein solches Grundstück der Pfändung unterliegt, wenn der Gläubiger glaubhaft macht, dass der Grundbucheintrag unrichtig ist. Der angefochtene Entscheid bejaht diese Voraussetzung im vorliegenden Falle, weil der bestehende Eintrag auf Robert Hess das wirkliche Rechtsverhältnis nicht richtig wiedergebe. Denn nach dem im Anfechtungsprozess gegen Gürber ergangenen Urteil vom 13. Januar 1954 sei für den Gläubiger die Rechtslage die gleiche, wie wenn das Grundstück noch im Eigentum der Schuldnerin stünde. Gürber habe nach diesem Urteil nur formell als Eigentümer gelten können, der Gläubiger habe aber das Grundstück als Eigentum der Schuldnerin in Anspruch nehmen dürfen. Insoweit habe der Grundbucheintrag des Rechtsgrundes entbehrt und sei demnach unrichtig gewesen, was nun kraft der zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung auch gegenüber dem derzeit eingetragenen Hess gelte.
Diese Erwägungen legen indessen der Anfechtungsklage Wirkungen bei, die ihr nicht zukommen. Die Anfechtung nach Art. 285 ff. SchKG betrifft keineswegs die materielle Gültigkeit der Übertragung und zielt gar nicht darauf ab, den Eintrag des Eigentums auf den Dritten als unrichtig, d.h. ungerechtfertigt im Sinne von Art. 974/975 ZGB erklären zu lassen. Die durch das Urteil gegen Gürber erwiesene Anfechtbarkeit des Kaufvertrages hat den Übergang des Eigentums auf ihn nicht gehindert, sondern bloss ein auch ihm gegenüber wirksames Beschlagsrecht des Gläubigers Stocker begründet (vgl.BGE 47 III 92). Somit liegt der in Art. 10 Abs. 1 Ziff. 3 VZG vorgesehene Fall hier nicht vor. Allein diese Vorschrift erweist sich als zu eng. Dem gesetzgeberischen Grund, auf dem sie beruht, ist weitergehend Rechnung zu tragen durch analoge Berücksichtigung des Falles einer vom Schuldner in anfechtbarer Weise vorgenommenen Übertragung. Das dem Art. 10 VZG zugrunde liegende, allen daselbst genannten Tatbeständen gemeinsame Motiv ist die entgegen dem Grundbucheintrag bestehende Möglichkeit der Zwangsvollstreckung, das Recht also, auf ein nicht auf den Betriebenen als Eigentümer eingetragenes Grundstück zu greifen. Ein solches Beschlags- und Verwertungsrecht besteht nun aber nicht nur in den in Art. 10 VZG vorgesehenen Fällen, sondern ebenso bei der erfolgreichen Anfechtung eines Kaufvertrages, durch den sich der Schuldner einer Sache entäussert hat. Dergestalt findet Art. 10 VZG in den Bestimmungen über die Anfechtungsklage (Art. 291 SchKG) die notwendige Ergänzung. Ob bei Anrufung eines Anfechtungstatbestandes ebenfalls blosse Glaubhaftmachung genüge, um die Pfändung zu rechtfertigen, oder ob es hiezu eines rechtskräftigen die Anfechtbarkeit bejahenden Urteils bedürfe, mag hier dahingestellt bleiben.
2. Hätte somit das im Anfechtungsprozess von Stocker erstrittene Urteil einen Rechtstitel zur Pfändung des Grundstücks gegenüber dem Anfechtungsbeklagten Gürber gebildet, so bleibt zu prüfen, ob auch Hess, der in den Anfechtungsprozess nicht verwickelt war, die Pfändung dulden müsse. Damit wird die Frage nach der Gültigkeit und Tragweite der schon lange vor dem Eigentumserwerb des Hess zugunsten des Gläubigers vorgemerkten Verfügungsbeschränkung aufgeworfen. Denn ohne diese Vormerkung könnte das gegen Gürber ergangene Urteil nicht auch gegen Hess wirken. Dieser müsste vielmehr selber (als bösgläubiger Dritter) gemäss Art. 290 SchKG auch noch mit einer Anfechtungsklage belangt werden.
Nun erscheint mindestens als glaubhaft gemacht, dass Hess infolge der erwähnten Vormerkung sich die Pfändung des von Gürber anfechtbar erworbenen Grundstückes ebenfalls gefallen lassen muss. Denn vorgemerkt ist (und war bereits zur Zeit des Eigentumsüberganges auf Hess) eine Verfügungsbeschränkung zugunsten des Gläubigers Stocker. Freilich lässt das Dispositiv der ihr zugrunde liegenden gerichtlichen Anordnung nicht klar erkennen, welcher Art der durch die Vormerkung zu sichernde Anspruch sei. Erst den Erwägungen ist zu entnehmen, dass es um eine von Stocker beabsichtigte Anfechtung des zwischen der Schuldnerin und Gürber abgeschlossenen Kaufvertrages ging. Das genügt aber, um die mit der Vormerkung gewünschte Wirkung "gegenüber jedem später erworbenen Rechte" gemäss Art. 960 Abs. 2 ZGB glaubhaft zu machen. In der Lehre ist anerkannt, dass auch Anfechtungsansprüche durch Vormerkung auf Grund von Art. 960 Ziff. 1 ZGB sichergestellt werden können (Homberger, N. 11 hiezu), worauf die vorinstanzliche Entscheidung mit Recht hinweist.
3. Ist die Pfändung somit vorzunehmen, so wird dann aber entgegen der Ansicht der kantonalen Aufsichtsbehörde das in Art. 10 Abs. 2 VZG vorbehaltene Widerspruchsverfahren auch im vorliegenden Falle einzuleiten sein. Gewiss wäre für ein solches Verfahren kein Raum, wenn das Grundstück noch im Eigentum des Anfechtungsbeklagten Gürber stünde. Dieser könnte das im Anfechtungsprozesse rechtskräftig anerkannte Beschlags- und Verwertungsrecht des Gläubigers für die Verlustscheinsforderung nicht neuerdings in Frage stellen, wie sich aus dem von der Vorinstanz angeführten Entscheide (BGE 44 III 6f.) ergibt. Über die Gültigkeit der Vormerkung und über deren Wirkungen gegenüber dem neuen Eigentümer Hess ist aber noch kein Urteil ergangen. Den betreibungsrechtlichen Aufsichtsbehörden steht nicht zu, über dessen Einwendungen endgültig (abgesehen von der oben erörterten Glaubhaftmachung) zu entscheiden. Das kann nur in einem sich an die Pfändung anschliessenden Verfahren, eben im Widerspruchsverfahren der Art. 106 ff. SchKG, geschehen. Freilich wird, wenn Hess es auf den Prozess ankommen lässt, die Anfechtbarkeit des Kaufvertrages Lang/Gürber infolge des zwischen diesen Parteien ergangenen Urteils als feststehend zu gelten haben (vgl. LEUCH, N. 11 c zu Art. 192 der bernischen ZPO, über die sog. Tatbestandswirkung des Urteils gegenüber Dritten). Es wird dann im neuen Verfahren nur zu entscheiden bleiben, ob die Verfügungsbeschränkung in der vorliegenden Fassung genügt, um die damit beabsichtigte Wirkung gegenüber neuen Erwerbern des Grundstückes zu entfalten.
Dispositiv
Demnach erkennt die Schuldbetr.- u. Konkurskammer:
Der Rekurs wird im Sinne der Erwägungen abgewiesen.
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1. Quando dev'essere pignorato un immobile non iscritto al nome del debitore? Oltre ai casi previsti nell'art. 10 del regolamento concernente la realizzazione forzata di fondi, occorre prendere in considerazione il fatto che l'immobile è stato venduto dal debitore all'attuale proprietario iscritto nel registro in circostanze tali da giustificare l'impugnazione del negozio conformemente all'art. 285 e sgg. LEF. 2. Quando, in base a una sentenza divenuta esecutiva, il debitore ha trasferito l'immobile al predecessore in diritto dell'attuale proprietario iscritto nel registro in circostanze tali da giustificare la rivocazione del trasferimento, e già prima di questo trasferimento il creditore era al beneficio di una restrizione della facoltà di disporre in virtù dell'art. 960 cifra 1 CC, l'immobile dev'essere pignorato con riserva di una procedura di rivendicazione relativa alla validità e agli effetti dell'annotazione.
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81 IV 1
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Sachverhalt ab Seite 1
A.- Robert Wenger, geb. 1927, Sohn wiederholt vorbestrafter und liederlicher Eltern, zeigte sich schon vom dritten Altersjahr an in der Obhut von Pflegeeltern und später im Erziehungsheim Oberbipp und in der Anstalt Bächtelen als unverbesserlicher Lügner, Dieb und Vagabund. Einmal beging er auch Unzucht mit Kindern. Im Jahre 1943 wurde er in die Erziehungsanstalt Tessenberg versetzt. Wegen seines Charakters, mangelnder Begabung und Faulheit konnte ihm kein Beruf gelehrt werden. Im Jahre 1944 riss er aus, beging mehrere Einbruchsdiebstähle und versuchte, Fahrräder zu entwenden. Auf den Tessenberg zurückversetzt, simulierte er eine Geisteskrankheit. Er wurde daher in der Heil- und Pflegeanstalt Münsingen begutachtet, wobei der Sachverständige am 27. Dezember 1945 schloss, Wenger sei nicht geisteskrank, wohl aber ein haltloser, geltungssüchtiger und moralisch defekter und hochgradig gemeingefährlicher Psychopath, der für lange Zeit verwahrt werden sollte. Der Regierungsrat des Kantons Bern entsprach dem Antrag. Wenger weilte vom Februar 1946 bis Februar 1949 in der Abteilung für Jugendliche der Anstalt Witzwil. Bedingt entlassen, wurde er hierauf für eine Übergangszeit im Gutshof Enggistein untergebracht und hätte er bei Wohlverhalten anfangs April 1949 eine Stelle antreten können. Am Abend des 5. März 1949 verliess er den Hof. Er kehrte spät in der Nacht betrunken zurück und machte sich am folgenden Tage davon. Er versetzte Kleidungsstücke und andere Sachen und lockte zwei Pfarrern mit unwahren Angaben Geld ab Am 10. März 1949 wurde er mittellos in Chiasso festgenommen, als er im Begriffe war, nach Italien zu ziehen-Inzwischen war auch bekannt geworden, dass er seit seiner Entlassung aus der Anstalt Witzwil eine Handharmonika im Werte von Fr. 1100.-- gekauft hatte, obschon er kein Geld besass.
Am 26. April 1949 beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern, Wenger wegen Liederlichkeit, Haltlosigkeit und geistiger Minderwertigkeit in die Arbeitsanstalt Lindenhof einzuweisen. Nach Ablauf eines Jahres wurde Wenger mit der Weisung, vorerst während mindestens zwei Monaten im Gutshof Enggistein zu arbeiten, bedingt entlassen und unter Schutzaufsicht gestellt. Vier Tage nach seinem Eintritt in den Hof versuchte er am 10. April 1950 in Worb, eine Handharmonika im Werte von Fr. 800.-- zu erschwindeln. Er begann nachts zu streunen, knüpfte mit einem schlecht beleumdeten, geistig und körperlich zurückgebliebenen Mädchen ein intimes Verhältnis an und schwindelte ihm Fr. 140.-- ab. Schliesslich lief er von Enggistein fort und trat in der Nacht vom 5./6. Mai freiwillig in die Heil- und Pflegeanstalt Münsingen ein, eine Geisteskrankheit vortäuschend. Die Anstaltsdirektion bestätigte das Gutachten vom 27. Dezember 1945. In der Folge wurde Wenger nochmals in Enggistein aufgenommen. Er lief aber in der Nacht auf den 28. Juli 1950 wieder davon und stellte sich am folgenden Morgen in Witzwil. Da er auf der Flucht ein fremdes Fahrrad mitgenommen hatte, wurde er wegen Diebstahls zu zehn Tagen Gefängnis verurteilt. Im Herbst 1950 wurde er administrativ in die Arbeitserziehungsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Im August 1951 entliess man ihn probeweise unter der Bedingung, dass er sich vorerst mindestens sechs Monate lang im Arbeiterheim Tannenhof aufhalte. Dort kehrte er jedoch oft erst nach Mitternacht heim und war am folgenden Tage bei der Arbeit schlapp. Am 28. September 1951 riss er aus. Da er bald darauf in einem Gasthof die Zeche nicht beglich und eine Militäruniform wegnahm, wurde er verhaftet. Er gebärdete sich bei diesem Anlass wie ein Verrückter und wurde daher in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau versetzt. Dort gab er jedoch bald die Simulation von Geisteskrankheiten auf. Am 11. November 1951 wurde er wieder in den Tannenhof gewiesen. Die Untersuchung wegen Zechprellerei und Diebstahls war am Vortage aufgehoben worden.
Da Wenger den Tannenhof schon am 16. Dezember 1951 eigenmächtig wieder verliess und nach Birsfelden zog, wurde er im Februar 1952 administrativ in die Arbeitsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Am 25. März 1952 wies man ihn in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau ein, weil er gedroht hatte, er werde alle zur Domäne Witzwil gehörenden Scheunen in Brand stecken, sobald sie mit Getreide gefüllt sein würden. Die Diagnose der früheren Gutachten wurde bestätigt.
Ab 16. Mai 1952 war Wenger in der Arbeitsanstalt St. Johannsen. Da er einen Fluchtversuch unternahm, beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern am 6. Juni 1952, ihn in die Verwahrungsanstalt Thorberg zu versetzen. Wegen Platzmangels blieb Wenger aber zunächst im Bezirksgefängnis Bern. Zufolge Verwechslung mit einem anderen Wenger entliess man ihn dort am 23. Juni 1952, wies ihm auf einer Baustelle in Unterbach Arbeit an und rüstete ihn mit Kleidern und Schuhen aus.
B.- In der Nacht vom 24. auf den 25. Juni 1952 brach Wenger in Unterbach in eine Baukantine ein. Er stahl Zigaretten, Schokolade und Bargeld sowie von einem Lastwagen einen Zündschlüssel. Hierauf floh er nach Basel und Rheinfelden. Am Abend des 26. Juni 1952 zog er zu einem Landwirt in Effingen. Am folgenden Tage betastete er dem achtjährigen Töchterchen seines Gastgebers den Geschlechtsteil und versuchte ihm den Finger in die Scheide zu stossen. Am 28. Juni 1952 stahl er seinem Gastgeber Fr. 75.-. Am Abend des gleichen Tages mietete er in einem Gasthof in Mumpf ein Zimmer, und am folgenden Morgen borgte er beim Stiefsohne des Wirtes ein Kleid und ein Paar Schuhe. Er behielt diese Sachen, kehrte nicht zurück und blieb auch die Miete für das Zimmer schuldig. Am 29. Juni 1952 betrog er ein Mädchen um Fr. 50.-. Am 2. Juli 1952 stahl er in Thielle ein Fahrrad und verkaufte es in Le Landeron für Fr. 35.-. In der Nacht vom 2./3. Juli 1952 wurde er in Hellsau verhaftet. Bei der Einvernahme vom 5. Juli 1952 durch den Untersuchungsrichter schilderte er eingehend, wie er in der Nähe von Serrières einen unbekannten Österreicher während einer Kahnpartie getötet, beraubt und in den See geworfen habe. Die Überprüfung ergab, dass diese Angaben erfunden waren, was Wenger schliesslich auch gestand.
C.- Im Strafverfahren wurde Wenger psychiatrisch begutachtet. Der Sachverständige Dr. Hans Bührer kam am 7. August 1952 zum Schluss, der Angeschuldigte sei zur Zeit seiner Taten vollständig fähig gewesen, das Unrecht seiner Handlungen einzusehen und gemäss Einsicht zu handeln. Wenger sei körperlich und geistig gesund. Er sei ein moralisch defekter Psychopath. Sein Zustand erfordere keine ärztliche Behandlung und Wenger müsse auch nicht in einer Heil- oder Pflegeanstalt versorgt werden (Art. 15 StGB). Er gefährde die öffentliche Sicherheit und Ordnung. Er sei in hohem Grade gemeingefährlich und müsse daher verwahrt werden. Eine Verwahrung nach Art. 14 StGB komme aber angesichts der vollen Zurechnungsfähigkeit nicht in Frage. Wenger gehöre in eine Verwahrungsanstalt.
Das Amtsgericht Oberhasli, dem Gutachten folgend, erachtete Wenger als voll zurechnungsfähig, erklärte ihn wegen der in der Zeit vom 24. Juni bis 5. Juli 1952 begangenen strafbaren Handlungen des Diebstahls, der Veruntreuung, der Sachbeschädigung, des Betruges, der Zechprellerei, der Irreführung der Rechtspflege und der Unzucht mit einem Kinde schuldig, verurteilte ihn zu vier Jahren Zuchthaus und stellte ihn für vier Jahre in der bürgerlichen Ehrenfähigkeit ein.
D.- Das Obergericht des Kantons Bern, an das Wenger hinsichtlich der Strafzumessung appellierte, setzte am 24. April 1953 die Strafe auf zwei Jahre Gefängnis, abzüglich 41 Tage Untersuchungs- und Sicherheitshaft, herab, stellte den Strafvollzug ein und beschloss, Wenger gemäss Art. 14 StGB in einer Pflegeanstalt zu verwahren.
Das Obergericht führte aus, den Schlussfolgerungen des Sachverständigen könne nicht in allen Teilen beigepflichtet werden. Zwar seien nicht alle kriminellen Psychopathen vermindert zurechnungsfähig, sondern es sei im Einzelfalle zu prüfen, ob der Täter fähig gewesen sei, das Unrecht der Tat einzusehen und gemäss dieser Einsicht zu handeln. Die Zurechnungsfähigkeit sei aber jedenfalls dann vermindert, wenn die Psychopathie nach Art und Grad zu einem völlig abnormen Geisteszustand führe, d.h. in ihren Auswirkungen einer Geisteskrankheit gleichkomme. Wenger sei eine hochgradig moralisch defekte Person. Seine seit frühester Jugend zu Tage tretende Assozialität, seine Gefühlsroheit und Hemmungslosigkeit beim Begehen der Straftaten bewiesen das genügend. Die Einzelheiten jedoch zeigten, dass er mehr als ein blosser Psychopath sei. Es sei schon auffällig, dass er sich nicht nur in diesem Verfahren, sondern schon im Jahre 1944 vor der Polizei fälschlicherweise des Mordes bezichtet habe. Seine Geltungssucht wirke krankhaft. Er gebe sich immer wieder als gelernter Mechaniker, Traktor- oder Autocarführer, als Musiker oder Inhaber einer Handharmonikaschule aus. Er scheine überhaupt an einem "Handharmonika-Komplex" zu leiden. Sobald er in Freiheit sei, kaufe er sich eine teure Handharmonika, ohne einen Rappen Geld zu besitzen. In seiner Lebensbeschreibung ersuche er das Gericht um die Todesstrafe, weil sein Leben ohne chromatische Handorgel unbrauchbar sei, und in einem Schreiben an die "Herren Chirurgen" in London wolle er den englischen Studenten seinen Körper zum Zwecke der Erlernung chirurgischer Eingriffe und, falls ihm dabei etwas zustossen sollte, sein Skelett zu Studienzwecken zur Verfügung stellen, alles zum Preise einer chromatischen vierchörigen Handharmonika mit Registern. Er wende sich auch an den I. Adjunkten der Polizeidirektion des Kantons Bern, ersuchte ihn um Freilassung, um eine starke sozialkommunistische Arbeiterpartei zu gründen, und sichere ihm in der Distanzlosigkeit des Debilen den Posten eines Präsidenten dieser Partei zu. Wenger lebe in einer Welt, die mit der Wirklichkeit nichts mehr zu tun habe. Er sei denn auch tatsächlich nicht in der Lage, sein Leben in der Gemeinschaft anderer zu gestalten. Seine schwere Psychopathie und seine leichte Debilität, die in Verbindung mit seiner Geltungssucht den Charakter eines eigentlichen Salonblödsinnes angenommen habe, hätten zu einem ganz abnormen Geisteszustand geführt. Die Einsicht in das Unrecht seiner Taten habe ihm deswegen zwar nicht gefehlt, wohl aber sei seine Fähigkeit, gemäss seiner Einsicht zu handeln, etwas herabgesetzt gewesen. Er sei daher zumindest in leichtem Masse als vermindert zurechnungsfähig zu betrachten. - Wenger sei in sämtlichen über ihn abgegebenen psychiatrischen Gutachten als gemeingefährlich bezeichnet worden. Dass dem so sei, habe er genügend bewiesen. Er habe sich kaum je einen Tag lang in der Freiheit halten können, ohne straffällig zu werden. Seine Delikte hätten zwar bis heute noch nicht allzu grosse Ausmasse angenommen. Dem moralisch defekten, aggressiven und impulsiven Angeschuldigten seien jedoch nach Ansicht der Psychiater auch schwere Verbrechen zuzutrauen, und es müsse vor allem mit der Möglichkeit gerechnet werden, dass er seine Drohungen durch Brandstiftung oder Angriff auf das Leben anderer verwirkliche. Da Wenger vermindert zurechnungsfähig sei, die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährde und daher verwahrt werden müsse, jedoch keiner ärztlichen Behandlung bedürfe, seien die Voraussetzungen des Art. 14 StGB erfüllt.
E.- Wenger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrage, das Urteil des Obergerichts sei aufzuheben und die Sache zu neuer Entscheidung an diese Instanz zurückzuweisen. Er macht geltend, da das Obergericht dem Gutachten des Dr. Bührer nicht habe folgen wollen, hätte es ein Obergutachten einholen sollen; indem es das nicht getan und ohne genügende Grundlage angenommen habe, der Beschwerdeführer habe seine Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, habe es Art. 11 StGB verletzt. Sodann habe es Art. 14 StGB zu Unrecht angewendet. Diese Bestimmung setze ausser verminderter Zurechnungsfähigkeit und Gemeingefährlichkeit des Täters dessen Heil- oder Pflegebedürftigkeit voraus. Der Beschwerdeführer aber habe nach den psychiatrischen Gutachten weder eine Heilbehandlung noch Pflege nötig. Das Obergericht nehme das auch gar nicht an; die Notwendigkeit ärztlicher Behandlung verneine es sogar ausdrücklich.
F.- Der Generalprokurator des Kantons Bern beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Indem das Obergericht entgegen dem Sachverständigen Dr. Bührer angenommen hat, der Beschwerdeführer habe die ihm zur Last gelegten Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, hat es nicht gegen eidgenössisches Recht verstossen. Weder Art. 11 StGB noch eine andere Bestimmung des Bundesrechts verbietet dem Richter, einen bestimmten biologisch-psychologischen Sachverhalt, den er als verminderte Zurechnungsfähigkeit würdigt, anders als durch ein psychiatrisches Gutachten festzustellen, noch ist der Richter verpflichtet, einem Gutachten, das er eingeholt hat, unbesehen zu folgen (BGE 75 IV 148). Der Kassationshof hat auf Nichtigkeitsbeschwerde hin auch nicht zu prüfen, ob der von der kantonalen Behörde ermittelte Sachverhalt in den Akten eine genügende Grundlage hat. Denn er ist an tatsächliche Feststellungen gebunden (Art. 277bis Abs. 1, 273 Abs. 1 lit. b BStP) und hat lediglich zu entscheiden, ob die festgestellten Tatsachen rechtlich richtig gewürdigt worden sind, im vorliegenden Falle also, ob der biologischpsychologische Zustand, in dem der Beschwerdeführer nach Auffassung des Obergerichts seine Verbrechen und Vergehen begangen hat, die rechtlichen Merkmale der verminderten Zurechnungsfähigkeit aufweist. Dass das nicht der Fall sei, macht jedoch der Beschwerdeführer nicht geltend. Es Ist denn auch nicht zu ersehen, inwiefern das Obergericht den Rechtsbegriff der Verminderung der Zurechnungsfähigkeit verkannt haben könnte. Zwar ist der Begriff des normalen Menschen nicht eng zu fassen (BGE 78 IV 212). Das hat das Obergericht aber nicht getan, indem es dem Beschwerdeführer angesichts seines ganzen Vorlebens und seines sonderbaren Verhaltens einen geringfügigen Teil der Willensfreiheit abgesprochen hat, die der Mensch normalerweise besitzt.
2. Art. 14 StGB bestimmt: "Gefährdet der unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter die öffentliche Sicherheit oder Ordnung, und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, so ordnet der Richter diese Verwahrung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein."
InBGE 73 IV 151hat der Kassationshof angenommen, es sei dann im Sinne dieser Bestimmung notwendig, den die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährdenden vermindert zurechnungsfähigen Täter in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, wenn er entweder einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (vgl. auch schonBGE 71 IV 71). Das wurde daraus abgeleitet, dass Art. 14 gleich wie Art. 15, der um der "Behandlung" oder "Versorgung" des Täters willen erlassen worden ist, von einer Heil- oder Pflegeanstalt spricht.
Diese Rechtsprechung entspricht dem wahren Sinne des Art. 14 Abs. 1 StGB indessen nicht und ist denn auch schon in einem Urteil vom 28. September 1951 in Sachen Rittermann aufgegeben worden.
Es fehlt ein Grund, der den Gesetzgeber bewogen haben könnte, die Verwahrung Unzurechnungsfähiger oder vermindert Zurechnungsfähiger, die die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährden, nur dann zu gestatten, wenn sie behandlungs- oder pflegebedürftig sind. Mit den Behandlungs- und den Pflegebedürftigen befasst sich Art. 15, lautend: "Erfordert der Zustand des unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Täters seine Behandlung oder Versorgung in einer Heil- oder Pflegeanstalt, so ordnet der Richter diese Behandlung oder Versorgung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein." Neben dieser Bestimmung wäre Art. 14 überflüssig, wenn er voraussetzte, dass die Einweisung in eine Heil- oder Pflegeanstalt wegen Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters notwendig sei. Die Einweisung kann und muss, wenn diese Voraussetzung zutrifft, schon nach Art. 15 erfolgen. Nur weil Verwahrung die "strengere Form" sei als die Versorgung (vgl. ZStrR 62 59), kann Art. 14 nicht aufgestellt worden sein, umsoweniger als dieser Sinn nur zwischen den Zeilen herausgelesen werden müsste. Art. 14 hätte auch nicht etwa die über Art. 15 hinausgehende Wirkung, dass der Eingewiesene nach der Heilung oder nach dem Hinfall der Pflegebedürftigkeit noch weiter verwahrt werden dürfte. Nach der Heilung des Täters ist die öffentliche Sicherheit oder Ordnung nicht mehr gefährdet, und wenn Fälle denkbar sind, in denen nach Hinfall der Pflegebedürftigkeit diese Gefährdung noch weiterbesteht, so könnte es doch nicht der Sinn des Art. 14 sein, dass der Eingewiesene nur ihretwegen weiterverwahrt werden dürfte; es wäre nicht zu verstehen, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung allein kein Grund zur Anordnung der Verwahrung, wohl aber Grund zu ihrer Aufrechterhaltung wäre; das widerspräche Art. 17 Ziff. 2 Abs. 1, wonach die Verwahrung nicht länger dauern soll als der Grund, der zu ihr Anlass gegeben hat. Art. 14 ist nur sinnvoll, wenn er die Verwahrung ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters einzig wegen der Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung gestattet. Es wäre auch verwunderlich, wenn das Strafgesetzbuch sich zwar der Behandlungs- oder Pflegebedürftigen annähme - und das gerade in zwei Bestimmungen (Art. 14 und 15) -, den Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung vor anderen unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Tätern dagegen vernachlässigte. Es kennt die Verwahrung rein zur Sicherung der Gesellschaft schon in Art. 42. Daher liegt nahe, dass ihr auch Art. 14 ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters dienen will. Hiefür spricht auch Art. 12 MStG, wonach der Militärrichter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen, der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdet und dessen Verwahrung geboten erscheint, schon allein wegen dieser Gefährdung der bürgerlichen Verwaltungsbehörde zu überweisen hat. Das Strafgesetzbuch müsste eine entsprechende Bestimmung enthalten, wenn der bürgerliche Richter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nicht ohne Rücksicht auf seine Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit selber in Verwahrung setzen dürfte. Dass die Öffentlichkeit nur vor dem Heilbaren oder dem Pflegebedürftigen geschützt werde, kann es schon deshalb nicht wollen, weil der weder heilbare noch pflegebedürftige Unzurechnungsfähige oder vermindert Zurechnungsfähige die öffentliche Sicherheit und Ordnung in ebenso hohem Masse gefährden kann, ja sie gewöhnlich noch mehr gefährdet als der Behandlungs- oder Pflegebedürftige.
Ein gegenteiliger Schluss lässt sich nicht daraus ziehen, dass Art. 14 StGB bestimmt, die Verwahrung sei in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" zu vollziehen. Es ist nicht zu ersehen, weshalb diese Norm die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit nur in so verkappter Form zur Voraussetzung der Verwahrung erheben würde, statt sie ausdrücklich zu verlangen, wie Art. 15 Abs. 1 StGB es tut. Die Worte in Art. 14 Abs. 1 "und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren", haben einen vernünftigen Sinn auch dann, wenn die Betonung nicht auf "Heil" und "Pflege", sondern auf "notwendig" und "verwahren" gelegt wird: Der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdende unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter soll nur dann nach Art. 14 verwahrt werden, wenn diese Verwahrung (auf unbestimmte Zeit) notwendig ist. Kann die Gefahr für die öffentliche Sicherheit oder Ordnung anders behoben werden, z.B. durch Vollzug einer langen Freiheitsstrafe, Verwahrung nach Art. 42, Bevormundung, Massnahmen nach kantonalem Verwaltungsrecht, Beaufsichtigung durch Angehörige, so soll der Richter Art. 14 nicht anwenden.
Gewiss leuchtet nicht ohne weiteres ein, weshalb in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" auch Personen verwahrt werden sollen, die weder geheilt werden können, noch gepflegt werden müssen. Es gibt denn auch Psychiater, die es für unzweckmässig halten, gewisse Kategorien solcher Rechtsbrecher in die von ihnen geleiteten Anstalten einzuweisen (vgl. BLEULER, ZStrR 58 14; WYRSCH, ZStrR 59 13 f., 68 19 ff.; DUKOR, ZStrR 59 292; KIELHOLZ, ZStrR 60 238). Geradezu sinnlos ist diese Ordnung jedoch nicht. Dass dem zu Verwahrenden die Zurechnungsfähigkeit ganz oder teilweise fehlt, kann allein schon als genügender Grund erachtet worden sein, unter den vorhandenen Anstalten die Heil- und die Pflegeanstalten, die ja vorwiegend vermindert Zurechnungsfähige und Unzurechnungsfähige beherbergen, als die geeignetsten Verwahrungsorte zu betrachten. Die Errichtung besonderer Anstalten zur Verwahrung unheilbarer und nicht pflegebedürftiger vermindert Zurechnungsfähiger und Unzurechnungsfähiger kam nicht in Frage, und die Einweisung in Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher im Sinne des Art. 42 StGB oder in Strafanstalten widerspräche den berechtigten Interessen des Einzuweisenden. Wie schon in Sachen Rittermann ausgeführt wurde, ist übrigens weder der Begriff der Heilanstalt noch der der Pflegeanstalt so eng, dass darunter, Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher und Strafanstalten ausgenommen, nicht irgendwelche Anstalt verstanden werden könnte, die die Öffentlichkeit vor ihren Insassen, ohne diese einer Heilbehandlung zu unterziehen oder sie zu pflegen, in geeigneter Weise schützt. Nur wenn der zu Verwahrende einer Heilbehandlung oder der Pflege bedarf, muss die Massnahme in einer Anstalt vollzogen werden, in der geheilt bzw. gepflegt werden kann. Dann aber hat der Richter es nicht bei der Anwendung des Art. 14 StGB bewenden zu lassen, der sich mit den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nur unter dem Gesichtspunkt der Verwahrung (internement, internamento; vgl. Randtitel), d.h. einer dem Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung dienenden reinen Absonderung von der Gesellschaft, befasst, sondern ausdrücklich daneben auch Heilbehandlung oder Pflege im Sinne des Art. 15 StGB anzuordnen.
Der Bundesrat, der in zwei Entscheidungen vom 21. Oktober 1946 und 26. April 1947 i.S. Keller von der Auffassung ausgegangen ist, die Verwahrung nach Art. 14 StGB setze voraus, dass der Täter einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (ZStrR 62 59, 399), hat denn auch am 27. Dezember 1954 in einem Meinungsaustausch mit dem Kassationshof dessen gegenteiligen neuen Rechtsprechung beigepflichtet.
Dass der Beschwerdeführer weder einer Heilbehandlung noch der Pflege bedarf, steht somit seiner Verwahrung nicht im Wege.
3. Nach den vorinstanzlichen Feststellungen über das Vorleben des Beschwerdeführers liegt auf der Hand, dass er die öffentliche Sicherheit gefährdet und die Gefahr nur durch Verwahrung behoben werden kann. Das wird denn auch mit der Beschwerde nicht bestritten. Auch steht ausser Frage, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit auf die Verminderung der Zurechnungsfähigkeit zurückzuführen ist. Alle Voraussetzungen zur Anwendung des Art. 14 StGB sind daher erfüllt.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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1. Art. 13 StGB. Der Richter darf den Sachverhalt, den er als Beeinträchtigung der Zurechnungsfähigkeit würdigt, auch ohne psychiatrisches Gutachten oder in Abweichung von einem solchen feststellen (Erw. 1). 2. Art. 14 StGB setzt nicht voraus, dass der Täter geheilt werden könne oder gepflegt werden müsse (Erw. 2).
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criminal law and criminal procedure
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Sachverhalt ab Seite 1
A.- Robert Wenger, geb. 1927, Sohn wiederholt vorbestrafter und liederlicher Eltern, zeigte sich schon vom dritten Altersjahr an in der Obhut von Pflegeeltern und später im Erziehungsheim Oberbipp und in der Anstalt Bächtelen als unverbesserlicher Lügner, Dieb und Vagabund. Einmal beging er auch Unzucht mit Kindern. Im Jahre 1943 wurde er in die Erziehungsanstalt Tessenberg versetzt. Wegen seines Charakters, mangelnder Begabung und Faulheit konnte ihm kein Beruf gelehrt werden. Im Jahre 1944 riss er aus, beging mehrere Einbruchsdiebstähle und versuchte, Fahrräder zu entwenden. Auf den Tessenberg zurückversetzt, simulierte er eine Geisteskrankheit. Er wurde daher in der Heil- und Pflegeanstalt Münsingen begutachtet, wobei der Sachverständige am 27. Dezember 1945 schloss, Wenger sei nicht geisteskrank, wohl aber ein haltloser, geltungssüchtiger und moralisch defekter und hochgradig gemeingefährlicher Psychopath, der für lange Zeit verwahrt werden sollte. Der Regierungsrat des Kantons Bern entsprach dem Antrag. Wenger weilte vom Februar 1946 bis Februar 1949 in der Abteilung für Jugendliche der Anstalt Witzwil. Bedingt entlassen, wurde er hierauf für eine Übergangszeit im Gutshof Enggistein untergebracht und hätte er bei Wohlverhalten anfangs April 1949 eine Stelle antreten können. Am Abend des 5. März 1949 verliess er den Hof. Er kehrte spät in der Nacht betrunken zurück und machte sich am folgenden Tage davon. Er versetzte Kleidungsstücke und andere Sachen und lockte zwei Pfarrern mit unwahren Angaben Geld ab Am 10. März 1949 wurde er mittellos in Chiasso festgenommen, als er im Begriffe war, nach Italien zu ziehen-Inzwischen war auch bekannt geworden, dass er seit seiner Entlassung aus der Anstalt Witzwil eine Handharmonika im Werte von Fr. 1100.-- gekauft hatte, obschon er kein Geld besass.
Am 26. April 1949 beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern, Wenger wegen Liederlichkeit, Haltlosigkeit und geistiger Minderwertigkeit in die Arbeitsanstalt Lindenhof einzuweisen. Nach Ablauf eines Jahres wurde Wenger mit der Weisung, vorerst während mindestens zwei Monaten im Gutshof Enggistein zu arbeiten, bedingt entlassen und unter Schutzaufsicht gestellt. Vier Tage nach seinem Eintritt in den Hof versuchte er am 10. April 1950 in Worb, eine Handharmonika im Werte von Fr. 800.-- zu erschwindeln. Er begann nachts zu streunen, knüpfte mit einem schlecht beleumdeten, geistig und körperlich zurückgebliebenen Mädchen ein intimes Verhältnis an und schwindelte ihm Fr. 140.-- ab. Schliesslich lief er von Enggistein fort und trat in der Nacht vom 5./6. Mai freiwillig in die Heil- und Pflegeanstalt Münsingen ein, eine Geisteskrankheit vortäuschend. Die Anstaltsdirektion bestätigte das Gutachten vom 27. Dezember 1945. In der Folge wurde Wenger nochmals in Enggistein aufgenommen. Er lief aber in der Nacht auf den 28. Juli 1950 wieder davon und stellte sich am folgenden Morgen in Witzwil. Da er auf der Flucht ein fremdes Fahrrad mitgenommen hatte, wurde er wegen Diebstahls zu zehn Tagen Gefängnis verurteilt. Im Herbst 1950 wurde er administrativ in die Arbeitserziehungsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Im August 1951 entliess man ihn probeweise unter der Bedingung, dass er sich vorerst mindestens sechs Monate lang im Arbeiterheim Tannenhof aufhalte. Dort kehrte er jedoch oft erst nach Mitternacht heim und war am folgenden Tage bei der Arbeit schlapp. Am 28. September 1951 riss er aus. Da er bald darauf in einem Gasthof die Zeche nicht beglich und eine Militäruniform wegnahm, wurde er verhaftet. Er gebärdete sich bei diesem Anlass wie ein Verrückter und wurde daher in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau versetzt. Dort gab er jedoch bald die Simulation von Geisteskrankheiten auf. Am 11. November 1951 wurde er wieder in den Tannenhof gewiesen. Die Untersuchung wegen Zechprellerei und Diebstahls war am Vortage aufgehoben worden.
Da Wenger den Tannenhof schon am 16. Dezember 1951 eigenmächtig wieder verliess und nach Birsfelden zog, wurde er im Februar 1952 administrativ in die Arbeitsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Am 25. März 1952 wies man ihn in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau ein, weil er gedroht hatte, er werde alle zur Domäne Witzwil gehörenden Scheunen in Brand stecken, sobald sie mit Getreide gefüllt sein würden. Die Diagnose der früheren Gutachten wurde bestätigt.
Ab 16. Mai 1952 war Wenger in der Arbeitsanstalt St. Johannsen. Da er einen Fluchtversuch unternahm, beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern am 6. Juni 1952, ihn in die Verwahrungsanstalt Thorberg zu versetzen. Wegen Platzmangels blieb Wenger aber zunächst im Bezirksgefängnis Bern. Zufolge Verwechslung mit einem anderen Wenger entliess man ihn dort am 23. Juni 1952, wies ihm auf einer Baustelle in Unterbach Arbeit an und rüstete ihn mit Kleidern und Schuhen aus.
B.- In der Nacht vom 24. auf den 25. Juni 1952 brach Wenger in Unterbach in eine Baukantine ein. Er stahl Zigaretten, Schokolade und Bargeld sowie von einem Lastwagen einen Zündschlüssel. Hierauf floh er nach Basel und Rheinfelden. Am Abend des 26. Juni 1952 zog er zu einem Landwirt in Effingen. Am folgenden Tage betastete er dem achtjährigen Töchterchen seines Gastgebers den Geschlechtsteil und versuchte ihm den Finger in die Scheide zu stossen. Am 28. Juni 1952 stahl er seinem Gastgeber Fr. 75.-. Am Abend des gleichen Tages mietete er in einem Gasthof in Mumpf ein Zimmer, und am folgenden Morgen borgte er beim Stiefsohne des Wirtes ein Kleid und ein Paar Schuhe. Er behielt diese Sachen, kehrte nicht zurück und blieb auch die Miete für das Zimmer schuldig. Am 29. Juni 1952 betrog er ein Mädchen um Fr. 50.-. Am 2. Juli 1952 stahl er in Thielle ein Fahrrad und verkaufte es in Le Landeron für Fr. 35.-. In der Nacht vom 2./3. Juli 1952 wurde er in Hellsau verhaftet. Bei der Einvernahme vom 5. Juli 1952 durch den Untersuchungsrichter schilderte er eingehend, wie er in der Nähe von Serrières einen unbekannten Österreicher während einer Kahnpartie getötet, beraubt und in den See geworfen habe. Die Überprüfung ergab, dass diese Angaben erfunden waren, was Wenger schliesslich auch gestand.
C.- Im Strafverfahren wurde Wenger psychiatrisch begutachtet. Der Sachverständige Dr. Hans Bührer kam am 7. August 1952 zum Schluss, der Angeschuldigte sei zur Zeit seiner Taten vollständig fähig gewesen, das Unrecht seiner Handlungen einzusehen und gemäss Einsicht zu handeln. Wenger sei körperlich und geistig gesund. Er sei ein moralisch defekter Psychopath. Sein Zustand erfordere keine ärztliche Behandlung und Wenger müsse auch nicht in einer Heil- oder Pflegeanstalt versorgt werden (Art. 15 StGB). Er gefährde die öffentliche Sicherheit und Ordnung. Er sei in hohem Grade gemeingefährlich und müsse daher verwahrt werden. Eine Verwahrung nach Art. 14 StGB komme aber angesichts der vollen Zurechnungsfähigkeit nicht in Frage. Wenger gehöre in eine Verwahrungsanstalt.
Das Amtsgericht Oberhasli, dem Gutachten folgend, erachtete Wenger als voll zurechnungsfähig, erklärte ihn wegen der in der Zeit vom 24. Juni bis 5. Juli 1952 begangenen strafbaren Handlungen des Diebstahls, der Veruntreuung, der Sachbeschädigung, des Betruges, der Zechprellerei, der Irreführung der Rechtspflege und der Unzucht mit einem Kinde schuldig, verurteilte ihn zu vier Jahren Zuchthaus und stellte ihn für vier Jahre in der bürgerlichen Ehrenfähigkeit ein.
D.- Das Obergericht des Kantons Bern, an das Wenger hinsichtlich der Strafzumessung appellierte, setzte am 24. April 1953 die Strafe auf zwei Jahre Gefängnis, abzüglich 41 Tage Untersuchungs- und Sicherheitshaft, herab, stellte den Strafvollzug ein und beschloss, Wenger gemäss Art. 14 StGB in einer Pflegeanstalt zu verwahren.
Das Obergericht führte aus, den Schlussfolgerungen des Sachverständigen könne nicht in allen Teilen beigepflichtet werden. Zwar seien nicht alle kriminellen Psychopathen vermindert zurechnungsfähig, sondern es sei im Einzelfalle zu prüfen, ob der Täter fähig gewesen sei, das Unrecht der Tat einzusehen und gemäss dieser Einsicht zu handeln. Die Zurechnungsfähigkeit sei aber jedenfalls dann vermindert, wenn die Psychopathie nach Art und Grad zu einem völlig abnormen Geisteszustand führe, d.h. in ihren Auswirkungen einer Geisteskrankheit gleichkomme. Wenger sei eine hochgradig moralisch defekte Person. Seine seit frühester Jugend zu Tage tretende Assozialität, seine Gefühlsroheit und Hemmungslosigkeit beim Begehen der Straftaten bewiesen das genügend. Die Einzelheiten jedoch zeigten, dass er mehr als ein blosser Psychopath sei. Es sei schon auffällig, dass er sich nicht nur in diesem Verfahren, sondern schon im Jahre 1944 vor der Polizei fälschlicherweise des Mordes bezichtet habe. Seine Geltungssucht wirke krankhaft. Er gebe sich immer wieder als gelernter Mechaniker, Traktor- oder Autocarführer, als Musiker oder Inhaber einer Handharmonikaschule aus. Er scheine überhaupt an einem "Handharmonika-Komplex" zu leiden. Sobald er in Freiheit sei, kaufe er sich eine teure Handharmonika, ohne einen Rappen Geld zu besitzen. In seiner Lebensbeschreibung ersuche er das Gericht um die Todesstrafe, weil sein Leben ohne chromatische Handorgel unbrauchbar sei, und in einem Schreiben an die "Herren Chirurgen" in London wolle er den englischen Studenten seinen Körper zum Zwecke der Erlernung chirurgischer Eingriffe und, falls ihm dabei etwas zustossen sollte, sein Skelett zu Studienzwecken zur Verfügung stellen, alles zum Preise einer chromatischen vierchörigen Handharmonika mit Registern. Er wende sich auch an den I. Adjunkten der Polizeidirektion des Kantons Bern, ersuchte ihn um Freilassung, um eine starke sozialkommunistische Arbeiterpartei zu gründen, und sichere ihm in der Distanzlosigkeit des Debilen den Posten eines Präsidenten dieser Partei zu. Wenger lebe in einer Welt, die mit der Wirklichkeit nichts mehr zu tun habe. Er sei denn auch tatsächlich nicht in der Lage, sein Leben in der Gemeinschaft anderer zu gestalten. Seine schwere Psychopathie und seine leichte Debilität, die in Verbindung mit seiner Geltungssucht den Charakter eines eigentlichen Salonblödsinnes angenommen habe, hätten zu einem ganz abnormen Geisteszustand geführt. Die Einsicht in das Unrecht seiner Taten habe ihm deswegen zwar nicht gefehlt, wohl aber sei seine Fähigkeit, gemäss seiner Einsicht zu handeln, etwas herabgesetzt gewesen. Er sei daher zumindest in leichtem Masse als vermindert zurechnungsfähig zu betrachten. - Wenger sei in sämtlichen über ihn abgegebenen psychiatrischen Gutachten als gemeingefährlich bezeichnet worden. Dass dem so sei, habe er genügend bewiesen. Er habe sich kaum je einen Tag lang in der Freiheit halten können, ohne straffällig zu werden. Seine Delikte hätten zwar bis heute noch nicht allzu grosse Ausmasse angenommen. Dem moralisch defekten, aggressiven und impulsiven Angeschuldigten seien jedoch nach Ansicht der Psychiater auch schwere Verbrechen zuzutrauen, und es müsse vor allem mit der Möglichkeit gerechnet werden, dass er seine Drohungen durch Brandstiftung oder Angriff auf das Leben anderer verwirkliche. Da Wenger vermindert zurechnungsfähig sei, die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährde und daher verwahrt werden müsse, jedoch keiner ärztlichen Behandlung bedürfe, seien die Voraussetzungen des Art. 14 StGB erfüllt.
E.- Wenger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrage, das Urteil des Obergerichts sei aufzuheben und die Sache zu neuer Entscheidung an diese Instanz zurückzuweisen. Er macht geltend, da das Obergericht dem Gutachten des Dr. Bührer nicht habe folgen wollen, hätte es ein Obergutachten einholen sollen; indem es das nicht getan und ohne genügende Grundlage angenommen habe, der Beschwerdeführer habe seine Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, habe es Art. 11 StGB verletzt. Sodann habe es Art. 14 StGB zu Unrecht angewendet. Diese Bestimmung setze ausser verminderter Zurechnungsfähigkeit und Gemeingefährlichkeit des Täters dessen Heil- oder Pflegebedürftigkeit voraus. Der Beschwerdeführer aber habe nach den psychiatrischen Gutachten weder eine Heilbehandlung noch Pflege nötig. Das Obergericht nehme das auch gar nicht an; die Notwendigkeit ärztlicher Behandlung verneine es sogar ausdrücklich.
F.- Der Generalprokurator des Kantons Bern beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Indem das Obergericht entgegen dem Sachverständigen Dr. Bührer angenommen hat, der Beschwerdeführer habe die ihm zur Last gelegten Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, hat es nicht gegen eidgenössisches Recht verstossen. Weder Art. 11 StGB noch eine andere Bestimmung des Bundesrechts verbietet dem Richter, einen bestimmten biologisch-psychologischen Sachverhalt, den er als verminderte Zurechnungsfähigkeit würdigt, anders als durch ein psychiatrisches Gutachten festzustellen, noch ist der Richter verpflichtet, einem Gutachten, das er eingeholt hat, unbesehen zu folgen (BGE 75 IV 148). Der Kassationshof hat auf Nichtigkeitsbeschwerde hin auch nicht zu prüfen, ob der von der kantonalen Behörde ermittelte Sachverhalt in den Akten eine genügende Grundlage hat. Denn er ist an tatsächliche Feststellungen gebunden (Art. 277bis Abs. 1, 273 Abs. 1 lit. b BStP) und hat lediglich zu entscheiden, ob die festgestellten Tatsachen rechtlich richtig gewürdigt worden sind, im vorliegenden Falle also, ob der biologischpsychologische Zustand, in dem der Beschwerdeführer nach Auffassung des Obergerichts seine Verbrechen und Vergehen begangen hat, die rechtlichen Merkmale der verminderten Zurechnungsfähigkeit aufweist. Dass das nicht der Fall sei, macht jedoch der Beschwerdeführer nicht geltend. Es Ist denn auch nicht zu ersehen, inwiefern das Obergericht den Rechtsbegriff der Verminderung der Zurechnungsfähigkeit verkannt haben könnte. Zwar ist der Begriff des normalen Menschen nicht eng zu fassen (BGE 78 IV 212). Das hat das Obergericht aber nicht getan, indem es dem Beschwerdeführer angesichts seines ganzen Vorlebens und seines sonderbaren Verhaltens einen geringfügigen Teil der Willensfreiheit abgesprochen hat, die der Mensch normalerweise besitzt.
2. Art. 14 StGB bestimmt: "Gefährdet der unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter die öffentliche Sicherheit oder Ordnung, und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, so ordnet der Richter diese Verwahrung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein."
InBGE 73 IV 151hat der Kassationshof angenommen, es sei dann im Sinne dieser Bestimmung notwendig, den die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährdenden vermindert zurechnungsfähigen Täter in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, wenn er entweder einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (vgl. auch schonBGE 71 IV 71). Das wurde daraus abgeleitet, dass Art. 14 gleich wie Art. 15, der um der "Behandlung" oder "Versorgung" des Täters willen erlassen worden ist, von einer Heil- oder Pflegeanstalt spricht.
Diese Rechtsprechung entspricht dem wahren Sinne des Art. 14 Abs. 1 StGB indessen nicht und ist denn auch schon in einem Urteil vom 28. September 1951 in Sachen Rittermann aufgegeben worden.
Es fehlt ein Grund, der den Gesetzgeber bewogen haben könnte, die Verwahrung Unzurechnungsfähiger oder vermindert Zurechnungsfähiger, die die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährden, nur dann zu gestatten, wenn sie behandlungs- oder pflegebedürftig sind. Mit den Behandlungs- und den Pflegebedürftigen befasst sich Art. 15, lautend: "Erfordert der Zustand des unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Täters seine Behandlung oder Versorgung in einer Heil- oder Pflegeanstalt, so ordnet der Richter diese Behandlung oder Versorgung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein." Neben dieser Bestimmung wäre Art. 14 überflüssig, wenn er voraussetzte, dass die Einweisung in eine Heil- oder Pflegeanstalt wegen Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters notwendig sei. Die Einweisung kann und muss, wenn diese Voraussetzung zutrifft, schon nach Art. 15 erfolgen. Nur weil Verwahrung die "strengere Form" sei als die Versorgung (vgl. ZStrR 62 59), kann Art. 14 nicht aufgestellt worden sein, umsoweniger als dieser Sinn nur zwischen den Zeilen herausgelesen werden müsste. Art. 14 hätte auch nicht etwa die über Art. 15 hinausgehende Wirkung, dass der Eingewiesene nach der Heilung oder nach dem Hinfall der Pflegebedürftigkeit noch weiter verwahrt werden dürfte. Nach der Heilung des Täters ist die öffentliche Sicherheit oder Ordnung nicht mehr gefährdet, und wenn Fälle denkbar sind, in denen nach Hinfall der Pflegebedürftigkeit diese Gefährdung noch weiterbesteht, so könnte es doch nicht der Sinn des Art. 14 sein, dass der Eingewiesene nur ihretwegen weiterverwahrt werden dürfte; es wäre nicht zu verstehen, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung allein kein Grund zur Anordnung der Verwahrung, wohl aber Grund zu ihrer Aufrechterhaltung wäre; das widerspräche Art. 17 Ziff. 2 Abs. 1, wonach die Verwahrung nicht länger dauern soll als der Grund, der zu ihr Anlass gegeben hat. Art. 14 ist nur sinnvoll, wenn er die Verwahrung ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters einzig wegen der Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung gestattet. Es wäre auch verwunderlich, wenn das Strafgesetzbuch sich zwar der Behandlungs- oder Pflegebedürftigen annähme - und das gerade in zwei Bestimmungen (Art. 14 und 15) -, den Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung vor anderen unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Tätern dagegen vernachlässigte. Es kennt die Verwahrung rein zur Sicherung der Gesellschaft schon in Art. 42. Daher liegt nahe, dass ihr auch Art. 14 ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters dienen will. Hiefür spricht auch Art. 12 MStG, wonach der Militärrichter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen, der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdet und dessen Verwahrung geboten erscheint, schon allein wegen dieser Gefährdung der bürgerlichen Verwaltungsbehörde zu überweisen hat. Das Strafgesetzbuch müsste eine entsprechende Bestimmung enthalten, wenn der bürgerliche Richter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nicht ohne Rücksicht auf seine Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit selber in Verwahrung setzen dürfte. Dass die Öffentlichkeit nur vor dem Heilbaren oder dem Pflegebedürftigen geschützt werde, kann es schon deshalb nicht wollen, weil der weder heilbare noch pflegebedürftige Unzurechnungsfähige oder vermindert Zurechnungsfähige die öffentliche Sicherheit und Ordnung in ebenso hohem Masse gefährden kann, ja sie gewöhnlich noch mehr gefährdet als der Behandlungs- oder Pflegebedürftige.
Ein gegenteiliger Schluss lässt sich nicht daraus ziehen, dass Art. 14 StGB bestimmt, die Verwahrung sei in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" zu vollziehen. Es ist nicht zu ersehen, weshalb diese Norm die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit nur in so verkappter Form zur Voraussetzung der Verwahrung erheben würde, statt sie ausdrücklich zu verlangen, wie Art. 15 Abs. 1 StGB es tut. Die Worte in Art. 14 Abs. 1 "und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren", haben einen vernünftigen Sinn auch dann, wenn die Betonung nicht auf "Heil" und "Pflege", sondern auf "notwendig" und "verwahren" gelegt wird: Der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdende unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter soll nur dann nach Art. 14 verwahrt werden, wenn diese Verwahrung (auf unbestimmte Zeit) notwendig ist. Kann die Gefahr für die öffentliche Sicherheit oder Ordnung anders behoben werden, z.B. durch Vollzug einer langen Freiheitsstrafe, Verwahrung nach Art. 42, Bevormundung, Massnahmen nach kantonalem Verwaltungsrecht, Beaufsichtigung durch Angehörige, so soll der Richter Art. 14 nicht anwenden.
Gewiss leuchtet nicht ohne weiteres ein, weshalb in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" auch Personen verwahrt werden sollen, die weder geheilt werden können, noch gepflegt werden müssen. Es gibt denn auch Psychiater, die es für unzweckmässig halten, gewisse Kategorien solcher Rechtsbrecher in die von ihnen geleiteten Anstalten einzuweisen (vgl. BLEULER, ZStrR 58 14; WYRSCH, ZStrR 59 13 f., 68 19 ff.; DUKOR, ZStrR 59 292; KIELHOLZ, ZStrR 60 238). Geradezu sinnlos ist diese Ordnung jedoch nicht. Dass dem zu Verwahrenden die Zurechnungsfähigkeit ganz oder teilweise fehlt, kann allein schon als genügender Grund erachtet worden sein, unter den vorhandenen Anstalten die Heil- und die Pflegeanstalten, die ja vorwiegend vermindert Zurechnungsfähige und Unzurechnungsfähige beherbergen, als die geeignetsten Verwahrungsorte zu betrachten. Die Errichtung besonderer Anstalten zur Verwahrung unheilbarer und nicht pflegebedürftiger vermindert Zurechnungsfähiger und Unzurechnungsfähiger kam nicht in Frage, und die Einweisung in Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher im Sinne des Art. 42 StGB oder in Strafanstalten widerspräche den berechtigten Interessen des Einzuweisenden. Wie schon in Sachen Rittermann ausgeführt wurde, ist übrigens weder der Begriff der Heilanstalt noch der der Pflegeanstalt so eng, dass darunter, Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher und Strafanstalten ausgenommen, nicht irgendwelche Anstalt verstanden werden könnte, die die Öffentlichkeit vor ihren Insassen, ohne diese einer Heilbehandlung zu unterziehen oder sie zu pflegen, in geeigneter Weise schützt. Nur wenn der zu Verwahrende einer Heilbehandlung oder der Pflege bedarf, muss die Massnahme in einer Anstalt vollzogen werden, in der geheilt bzw. gepflegt werden kann. Dann aber hat der Richter es nicht bei der Anwendung des Art. 14 StGB bewenden zu lassen, der sich mit den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nur unter dem Gesichtspunkt der Verwahrung (internement, internamento; vgl. Randtitel), d.h. einer dem Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung dienenden reinen Absonderung von der Gesellschaft, befasst, sondern ausdrücklich daneben auch Heilbehandlung oder Pflege im Sinne des Art. 15 StGB anzuordnen.
Der Bundesrat, der in zwei Entscheidungen vom 21. Oktober 1946 und 26. April 1947 i.S. Keller von der Auffassung ausgegangen ist, die Verwahrung nach Art. 14 StGB setze voraus, dass der Täter einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (ZStrR 62 59, 399), hat denn auch am 27. Dezember 1954 in einem Meinungsaustausch mit dem Kassationshof dessen gegenteiligen neuen Rechtsprechung beigepflichtet.
Dass der Beschwerdeführer weder einer Heilbehandlung noch der Pflege bedarf, steht somit seiner Verwahrung nicht im Wege.
3. Nach den vorinstanzlichen Feststellungen über das Vorleben des Beschwerdeführers liegt auf der Hand, dass er die öffentliche Sicherheit gefährdet und die Gefahr nur durch Verwahrung behoben werden kann. Das wird denn auch mit der Beschwerde nicht bestritten. Auch steht ausser Frage, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit auf die Verminderung der Zurechnungsfähigkeit zurückzuführen ist. Alle Voraussetzungen zur Anwendung des Art. 14 StGB sind daher erfüllt.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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1. Art. 13 CP. Il est loisible au juge de constater, même sans expertise psychiatrique ou en s'écartant d'une telle expertise, les circonstances de fait qu'il considère comme révélant une diminution de la responsabilité (consid. 1). 2. L'art. 14 CP n'exige pas que l'auteur puisse être guéri ou doive être soigné (consid. 2).
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fr
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criminal law and criminal procedure
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-IV-1%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 IV 1
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Sachverhalt ab Seite 1
A.- Robert Wenger, geb. 1927, Sohn wiederholt vorbestrafter und liederlicher Eltern, zeigte sich schon vom dritten Altersjahr an in der Obhut von Pflegeeltern und später im Erziehungsheim Oberbipp und in der Anstalt Bächtelen als unverbesserlicher Lügner, Dieb und Vagabund. Einmal beging er auch Unzucht mit Kindern. Im Jahre 1943 wurde er in die Erziehungsanstalt Tessenberg versetzt. Wegen seines Charakters, mangelnder Begabung und Faulheit konnte ihm kein Beruf gelehrt werden. Im Jahre 1944 riss er aus, beging mehrere Einbruchsdiebstähle und versuchte, Fahrräder zu entwenden. Auf den Tessenberg zurückversetzt, simulierte er eine Geisteskrankheit. Er wurde daher in der Heil- und Pflegeanstalt Münsingen begutachtet, wobei der Sachverständige am 27. Dezember 1945 schloss, Wenger sei nicht geisteskrank, wohl aber ein haltloser, geltungssüchtiger und moralisch defekter und hochgradig gemeingefährlicher Psychopath, der für lange Zeit verwahrt werden sollte. Der Regierungsrat des Kantons Bern entsprach dem Antrag. Wenger weilte vom Februar 1946 bis Februar 1949 in der Abteilung für Jugendliche der Anstalt Witzwil. Bedingt entlassen, wurde er hierauf für eine Übergangszeit im Gutshof Enggistein untergebracht und hätte er bei Wohlverhalten anfangs April 1949 eine Stelle antreten können. Am Abend des 5. März 1949 verliess er den Hof. Er kehrte spät in der Nacht betrunken zurück und machte sich am folgenden Tage davon. Er versetzte Kleidungsstücke und andere Sachen und lockte zwei Pfarrern mit unwahren Angaben Geld ab Am 10. März 1949 wurde er mittellos in Chiasso festgenommen, als er im Begriffe war, nach Italien zu ziehen-Inzwischen war auch bekannt geworden, dass er seit seiner Entlassung aus der Anstalt Witzwil eine Handharmonika im Werte von Fr. 1100.-- gekauft hatte, obschon er kein Geld besass.
Am 26. April 1949 beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern, Wenger wegen Liederlichkeit, Haltlosigkeit und geistiger Minderwertigkeit in die Arbeitsanstalt Lindenhof einzuweisen. Nach Ablauf eines Jahres wurde Wenger mit der Weisung, vorerst während mindestens zwei Monaten im Gutshof Enggistein zu arbeiten, bedingt entlassen und unter Schutzaufsicht gestellt. Vier Tage nach seinem Eintritt in den Hof versuchte er am 10. April 1950 in Worb, eine Handharmonika im Werte von Fr. 800.-- zu erschwindeln. Er begann nachts zu streunen, knüpfte mit einem schlecht beleumdeten, geistig und körperlich zurückgebliebenen Mädchen ein intimes Verhältnis an und schwindelte ihm Fr. 140.-- ab. Schliesslich lief er von Enggistein fort und trat in der Nacht vom 5./6. Mai freiwillig in die Heil- und Pflegeanstalt Münsingen ein, eine Geisteskrankheit vortäuschend. Die Anstaltsdirektion bestätigte das Gutachten vom 27. Dezember 1945. In der Folge wurde Wenger nochmals in Enggistein aufgenommen. Er lief aber in der Nacht auf den 28. Juli 1950 wieder davon und stellte sich am folgenden Morgen in Witzwil. Da er auf der Flucht ein fremdes Fahrrad mitgenommen hatte, wurde er wegen Diebstahls zu zehn Tagen Gefängnis verurteilt. Im Herbst 1950 wurde er administrativ in die Arbeitserziehungsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Im August 1951 entliess man ihn probeweise unter der Bedingung, dass er sich vorerst mindestens sechs Monate lang im Arbeiterheim Tannenhof aufhalte. Dort kehrte er jedoch oft erst nach Mitternacht heim und war am folgenden Tage bei der Arbeit schlapp. Am 28. September 1951 riss er aus. Da er bald darauf in einem Gasthof die Zeche nicht beglich und eine Militäruniform wegnahm, wurde er verhaftet. Er gebärdete sich bei diesem Anlass wie ein Verrückter und wurde daher in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau versetzt. Dort gab er jedoch bald die Simulation von Geisteskrankheiten auf. Am 11. November 1951 wurde er wieder in den Tannenhof gewiesen. Die Untersuchung wegen Zechprellerei und Diebstahls war am Vortage aufgehoben worden.
Da Wenger den Tannenhof schon am 16. Dezember 1951 eigenmächtig wieder verliess und nach Birsfelden zog, wurde er im Februar 1952 administrativ in die Arbeitsanstalt Lindenhof zurückversetzt. Am 25. März 1952 wies man ihn in die Heil- und Pflegeanstalt Waldau ein, weil er gedroht hatte, er werde alle zur Domäne Witzwil gehörenden Scheunen in Brand stecken, sobald sie mit Getreide gefüllt sein würden. Die Diagnose der früheren Gutachten wurde bestätigt.
Ab 16. Mai 1952 war Wenger in der Arbeitsanstalt St. Johannsen. Da er einen Fluchtversuch unternahm, beschloss der Regierungsrat des Kantons Bern am 6. Juni 1952, ihn in die Verwahrungsanstalt Thorberg zu versetzen. Wegen Platzmangels blieb Wenger aber zunächst im Bezirksgefängnis Bern. Zufolge Verwechslung mit einem anderen Wenger entliess man ihn dort am 23. Juni 1952, wies ihm auf einer Baustelle in Unterbach Arbeit an und rüstete ihn mit Kleidern und Schuhen aus.
B.- In der Nacht vom 24. auf den 25. Juni 1952 brach Wenger in Unterbach in eine Baukantine ein. Er stahl Zigaretten, Schokolade und Bargeld sowie von einem Lastwagen einen Zündschlüssel. Hierauf floh er nach Basel und Rheinfelden. Am Abend des 26. Juni 1952 zog er zu einem Landwirt in Effingen. Am folgenden Tage betastete er dem achtjährigen Töchterchen seines Gastgebers den Geschlechtsteil und versuchte ihm den Finger in die Scheide zu stossen. Am 28. Juni 1952 stahl er seinem Gastgeber Fr. 75.-. Am Abend des gleichen Tages mietete er in einem Gasthof in Mumpf ein Zimmer, und am folgenden Morgen borgte er beim Stiefsohne des Wirtes ein Kleid und ein Paar Schuhe. Er behielt diese Sachen, kehrte nicht zurück und blieb auch die Miete für das Zimmer schuldig. Am 29. Juni 1952 betrog er ein Mädchen um Fr. 50.-. Am 2. Juli 1952 stahl er in Thielle ein Fahrrad und verkaufte es in Le Landeron für Fr. 35.-. In der Nacht vom 2./3. Juli 1952 wurde er in Hellsau verhaftet. Bei der Einvernahme vom 5. Juli 1952 durch den Untersuchungsrichter schilderte er eingehend, wie er in der Nähe von Serrières einen unbekannten Österreicher während einer Kahnpartie getötet, beraubt und in den See geworfen habe. Die Überprüfung ergab, dass diese Angaben erfunden waren, was Wenger schliesslich auch gestand.
C.- Im Strafverfahren wurde Wenger psychiatrisch begutachtet. Der Sachverständige Dr. Hans Bührer kam am 7. August 1952 zum Schluss, der Angeschuldigte sei zur Zeit seiner Taten vollständig fähig gewesen, das Unrecht seiner Handlungen einzusehen und gemäss Einsicht zu handeln. Wenger sei körperlich und geistig gesund. Er sei ein moralisch defekter Psychopath. Sein Zustand erfordere keine ärztliche Behandlung und Wenger müsse auch nicht in einer Heil- oder Pflegeanstalt versorgt werden (Art. 15 StGB). Er gefährde die öffentliche Sicherheit und Ordnung. Er sei in hohem Grade gemeingefährlich und müsse daher verwahrt werden. Eine Verwahrung nach Art. 14 StGB komme aber angesichts der vollen Zurechnungsfähigkeit nicht in Frage. Wenger gehöre in eine Verwahrungsanstalt.
Das Amtsgericht Oberhasli, dem Gutachten folgend, erachtete Wenger als voll zurechnungsfähig, erklärte ihn wegen der in der Zeit vom 24. Juni bis 5. Juli 1952 begangenen strafbaren Handlungen des Diebstahls, der Veruntreuung, der Sachbeschädigung, des Betruges, der Zechprellerei, der Irreführung der Rechtspflege und der Unzucht mit einem Kinde schuldig, verurteilte ihn zu vier Jahren Zuchthaus und stellte ihn für vier Jahre in der bürgerlichen Ehrenfähigkeit ein.
D.- Das Obergericht des Kantons Bern, an das Wenger hinsichtlich der Strafzumessung appellierte, setzte am 24. April 1953 die Strafe auf zwei Jahre Gefängnis, abzüglich 41 Tage Untersuchungs- und Sicherheitshaft, herab, stellte den Strafvollzug ein und beschloss, Wenger gemäss Art. 14 StGB in einer Pflegeanstalt zu verwahren.
Das Obergericht führte aus, den Schlussfolgerungen des Sachverständigen könne nicht in allen Teilen beigepflichtet werden. Zwar seien nicht alle kriminellen Psychopathen vermindert zurechnungsfähig, sondern es sei im Einzelfalle zu prüfen, ob der Täter fähig gewesen sei, das Unrecht der Tat einzusehen und gemäss dieser Einsicht zu handeln. Die Zurechnungsfähigkeit sei aber jedenfalls dann vermindert, wenn die Psychopathie nach Art und Grad zu einem völlig abnormen Geisteszustand führe, d.h. in ihren Auswirkungen einer Geisteskrankheit gleichkomme. Wenger sei eine hochgradig moralisch defekte Person. Seine seit frühester Jugend zu Tage tretende Assozialität, seine Gefühlsroheit und Hemmungslosigkeit beim Begehen der Straftaten bewiesen das genügend. Die Einzelheiten jedoch zeigten, dass er mehr als ein blosser Psychopath sei. Es sei schon auffällig, dass er sich nicht nur in diesem Verfahren, sondern schon im Jahre 1944 vor der Polizei fälschlicherweise des Mordes bezichtet habe. Seine Geltungssucht wirke krankhaft. Er gebe sich immer wieder als gelernter Mechaniker, Traktor- oder Autocarführer, als Musiker oder Inhaber einer Handharmonikaschule aus. Er scheine überhaupt an einem "Handharmonika-Komplex" zu leiden. Sobald er in Freiheit sei, kaufe er sich eine teure Handharmonika, ohne einen Rappen Geld zu besitzen. In seiner Lebensbeschreibung ersuche er das Gericht um die Todesstrafe, weil sein Leben ohne chromatische Handorgel unbrauchbar sei, und in einem Schreiben an die "Herren Chirurgen" in London wolle er den englischen Studenten seinen Körper zum Zwecke der Erlernung chirurgischer Eingriffe und, falls ihm dabei etwas zustossen sollte, sein Skelett zu Studienzwecken zur Verfügung stellen, alles zum Preise einer chromatischen vierchörigen Handharmonika mit Registern. Er wende sich auch an den I. Adjunkten der Polizeidirektion des Kantons Bern, ersuchte ihn um Freilassung, um eine starke sozialkommunistische Arbeiterpartei zu gründen, und sichere ihm in der Distanzlosigkeit des Debilen den Posten eines Präsidenten dieser Partei zu. Wenger lebe in einer Welt, die mit der Wirklichkeit nichts mehr zu tun habe. Er sei denn auch tatsächlich nicht in der Lage, sein Leben in der Gemeinschaft anderer zu gestalten. Seine schwere Psychopathie und seine leichte Debilität, die in Verbindung mit seiner Geltungssucht den Charakter eines eigentlichen Salonblödsinnes angenommen habe, hätten zu einem ganz abnormen Geisteszustand geführt. Die Einsicht in das Unrecht seiner Taten habe ihm deswegen zwar nicht gefehlt, wohl aber sei seine Fähigkeit, gemäss seiner Einsicht zu handeln, etwas herabgesetzt gewesen. Er sei daher zumindest in leichtem Masse als vermindert zurechnungsfähig zu betrachten. - Wenger sei in sämtlichen über ihn abgegebenen psychiatrischen Gutachten als gemeingefährlich bezeichnet worden. Dass dem so sei, habe er genügend bewiesen. Er habe sich kaum je einen Tag lang in der Freiheit halten können, ohne straffällig zu werden. Seine Delikte hätten zwar bis heute noch nicht allzu grosse Ausmasse angenommen. Dem moralisch defekten, aggressiven und impulsiven Angeschuldigten seien jedoch nach Ansicht der Psychiater auch schwere Verbrechen zuzutrauen, und es müsse vor allem mit der Möglichkeit gerechnet werden, dass er seine Drohungen durch Brandstiftung oder Angriff auf das Leben anderer verwirkliche. Da Wenger vermindert zurechnungsfähig sei, die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährde und daher verwahrt werden müsse, jedoch keiner ärztlichen Behandlung bedürfe, seien die Voraussetzungen des Art. 14 StGB erfüllt.
E.- Wenger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrage, das Urteil des Obergerichts sei aufzuheben und die Sache zu neuer Entscheidung an diese Instanz zurückzuweisen. Er macht geltend, da das Obergericht dem Gutachten des Dr. Bührer nicht habe folgen wollen, hätte es ein Obergutachten einholen sollen; indem es das nicht getan und ohne genügende Grundlage angenommen habe, der Beschwerdeführer habe seine Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, habe es Art. 11 StGB verletzt. Sodann habe es Art. 14 StGB zu Unrecht angewendet. Diese Bestimmung setze ausser verminderter Zurechnungsfähigkeit und Gemeingefährlichkeit des Täters dessen Heil- oder Pflegebedürftigkeit voraus. Der Beschwerdeführer aber habe nach den psychiatrischen Gutachten weder eine Heilbehandlung noch Pflege nötig. Das Obergericht nehme das auch gar nicht an; die Notwendigkeit ärztlicher Behandlung verneine es sogar ausdrücklich.
F.- Der Generalprokurator des Kantons Bern beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Indem das Obergericht entgegen dem Sachverständigen Dr. Bührer angenommen hat, der Beschwerdeführer habe die ihm zur Last gelegten Taten im Zustande verminderter Zurechnungsfähigkeit begangen, hat es nicht gegen eidgenössisches Recht verstossen. Weder Art. 11 StGB noch eine andere Bestimmung des Bundesrechts verbietet dem Richter, einen bestimmten biologisch-psychologischen Sachverhalt, den er als verminderte Zurechnungsfähigkeit würdigt, anders als durch ein psychiatrisches Gutachten festzustellen, noch ist der Richter verpflichtet, einem Gutachten, das er eingeholt hat, unbesehen zu folgen (BGE 75 IV 148). Der Kassationshof hat auf Nichtigkeitsbeschwerde hin auch nicht zu prüfen, ob der von der kantonalen Behörde ermittelte Sachverhalt in den Akten eine genügende Grundlage hat. Denn er ist an tatsächliche Feststellungen gebunden (Art. 277bis Abs. 1, 273 Abs. 1 lit. b BStP) und hat lediglich zu entscheiden, ob die festgestellten Tatsachen rechtlich richtig gewürdigt worden sind, im vorliegenden Falle also, ob der biologischpsychologische Zustand, in dem der Beschwerdeführer nach Auffassung des Obergerichts seine Verbrechen und Vergehen begangen hat, die rechtlichen Merkmale der verminderten Zurechnungsfähigkeit aufweist. Dass das nicht der Fall sei, macht jedoch der Beschwerdeführer nicht geltend. Es Ist denn auch nicht zu ersehen, inwiefern das Obergericht den Rechtsbegriff der Verminderung der Zurechnungsfähigkeit verkannt haben könnte. Zwar ist der Begriff des normalen Menschen nicht eng zu fassen (BGE 78 IV 212). Das hat das Obergericht aber nicht getan, indem es dem Beschwerdeführer angesichts seines ganzen Vorlebens und seines sonderbaren Verhaltens einen geringfügigen Teil der Willensfreiheit abgesprochen hat, die der Mensch normalerweise besitzt.
2. Art. 14 StGB bestimmt: "Gefährdet der unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter die öffentliche Sicherheit oder Ordnung, und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, so ordnet der Richter diese Verwahrung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein."
InBGE 73 IV 151hat der Kassationshof angenommen, es sei dann im Sinne dieser Bestimmung notwendig, den die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährdenden vermindert zurechnungsfähigen Täter in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren, wenn er entweder einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (vgl. auch schonBGE 71 IV 71). Das wurde daraus abgeleitet, dass Art. 14 gleich wie Art. 15, der um der "Behandlung" oder "Versorgung" des Täters willen erlassen worden ist, von einer Heil- oder Pflegeanstalt spricht.
Diese Rechtsprechung entspricht dem wahren Sinne des Art. 14 Abs. 1 StGB indessen nicht und ist denn auch schon in einem Urteil vom 28. September 1951 in Sachen Rittermann aufgegeben worden.
Es fehlt ein Grund, der den Gesetzgeber bewogen haben könnte, die Verwahrung Unzurechnungsfähiger oder vermindert Zurechnungsfähiger, die die öffentliche Sicherheit oder Ordnung gefährden, nur dann zu gestatten, wenn sie behandlungs- oder pflegebedürftig sind. Mit den Behandlungs- und den Pflegebedürftigen befasst sich Art. 15, lautend: "Erfordert der Zustand des unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Täters seine Behandlung oder Versorgung in einer Heil- oder Pflegeanstalt, so ordnet der Richter diese Behandlung oder Versorgung an. - Der Richter stellt den Strafvollzug gegen den verurteilten vermindert Zurechnungsfähigen ein." Neben dieser Bestimmung wäre Art. 14 überflüssig, wenn er voraussetzte, dass die Einweisung in eine Heil- oder Pflegeanstalt wegen Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters notwendig sei. Die Einweisung kann und muss, wenn diese Voraussetzung zutrifft, schon nach Art. 15 erfolgen. Nur weil Verwahrung die "strengere Form" sei als die Versorgung (vgl. ZStrR 62 59), kann Art. 14 nicht aufgestellt worden sein, umsoweniger als dieser Sinn nur zwischen den Zeilen herausgelesen werden müsste. Art. 14 hätte auch nicht etwa die über Art. 15 hinausgehende Wirkung, dass der Eingewiesene nach der Heilung oder nach dem Hinfall der Pflegebedürftigkeit noch weiter verwahrt werden dürfte. Nach der Heilung des Täters ist die öffentliche Sicherheit oder Ordnung nicht mehr gefährdet, und wenn Fälle denkbar sind, in denen nach Hinfall der Pflegebedürftigkeit diese Gefährdung noch weiterbesteht, so könnte es doch nicht der Sinn des Art. 14 sein, dass der Eingewiesene nur ihretwegen weiterverwahrt werden dürfte; es wäre nicht zu verstehen, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung allein kein Grund zur Anordnung der Verwahrung, wohl aber Grund zu ihrer Aufrechterhaltung wäre; das widerspräche Art. 17 Ziff. 2 Abs. 1, wonach die Verwahrung nicht länger dauern soll als der Grund, der zu ihr Anlass gegeben hat. Art. 14 ist nur sinnvoll, wenn er die Verwahrung ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters einzig wegen der Gefährdung der öffentlichen Sicherheit oder Ordnung gestattet. Es wäre auch verwunderlich, wenn das Strafgesetzbuch sich zwar der Behandlungs- oder Pflegebedürftigen annähme - und das gerade in zwei Bestimmungen (Art. 14 und 15) -, den Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung vor anderen unzurechnungsfähigen oder vermindert zurechnungsfähigen Tätern dagegen vernachlässigte. Es kennt die Verwahrung rein zur Sicherung der Gesellschaft schon in Art. 42. Daher liegt nahe, dass ihr auch Art. 14 ohne Rücksicht auf die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit des Täters dienen will. Hiefür spricht auch Art. 12 MStG, wonach der Militärrichter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen, der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdet und dessen Verwahrung geboten erscheint, schon allein wegen dieser Gefährdung der bürgerlichen Verwaltungsbehörde zu überweisen hat. Das Strafgesetzbuch müsste eine entsprechende Bestimmung enthalten, wenn der bürgerliche Richter den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nicht ohne Rücksicht auf seine Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit selber in Verwahrung setzen dürfte. Dass die Öffentlichkeit nur vor dem Heilbaren oder dem Pflegebedürftigen geschützt werde, kann es schon deshalb nicht wollen, weil der weder heilbare noch pflegebedürftige Unzurechnungsfähige oder vermindert Zurechnungsfähige die öffentliche Sicherheit und Ordnung in ebenso hohem Masse gefährden kann, ja sie gewöhnlich noch mehr gefährdet als der Behandlungs- oder Pflegebedürftige.
Ein gegenteiliger Schluss lässt sich nicht daraus ziehen, dass Art. 14 StGB bestimmt, die Verwahrung sei in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" zu vollziehen. Es ist nicht zu ersehen, weshalb diese Norm die Behandlungs- oder Pflegebedürftigkeit nur in so verkappter Form zur Voraussetzung der Verwahrung erheben würde, statt sie ausdrücklich zu verlangen, wie Art. 15 Abs. 1 StGB es tut. Die Worte in Art. 14 Abs. 1 "und ist es notwendig, ihn in einer Heil- oder Pflegeanstalt zu verwahren", haben einen vernünftigen Sinn auch dann, wenn die Betonung nicht auf "Heil" und "Pflege", sondern auf "notwendig" und "verwahren" gelegt wird: Der die öffentliche Sicherheit und Ordnung gefährdende unzurechnungsfähige oder vermindert zurechnungsfähige Täter soll nur dann nach Art. 14 verwahrt werden, wenn diese Verwahrung (auf unbestimmte Zeit) notwendig ist. Kann die Gefahr für die öffentliche Sicherheit oder Ordnung anders behoben werden, z.B. durch Vollzug einer langen Freiheitsstrafe, Verwahrung nach Art. 42, Bevormundung, Massnahmen nach kantonalem Verwaltungsrecht, Beaufsichtigung durch Angehörige, so soll der Richter Art. 14 nicht anwenden.
Gewiss leuchtet nicht ohne weiteres ein, weshalb in einer "Heil- oder Pflegeanstalt" auch Personen verwahrt werden sollen, die weder geheilt werden können, noch gepflegt werden müssen. Es gibt denn auch Psychiater, die es für unzweckmässig halten, gewisse Kategorien solcher Rechtsbrecher in die von ihnen geleiteten Anstalten einzuweisen (vgl. BLEULER, ZStrR 58 14; WYRSCH, ZStrR 59 13 f., 68 19 ff.; DUKOR, ZStrR 59 292; KIELHOLZ, ZStrR 60 238). Geradezu sinnlos ist diese Ordnung jedoch nicht. Dass dem zu Verwahrenden die Zurechnungsfähigkeit ganz oder teilweise fehlt, kann allein schon als genügender Grund erachtet worden sein, unter den vorhandenen Anstalten die Heil- und die Pflegeanstalten, die ja vorwiegend vermindert Zurechnungsfähige und Unzurechnungsfähige beherbergen, als die geeignetsten Verwahrungsorte zu betrachten. Die Errichtung besonderer Anstalten zur Verwahrung unheilbarer und nicht pflegebedürftiger vermindert Zurechnungsfähiger und Unzurechnungsfähiger kam nicht in Frage, und die Einweisung in Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher im Sinne des Art. 42 StGB oder in Strafanstalten widerspräche den berechtigten Interessen des Einzuweisenden. Wie schon in Sachen Rittermann ausgeführt wurde, ist übrigens weder der Begriff der Heilanstalt noch der der Pflegeanstalt so eng, dass darunter, Verwahrungsanstalten für Gewohnheitsverbrecher und Strafanstalten ausgenommen, nicht irgendwelche Anstalt verstanden werden könnte, die die Öffentlichkeit vor ihren Insassen, ohne diese einer Heilbehandlung zu unterziehen oder sie zu pflegen, in geeigneter Weise schützt. Nur wenn der zu Verwahrende einer Heilbehandlung oder der Pflege bedarf, muss die Massnahme in einer Anstalt vollzogen werden, in der geheilt bzw. gepflegt werden kann. Dann aber hat der Richter es nicht bei der Anwendung des Art. 14 StGB bewenden zu lassen, der sich mit den Unzurechnungsfähigen oder vermindert Zurechnungsfähigen nur unter dem Gesichtspunkt der Verwahrung (internement, internamento; vgl. Randtitel), d.h. einer dem Schutz der öffentlichen Sicherheit und Ordnung dienenden reinen Absonderung von der Gesellschaft, befasst, sondern ausdrücklich daneben auch Heilbehandlung oder Pflege im Sinne des Art. 15 StGB anzuordnen.
Der Bundesrat, der in zwei Entscheidungen vom 21. Oktober 1946 und 26. April 1947 i.S. Keller von der Auffassung ausgegangen ist, die Verwahrung nach Art. 14 StGB setze voraus, dass der Täter einer Heilbehandlung oder der Pflege bedürfe (ZStrR 62 59, 399), hat denn auch am 27. Dezember 1954 in einem Meinungsaustausch mit dem Kassationshof dessen gegenteiligen neuen Rechtsprechung beigepflichtet.
Dass der Beschwerdeführer weder einer Heilbehandlung noch der Pflege bedarf, steht somit seiner Verwahrung nicht im Wege.
3. Nach den vorinstanzlichen Feststellungen über das Vorleben des Beschwerdeführers liegt auf der Hand, dass er die öffentliche Sicherheit gefährdet und die Gefahr nur durch Verwahrung behoben werden kann. Das wird denn auch mit der Beschwerde nicht bestritten. Auch steht ausser Frage, dass die Gefährdung der öffentlichen Sicherheit auf die Verminderung der Zurechnungsfähigkeit zurückzuführen ist. Alle Voraussetzungen zur Anwendung des Art. 14 StGB sind daher erfüllt.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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1. Art. 13 CP. Il giudice può accertare, anche senza perizia psichiatrica o in derogazione alla stessa, le circostanze di fatto che secondo il suo apprezzamento rivelerebbero una responsabilità scemata (consid. 1). 2. L'art. 14 CP non presuppone che l'autore possa essere guarito o debba essere curato (consid. 2).
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criminal law and criminal procedure
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81 IV 101
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Sachverhalt ab Seite 101
A.- Mit Strafklage vom 20. Mai 1954 beschuldigte Fräulein X Dorina Guerino der Körperverletzung, der Tätlichkeiten und der Sachbeschädigung. Am 26. Mai 1954 verhörte der Amtsstatthalter von Luzern-Stadt beide Parteien, wobei die Klägerin sich auf den verheirateten Y als Zeugen berief. Auf das hin telephonierte die Beklagte dem Y, um ihn davon abzuhalten, Zeugnis abzulegen. Sie erklärte ihm, wenn er als Zeuge erscheine, "packe sie alles aus". Darunter verstand sie, dass sie bekanntgeben werde, er unterhalte ehewidrige Beziehungen zu Fräulein X. Tatsächlich telephonierte sie am 28. Mai 1954 der Ehefrau des Y und sagte ihr, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Am gleichen Tage leistete Y der Vorladung vor den Amtsstatthalter Folge und sagte als Zeuge aus. Dorina Guerino schloss hierauf mit Fräulein X einen Vergleich, und letzteres zog den Strafantrag zurück. Das Strafverfahren gegen Dorina Guerino wurde wegen Nötigungsversuchs fortgesetzt.
B.- Am 12. November 1954 erklärte das Amtsgericht Luzern-Stadt Dorina Guerino dieses Vergehens schuldig und büsste sie mit Fr. 20.-.
C.- Dorina Guerino führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Freisprechung an das Amtsgericht zurückzuweisen.
Sie macht geltend, es verletze Art. 181 StGB. Diese Bestimmung treffe nicht zu, weil sie sich gegen die Beschränkung der Handlungsfreiheit richte, Y jedoch nicht frei gewesen sei, als Zeuge zu erscheinen und auszusagen, sondern auf Grund einer Vorladung habe erscheinen müssen, deren Befolgung hätte erzwungen werden können. Die Beschwerdeführerin habe ihm auch nicht ernstliche Nachteile angedroht; die angedrohte Bekanntgabe eines ehewidrigen Verhältnisses sei kein ernstlicher Nachteil Wer solche Beziehungen unterhalte, müsse damit rechnen, dass sie bekannt werden. Es sei auch nicht abgeklärt, ob die Beziehungen des Y zu Fräulein X nicht tatsächlich schon bekannt gewesen seien, insbesondere seiner Ehefrau. Dazu komme, dass die Androhung ernstlicher Nachteile gleichbedeutend sei mit der schweren Drohung des Art. 180 StGB, eine solche hier aber fehle. Ferner sei nicht abgeklärt, wem gegenüber die Beschwerdeführerin ihre Aussagen über die Beziehungen des Y zu Fräulein X habe machen wollen. Gegenüber dem Amtsstatthalter wäre sie berechtigt gewesen, davon zu sprechen, um den Beweiswert der Aussagen des Y zu beanstanden. Das Telephongespräch mit Frau Y sei unerheblich, zumal die Beschwerdeführerin ihr nur erklärt habe, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Endlich habe die Beschwerdeführerin nicht rechtswidrig gehandelt, weil sie berechtigt gewesen sei, Y den angedrohten Nachteil zuzufügen. Es sei nämlich nicht verboten, Aussagen über ehewidrige Beziehungen einer Person zu machen. Die Androhung einer begründeten Strafklage sei schwerer, ohne den Tatbestand der Nötigung zu erfüllen. Umsoweniger könne die Androhung einer begründeten Aussage über ein nicht einwandfreies Verhalten darunter fallen.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Luzern beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Antrag der Beschwerdeführerin auf Freisprechung von der Anschuldigung des Nötigungsversuches lässt sich zum vornherein nicht damit begründen, Art. 181 StGB setze einen Angriff auf die Handlungsfreiheit voraus, das Erscheinen des Y als Zeuge habe aber nicht von dessen freien Willen abgehangen. Wäre die Überlegung der Beschwerdeführerin begründet, so läge ein untauglicher Versuch vor, weil der Gegenstand, woran die Beschwerdeführerin das Vergehen auszuführen versuchte, so gewesen wäre, dass die Tat an ihm überhaupt nicht ausgeführt werden konnte (Art. 23 Abs. 1 StGB). Untauglicher Versuch aber führt nicht zur Freisprechung, sondern berechtigt den Richter nur, die auf dem vollendeten Vergehen stehende Strafe nach freiem Ermessen zu mildern.
Die Rüge der Beschwerdeführerin hält aber überhaupt nicht stand. Richtig ist zwar, dass Art. 181 StGB sich gegen die Beeinträchtigung der Handlungsfreiheit richtet. Sie liegt aber im Falle der Androhung ernstlicher Nachteile darin, dass das Opfer durch die Aussicht, solche Nachteile zu erleiden, zu einem Tun oder Unterlassen bestimmt wird, zu dem es sich ohne die Androhung nicht entschlösse. Ob sein Verhalten, das der Täter herbeiführen will, unrechtmässig oder rechtmässig sei und ob der Staat es verhindern könne oder nicht, ist unerheblich. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile z.B. zur Begehung einer strafbaren Handlung veranlasst, verübt das Vergehen des Art. 181 so gut, wie wenn er ihn zu einem erlaubten Tun nötigte, obschon die vom Täter begehrte Handlung vom Standpunkt der Rechtsordnung aus nicht im Belieben des Opfers steht, sondern rechtswidrig ist und vom Staate verhindert werden muss, wenn er sie voraussieht. Entsprechend verhält es sich, wenn jemand einen andern durch Androhung ernstlicher Nachteile von einer Handlung abhalten will, zu der er rechtlich verpflichtet ist und die, wenn er sie nicht freiwillig vornimmt, vom Staate erzwungen wird. Es wäre eine sonderbare Rechtsordnung, wenn sie nur die Nötigung zu einem erlaubten Verhalten mit Strafe bedrohte, nicht auch die Nötigung zu einem rechtswidrigen Tun oder Unterlassen. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile zur Verletzung seiner Pflichten veranlasst, handelt besonders verwerflich. Der Bürger, der bereit ist, seine Pflichten zu erfüllen, soll davon nicht durch Androhung ernstlicher Nachteile abgehalten werden; in solchem Vorgehen liegt ein Angriff auf die Freiheit seines Willens. Der Versuch, den die Beschwerdeführerin unternommen hat, war daher nicht untauglich.
2. Die Beschwerdeführerin hat Y durch die Drohung, sie werde bekanntgeben, dass er zu Fräulein X ehewidrige Beziehungen unterhalte, gefügig zu machen versucht. Ob er solche Beziehungen tatsächlich unterhalten oder mit Fräulein X nur kameradschaftlich verkehrt hat, ist im angefochtenen Urteil offen gelassen worden. Darauf kommt, wie das Amtsgericht zutreffend annimmt, auch nichts an. Die Bekanntgabe ehewidriger Beziehungen - worunter die Beschwerdeführerin in erster Linie die Bekanntgabe an Frau Y verstand, an die sie sich dann auch telephonisch gewendet hat - war für Y im einen wie im anderen Falle ein Nachteil, weil sie einen Angriff auf seine Ehre enthielt, der als üble Nachrede oder Verleumdung sogar Strafe nach sich ziehen konnte. Daran würde selbst dann nichts geändert, wenn gewisse Drittpersonen schon gewusst oder sich eingebildet haben sollten, Y unterhalte mit Fräulein X ehewidrige Beziehungen; denn ein Angriff auf die Ehre einer Person wird nicht dadurch rechtmässig, dass der Ruf des Angegriffenen bereits, sei es begründeter-, sei es unbegründeterweise, gelitten hat. Ebensowenig kommt etwas darauf an, ob Y ohnehin damit rechnen musste, dass sein Umgang mit Fräulein X einmal bekannt und für ehewidrig gehalten werde, insbesondere von seiner Ehefrau. Was die Beschwerdeführerin ihm androhte, war nichtsdestoweniger eine seinen Ruf gefährdende und daher für ihn nachteilige Blossstellung.
3. Auch war der angedrohte Nachteil "ernstlich" im Sinne des Art. 181 StGB. Die Auffassung des Beschwerdeführers, dieses Merkmal sei nur erfüllt, wenn eine schwere Drohung im Sinne des Art. 180 StGB vorliege, ist vom Kassationshof bereits in einem Urteil vom 31. Dezember 1949 i.S. Peck widerlegt worden. Schon der Wortlaut des Gesetzes verbietet, die Androhung nach Art. 181 jener nach Art. 180 gleichzustellen. Eine "schwere Drohung" (Art. 180) setzt mehr voraus als eine "Androhung ernstlicher Nachteile" (Art. 181), da zwischen "schwer" und "ernstlich" ein gradueller Unterschied besteht. Er kommt auch im französischen Text zum Ausdruck, wo von "menace grave" (Art. 180) und "menaçant d'un dommage sérieux" (Art. 181) die Rede ist. Mit Rücksicht auf diese klare Abstufung in den beiden Texten kann nichts darauf ankommen, dass der italienische mit den Ausdrücken "grave minaccia" (Art. 180) und "minaccia di grave danno" (Art. 181) noch am ehesten für die Gleichstellung der beiden Androhungen angerufen werden könnte. Dazu kommt, dass auch die weiteren, von einander abweichenden Erfordernisse der beiden Tatbestände einen Unterschied in der Androhung erkennen lassen, der sich der Täter im einen und im anderen Falle bedient. Um jemanden "in Schrecken oder Angst" zu versetzen (Art. 180), braucht es mehr, als um ihn zu einer Handlung, Unterlassung oder Duldung zu nötigen, die er sonst nicht gewollt hätte (Art. 181). Die höhere Anforderung in Art. 180 ist auch sachlich gerechtfertigt durch den inneren Unterschied der beiden Tatbestände, indem die Drohung die Freiheit der Willensbildung lediglich gefährdet, die Nötigung dagegen sie verletzt; gegenüber blossen Gefährdungshandlungen ist das Strafgesetz zurückhaltender als gegenüber Verletzungen der gleichen Rechtsgüter. Art. 181 setzt nicht voraus, dass der angedrohte Nachteil so schwer sei, dass der Betroffene ob der Androhung in Schrecken oder Angst geraten könnte; es genügt, wenn der Nachteil ernstlich genug ist, um den Betroffenen in seiner Handlungsfreiheit wesentlich beeinträchtigen zu können. Das war hier der Fall. Dass Y sich nicht hat beeindrucken lassen, sondern seine Zeugenpflicht erfüllt hat, steht dieser Würdigung nicht im Wege. Die Ernstlichkeit des Nachteils hängt nicht vom tatsächlichen Erfolge der Androhung ab, sondern vom objektiven Ausmass des angedrohten Eingriffs.
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Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 181 StGB. a) Auch die Nötigung zu einem rechtswidrigen Tun oder Unterlassen fällt unter Art. 181 (Erw. 1).
b) Nachteil, bestehend in einer üblen Nachrede oder Verleumdung, die der Täter androht (Erw. 2).
c) Wann ist der angedrohte Nachteil ernstlich? (Erw. 3).
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81 IV 101
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Sachverhalt ab Seite 101
A.- Mit Strafklage vom 20. Mai 1954 beschuldigte Fräulein X Dorina Guerino der Körperverletzung, der Tätlichkeiten und der Sachbeschädigung. Am 26. Mai 1954 verhörte der Amtsstatthalter von Luzern-Stadt beide Parteien, wobei die Klägerin sich auf den verheirateten Y als Zeugen berief. Auf das hin telephonierte die Beklagte dem Y, um ihn davon abzuhalten, Zeugnis abzulegen. Sie erklärte ihm, wenn er als Zeuge erscheine, "packe sie alles aus". Darunter verstand sie, dass sie bekanntgeben werde, er unterhalte ehewidrige Beziehungen zu Fräulein X. Tatsächlich telephonierte sie am 28. Mai 1954 der Ehefrau des Y und sagte ihr, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Am gleichen Tage leistete Y der Vorladung vor den Amtsstatthalter Folge und sagte als Zeuge aus. Dorina Guerino schloss hierauf mit Fräulein X einen Vergleich, und letzteres zog den Strafantrag zurück. Das Strafverfahren gegen Dorina Guerino wurde wegen Nötigungsversuchs fortgesetzt.
B.- Am 12. November 1954 erklärte das Amtsgericht Luzern-Stadt Dorina Guerino dieses Vergehens schuldig und büsste sie mit Fr. 20.-.
C.- Dorina Guerino führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Freisprechung an das Amtsgericht zurückzuweisen.
Sie macht geltend, es verletze Art. 181 StGB. Diese Bestimmung treffe nicht zu, weil sie sich gegen die Beschränkung der Handlungsfreiheit richte, Y jedoch nicht frei gewesen sei, als Zeuge zu erscheinen und auszusagen, sondern auf Grund einer Vorladung habe erscheinen müssen, deren Befolgung hätte erzwungen werden können. Die Beschwerdeführerin habe ihm auch nicht ernstliche Nachteile angedroht; die angedrohte Bekanntgabe eines ehewidrigen Verhältnisses sei kein ernstlicher Nachteil Wer solche Beziehungen unterhalte, müsse damit rechnen, dass sie bekannt werden. Es sei auch nicht abgeklärt, ob die Beziehungen des Y zu Fräulein X nicht tatsächlich schon bekannt gewesen seien, insbesondere seiner Ehefrau. Dazu komme, dass die Androhung ernstlicher Nachteile gleichbedeutend sei mit der schweren Drohung des Art. 180 StGB, eine solche hier aber fehle. Ferner sei nicht abgeklärt, wem gegenüber die Beschwerdeführerin ihre Aussagen über die Beziehungen des Y zu Fräulein X habe machen wollen. Gegenüber dem Amtsstatthalter wäre sie berechtigt gewesen, davon zu sprechen, um den Beweiswert der Aussagen des Y zu beanstanden. Das Telephongespräch mit Frau Y sei unerheblich, zumal die Beschwerdeführerin ihr nur erklärt habe, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Endlich habe die Beschwerdeführerin nicht rechtswidrig gehandelt, weil sie berechtigt gewesen sei, Y den angedrohten Nachteil zuzufügen. Es sei nämlich nicht verboten, Aussagen über ehewidrige Beziehungen einer Person zu machen. Die Androhung einer begründeten Strafklage sei schwerer, ohne den Tatbestand der Nötigung zu erfüllen. Umsoweniger könne die Androhung einer begründeten Aussage über ein nicht einwandfreies Verhalten darunter fallen.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Luzern beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Antrag der Beschwerdeführerin auf Freisprechung von der Anschuldigung des Nötigungsversuches lässt sich zum vornherein nicht damit begründen, Art. 181 StGB setze einen Angriff auf die Handlungsfreiheit voraus, das Erscheinen des Y als Zeuge habe aber nicht von dessen freien Willen abgehangen. Wäre die Überlegung der Beschwerdeführerin begründet, so läge ein untauglicher Versuch vor, weil der Gegenstand, woran die Beschwerdeführerin das Vergehen auszuführen versuchte, so gewesen wäre, dass die Tat an ihm überhaupt nicht ausgeführt werden konnte (Art. 23 Abs. 1 StGB). Untauglicher Versuch aber führt nicht zur Freisprechung, sondern berechtigt den Richter nur, die auf dem vollendeten Vergehen stehende Strafe nach freiem Ermessen zu mildern.
Die Rüge der Beschwerdeführerin hält aber überhaupt nicht stand. Richtig ist zwar, dass Art. 181 StGB sich gegen die Beeinträchtigung der Handlungsfreiheit richtet. Sie liegt aber im Falle der Androhung ernstlicher Nachteile darin, dass das Opfer durch die Aussicht, solche Nachteile zu erleiden, zu einem Tun oder Unterlassen bestimmt wird, zu dem es sich ohne die Androhung nicht entschlösse. Ob sein Verhalten, das der Täter herbeiführen will, unrechtmässig oder rechtmässig sei und ob der Staat es verhindern könne oder nicht, ist unerheblich. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile z.B. zur Begehung einer strafbaren Handlung veranlasst, verübt das Vergehen des Art. 181 so gut, wie wenn er ihn zu einem erlaubten Tun nötigte, obschon die vom Täter begehrte Handlung vom Standpunkt der Rechtsordnung aus nicht im Belieben des Opfers steht, sondern rechtswidrig ist und vom Staate verhindert werden muss, wenn er sie voraussieht. Entsprechend verhält es sich, wenn jemand einen andern durch Androhung ernstlicher Nachteile von einer Handlung abhalten will, zu der er rechtlich verpflichtet ist und die, wenn er sie nicht freiwillig vornimmt, vom Staate erzwungen wird. Es wäre eine sonderbare Rechtsordnung, wenn sie nur die Nötigung zu einem erlaubten Verhalten mit Strafe bedrohte, nicht auch die Nötigung zu einem rechtswidrigen Tun oder Unterlassen. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile zur Verletzung seiner Pflichten veranlasst, handelt besonders verwerflich. Der Bürger, der bereit ist, seine Pflichten zu erfüllen, soll davon nicht durch Androhung ernstlicher Nachteile abgehalten werden; in solchem Vorgehen liegt ein Angriff auf die Freiheit seines Willens. Der Versuch, den die Beschwerdeführerin unternommen hat, war daher nicht untauglich.
2. Die Beschwerdeführerin hat Y durch die Drohung, sie werde bekanntgeben, dass er zu Fräulein X ehewidrige Beziehungen unterhalte, gefügig zu machen versucht. Ob er solche Beziehungen tatsächlich unterhalten oder mit Fräulein X nur kameradschaftlich verkehrt hat, ist im angefochtenen Urteil offen gelassen worden. Darauf kommt, wie das Amtsgericht zutreffend annimmt, auch nichts an. Die Bekanntgabe ehewidriger Beziehungen - worunter die Beschwerdeführerin in erster Linie die Bekanntgabe an Frau Y verstand, an die sie sich dann auch telephonisch gewendet hat - war für Y im einen wie im anderen Falle ein Nachteil, weil sie einen Angriff auf seine Ehre enthielt, der als üble Nachrede oder Verleumdung sogar Strafe nach sich ziehen konnte. Daran würde selbst dann nichts geändert, wenn gewisse Drittpersonen schon gewusst oder sich eingebildet haben sollten, Y unterhalte mit Fräulein X ehewidrige Beziehungen; denn ein Angriff auf die Ehre einer Person wird nicht dadurch rechtmässig, dass der Ruf des Angegriffenen bereits, sei es begründeter-, sei es unbegründeterweise, gelitten hat. Ebensowenig kommt etwas darauf an, ob Y ohnehin damit rechnen musste, dass sein Umgang mit Fräulein X einmal bekannt und für ehewidrig gehalten werde, insbesondere von seiner Ehefrau. Was die Beschwerdeführerin ihm androhte, war nichtsdestoweniger eine seinen Ruf gefährdende und daher für ihn nachteilige Blossstellung.
3. Auch war der angedrohte Nachteil "ernstlich" im Sinne des Art. 181 StGB. Die Auffassung des Beschwerdeführers, dieses Merkmal sei nur erfüllt, wenn eine schwere Drohung im Sinne des Art. 180 StGB vorliege, ist vom Kassationshof bereits in einem Urteil vom 31. Dezember 1949 i.S. Peck widerlegt worden. Schon der Wortlaut des Gesetzes verbietet, die Androhung nach Art. 181 jener nach Art. 180 gleichzustellen. Eine "schwere Drohung" (Art. 180) setzt mehr voraus als eine "Androhung ernstlicher Nachteile" (Art. 181), da zwischen "schwer" und "ernstlich" ein gradueller Unterschied besteht. Er kommt auch im französischen Text zum Ausdruck, wo von "menace grave" (Art. 180) und "menaçant d'un dommage sérieux" (Art. 181) die Rede ist. Mit Rücksicht auf diese klare Abstufung in den beiden Texten kann nichts darauf ankommen, dass der italienische mit den Ausdrücken "grave minaccia" (Art. 180) und "minaccia di grave danno" (Art. 181) noch am ehesten für die Gleichstellung der beiden Androhungen angerufen werden könnte. Dazu kommt, dass auch die weiteren, von einander abweichenden Erfordernisse der beiden Tatbestände einen Unterschied in der Androhung erkennen lassen, der sich der Täter im einen und im anderen Falle bedient. Um jemanden "in Schrecken oder Angst" zu versetzen (Art. 180), braucht es mehr, als um ihn zu einer Handlung, Unterlassung oder Duldung zu nötigen, die er sonst nicht gewollt hätte (Art. 181). Die höhere Anforderung in Art. 180 ist auch sachlich gerechtfertigt durch den inneren Unterschied der beiden Tatbestände, indem die Drohung die Freiheit der Willensbildung lediglich gefährdet, die Nötigung dagegen sie verletzt; gegenüber blossen Gefährdungshandlungen ist das Strafgesetz zurückhaltender als gegenüber Verletzungen der gleichen Rechtsgüter. Art. 181 setzt nicht voraus, dass der angedrohte Nachteil so schwer sei, dass der Betroffene ob der Androhung in Schrecken oder Angst geraten könnte; es genügt, wenn der Nachteil ernstlich genug ist, um den Betroffenen in seiner Handlungsfreiheit wesentlich beeinträchtigen zu können. Das war hier der Fall. Dass Y sich nicht hat beeindrucken lassen, sondern seine Zeugenpflicht erfüllt hat, steht dieser Würdigung nicht im Wege. Die Ernstlichkeit des Nachteils hängt nicht vom tatsächlichen Erfolge der Androhung ab, sondern vom objektiven Ausmass des angedrohten Eingriffs.
...
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 181 CP. a) La contrainte à un acte ou une omission illicites tombe également sous le coup de l'art. 181 (consid. 1).
b) Dommage consistant dans une diffamation ou une calomnie dont l'auteur menace (consid. 2).
c) Quand le dommage dont l'auteur menace est-il sérieux? (consid. 3).
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81 IV 101
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Sachverhalt ab Seite 101
A.- Mit Strafklage vom 20. Mai 1954 beschuldigte Fräulein X Dorina Guerino der Körperverletzung, der Tätlichkeiten und der Sachbeschädigung. Am 26. Mai 1954 verhörte der Amtsstatthalter von Luzern-Stadt beide Parteien, wobei die Klägerin sich auf den verheirateten Y als Zeugen berief. Auf das hin telephonierte die Beklagte dem Y, um ihn davon abzuhalten, Zeugnis abzulegen. Sie erklärte ihm, wenn er als Zeuge erscheine, "packe sie alles aus". Darunter verstand sie, dass sie bekanntgeben werde, er unterhalte ehewidrige Beziehungen zu Fräulein X. Tatsächlich telephonierte sie am 28. Mai 1954 der Ehefrau des Y und sagte ihr, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Am gleichen Tage leistete Y der Vorladung vor den Amtsstatthalter Folge und sagte als Zeuge aus. Dorina Guerino schloss hierauf mit Fräulein X einen Vergleich, und letzteres zog den Strafantrag zurück. Das Strafverfahren gegen Dorina Guerino wurde wegen Nötigungsversuchs fortgesetzt.
B.- Am 12. November 1954 erklärte das Amtsgericht Luzern-Stadt Dorina Guerino dieses Vergehens schuldig und büsste sie mit Fr. 20.-.
C.- Dorina Guerino führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Freisprechung an das Amtsgericht zurückzuweisen.
Sie macht geltend, es verletze Art. 181 StGB. Diese Bestimmung treffe nicht zu, weil sie sich gegen die Beschränkung der Handlungsfreiheit richte, Y jedoch nicht frei gewesen sei, als Zeuge zu erscheinen und auszusagen, sondern auf Grund einer Vorladung habe erscheinen müssen, deren Befolgung hätte erzwungen werden können. Die Beschwerdeführerin habe ihm auch nicht ernstliche Nachteile angedroht; die angedrohte Bekanntgabe eines ehewidrigen Verhältnisses sei kein ernstlicher Nachteil Wer solche Beziehungen unterhalte, müsse damit rechnen, dass sie bekannt werden. Es sei auch nicht abgeklärt, ob die Beziehungen des Y zu Fräulein X nicht tatsächlich schon bekannt gewesen seien, insbesondere seiner Ehefrau. Dazu komme, dass die Androhung ernstlicher Nachteile gleichbedeutend sei mit der schweren Drohung des Art. 180 StGB, eine solche hier aber fehle. Ferner sei nicht abgeklärt, wem gegenüber die Beschwerdeführerin ihre Aussagen über die Beziehungen des Y zu Fräulein X habe machen wollen. Gegenüber dem Amtsstatthalter wäre sie berechtigt gewesen, davon zu sprechen, um den Beweiswert der Aussagen des Y zu beanstanden. Das Telephongespräch mit Frau Y sei unerheblich, zumal die Beschwerdeführerin ihr nur erklärt habe, das Zeugnis ihres Ehemannes könne nicht gewertet werden, da er mit Fräulein X befreundet sei. Endlich habe die Beschwerdeführerin nicht rechtswidrig gehandelt, weil sie berechtigt gewesen sei, Y den angedrohten Nachteil zuzufügen. Es sei nämlich nicht verboten, Aussagen über ehewidrige Beziehungen einer Person zu machen. Die Androhung einer begründeten Strafklage sei schwerer, ohne den Tatbestand der Nötigung zu erfüllen. Umsoweniger könne die Androhung einer begründeten Aussage über ein nicht einwandfreies Verhalten darunter fallen.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Luzern beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Antrag der Beschwerdeführerin auf Freisprechung von der Anschuldigung des Nötigungsversuches lässt sich zum vornherein nicht damit begründen, Art. 181 StGB setze einen Angriff auf die Handlungsfreiheit voraus, das Erscheinen des Y als Zeuge habe aber nicht von dessen freien Willen abgehangen. Wäre die Überlegung der Beschwerdeführerin begründet, so läge ein untauglicher Versuch vor, weil der Gegenstand, woran die Beschwerdeführerin das Vergehen auszuführen versuchte, so gewesen wäre, dass die Tat an ihm überhaupt nicht ausgeführt werden konnte (Art. 23 Abs. 1 StGB). Untauglicher Versuch aber führt nicht zur Freisprechung, sondern berechtigt den Richter nur, die auf dem vollendeten Vergehen stehende Strafe nach freiem Ermessen zu mildern.
Die Rüge der Beschwerdeführerin hält aber überhaupt nicht stand. Richtig ist zwar, dass Art. 181 StGB sich gegen die Beeinträchtigung der Handlungsfreiheit richtet. Sie liegt aber im Falle der Androhung ernstlicher Nachteile darin, dass das Opfer durch die Aussicht, solche Nachteile zu erleiden, zu einem Tun oder Unterlassen bestimmt wird, zu dem es sich ohne die Androhung nicht entschlösse. Ob sein Verhalten, das der Täter herbeiführen will, unrechtmässig oder rechtmässig sei und ob der Staat es verhindern könne oder nicht, ist unerheblich. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile z.B. zur Begehung einer strafbaren Handlung veranlasst, verübt das Vergehen des Art. 181 so gut, wie wenn er ihn zu einem erlaubten Tun nötigte, obschon die vom Täter begehrte Handlung vom Standpunkt der Rechtsordnung aus nicht im Belieben des Opfers steht, sondern rechtswidrig ist und vom Staate verhindert werden muss, wenn er sie voraussieht. Entsprechend verhält es sich, wenn jemand einen andern durch Androhung ernstlicher Nachteile von einer Handlung abhalten will, zu der er rechtlich verpflichtet ist und die, wenn er sie nicht freiwillig vornimmt, vom Staate erzwungen wird. Es wäre eine sonderbare Rechtsordnung, wenn sie nur die Nötigung zu einem erlaubten Verhalten mit Strafe bedrohte, nicht auch die Nötigung zu einem rechtswidrigen Tun oder Unterlassen. Wer einen anderen durch Androhung ernstlicher Nachteile zur Verletzung seiner Pflichten veranlasst, handelt besonders verwerflich. Der Bürger, der bereit ist, seine Pflichten zu erfüllen, soll davon nicht durch Androhung ernstlicher Nachteile abgehalten werden; in solchem Vorgehen liegt ein Angriff auf die Freiheit seines Willens. Der Versuch, den die Beschwerdeführerin unternommen hat, war daher nicht untauglich.
2. Die Beschwerdeführerin hat Y durch die Drohung, sie werde bekanntgeben, dass er zu Fräulein X ehewidrige Beziehungen unterhalte, gefügig zu machen versucht. Ob er solche Beziehungen tatsächlich unterhalten oder mit Fräulein X nur kameradschaftlich verkehrt hat, ist im angefochtenen Urteil offen gelassen worden. Darauf kommt, wie das Amtsgericht zutreffend annimmt, auch nichts an. Die Bekanntgabe ehewidriger Beziehungen - worunter die Beschwerdeführerin in erster Linie die Bekanntgabe an Frau Y verstand, an die sie sich dann auch telephonisch gewendet hat - war für Y im einen wie im anderen Falle ein Nachteil, weil sie einen Angriff auf seine Ehre enthielt, der als üble Nachrede oder Verleumdung sogar Strafe nach sich ziehen konnte. Daran würde selbst dann nichts geändert, wenn gewisse Drittpersonen schon gewusst oder sich eingebildet haben sollten, Y unterhalte mit Fräulein X ehewidrige Beziehungen; denn ein Angriff auf die Ehre einer Person wird nicht dadurch rechtmässig, dass der Ruf des Angegriffenen bereits, sei es begründeter-, sei es unbegründeterweise, gelitten hat. Ebensowenig kommt etwas darauf an, ob Y ohnehin damit rechnen musste, dass sein Umgang mit Fräulein X einmal bekannt und für ehewidrig gehalten werde, insbesondere von seiner Ehefrau. Was die Beschwerdeführerin ihm androhte, war nichtsdestoweniger eine seinen Ruf gefährdende und daher für ihn nachteilige Blossstellung.
3. Auch war der angedrohte Nachteil "ernstlich" im Sinne des Art. 181 StGB. Die Auffassung des Beschwerdeführers, dieses Merkmal sei nur erfüllt, wenn eine schwere Drohung im Sinne des Art. 180 StGB vorliege, ist vom Kassationshof bereits in einem Urteil vom 31. Dezember 1949 i.S. Peck widerlegt worden. Schon der Wortlaut des Gesetzes verbietet, die Androhung nach Art. 181 jener nach Art. 180 gleichzustellen. Eine "schwere Drohung" (Art. 180) setzt mehr voraus als eine "Androhung ernstlicher Nachteile" (Art. 181), da zwischen "schwer" und "ernstlich" ein gradueller Unterschied besteht. Er kommt auch im französischen Text zum Ausdruck, wo von "menace grave" (Art. 180) und "menaçant d'un dommage sérieux" (Art. 181) die Rede ist. Mit Rücksicht auf diese klare Abstufung in den beiden Texten kann nichts darauf ankommen, dass der italienische mit den Ausdrücken "grave minaccia" (Art. 180) und "minaccia di grave danno" (Art. 181) noch am ehesten für die Gleichstellung der beiden Androhungen angerufen werden könnte. Dazu kommt, dass auch die weiteren, von einander abweichenden Erfordernisse der beiden Tatbestände einen Unterschied in der Androhung erkennen lassen, der sich der Täter im einen und im anderen Falle bedient. Um jemanden "in Schrecken oder Angst" zu versetzen (Art. 180), braucht es mehr, als um ihn zu einer Handlung, Unterlassung oder Duldung zu nötigen, die er sonst nicht gewollt hätte (Art. 181). Die höhere Anforderung in Art. 180 ist auch sachlich gerechtfertigt durch den inneren Unterschied der beiden Tatbestände, indem die Drohung die Freiheit der Willensbildung lediglich gefährdet, die Nötigung dagegen sie verletzt; gegenüber blossen Gefährdungshandlungen ist das Strafgesetz zurückhaltender als gegenüber Verletzungen der gleichen Rechtsgüter. Art. 181 setzt nicht voraus, dass der angedrohte Nachteil so schwer sei, dass der Betroffene ob der Androhung in Schrecken oder Angst geraten könnte; es genügt, wenn der Nachteil ernstlich genug ist, um den Betroffenen in seiner Handlungsfreiheit wesentlich beeinträchtigen zu können. Das war hier der Fall. Dass Y sich nicht hat beeindrucken lassen, sondern seine Zeugenpflicht erfüllt hat, steht dieser Würdigung nicht im Wege. Die Ernstlichkeit des Nachteils hängt nicht vom tatsächlichen Erfolge der Androhung ab, sondern vom objektiven Ausmass des angedrohten Eingriffs.
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Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 181 CP. a) Anche la coazione ad un atto o un'omissione illeciti cade sotto l'art. 181 (consid. 1).
b) Danno consistente in una diffamazione o calunnia minacciata dall'autore (consid. 2).
c) Quando il danno minacciato è grave? (consid. 3).
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81 IV 107
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Sachverhalt ab Seite 107
A.- Frau M. warb von Anfang Dezember 1953 bis 1. Mai 1954 in der Absicht, zu einem Erwerbseinkommen zu gelangen, mindestens dreihundert Männer zum ausserehelichen Geschlechtsakt, indem sie in mehr oder weniger auffälliger Kleidung und Aufmachung jeweilen von 18 Uhr bis nach Mitternacht in der auch von anderen Dirnen heimgesuchten Gegend der Rämistrasse/Oberdorfstrasse/Torgasse in Zürich auf der Strasse herumstand und schlenderte, bis Männer ihr zu verstehen gaben, dass sie ihr beizuwohnen wünschten. War sie einverstanden, so begab sie sich in das Automobil des Geworbenen oder bestieg mit ihm einen Taxi, bezeichnete ihm ihre Wohnung, suchte sie mit ihm auf und gab sich ihm, nachdem auch der Lohn vereinbart und bezahlt war, zur Unzucht hin.
B.- Die Bezirksanwaltschaft Zürich klagte Frau M. des gewerbsmässigen öffentlichen Anlockens zur Unzucht im Sinne des Art. 206 StGB an.
Bezirksgericht Zürich und Obergericht des Kantons Zürich, letzteres mit Urteil vom 18. November 1954, sprachen sie frei. Das Obergericht führte im wesentlichen aus, Gewerbsmässigkeit und Öffentlichkeit des Anlockens zur Unzucht seien gegeben. Die Angeklagte habe aber nicht "durch Zumutungen oder Anträge" angelockt, wie Art. 206 voraussetze. Ein anderes Verhalten als blosses Dastehen, Flanieren und Warten auf Freier sowie die Bekanntgabe ihres Wohnortes an die sich an sie wendenden Freier habe ihr nicht nachgewiesen werden können. Ein weitergehendes Verhalten werde ihr von der Anklage auch nicht vorgeworfen, namentlich nicht, dass sie bestimmte Personen (jemanden) angelockt habe. Strafbar sei nach dem Wortlaut des Art. 206 StGB nicht das Anlocken schlechthin, sondern nur das Anlocken "durch Zumutungen oder Anträge". Hätte jedes Anlocken an sich unter Strafe gestellt werden wollen, so hätte ein Gesetzestext wie "wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden zur Unzucht anlockt..." oder "... zur Unzucht sich anbietet..." genügt. Mit den Worten "durch Zumutungen oder Anträge" verlange das Gesetz ein aktives, zudringliches Verhalten, und zwar müssten sich die Zumutungen und Anträge an "jemanden", also an eine bestimmte Person richten. Die Entstehungsgeschichte des Gesetzes zeige, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung gekommen seien. Weil in der II. Expertenkommission die Meinung geäussert worden sei, durch Zumutungen könne man nicht auffordern, der Begriff der Zumutung enthalte ein Sichaufdrängen gegen den Willen des andern (Protokoll 7 337), und weil darüber diskutiert worden sei und der Vorsitzende erklärt habe, die Redaktionskommission werde sich diese Bedenken noch überlegen, müsse angenommen werden, dass sowohl die II. Expertenkommission als auch die Redaktionskommission den Ausdruck bewusst in der Bestimmung belassen hätten. Zürcher habe denn auch in den Erläuterungen zum Vorentwurf von 1908, S. 466, ausgeführt, nicht jedes Betreten der öffentlichen Strasse zum Zwecke der Anwerbung, ein Auf- und Abgehen, das eigentlich nur demjenigen auffalle, der die Gelegenheit suche oder sonst für diese Vorgänge ein geschärftes Auge besitze, sei strafbar, sondern erst die Zudringlichkeit, d.h. die Prostituierte, die sich an die Männer herandränge, sie zu überreden suche und dadurch den Leuten lästig oder gefährlich werde. Dass die Angeklagte den von sich aus an sie herantretenden Freiern ihren Wohnort bekanntgegeben habe, könne - im Gegensatz zuBGE 68 IV 44- unmöglich als "Antrag" aufgefasst werden. Im Zeitpunkt, in dem die Angeklagte dem Freier ihre Wohnung genannt habe, sei das Einverständnis zwischen den beiden schon erzielt gewesen, das Anlocken also vollendet, aber ohne Zumutungen oder Anträge.
C.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei wegen Verletzung des Art. 206 StGB aufzuheben und die Sache an das Obergericht zurückzuweisen.
D.- Frau M. beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Gemäss Art. 206 StGB ist strafbar, wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden durch Zumutungen oder Anträge zur Unzucht anlockt.
Dem Obergericht ist darin beizupflichten, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung aufgenommen worden und hier auch nicht überflüssig sind. Sie verlangen ein über das bewusste und gewollte gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht hinausgehendes Verhalten. Die Dirne, die sich auf die Strasse begibt, um z.B. Einkäufe zu besorgen, dabei aber auch gewillt ist, auf Anfrage zur entgeltlichen Unzucht einzugehen, wenn ihr Erscheinen in der Öffentlichkeit Männer anlocken sollte, macht sich damit noch nicht der Übertretung des Art. 206 schuldig. Dagegen erfüllt sie diese Bestimmung, wenn sie durch ihr Verhalten auf der Strasse das Zustandekommen des unsittlichen Geschäftes bewusst und gewollt fördert, z.B. an einen als Marktstand Prostituierter bekannten Ort hinsteht, sich nach Art einer Dirne kleidet oder putzt, durch auffälliges Herumschauen, einen bedeutsamen Blick auf Männer, langsames Auf- und Abgehen und dergleichen zu erkennen gibt, dass sie ihren Leib feilhält. In solchem Verhalten liegt ein Antrag. Dass er an einen ganz bestimmten Mann gerichtet sei, ist nicht nötig. Unter "jemand" im Sinne des Art. 206 ist jeder Vorbeigehende zu verstehen. Das Strafgesetzbuch steht hier auf dem gleichen Boden wie das Obligationenrecht, das die Auslage von Waren mit Angabe des Preises in der Regel als Antrag anerkennt, also nicht verlangt, dass der Antragsteller sich an eine bestimmte Person wende (Art. 7 Abs. 3 OR). Dass diese Bestimmung die Angabe des Preises voraussetzt, die Dirne beim Zumarktestehen den ihrigen dagegen nicht aushängt, ändert nichts. Das wesentliche ist, dass sie ihren Leib zur Schau stellt wie der Kaufmann seine Waren, um damit Kunden zu werben und Geschäfte abzuschliessen. Es wäre auch lebensfremd, die Dirne zu bestrafen, wenn sie einen bestimmten Mann anspricht, sie dagegen freizusprechen, wenn sie nur durch die Art ihres Benehmens den Vorbeigehenden zu erkennen gibt, dass sie zu haben ist, den konkreten Liebhaber jedoch an sich herantreten lässt. In gewissem Sinne geht sie durch die in ihrem konkludenten Verhalten liegende Aufforderung an alle sogar weiter und ist daher strafwürdiger, als wenn sie ihre Bereitschaft nur einem einzelnen zu erkennen gibt. Gewiss mag die Aufforderung an einen bestimmten einzelnen diesem lästig werden. Zum Schutze vor individueller Belästigung durch Anträge zur Unzucht ist jedoch schon Art. 205 StGB erlassen. Unter diesem Gesichtspunkt ist Art. 206 überflüssig. Letztere Bestimmung will die Sitten des Volkes heben und das öffentliche Ärgernis bekämpfen, das Prostituierte erregen, indem sie ihren Leib, für jedermann erkennbar, zu Markte tragen (vgl. WEISS, Die Prostitutionsfrage in der Schweiz und das schweiz. Strafgesetzbuch 215, 222; ZÜRCHER, Erläuterungen 465 f.; CLERC, Cours élémentaire sur le Code pénal suisse Nr. 134 a.E.). Dass Art. 206 die Interessen der Allgemeinheit, nicht des einzelnen, schützen will, ergibt sich auch daraus, dass sein Tatbestand im Gegensatz zu jenem des Art. 205 von Amtes wegen zu verfolgen ist.
2. Dass die Beschwerdegegnerin gewerbsmässig und öffentlich Männer zur Unzucht angelockt hat, nimmt mit Recht schon das Obergericht an. Art. 206 StGB ist nach den vorstehenden Ausführungen aber auch insofern erfüllt, als sie ihr Ziel durch "Anträge" erreicht hat. Diese bestanden darin, dass sie "in mehr oder weniger auffallender Kleidung und Aufmachung", also in einem Putz, der ihre Absicht der Werbung zur Unzucht verriet, in einem als Jagdrevier von Dirnen bekannten Gebiete durch Herumstehen und Herumschlendern zu erkennen gab, dass sie jedem gegen Bezahlung feil sei. Ob Anträge auch darin zu erblicken waren, dass sie, nachdem sie mit bestimmten Männern zur Unzucht einig geworden war, die Kunden durch Angabe ihrer Adresse stillschweigend einlud, ihr zum Vollzug des Geschäftes in ihre Wohnung zu folgen (vgl.BGE 68 IV 44), kann unter diesen Umständen dahingestellt bleiben.
3. Die Beschwerdegegnerin bestreitet nicht, dass sie die Tatbestandsmerkmale, die das gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht durch Anträge ausmachen, bewusst und gewollt gesetzt hat. Sie hat somit vorsätzlich gehandelt. Ihr Einwand, sie habe sich zur Ausübung ihrer Tätigkeit für berechtigt gehalten, weil sie sich bei der Polizei eingeschrieben habe und diese sie ihres Weges habe ziehen lassen, begründet keinen Irrtum über den Sachverhalt (Art. 19 StGB) und schliesst daher den Vorsatz nicht aus. Unter dem Gesichtspunkt des Rechtsirrtums sodann (Art. 20 StGB) hilft ihr diese Behauptung nicht, weil die polizeiliche Duldung ihres Gewerbes nicht den Sinn haben konnte, dass sie ihre Kunden in einer dem Art. 206 StGB widersprechenden Weise öffentlich werben möge. Das Verhalten der Polizei war kein "zureichender Grund" zu der irrtümlichen Annahme, der die Beschwerdegegnerin zum Opfer gefallen sein will. Ein Mindestmass an Gefühl für das, was recht ist, hätte der Beschwerdegegnerin gesagt, dass sie sich nicht so verhalten dürfe, wie sie es getan hat.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, das Urteil der I. Strafkammer des Obergerichtes des Kantons Zürich vom 18. November 1954 aufgehoben und die Sache zur Bestrafung der Beschwerdegegnerin an die Vorinstanz zurückgewiesen.
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Art. 206 StGB. In welchem Verhalten kann ein zur Unzucht anlockender Antrag liegen?
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81 IV 107
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Sachverhalt ab Seite 107
A.- Frau M. warb von Anfang Dezember 1953 bis 1. Mai 1954 in der Absicht, zu einem Erwerbseinkommen zu gelangen, mindestens dreihundert Männer zum ausserehelichen Geschlechtsakt, indem sie in mehr oder weniger auffälliger Kleidung und Aufmachung jeweilen von 18 Uhr bis nach Mitternacht in der auch von anderen Dirnen heimgesuchten Gegend der Rämistrasse/Oberdorfstrasse/Torgasse in Zürich auf der Strasse herumstand und schlenderte, bis Männer ihr zu verstehen gaben, dass sie ihr beizuwohnen wünschten. War sie einverstanden, so begab sie sich in das Automobil des Geworbenen oder bestieg mit ihm einen Taxi, bezeichnete ihm ihre Wohnung, suchte sie mit ihm auf und gab sich ihm, nachdem auch der Lohn vereinbart und bezahlt war, zur Unzucht hin.
B.- Die Bezirksanwaltschaft Zürich klagte Frau M. des gewerbsmässigen öffentlichen Anlockens zur Unzucht im Sinne des Art. 206 StGB an.
Bezirksgericht Zürich und Obergericht des Kantons Zürich, letzteres mit Urteil vom 18. November 1954, sprachen sie frei. Das Obergericht führte im wesentlichen aus, Gewerbsmässigkeit und Öffentlichkeit des Anlockens zur Unzucht seien gegeben. Die Angeklagte habe aber nicht "durch Zumutungen oder Anträge" angelockt, wie Art. 206 voraussetze. Ein anderes Verhalten als blosses Dastehen, Flanieren und Warten auf Freier sowie die Bekanntgabe ihres Wohnortes an die sich an sie wendenden Freier habe ihr nicht nachgewiesen werden können. Ein weitergehendes Verhalten werde ihr von der Anklage auch nicht vorgeworfen, namentlich nicht, dass sie bestimmte Personen (jemanden) angelockt habe. Strafbar sei nach dem Wortlaut des Art. 206 StGB nicht das Anlocken schlechthin, sondern nur das Anlocken "durch Zumutungen oder Anträge". Hätte jedes Anlocken an sich unter Strafe gestellt werden wollen, so hätte ein Gesetzestext wie "wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden zur Unzucht anlockt..." oder "... zur Unzucht sich anbietet..." genügt. Mit den Worten "durch Zumutungen oder Anträge" verlange das Gesetz ein aktives, zudringliches Verhalten, und zwar müssten sich die Zumutungen und Anträge an "jemanden", also an eine bestimmte Person richten. Die Entstehungsgeschichte des Gesetzes zeige, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung gekommen seien. Weil in der II. Expertenkommission die Meinung geäussert worden sei, durch Zumutungen könne man nicht auffordern, der Begriff der Zumutung enthalte ein Sichaufdrängen gegen den Willen des andern (Protokoll 7 337), und weil darüber diskutiert worden sei und der Vorsitzende erklärt habe, die Redaktionskommission werde sich diese Bedenken noch überlegen, müsse angenommen werden, dass sowohl die II. Expertenkommission als auch die Redaktionskommission den Ausdruck bewusst in der Bestimmung belassen hätten. Zürcher habe denn auch in den Erläuterungen zum Vorentwurf von 1908, S. 466, ausgeführt, nicht jedes Betreten der öffentlichen Strasse zum Zwecke der Anwerbung, ein Auf- und Abgehen, das eigentlich nur demjenigen auffalle, der die Gelegenheit suche oder sonst für diese Vorgänge ein geschärftes Auge besitze, sei strafbar, sondern erst die Zudringlichkeit, d.h. die Prostituierte, die sich an die Männer herandränge, sie zu überreden suche und dadurch den Leuten lästig oder gefährlich werde. Dass die Angeklagte den von sich aus an sie herantretenden Freiern ihren Wohnort bekanntgegeben habe, könne - im Gegensatz zuBGE 68 IV 44- unmöglich als "Antrag" aufgefasst werden. Im Zeitpunkt, in dem die Angeklagte dem Freier ihre Wohnung genannt habe, sei das Einverständnis zwischen den beiden schon erzielt gewesen, das Anlocken also vollendet, aber ohne Zumutungen oder Anträge.
C.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei wegen Verletzung des Art. 206 StGB aufzuheben und die Sache an das Obergericht zurückzuweisen.
D.- Frau M. beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Gemäss Art. 206 StGB ist strafbar, wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden durch Zumutungen oder Anträge zur Unzucht anlockt.
Dem Obergericht ist darin beizupflichten, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung aufgenommen worden und hier auch nicht überflüssig sind. Sie verlangen ein über das bewusste und gewollte gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht hinausgehendes Verhalten. Die Dirne, die sich auf die Strasse begibt, um z.B. Einkäufe zu besorgen, dabei aber auch gewillt ist, auf Anfrage zur entgeltlichen Unzucht einzugehen, wenn ihr Erscheinen in der Öffentlichkeit Männer anlocken sollte, macht sich damit noch nicht der Übertretung des Art. 206 schuldig. Dagegen erfüllt sie diese Bestimmung, wenn sie durch ihr Verhalten auf der Strasse das Zustandekommen des unsittlichen Geschäftes bewusst und gewollt fördert, z.B. an einen als Marktstand Prostituierter bekannten Ort hinsteht, sich nach Art einer Dirne kleidet oder putzt, durch auffälliges Herumschauen, einen bedeutsamen Blick auf Männer, langsames Auf- und Abgehen und dergleichen zu erkennen gibt, dass sie ihren Leib feilhält. In solchem Verhalten liegt ein Antrag. Dass er an einen ganz bestimmten Mann gerichtet sei, ist nicht nötig. Unter "jemand" im Sinne des Art. 206 ist jeder Vorbeigehende zu verstehen. Das Strafgesetzbuch steht hier auf dem gleichen Boden wie das Obligationenrecht, das die Auslage von Waren mit Angabe des Preises in der Regel als Antrag anerkennt, also nicht verlangt, dass der Antragsteller sich an eine bestimmte Person wende (Art. 7 Abs. 3 OR). Dass diese Bestimmung die Angabe des Preises voraussetzt, die Dirne beim Zumarktestehen den ihrigen dagegen nicht aushängt, ändert nichts. Das wesentliche ist, dass sie ihren Leib zur Schau stellt wie der Kaufmann seine Waren, um damit Kunden zu werben und Geschäfte abzuschliessen. Es wäre auch lebensfremd, die Dirne zu bestrafen, wenn sie einen bestimmten Mann anspricht, sie dagegen freizusprechen, wenn sie nur durch die Art ihres Benehmens den Vorbeigehenden zu erkennen gibt, dass sie zu haben ist, den konkreten Liebhaber jedoch an sich herantreten lässt. In gewissem Sinne geht sie durch die in ihrem konkludenten Verhalten liegende Aufforderung an alle sogar weiter und ist daher strafwürdiger, als wenn sie ihre Bereitschaft nur einem einzelnen zu erkennen gibt. Gewiss mag die Aufforderung an einen bestimmten einzelnen diesem lästig werden. Zum Schutze vor individueller Belästigung durch Anträge zur Unzucht ist jedoch schon Art. 205 StGB erlassen. Unter diesem Gesichtspunkt ist Art. 206 überflüssig. Letztere Bestimmung will die Sitten des Volkes heben und das öffentliche Ärgernis bekämpfen, das Prostituierte erregen, indem sie ihren Leib, für jedermann erkennbar, zu Markte tragen (vgl. WEISS, Die Prostitutionsfrage in der Schweiz und das schweiz. Strafgesetzbuch 215, 222; ZÜRCHER, Erläuterungen 465 f.; CLERC, Cours élémentaire sur le Code pénal suisse Nr. 134 a.E.). Dass Art. 206 die Interessen der Allgemeinheit, nicht des einzelnen, schützen will, ergibt sich auch daraus, dass sein Tatbestand im Gegensatz zu jenem des Art. 205 von Amtes wegen zu verfolgen ist.
2. Dass die Beschwerdegegnerin gewerbsmässig und öffentlich Männer zur Unzucht angelockt hat, nimmt mit Recht schon das Obergericht an. Art. 206 StGB ist nach den vorstehenden Ausführungen aber auch insofern erfüllt, als sie ihr Ziel durch "Anträge" erreicht hat. Diese bestanden darin, dass sie "in mehr oder weniger auffallender Kleidung und Aufmachung", also in einem Putz, der ihre Absicht der Werbung zur Unzucht verriet, in einem als Jagdrevier von Dirnen bekannten Gebiete durch Herumstehen und Herumschlendern zu erkennen gab, dass sie jedem gegen Bezahlung feil sei. Ob Anträge auch darin zu erblicken waren, dass sie, nachdem sie mit bestimmten Männern zur Unzucht einig geworden war, die Kunden durch Angabe ihrer Adresse stillschweigend einlud, ihr zum Vollzug des Geschäftes in ihre Wohnung zu folgen (vgl.BGE 68 IV 44), kann unter diesen Umständen dahingestellt bleiben.
3. Die Beschwerdegegnerin bestreitet nicht, dass sie die Tatbestandsmerkmale, die das gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht durch Anträge ausmachen, bewusst und gewollt gesetzt hat. Sie hat somit vorsätzlich gehandelt. Ihr Einwand, sie habe sich zur Ausübung ihrer Tätigkeit für berechtigt gehalten, weil sie sich bei der Polizei eingeschrieben habe und diese sie ihres Weges habe ziehen lassen, begründet keinen Irrtum über den Sachverhalt (Art. 19 StGB) und schliesst daher den Vorsatz nicht aus. Unter dem Gesichtspunkt des Rechtsirrtums sodann (Art. 20 StGB) hilft ihr diese Behauptung nicht, weil die polizeiliche Duldung ihres Gewerbes nicht den Sinn haben konnte, dass sie ihre Kunden in einer dem Art. 206 StGB widersprechenden Weise öffentlich werben möge. Das Verhalten der Polizei war kein "zureichender Grund" zu der irrtümlichen Annahme, der die Beschwerdegegnerin zum Opfer gefallen sein will. Ein Mindestmass an Gefühl für das, was recht ist, hätte der Beschwerdegegnerin gesagt, dass sie sich nicht so verhalten dürfe, wie sie es getan hat.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, das Urteil der I. Strafkammer des Obergerichtes des Kantons Zürich vom 18. November 1954 aufgehoben und die Sache zur Bestrafung der Beschwerdegegnerin an die Vorinstanz zurückgewiesen.
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Art. 206 CP. Dans quel comportement peut-on voir une proposition incitant à la débauche?
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81 IV 107
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Sachverhalt ab Seite 107
A.- Frau M. warb von Anfang Dezember 1953 bis 1. Mai 1954 in der Absicht, zu einem Erwerbseinkommen zu gelangen, mindestens dreihundert Männer zum ausserehelichen Geschlechtsakt, indem sie in mehr oder weniger auffälliger Kleidung und Aufmachung jeweilen von 18 Uhr bis nach Mitternacht in der auch von anderen Dirnen heimgesuchten Gegend der Rämistrasse/Oberdorfstrasse/Torgasse in Zürich auf der Strasse herumstand und schlenderte, bis Männer ihr zu verstehen gaben, dass sie ihr beizuwohnen wünschten. War sie einverstanden, so begab sie sich in das Automobil des Geworbenen oder bestieg mit ihm einen Taxi, bezeichnete ihm ihre Wohnung, suchte sie mit ihm auf und gab sich ihm, nachdem auch der Lohn vereinbart und bezahlt war, zur Unzucht hin.
B.- Die Bezirksanwaltschaft Zürich klagte Frau M. des gewerbsmässigen öffentlichen Anlockens zur Unzucht im Sinne des Art. 206 StGB an.
Bezirksgericht Zürich und Obergericht des Kantons Zürich, letzteres mit Urteil vom 18. November 1954, sprachen sie frei. Das Obergericht führte im wesentlichen aus, Gewerbsmässigkeit und Öffentlichkeit des Anlockens zur Unzucht seien gegeben. Die Angeklagte habe aber nicht "durch Zumutungen oder Anträge" angelockt, wie Art. 206 voraussetze. Ein anderes Verhalten als blosses Dastehen, Flanieren und Warten auf Freier sowie die Bekanntgabe ihres Wohnortes an die sich an sie wendenden Freier habe ihr nicht nachgewiesen werden können. Ein weitergehendes Verhalten werde ihr von der Anklage auch nicht vorgeworfen, namentlich nicht, dass sie bestimmte Personen (jemanden) angelockt habe. Strafbar sei nach dem Wortlaut des Art. 206 StGB nicht das Anlocken schlechthin, sondern nur das Anlocken "durch Zumutungen oder Anträge". Hätte jedes Anlocken an sich unter Strafe gestellt werden wollen, so hätte ein Gesetzestext wie "wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden zur Unzucht anlockt..." oder "... zur Unzucht sich anbietet..." genügt. Mit den Worten "durch Zumutungen oder Anträge" verlange das Gesetz ein aktives, zudringliches Verhalten, und zwar müssten sich die Zumutungen und Anträge an "jemanden", also an eine bestimmte Person richten. Die Entstehungsgeschichte des Gesetzes zeige, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung gekommen seien. Weil in der II. Expertenkommission die Meinung geäussert worden sei, durch Zumutungen könne man nicht auffordern, der Begriff der Zumutung enthalte ein Sichaufdrängen gegen den Willen des andern (Protokoll 7 337), und weil darüber diskutiert worden sei und der Vorsitzende erklärt habe, die Redaktionskommission werde sich diese Bedenken noch überlegen, müsse angenommen werden, dass sowohl die II. Expertenkommission als auch die Redaktionskommission den Ausdruck bewusst in der Bestimmung belassen hätten. Zürcher habe denn auch in den Erläuterungen zum Vorentwurf von 1908, S. 466, ausgeführt, nicht jedes Betreten der öffentlichen Strasse zum Zwecke der Anwerbung, ein Auf- und Abgehen, das eigentlich nur demjenigen auffalle, der die Gelegenheit suche oder sonst für diese Vorgänge ein geschärftes Auge besitze, sei strafbar, sondern erst die Zudringlichkeit, d.h. die Prostituierte, die sich an die Männer herandränge, sie zu überreden suche und dadurch den Leuten lästig oder gefährlich werde. Dass die Angeklagte den von sich aus an sie herantretenden Freiern ihren Wohnort bekanntgegeben habe, könne - im Gegensatz zuBGE 68 IV 44- unmöglich als "Antrag" aufgefasst werden. Im Zeitpunkt, in dem die Angeklagte dem Freier ihre Wohnung genannt habe, sei das Einverständnis zwischen den beiden schon erzielt gewesen, das Anlocken also vollendet, aber ohne Zumutungen oder Anträge.
C.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei wegen Verletzung des Art. 206 StGB aufzuheben und die Sache an das Obergericht zurückzuweisen.
D.- Frau M. beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Gemäss Art. 206 StGB ist strafbar, wer gewerbsmässig und öffentlich jemanden durch Zumutungen oder Anträge zur Unzucht anlockt.
Dem Obergericht ist darin beizupflichten, dass die Worte "durch Zumutungen oder Anträge" nicht versehentlich in die Bestimmung aufgenommen worden und hier auch nicht überflüssig sind. Sie verlangen ein über das bewusste und gewollte gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht hinausgehendes Verhalten. Die Dirne, die sich auf die Strasse begibt, um z.B. Einkäufe zu besorgen, dabei aber auch gewillt ist, auf Anfrage zur entgeltlichen Unzucht einzugehen, wenn ihr Erscheinen in der Öffentlichkeit Männer anlocken sollte, macht sich damit noch nicht der Übertretung des Art. 206 schuldig. Dagegen erfüllt sie diese Bestimmung, wenn sie durch ihr Verhalten auf der Strasse das Zustandekommen des unsittlichen Geschäftes bewusst und gewollt fördert, z.B. an einen als Marktstand Prostituierter bekannten Ort hinsteht, sich nach Art einer Dirne kleidet oder putzt, durch auffälliges Herumschauen, einen bedeutsamen Blick auf Männer, langsames Auf- und Abgehen und dergleichen zu erkennen gibt, dass sie ihren Leib feilhält. In solchem Verhalten liegt ein Antrag. Dass er an einen ganz bestimmten Mann gerichtet sei, ist nicht nötig. Unter "jemand" im Sinne des Art. 206 ist jeder Vorbeigehende zu verstehen. Das Strafgesetzbuch steht hier auf dem gleichen Boden wie das Obligationenrecht, das die Auslage von Waren mit Angabe des Preises in der Regel als Antrag anerkennt, also nicht verlangt, dass der Antragsteller sich an eine bestimmte Person wende (Art. 7 Abs. 3 OR). Dass diese Bestimmung die Angabe des Preises voraussetzt, die Dirne beim Zumarktestehen den ihrigen dagegen nicht aushängt, ändert nichts. Das wesentliche ist, dass sie ihren Leib zur Schau stellt wie der Kaufmann seine Waren, um damit Kunden zu werben und Geschäfte abzuschliessen. Es wäre auch lebensfremd, die Dirne zu bestrafen, wenn sie einen bestimmten Mann anspricht, sie dagegen freizusprechen, wenn sie nur durch die Art ihres Benehmens den Vorbeigehenden zu erkennen gibt, dass sie zu haben ist, den konkreten Liebhaber jedoch an sich herantreten lässt. In gewissem Sinne geht sie durch die in ihrem konkludenten Verhalten liegende Aufforderung an alle sogar weiter und ist daher strafwürdiger, als wenn sie ihre Bereitschaft nur einem einzelnen zu erkennen gibt. Gewiss mag die Aufforderung an einen bestimmten einzelnen diesem lästig werden. Zum Schutze vor individueller Belästigung durch Anträge zur Unzucht ist jedoch schon Art. 205 StGB erlassen. Unter diesem Gesichtspunkt ist Art. 206 überflüssig. Letztere Bestimmung will die Sitten des Volkes heben und das öffentliche Ärgernis bekämpfen, das Prostituierte erregen, indem sie ihren Leib, für jedermann erkennbar, zu Markte tragen (vgl. WEISS, Die Prostitutionsfrage in der Schweiz und das schweiz. Strafgesetzbuch 215, 222; ZÜRCHER, Erläuterungen 465 f.; CLERC, Cours élémentaire sur le Code pénal suisse Nr. 134 a.E.). Dass Art. 206 die Interessen der Allgemeinheit, nicht des einzelnen, schützen will, ergibt sich auch daraus, dass sein Tatbestand im Gegensatz zu jenem des Art. 205 von Amtes wegen zu verfolgen ist.
2. Dass die Beschwerdegegnerin gewerbsmässig und öffentlich Männer zur Unzucht angelockt hat, nimmt mit Recht schon das Obergericht an. Art. 206 StGB ist nach den vorstehenden Ausführungen aber auch insofern erfüllt, als sie ihr Ziel durch "Anträge" erreicht hat. Diese bestanden darin, dass sie "in mehr oder weniger auffallender Kleidung und Aufmachung", also in einem Putz, der ihre Absicht der Werbung zur Unzucht verriet, in einem als Jagdrevier von Dirnen bekannten Gebiete durch Herumstehen und Herumschlendern zu erkennen gab, dass sie jedem gegen Bezahlung feil sei. Ob Anträge auch darin zu erblicken waren, dass sie, nachdem sie mit bestimmten Männern zur Unzucht einig geworden war, die Kunden durch Angabe ihrer Adresse stillschweigend einlud, ihr zum Vollzug des Geschäftes in ihre Wohnung zu folgen (vgl.BGE 68 IV 44), kann unter diesen Umständen dahingestellt bleiben.
3. Die Beschwerdegegnerin bestreitet nicht, dass sie die Tatbestandsmerkmale, die das gewerbsmässige öffentliche Anlocken zur Unzucht durch Anträge ausmachen, bewusst und gewollt gesetzt hat. Sie hat somit vorsätzlich gehandelt. Ihr Einwand, sie habe sich zur Ausübung ihrer Tätigkeit für berechtigt gehalten, weil sie sich bei der Polizei eingeschrieben habe und diese sie ihres Weges habe ziehen lassen, begründet keinen Irrtum über den Sachverhalt (Art. 19 StGB) und schliesst daher den Vorsatz nicht aus. Unter dem Gesichtspunkt des Rechtsirrtums sodann (Art. 20 StGB) hilft ihr diese Behauptung nicht, weil die polizeiliche Duldung ihres Gewerbes nicht den Sinn haben konnte, dass sie ihre Kunden in einer dem Art. 206 StGB widersprechenden Weise öffentlich werben möge. Das Verhalten der Polizei war kein "zureichender Grund" zu der irrtümlichen Annahme, der die Beschwerdegegnerin zum Opfer gefallen sein will. Ein Mindestmass an Gefühl für das, was recht ist, hätte der Beschwerdegegnerin gesagt, dass sie sich nicht so verhalten dürfe, wie sie es getan hat.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, das Urteil der I. Strafkammer des Obergerichtes des Kantons Zürich vom 18. November 1954 aufgehoben und die Sache zur Bestrafung der Beschwerdegegnerin an die Vorinstanz zurückgewiesen.
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Art. 206 CP. In quale atteggiamento si può ravvisare una proposta incitante alla libidine?
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81 IV 112
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Sachverhalt ab Seite 112
A.- Die Franz Stirnimann Baumaschinen AG vermietete dem Bauunternehmer J. Piller im Jahre 1952 einen Turmdrehkran und liess ihn auf einem von Piller hergestellten 22 m langen Geleise, dessen Enden vorschriftsgemäss durch Puffer gesichert waren, auf einem Bauplatz an der Lagerstrasse in Zürich aufrichten. Er diente dort dem Bau eines Hauses. Als dieses im Rohbau fertig war, liess Alois Kym, der als Polier im Dienste Pillers stand, am 8. August 1953 auf Weisung seines Vorgesetzten, des Bauführers Emil Leimgruber, das Geleise auf 9,5 m verkürzen und die weggenommenen Teile für die Erstellung eines Krangeleises auf einem anstossenden Bauplatz verwenden. Das frei gewordene Ende des ersten Geleises wurde bei diesem Anlass nur durch eine Holzschwelle gesichert, die mit Draht an die Unterlage gebunden wurde. Der Kran diente von da an nur noch gelegentlich zum Heben von Lasten für den Neubau. Im wesentlichen verwendete ihn die Franz Stirnimann Baumaschinen AG im Einverständnis mit Piller, um auf dem angrenzenden Bauplatz unter der Leitung ihres Monteurs Otto Schwaller einen anderen Kran aufzurichten. Bei dieser Verwendung fuhr der im Dienste Pillers stehende Kranführer Fritz Weibel am 17. August 1953 mit dem ersten Kran gegen die behelfsmässige Sicherung. Da sie zu schwach war, geriet der Kran auf die freischwebenden Enden der Schienen. Diese gaben nach, und der Kran neigte sich gegen den Neubau. Er riss einen Teil des Daches und des Baugerüstes in die Tiefe, wodurch einige sich auf dem Gerüst befindende Arbeiter, ferner Schüler in den gegen den Hof gerichteten Klassenzimmern des anstossenden Institutes Minerva sowie Anwohner und vorbeigehende Personen gefährdet wurden. Verletzt wurde niemand.
B.- Kym, Weibel und Schwaller wurden wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde (Art. 229 Abs. 2 StGB) und Beseitigung und Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen (Art. 230 StGB) angeklagt.
Das Bezirksgericht Zürich büsste alle drei wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde.
Auf Appellation der Verurteilten sprach das Obergericht des Kantons Zürich am 26. März 1954 Weibel frei, verurteilte dagegen Kym und Schwaller wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde zu je Fr. 80.- Busse.
Den Freispruch Weibels begründete es damit, dieser Angeklagte habe dadurch, dass er die ungenügende Sicherungsvorrichtung bei Kym beanstandet habe, getan, was ihm habe zugemutet werden können. Dass er sich im Glauben, durch vorsichtiges Fahren die Gefahr gänzlich ausschliessen zu können, geirrt habe, sei ihm strafrechtlich nicht anzurechnen, da technisch die Möglichkeit durchaus bestanden habe, durch rechtzeitiges Anhalten den Umsturz des Krans zu vermeiden.
Dem Kym warf das Obergericht vor, er habe für das teilweise Abbrechen der Kranbahn die Verantwortung getragen, aber trotz Kenntnis des Ungenügens der behelfsmässigen Sicherung keine dem Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebewerkzeugen im Hoch- und Tiefbau entsprechenden Prellböcke herbeischaffen lassen, wie sie ihm im Magazin Pillers zur Verfügung gestanden hätten. Dass ein Funktionär der Baupolizei während des Bestehens des Provisoriums auf der Baustelle gewesen sei und nichts beanstandet habe, entlaste ihn nicht.
Zum Verschulden Schwallers führte das Obergericht aus: Schwaller sei der beauftragte Fachmann für die Errichtung und den Abbruch der Krane gewesen. Er habe die mangelhafte Sicherungsvorrichtung bemerkt, und als Fachmann habe ihm die damit verbundene Gefahr klar sein müssen. Trotzdem sei er mit diesem Kran sogar selber eine zeitlang gefahren. Die Einwände, der Abbruch des Krans habe noch nicht begonnen, weshalb er für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, und die mangelhafte Sicherung habe schon bestanden, als er auf dem Platze erschienen sei, könnten nicht gehört werden. Art. 15 der Verordnung schreibe vor, die Montage und Demontage der Turmdrehkrane und der zugehörigen Vorrichtungen hätten unter fachkundiger Leitung zu erfolgen. Diese Leitung habe Schwaller obgelegen. Mindestens vom Zeitpunkte an, da er auf den Platz gekommen sei, den Mangel festgestellt und den Kran sogar selber bedient habe, habe ihn eine Mitverantwortung getroffen. Er hätte den Bauführer auf die Gefahr aufmerksam machen sollen. Auch der Einwand, er sei als Angestellter der Vermieterin des Krans nicht zuständig gewesen, bei Piller als Mieter vorstellig zu werden, da die Vermieterin den Abbruch des Krans noch nicht begonnen gehabt habe und für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, entlaste ihn nicht. Er sei unbestrittenermassen für die Aufstellung des zweiten Krans verantwortlich gewesen und habe gewusst, dass die vorschriftsgemässe Pufferung für diesen am anderen Kran weggenommen worden sei. Das sei eine zu diesem Kran gehörende Vorrichtung gewesen, die gemäss Art. 15 der Verordnung nur unter fachkundiger Leitung, die Schwaller zugekommen sei, habe demontiert werden dürfen. Schwaller sei auch verantwortlich, weil der erste Kran für die von ihm beaufsichtigte Errichtung des zweiten Krans verwendet worden sei. Seine Verantwortung habe daher auch den richtigen Einsatz der für diese Arbeit verwendeten Hilfsmittel insbesondere des ersten Krans, umfasst, auch wenn dessen Verwendung von Piller angeordnet worden sei.
Das Obergericht fügte bei, es käme selbst dann, wenn Art. 230 statt Art. 229 StGB anwendbar wäre, zum gleichen Ergebnis, nämlich dass Kym und Schwaller fahrlässig gehandelt haben, Weibel dagegen freizusprechen sei. Eine Verurteilung auf Grund ersterer Bestimmung wäre bei gleicher oder milderer Bestrafung keine reformatio in peius, da sich deren Verbot nur auf die Höhe der Strafe, nicht auch auf die rechtliche Würdigung des eingeklagten Sachverhaltes beziehe. Die Schwere des Verschuldens bliebe sich bei Anwendung des Art. 230 StGB gleich, und im Strafmass würde sich nichts ändern.
C.- Schwaller führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei insoweit aufzuheben, als es ihn betreffe, und die Sache sei zu seiner Freisprechung an das Obergericht zurückzuweisen.
Er macht geltend, ein Kran sei nicht ein Bauwerk, sondern eine Maschine. Art. 229 StGB treffe daher nicht zu. Das ergebe sich auch aus Art. 230 StGB, der die Beseitigung oder das Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen unter bestimmten Voraussetzungen unter Strafe stelle. Dieser Artikel käme praktisch nicht mehr in Frage, wenn alles, was sich auf einem Bauplatze befinde, als Bauwerk oder Bestandteil eines solchen zu würdigen wäre. Die Art. 229 und 230 StGB und die Verordnung der Stadt Zürich seien aber hier überhaupt nicht anwendbar. Für alle gemäss Art. 60 ff. KUVG der Unfallversicherung unterstellten Betriebe, in denen Krane benützt würden, gelte die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen. Art. 38 dieser Verordnung verweise auf die Strafbestimmung des Art. 66 KUVG. Da die Verordnung Sondergesetz und jünger sei als Art. 229 und 230 StGB, müsse das Urteil aufgehoben und der Beschwerdeführer freigesprochen werden. Die Aufhebung sei nötig, weil das Urteil gegen Art. 4 BV verstosse, da sich die Strafuntersuchung willkürlich nur mit Kym, Schwaller und Weibel befasst habe, statt mit allen in Betracht kommenden Personen. Wenn man Kym und Schwaller ein Verschulden vorwerfen wolle, müsse ein solches auch Weibel, Leimgruber, Piller und den Baupolizeibeamten Killer und Kaufmann vorgeworfen werden. Den Beschwerdeführer treffe nach seiner zivilrechtlichen Stellung keine Verantwortung. Mit der Errichtung und Übergabe des ersten Kranes im Dezember 1952 sei die Verantwortung für diesen und für dessen Bedienung bis zum Ende der Mietzeit auf Piller übergegangen. Weder die Franz Stirnimann Baumaschinen AG noch der Beschwerdeführer hätten etwas mit der Verkürzung des Geleises des ersten und der Erstellung der Bahn des zweiten Krans zu tun gehabt. Der Beschwerdeführer habe gesehen, dass das Ende des verkürzten Geleises nur behelfsmässig gesichert worden sei; doch sei es nicht seine Aufgabe gewesen, der Sache nachzugehen; er habe lediglich den neuen Kran aufzurichten gehabt. Ihn treffe kein Verschulden. Er sei nicht verpflichtet gewesen, die Fahrbahn und die Sicherungen des alten Krans zu untersuchen und Anweisungen zu erteilen, weil Piller sein Personal angewiesen gehabt habe, bei der Errichtung des zweiten Krans mit dem ersten beizustehen. Für den Zustand und die Benützbarkeit des letzteren seien Piller und dessen Angestellte allein verantwortlich gewesen. Auch hätte der Beschwerdeführer angesichts der zivilrechtlichen Regelung zwischen der Franz Stirnimann Baumaschinen AG und Piller und des Verhältnisses zu seiner Arbeitgeberin gar nicht das Recht gehabt, in Bezug auf den ersten Kran Weisungen zu erteilen. Der Beschwerdeführer habe auch annehmen dürfen, die neue Sicherung sei genehmigt. Jedenfalls sei es Sache des Piller und seiner Angestellten gewesen, die Genehmigung der Baupolizei einzuholen. Übrigens habe ja Weibel reklamiert. Der Beschwerdeführer dürfe nicht damit belastet werden, dass Piller und dessen Angestellte der Reklamation keine Folge gegeben haben. Er habe keine Schutzvorrichtung beseitigt, und man könne ihm auch nicht vorwerfen, er habe eine solche vorschriftswidrig nicht angebracht. Art. 230 StGB treffe daher nicht zu. Dass der erste Kran vom 8. bis 17. August 1953 ohne Unfall habe benützt werden können, beweise, dass Weibel schuld und die behauptete ungenügende Sicherung für das Ereignis nicht kausal sei. Sollte der Beschwerdeführer doch schuldig sein, so wäre sein Verschulden gegenüber dem der anderen Personen, insbesondere Pillers, Weibels, Kyms und Leimgrubers, äusserst geringfügig, sodass die Busse wesentlich herabgesetzt werden müsste; eine solche von Fr. 10.- reiche aus.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Die Nichtigkeitsbeschwerde ist nur gegen Verletzung eidgenössischen Rechts gegeben (Art. 269 Abs. 1 BStP), mit der Einschränkung, dass die Verletzung verfassungsmässiger Rechte, soweit ihr Inhalt nicht durch die eidgenössische Gesetzgebung näher umschrieben ist, mit staatsrechtlicher Beschwerde zu rügen ist (Art. 269 Abs. 2 BStP, Art. 84 Abs. 2 OG). Der Kassationshof hat daher lediglich zu prüfen, ob der Beschwerdeführer zu Recht verurteilt worden ist, nicht auch, ob wegen des Gebots der Rechtsgleichheit (Art. 4 BV) auch andere hätten verurteilt werden sollen. Unbegründete Nichtverurteilung Beteiligter kann nicht zur Folge haben, dass auch der Beschwerdeführer freizusprechen sei.
2. Die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen ist in Ausführung des Bundesgesetzes vom 13. Juni 1911 über die Kranken- und Unfallversicherung (KUVG), insbesondere seines Art. 65, erlassen worden. Sie will durch Verhütung von Betriebsunfällen den Interessen der obligatorischen Unfallversicherung dienen. Art. 229 und 230 StGB dagegen schützen Leib und Leben von Menschen um ihrer selbst willen, unabhängig von Versicherungsinteressen. Wie durch den Zweck, weicht die Verordnung auch durch die Tatbestände, die ihr Art. 38 in Verbindung mit Art. 66 KUVG unter Strafe stellt, von Art. 229 und 230 StGB ab. Die Verordnung setzt nicht voraus, dass jemand an Leib oder Leben konkret gefährdet worden sei, und strafbar macht sich gemäss Art. 66 KUVG nur, wer die Übertretung vorsätzlich begeht. Art. 229 und 230 StGB sind dagegen nur bei konkreter Gefährdung von Leib und Leben anwendbar, dann aber unabhängig davon, ob die Tat vorsätzlich oder nur fahrlässig verübt worden ist. Der Verschiedenheit der Zwecke und der Tatbestände entspricht die Verschiedenheit der angedrohten Strafen. Art. 66 KUVG sieht, ausgenommen für Rückfall, nur wahlweise oder kumulativ Busse bis zu fünfhundert Franken und Gefängnis bis zu drei Monaten vor, wobei seit der Geltung des Strafgesetzbuches gemäss dessen Art. 333 Abs. 2 statt auf Gefängnis auf Haft zu erkennen ist. Wer der Verordnung zuwider handelt, begeht somit eine blosse Übertretung. Die Art. 229 und 230 StGB dagegen umschreiben Vergehen, auf denen Gefängnis von drei Tagen bis zu drei Jahren und Busse stehen und bei deren fahrlässigen Begehung diese Strafen einzeln oder kumulativ ausgesprochen werden können (Art. 36 Ziff. 1, 50 Abs. 2 StGB). Unter diesen Umständen liegt auf der Hand, dass die Verordnung und Art. 66 KUVG den Art. 229 und 230 StGB nicht vorgehen können.
3. Nach Art. 229 Abs. 1 StGB ist strafbar, wer vorsätzlich bei der Leitung oder Ausführung eines Bauwerkes oder eines Abbruches die anerkannten Regeln der Baukunde ausser acht lässt und dadurch wissentlich Leib und Leben von Mitmenschen gefährdet. Lässt der Täter die anerkannten Regeln der Baukunde fahrlässig ausser acht, so trifft Art. 229 Abs. 2 zu.
Der Sturz des Krans war die natürliche Folge eines beim teilweisen Abbrechen seines Geleises begangenen Fehlers, der darin bestand, dass die vorgeschriebenen Puffer nicht wieder angebracht, sondern durch einen behelfsmässig befestigten Balken ersetzt wurden. Dennoch kann dem Beschwerdeführer nicht vorgeworfen werden, er habe im Sinne der erwähnten Bestimmung bei der Leitung oder Ausführung eines "Abbruches" anerkannte Regeln der Baukunde ausser acht gelassen. Abgesehen davon, dass die Verkürzung des Geleises von ihm weder geleitet noch ausgeführt wurde, ging sie ordnungsgemäss vor sich und kam es zu einem Unfalle nur, weil der nicht abgebrochene Rest des Geleises in vorschriftswidrigem Zustande weiterverwendet wurde. Es kann deshalb dahingestellt bleiben, ob unter einem "Abbruch" nur der Abbruch eines Bauwerkes zu verstehen ist - was der Umstand, dass Regeln der "Baukunde" verletzt worden sein müssen, nahe legt -, und ob das Geleise ein "Bauwerk" war.
Sollte das Geleise ein Bauwerk gewesen sein, so wäre freilich seine mangelhafte Sicherung als ein bei der Herrichtung der verkürzten Anlage unterlaufener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu würdigen. Allein auch unter diesem Gesichtspunkt könnte der Beschwerdeführer nicht nach Art. 229 bestraft werden, weil nicht er das verkürzte Geleise zur Weiterverwendung hergerichtet hat oder hat herrichten lassen.
Das verkürzte Geleise diente dem ersten Kran, mittelbar sodann der Aufrichtung des zweiten Krans und war damit auch Hilfsmittel für die Erstellung des Hauses, das unter Verwendung des zweiten Krans gebaut werden sollte. Da dieses Haus ein Bauwerk ist, wäre deshalb in der Verwendung des mit mangelhafter Sicherung versehenen Geleises selbst dann ein bei der Ausführung eines Bauwerkes begangener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu sehen, wenn nicht auch schon der zweite Kran als Bauwerk und seine Aufrichtung als gegen solche Regeln verstossend zu würdigen wäre; vorausgesetzt immerhin, dass Art. 229 auch dann zutreffe, wenn der Verstoss nicht am Bauwerk selber, sondern lediglich an den bei seiner Erstellung verwendeten Hilfseinrichtungen (Gerüste, Maschinen usw.) in Erscheinung tritt. Ob diese Bestimmung diesen weiten Sinn hat und der Beschwerdeführer, weil er sich des mangelhaft gesicherten ersten Krans bedient hat, nach ihr strafbar ist, kann indessen offen bleiben; denn jedenfalls hat er sich nach Art. 230 StGB vergangen, dessen Anwendung dem Obergericht ohne Verletzung eidgenössischen Rechts zur Ausfällung der gleichen Strafe hätte Anlass geben können und, wie es ausführt, tatsächlich Anlass gegeben hätte.
4. Art. 230 StGB bedroht mit Strafe den, der "vorsätzlich in Fabriken oder in andern Betrieben oder an Maschinen eine zur Verhütung von Unfällen dienende Vorrichtung beschädigt, zerstört, beseitigt oder sonst unbrauchbar macht oder ausser Tätigkeit setzt" (Ziff. 1 Abs. 1) oder "vorsätzlich eine solche Vorrichtung vorschriftswidrig nicht anbringt" (Ziff. 1 Abs. 2). Strafbar macht sich auch, wer fahrlässig handelt (Ziff. 2).
Die von Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebezeugen im Hoch- und Tiefbau vorgeschriebenen Puffer oder geeigneten Prellböcke, die an den Enden der Geleise von Kranen angebracht werden müssen, sind Vorrichtungen, die der Verhütung von Unfällen dienen. Waren im vorliegenden Falle bei der Erstellung der 22 m langen Geleiseanlage vorschriftsgemäss Puffer angebracht worden, so ist nichtsdestoweniger klar, dass sie auch nach der Verkürzung des Geleises wieder anzubringen waren. Fragen kann sich nur, ob diese vorschriftswidrige Unterlassung lediglich dem zum Betriebe Pillers gehörenden Personal, das das Geleise verkürzte, oder auch dem Beschwerdeführer, der den ersten Kran auf ihm zwecks Erstellung des zweiten Krans verkehren liess, zur Last fällt.
Die strafrechtliche Verantwortlichkeit des Beschwerdeführers lässt sich nicht mit der Begründung verneinen, weder er noch die Franz Stirnimann Baumaschinen AG als seine Arbeitgeberin seien zivilrechtlich verpflichtet gewesen, das Geleise in betriebssicheren Zustand zu bringen. Art. 230 StGB auferlegt Pflichten nicht nur dem Betriebsinhaber und den ihm gegenüber zivilrechtlich gebundenen Gehilfen. Diese Einschränkung würde den Schutz von Leib und Leben, dem die Bestimmung dienen will, erheblich abschwächen. Jeder, der seine Sicherheitsvorrichtung der umschriebenen Art vorsätzlich oder fahrlässig beseitigt, macht sich strafbar, desgleichen jeder, der eine solche vorsätzlich oder fahrlässig nicht anbringt, wenn er nach gesetzlicher Vorschrift, nach Vertrag oder auch bloss nach den Umständen zur Anbringung verpflichtet ist. Für den Beschwerdeführer ergab sich eine solche Pflicht daraus, dass er den mangelhaft gesicherten Kran, wenn auch mit Einwilligung Pillers, zu der ihm obliegenden Aufrichtung des zweiten Krans verwenden liess.
Auch in subjektiver Hinsicht trifft Art. 230 zu. Der Beschwerdeführer wusste, dass das Geleise statt der vorgeschriebenen Puffer nur eine behelfsmässige Sicherung trug. Über deren Ungenügen konnte er sich als Fachmann bei pflichtgemässer Überlegung Rechenschaft geben. Dass eine so liederliche Vorrichtung von der Baupolizei genehmigt worden sei, durfte er nicht annehmen, und selbst wenn er es hätte annehmen dürfen, wäre er nicht entschuldigt, da sein Fachwissen ausreichte, um zu erkennen, dass sie den Vorschriften nicht entsprach. Das Mitverschulden des Kym, der trotz der Beanstandung durch Weibel nicht für Abhilfe sorgte, ändert an der Pflichtwidrigkeit der Unterlassung des Beschwerdeführers nichts. Dieser hätte verlangen sollen, es seien vorschriftsgemässe Puffer anzubringen. Wäre seinem Begehren nicht entsprochen worden, hätte er sich weigern sollen, den Kran für die Aufrichtung des andern zu benützen. Der Beschwerdeführer konnte sich auch Rechenschaft geben, dass selbst die Bedienung durch einen gewissenhaften Kranführer einen Unfall nicht ausschloss. Gerade weil es schwierig ist, einen Kran so zuverlässig zu führen, dass er nicht über die Enden des Geleises hinaus gerät, zumal wenn dieses nur 9 m lang ist, werden vorschriftsgemässe Puffer verlangt. Ob Weibel den Unfall hätte verhüten können, ist deshalb unerheblich; mit einem allfälligen Versagen musste der Beschwerdeführer rechnen. Dass der Kran stürzen und Menschen gefährden könne, wenn er auf die frei schwebenden Enden der Schienen geraten würde, musste der Beschwerdeführer sich ebenfalls sagen. Der Vorwurf fahrlässigen Verhaltens ist ihm gegenüber in allen Teilen begründet.
5. Die Bestreitung des Kausalszusammenhanges zwischen der ungenügenden Sicherung und dem Sturz des Krans hält nicht stand. Der Beschwerdeführer behauptet nicht, dass der Unfall auch eingetreten wäre, wenn die Geleise vorschriftsgemässe Puffer getragen hätten. Fuhr der Kran aber nur deshalb über das Geleise hinaus, weil die behelfsmässige Sicherung nachgab, nicht weil etwa Weibel mit unvoraussehbarer Wucht gegen diese angefahren wäre, so ist sowohl der natürliche Zusammenhang zwischen der pflichtwidrigen Unterlassung des Beschwerdeführers und der Gefährdung von Leib und Leben anderer, als auch die Adäquanz dieses Zusammenhanges zu bejahen; gerade weil nach dem gewöhnlichen Lauf der Dinge die ungenügende Sicherung eines Turmdrehkrans zu Unfällen solcher Art führen kann, schreibt die Verordnung der Stadt Zürich Puffer oder geeignete Prellböcke vor.
6. Da der Kassationshof nicht Appellationsinstanz ist, hat er die Strafe nicht nach eigenem Ermessen zu bestimmen. Er könnte die Herabsetzung der Busse nur verfügen, wenn sie nach unzutreffenden rechtlichen Gesichtspunkten zugemessen worden oder willkürlich hart wäre (BGE 68 IV 21,BGE 78 IV 72). Davon kann angesichts der schweren Gefahr für Leib und Leben von Menschen, die der Beschwerdeführer geschaffen hat, keine Rede sein. Eher liesse sich von übertriebener Milde sprechen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen, soweit darauf eingetreten werden kann.
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1. Art. 269 BStP. Verhältnis der Nichtigkeitsbeschwerde zur staatsrechtlichen Beschwerde (Erw. 1). Darf der Kassationshof die Angemessenheit der Strafe überprüfen? (Erw. 6). 2. Art. 38 der Verordnung vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen und Art. 66 K U V G stehen der Anwendung der Art. 229 und 230 StGB nicht im Wege (Erw. 2).
3. Art. 229 StGB. Muss der Verstoss gegen Regeln der Baukunde im Bauwerk in Erscheinung treten? (Erw. 3).
4. Art. 230 StGB. Wer kann sich der Beseitigung oder Nichtanbringung einer Sicherheitsvorrichtung schuldig machen? (Erw. 4). Adäquater Kausalzusammenhang (Erw. 5).
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81 IV 112
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Sachverhalt ab Seite 112
A.- Die Franz Stirnimann Baumaschinen AG vermietete dem Bauunternehmer J. Piller im Jahre 1952 einen Turmdrehkran und liess ihn auf einem von Piller hergestellten 22 m langen Geleise, dessen Enden vorschriftsgemäss durch Puffer gesichert waren, auf einem Bauplatz an der Lagerstrasse in Zürich aufrichten. Er diente dort dem Bau eines Hauses. Als dieses im Rohbau fertig war, liess Alois Kym, der als Polier im Dienste Pillers stand, am 8. August 1953 auf Weisung seines Vorgesetzten, des Bauführers Emil Leimgruber, das Geleise auf 9,5 m verkürzen und die weggenommenen Teile für die Erstellung eines Krangeleises auf einem anstossenden Bauplatz verwenden. Das frei gewordene Ende des ersten Geleises wurde bei diesem Anlass nur durch eine Holzschwelle gesichert, die mit Draht an die Unterlage gebunden wurde. Der Kran diente von da an nur noch gelegentlich zum Heben von Lasten für den Neubau. Im wesentlichen verwendete ihn die Franz Stirnimann Baumaschinen AG im Einverständnis mit Piller, um auf dem angrenzenden Bauplatz unter der Leitung ihres Monteurs Otto Schwaller einen anderen Kran aufzurichten. Bei dieser Verwendung fuhr der im Dienste Pillers stehende Kranführer Fritz Weibel am 17. August 1953 mit dem ersten Kran gegen die behelfsmässige Sicherung. Da sie zu schwach war, geriet der Kran auf die freischwebenden Enden der Schienen. Diese gaben nach, und der Kran neigte sich gegen den Neubau. Er riss einen Teil des Daches und des Baugerüstes in die Tiefe, wodurch einige sich auf dem Gerüst befindende Arbeiter, ferner Schüler in den gegen den Hof gerichteten Klassenzimmern des anstossenden Institutes Minerva sowie Anwohner und vorbeigehende Personen gefährdet wurden. Verletzt wurde niemand.
B.- Kym, Weibel und Schwaller wurden wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde (Art. 229 Abs. 2 StGB) und Beseitigung und Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen (Art. 230 StGB) angeklagt.
Das Bezirksgericht Zürich büsste alle drei wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde.
Auf Appellation der Verurteilten sprach das Obergericht des Kantons Zürich am 26. März 1954 Weibel frei, verurteilte dagegen Kym und Schwaller wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde zu je Fr. 80.- Busse.
Den Freispruch Weibels begründete es damit, dieser Angeklagte habe dadurch, dass er die ungenügende Sicherungsvorrichtung bei Kym beanstandet habe, getan, was ihm habe zugemutet werden können. Dass er sich im Glauben, durch vorsichtiges Fahren die Gefahr gänzlich ausschliessen zu können, geirrt habe, sei ihm strafrechtlich nicht anzurechnen, da technisch die Möglichkeit durchaus bestanden habe, durch rechtzeitiges Anhalten den Umsturz des Krans zu vermeiden.
Dem Kym warf das Obergericht vor, er habe für das teilweise Abbrechen der Kranbahn die Verantwortung getragen, aber trotz Kenntnis des Ungenügens der behelfsmässigen Sicherung keine dem Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebewerkzeugen im Hoch- und Tiefbau entsprechenden Prellböcke herbeischaffen lassen, wie sie ihm im Magazin Pillers zur Verfügung gestanden hätten. Dass ein Funktionär der Baupolizei während des Bestehens des Provisoriums auf der Baustelle gewesen sei und nichts beanstandet habe, entlaste ihn nicht.
Zum Verschulden Schwallers führte das Obergericht aus: Schwaller sei der beauftragte Fachmann für die Errichtung und den Abbruch der Krane gewesen. Er habe die mangelhafte Sicherungsvorrichtung bemerkt, und als Fachmann habe ihm die damit verbundene Gefahr klar sein müssen. Trotzdem sei er mit diesem Kran sogar selber eine zeitlang gefahren. Die Einwände, der Abbruch des Krans habe noch nicht begonnen, weshalb er für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, und die mangelhafte Sicherung habe schon bestanden, als er auf dem Platze erschienen sei, könnten nicht gehört werden. Art. 15 der Verordnung schreibe vor, die Montage und Demontage der Turmdrehkrane und der zugehörigen Vorrichtungen hätten unter fachkundiger Leitung zu erfolgen. Diese Leitung habe Schwaller obgelegen. Mindestens vom Zeitpunkte an, da er auf den Platz gekommen sei, den Mangel festgestellt und den Kran sogar selber bedient habe, habe ihn eine Mitverantwortung getroffen. Er hätte den Bauführer auf die Gefahr aufmerksam machen sollen. Auch der Einwand, er sei als Angestellter der Vermieterin des Krans nicht zuständig gewesen, bei Piller als Mieter vorstellig zu werden, da die Vermieterin den Abbruch des Krans noch nicht begonnen gehabt habe und für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, entlaste ihn nicht. Er sei unbestrittenermassen für die Aufstellung des zweiten Krans verantwortlich gewesen und habe gewusst, dass die vorschriftsgemässe Pufferung für diesen am anderen Kran weggenommen worden sei. Das sei eine zu diesem Kran gehörende Vorrichtung gewesen, die gemäss Art. 15 der Verordnung nur unter fachkundiger Leitung, die Schwaller zugekommen sei, habe demontiert werden dürfen. Schwaller sei auch verantwortlich, weil der erste Kran für die von ihm beaufsichtigte Errichtung des zweiten Krans verwendet worden sei. Seine Verantwortung habe daher auch den richtigen Einsatz der für diese Arbeit verwendeten Hilfsmittel insbesondere des ersten Krans, umfasst, auch wenn dessen Verwendung von Piller angeordnet worden sei.
Das Obergericht fügte bei, es käme selbst dann, wenn Art. 230 statt Art. 229 StGB anwendbar wäre, zum gleichen Ergebnis, nämlich dass Kym und Schwaller fahrlässig gehandelt haben, Weibel dagegen freizusprechen sei. Eine Verurteilung auf Grund ersterer Bestimmung wäre bei gleicher oder milderer Bestrafung keine reformatio in peius, da sich deren Verbot nur auf die Höhe der Strafe, nicht auch auf die rechtliche Würdigung des eingeklagten Sachverhaltes beziehe. Die Schwere des Verschuldens bliebe sich bei Anwendung des Art. 230 StGB gleich, und im Strafmass würde sich nichts ändern.
C.- Schwaller führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei insoweit aufzuheben, als es ihn betreffe, und die Sache sei zu seiner Freisprechung an das Obergericht zurückzuweisen.
Er macht geltend, ein Kran sei nicht ein Bauwerk, sondern eine Maschine. Art. 229 StGB treffe daher nicht zu. Das ergebe sich auch aus Art. 230 StGB, der die Beseitigung oder das Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen unter bestimmten Voraussetzungen unter Strafe stelle. Dieser Artikel käme praktisch nicht mehr in Frage, wenn alles, was sich auf einem Bauplatze befinde, als Bauwerk oder Bestandteil eines solchen zu würdigen wäre. Die Art. 229 und 230 StGB und die Verordnung der Stadt Zürich seien aber hier überhaupt nicht anwendbar. Für alle gemäss Art. 60 ff. KUVG der Unfallversicherung unterstellten Betriebe, in denen Krane benützt würden, gelte die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen. Art. 38 dieser Verordnung verweise auf die Strafbestimmung des Art. 66 KUVG. Da die Verordnung Sondergesetz und jünger sei als Art. 229 und 230 StGB, müsse das Urteil aufgehoben und der Beschwerdeführer freigesprochen werden. Die Aufhebung sei nötig, weil das Urteil gegen Art. 4 BV verstosse, da sich die Strafuntersuchung willkürlich nur mit Kym, Schwaller und Weibel befasst habe, statt mit allen in Betracht kommenden Personen. Wenn man Kym und Schwaller ein Verschulden vorwerfen wolle, müsse ein solches auch Weibel, Leimgruber, Piller und den Baupolizeibeamten Killer und Kaufmann vorgeworfen werden. Den Beschwerdeführer treffe nach seiner zivilrechtlichen Stellung keine Verantwortung. Mit der Errichtung und Übergabe des ersten Kranes im Dezember 1952 sei die Verantwortung für diesen und für dessen Bedienung bis zum Ende der Mietzeit auf Piller übergegangen. Weder die Franz Stirnimann Baumaschinen AG noch der Beschwerdeführer hätten etwas mit der Verkürzung des Geleises des ersten und der Erstellung der Bahn des zweiten Krans zu tun gehabt. Der Beschwerdeführer habe gesehen, dass das Ende des verkürzten Geleises nur behelfsmässig gesichert worden sei; doch sei es nicht seine Aufgabe gewesen, der Sache nachzugehen; er habe lediglich den neuen Kran aufzurichten gehabt. Ihn treffe kein Verschulden. Er sei nicht verpflichtet gewesen, die Fahrbahn und die Sicherungen des alten Krans zu untersuchen und Anweisungen zu erteilen, weil Piller sein Personal angewiesen gehabt habe, bei der Errichtung des zweiten Krans mit dem ersten beizustehen. Für den Zustand und die Benützbarkeit des letzteren seien Piller und dessen Angestellte allein verantwortlich gewesen. Auch hätte der Beschwerdeführer angesichts der zivilrechtlichen Regelung zwischen der Franz Stirnimann Baumaschinen AG und Piller und des Verhältnisses zu seiner Arbeitgeberin gar nicht das Recht gehabt, in Bezug auf den ersten Kran Weisungen zu erteilen. Der Beschwerdeführer habe auch annehmen dürfen, die neue Sicherung sei genehmigt. Jedenfalls sei es Sache des Piller und seiner Angestellten gewesen, die Genehmigung der Baupolizei einzuholen. Übrigens habe ja Weibel reklamiert. Der Beschwerdeführer dürfe nicht damit belastet werden, dass Piller und dessen Angestellte der Reklamation keine Folge gegeben haben. Er habe keine Schutzvorrichtung beseitigt, und man könne ihm auch nicht vorwerfen, er habe eine solche vorschriftswidrig nicht angebracht. Art. 230 StGB treffe daher nicht zu. Dass der erste Kran vom 8. bis 17. August 1953 ohne Unfall habe benützt werden können, beweise, dass Weibel schuld und die behauptete ungenügende Sicherung für das Ereignis nicht kausal sei. Sollte der Beschwerdeführer doch schuldig sein, so wäre sein Verschulden gegenüber dem der anderen Personen, insbesondere Pillers, Weibels, Kyms und Leimgrubers, äusserst geringfügig, sodass die Busse wesentlich herabgesetzt werden müsste; eine solche von Fr. 10.- reiche aus.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Die Nichtigkeitsbeschwerde ist nur gegen Verletzung eidgenössischen Rechts gegeben (Art. 269 Abs. 1 BStP), mit der Einschränkung, dass die Verletzung verfassungsmässiger Rechte, soweit ihr Inhalt nicht durch die eidgenössische Gesetzgebung näher umschrieben ist, mit staatsrechtlicher Beschwerde zu rügen ist (Art. 269 Abs. 2 BStP, Art. 84 Abs. 2 OG). Der Kassationshof hat daher lediglich zu prüfen, ob der Beschwerdeführer zu Recht verurteilt worden ist, nicht auch, ob wegen des Gebots der Rechtsgleichheit (Art. 4 BV) auch andere hätten verurteilt werden sollen. Unbegründete Nichtverurteilung Beteiligter kann nicht zur Folge haben, dass auch der Beschwerdeführer freizusprechen sei.
2. Die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen ist in Ausführung des Bundesgesetzes vom 13. Juni 1911 über die Kranken- und Unfallversicherung (KUVG), insbesondere seines Art. 65, erlassen worden. Sie will durch Verhütung von Betriebsunfällen den Interessen der obligatorischen Unfallversicherung dienen. Art. 229 und 230 StGB dagegen schützen Leib und Leben von Menschen um ihrer selbst willen, unabhängig von Versicherungsinteressen. Wie durch den Zweck, weicht die Verordnung auch durch die Tatbestände, die ihr Art. 38 in Verbindung mit Art. 66 KUVG unter Strafe stellt, von Art. 229 und 230 StGB ab. Die Verordnung setzt nicht voraus, dass jemand an Leib oder Leben konkret gefährdet worden sei, und strafbar macht sich gemäss Art. 66 KUVG nur, wer die Übertretung vorsätzlich begeht. Art. 229 und 230 StGB sind dagegen nur bei konkreter Gefährdung von Leib und Leben anwendbar, dann aber unabhängig davon, ob die Tat vorsätzlich oder nur fahrlässig verübt worden ist. Der Verschiedenheit der Zwecke und der Tatbestände entspricht die Verschiedenheit der angedrohten Strafen. Art. 66 KUVG sieht, ausgenommen für Rückfall, nur wahlweise oder kumulativ Busse bis zu fünfhundert Franken und Gefängnis bis zu drei Monaten vor, wobei seit der Geltung des Strafgesetzbuches gemäss dessen Art. 333 Abs. 2 statt auf Gefängnis auf Haft zu erkennen ist. Wer der Verordnung zuwider handelt, begeht somit eine blosse Übertretung. Die Art. 229 und 230 StGB dagegen umschreiben Vergehen, auf denen Gefängnis von drei Tagen bis zu drei Jahren und Busse stehen und bei deren fahrlässigen Begehung diese Strafen einzeln oder kumulativ ausgesprochen werden können (Art. 36 Ziff. 1, 50 Abs. 2 StGB). Unter diesen Umständen liegt auf der Hand, dass die Verordnung und Art. 66 KUVG den Art. 229 und 230 StGB nicht vorgehen können.
3. Nach Art. 229 Abs. 1 StGB ist strafbar, wer vorsätzlich bei der Leitung oder Ausführung eines Bauwerkes oder eines Abbruches die anerkannten Regeln der Baukunde ausser acht lässt und dadurch wissentlich Leib und Leben von Mitmenschen gefährdet. Lässt der Täter die anerkannten Regeln der Baukunde fahrlässig ausser acht, so trifft Art. 229 Abs. 2 zu.
Der Sturz des Krans war die natürliche Folge eines beim teilweisen Abbrechen seines Geleises begangenen Fehlers, der darin bestand, dass die vorgeschriebenen Puffer nicht wieder angebracht, sondern durch einen behelfsmässig befestigten Balken ersetzt wurden. Dennoch kann dem Beschwerdeführer nicht vorgeworfen werden, er habe im Sinne der erwähnten Bestimmung bei der Leitung oder Ausführung eines "Abbruches" anerkannte Regeln der Baukunde ausser acht gelassen. Abgesehen davon, dass die Verkürzung des Geleises von ihm weder geleitet noch ausgeführt wurde, ging sie ordnungsgemäss vor sich und kam es zu einem Unfalle nur, weil der nicht abgebrochene Rest des Geleises in vorschriftswidrigem Zustande weiterverwendet wurde. Es kann deshalb dahingestellt bleiben, ob unter einem "Abbruch" nur der Abbruch eines Bauwerkes zu verstehen ist - was der Umstand, dass Regeln der "Baukunde" verletzt worden sein müssen, nahe legt -, und ob das Geleise ein "Bauwerk" war.
Sollte das Geleise ein Bauwerk gewesen sein, so wäre freilich seine mangelhafte Sicherung als ein bei der Herrichtung der verkürzten Anlage unterlaufener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu würdigen. Allein auch unter diesem Gesichtspunkt könnte der Beschwerdeführer nicht nach Art. 229 bestraft werden, weil nicht er das verkürzte Geleise zur Weiterverwendung hergerichtet hat oder hat herrichten lassen.
Das verkürzte Geleise diente dem ersten Kran, mittelbar sodann der Aufrichtung des zweiten Krans und war damit auch Hilfsmittel für die Erstellung des Hauses, das unter Verwendung des zweiten Krans gebaut werden sollte. Da dieses Haus ein Bauwerk ist, wäre deshalb in der Verwendung des mit mangelhafter Sicherung versehenen Geleises selbst dann ein bei der Ausführung eines Bauwerkes begangener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu sehen, wenn nicht auch schon der zweite Kran als Bauwerk und seine Aufrichtung als gegen solche Regeln verstossend zu würdigen wäre; vorausgesetzt immerhin, dass Art. 229 auch dann zutreffe, wenn der Verstoss nicht am Bauwerk selber, sondern lediglich an den bei seiner Erstellung verwendeten Hilfseinrichtungen (Gerüste, Maschinen usw.) in Erscheinung tritt. Ob diese Bestimmung diesen weiten Sinn hat und der Beschwerdeführer, weil er sich des mangelhaft gesicherten ersten Krans bedient hat, nach ihr strafbar ist, kann indessen offen bleiben; denn jedenfalls hat er sich nach Art. 230 StGB vergangen, dessen Anwendung dem Obergericht ohne Verletzung eidgenössischen Rechts zur Ausfällung der gleichen Strafe hätte Anlass geben können und, wie es ausführt, tatsächlich Anlass gegeben hätte.
4. Art. 230 StGB bedroht mit Strafe den, der "vorsätzlich in Fabriken oder in andern Betrieben oder an Maschinen eine zur Verhütung von Unfällen dienende Vorrichtung beschädigt, zerstört, beseitigt oder sonst unbrauchbar macht oder ausser Tätigkeit setzt" (Ziff. 1 Abs. 1) oder "vorsätzlich eine solche Vorrichtung vorschriftswidrig nicht anbringt" (Ziff. 1 Abs. 2). Strafbar macht sich auch, wer fahrlässig handelt (Ziff. 2).
Die von Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebezeugen im Hoch- und Tiefbau vorgeschriebenen Puffer oder geeigneten Prellböcke, die an den Enden der Geleise von Kranen angebracht werden müssen, sind Vorrichtungen, die der Verhütung von Unfällen dienen. Waren im vorliegenden Falle bei der Erstellung der 22 m langen Geleiseanlage vorschriftsgemäss Puffer angebracht worden, so ist nichtsdestoweniger klar, dass sie auch nach der Verkürzung des Geleises wieder anzubringen waren. Fragen kann sich nur, ob diese vorschriftswidrige Unterlassung lediglich dem zum Betriebe Pillers gehörenden Personal, das das Geleise verkürzte, oder auch dem Beschwerdeführer, der den ersten Kran auf ihm zwecks Erstellung des zweiten Krans verkehren liess, zur Last fällt.
Die strafrechtliche Verantwortlichkeit des Beschwerdeführers lässt sich nicht mit der Begründung verneinen, weder er noch die Franz Stirnimann Baumaschinen AG als seine Arbeitgeberin seien zivilrechtlich verpflichtet gewesen, das Geleise in betriebssicheren Zustand zu bringen. Art. 230 StGB auferlegt Pflichten nicht nur dem Betriebsinhaber und den ihm gegenüber zivilrechtlich gebundenen Gehilfen. Diese Einschränkung würde den Schutz von Leib und Leben, dem die Bestimmung dienen will, erheblich abschwächen. Jeder, der seine Sicherheitsvorrichtung der umschriebenen Art vorsätzlich oder fahrlässig beseitigt, macht sich strafbar, desgleichen jeder, der eine solche vorsätzlich oder fahrlässig nicht anbringt, wenn er nach gesetzlicher Vorschrift, nach Vertrag oder auch bloss nach den Umständen zur Anbringung verpflichtet ist. Für den Beschwerdeführer ergab sich eine solche Pflicht daraus, dass er den mangelhaft gesicherten Kran, wenn auch mit Einwilligung Pillers, zu der ihm obliegenden Aufrichtung des zweiten Krans verwenden liess.
Auch in subjektiver Hinsicht trifft Art. 230 zu. Der Beschwerdeführer wusste, dass das Geleise statt der vorgeschriebenen Puffer nur eine behelfsmässige Sicherung trug. Über deren Ungenügen konnte er sich als Fachmann bei pflichtgemässer Überlegung Rechenschaft geben. Dass eine so liederliche Vorrichtung von der Baupolizei genehmigt worden sei, durfte er nicht annehmen, und selbst wenn er es hätte annehmen dürfen, wäre er nicht entschuldigt, da sein Fachwissen ausreichte, um zu erkennen, dass sie den Vorschriften nicht entsprach. Das Mitverschulden des Kym, der trotz der Beanstandung durch Weibel nicht für Abhilfe sorgte, ändert an der Pflichtwidrigkeit der Unterlassung des Beschwerdeführers nichts. Dieser hätte verlangen sollen, es seien vorschriftsgemässe Puffer anzubringen. Wäre seinem Begehren nicht entsprochen worden, hätte er sich weigern sollen, den Kran für die Aufrichtung des andern zu benützen. Der Beschwerdeführer konnte sich auch Rechenschaft geben, dass selbst die Bedienung durch einen gewissenhaften Kranführer einen Unfall nicht ausschloss. Gerade weil es schwierig ist, einen Kran so zuverlässig zu führen, dass er nicht über die Enden des Geleises hinaus gerät, zumal wenn dieses nur 9 m lang ist, werden vorschriftsgemässe Puffer verlangt. Ob Weibel den Unfall hätte verhüten können, ist deshalb unerheblich; mit einem allfälligen Versagen musste der Beschwerdeführer rechnen. Dass der Kran stürzen und Menschen gefährden könne, wenn er auf die frei schwebenden Enden der Schienen geraten würde, musste der Beschwerdeführer sich ebenfalls sagen. Der Vorwurf fahrlässigen Verhaltens ist ihm gegenüber in allen Teilen begründet.
5. Die Bestreitung des Kausalszusammenhanges zwischen der ungenügenden Sicherung und dem Sturz des Krans hält nicht stand. Der Beschwerdeführer behauptet nicht, dass der Unfall auch eingetreten wäre, wenn die Geleise vorschriftsgemässe Puffer getragen hätten. Fuhr der Kran aber nur deshalb über das Geleise hinaus, weil die behelfsmässige Sicherung nachgab, nicht weil etwa Weibel mit unvoraussehbarer Wucht gegen diese angefahren wäre, so ist sowohl der natürliche Zusammenhang zwischen der pflichtwidrigen Unterlassung des Beschwerdeführers und der Gefährdung von Leib und Leben anderer, als auch die Adäquanz dieses Zusammenhanges zu bejahen; gerade weil nach dem gewöhnlichen Lauf der Dinge die ungenügende Sicherung eines Turmdrehkrans zu Unfällen solcher Art führen kann, schreibt die Verordnung der Stadt Zürich Puffer oder geeignete Prellböcke vor.
6. Da der Kassationshof nicht Appellationsinstanz ist, hat er die Strafe nicht nach eigenem Ermessen zu bestimmen. Er könnte die Herabsetzung der Busse nur verfügen, wenn sie nach unzutreffenden rechtlichen Gesichtspunkten zugemessen worden oder willkürlich hart wäre (BGE 68 IV 21,BGE 78 IV 72). Davon kann angesichts der schweren Gefahr für Leib und Leben von Menschen, die der Beschwerdeführer geschaffen hat, keine Rede sein. Eher liesse sich von übertriebener Milde sprechen.
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Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen, soweit darauf eingetreten werden kann.
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1. Art. 269 PPF. Rapport du pourvoi en nullité et du recours de droit public (consid. 1). La Cour de cassation peut-elle revoir la fixation de la peine? (consid. 6). 2. L'art. 38 de l'Ordonnance du 22 juin 1951 concernant les mesures destinées à prévenir des accidents dans l'emploi de grues et d'engins de levage et l'art. 66 LAMA ne font pas obstacle à l'application des art. 229 et 230 CP.
3. Art. 229 CP. La violation des règles de l'art de construire doitelle apparaître dans l'ouvrage? (consid. 3).
4. Art. 230 CP. Qui peut se rendre coupable de la suppression ou de la non-installation d'un appareil de protection? (consid. 4). Rapport de causalité adéquate (consid. 5).
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Sachverhalt ab Seite 112
A.- Die Franz Stirnimann Baumaschinen AG vermietete dem Bauunternehmer J. Piller im Jahre 1952 einen Turmdrehkran und liess ihn auf einem von Piller hergestellten 22 m langen Geleise, dessen Enden vorschriftsgemäss durch Puffer gesichert waren, auf einem Bauplatz an der Lagerstrasse in Zürich aufrichten. Er diente dort dem Bau eines Hauses. Als dieses im Rohbau fertig war, liess Alois Kym, der als Polier im Dienste Pillers stand, am 8. August 1953 auf Weisung seines Vorgesetzten, des Bauführers Emil Leimgruber, das Geleise auf 9,5 m verkürzen und die weggenommenen Teile für die Erstellung eines Krangeleises auf einem anstossenden Bauplatz verwenden. Das frei gewordene Ende des ersten Geleises wurde bei diesem Anlass nur durch eine Holzschwelle gesichert, die mit Draht an die Unterlage gebunden wurde. Der Kran diente von da an nur noch gelegentlich zum Heben von Lasten für den Neubau. Im wesentlichen verwendete ihn die Franz Stirnimann Baumaschinen AG im Einverständnis mit Piller, um auf dem angrenzenden Bauplatz unter der Leitung ihres Monteurs Otto Schwaller einen anderen Kran aufzurichten. Bei dieser Verwendung fuhr der im Dienste Pillers stehende Kranführer Fritz Weibel am 17. August 1953 mit dem ersten Kran gegen die behelfsmässige Sicherung. Da sie zu schwach war, geriet der Kran auf die freischwebenden Enden der Schienen. Diese gaben nach, und der Kran neigte sich gegen den Neubau. Er riss einen Teil des Daches und des Baugerüstes in die Tiefe, wodurch einige sich auf dem Gerüst befindende Arbeiter, ferner Schüler in den gegen den Hof gerichteten Klassenzimmern des anstossenden Institutes Minerva sowie Anwohner und vorbeigehende Personen gefährdet wurden. Verletzt wurde niemand.
B.- Kym, Weibel und Schwaller wurden wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde (Art. 229 Abs. 2 StGB) und Beseitigung und Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen (Art. 230 StGB) angeklagt.
Das Bezirksgericht Zürich büsste alle drei wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde.
Auf Appellation der Verurteilten sprach das Obergericht des Kantons Zürich am 26. März 1954 Weibel frei, verurteilte dagegen Kym und Schwaller wegen fahrlässiger Gefährdung durch Verletzung der Regeln der Baukunde zu je Fr. 80.- Busse.
Den Freispruch Weibels begründete es damit, dieser Angeklagte habe dadurch, dass er die ungenügende Sicherungsvorrichtung bei Kym beanstandet habe, getan, was ihm habe zugemutet werden können. Dass er sich im Glauben, durch vorsichtiges Fahren die Gefahr gänzlich ausschliessen zu können, geirrt habe, sei ihm strafrechtlich nicht anzurechnen, da technisch die Möglichkeit durchaus bestanden habe, durch rechtzeitiges Anhalten den Umsturz des Krans zu vermeiden.
Dem Kym warf das Obergericht vor, er habe für das teilweise Abbrechen der Kranbahn die Verantwortung getragen, aber trotz Kenntnis des Ungenügens der behelfsmässigen Sicherung keine dem Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebewerkzeugen im Hoch- und Tiefbau entsprechenden Prellböcke herbeischaffen lassen, wie sie ihm im Magazin Pillers zur Verfügung gestanden hätten. Dass ein Funktionär der Baupolizei während des Bestehens des Provisoriums auf der Baustelle gewesen sei und nichts beanstandet habe, entlaste ihn nicht.
Zum Verschulden Schwallers führte das Obergericht aus: Schwaller sei der beauftragte Fachmann für die Errichtung und den Abbruch der Krane gewesen. Er habe die mangelhafte Sicherungsvorrichtung bemerkt, und als Fachmann habe ihm die damit verbundene Gefahr klar sein müssen. Trotzdem sei er mit diesem Kran sogar selber eine zeitlang gefahren. Die Einwände, der Abbruch des Krans habe noch nicht begonnen, weshalb er für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, und die mangelhafte Sicherung habe schon bestanden, als er auf dem Platze erschienen sei, könnten nicht gehört werden. Art. 15 der Verordnung schreibe vor, die Montage und Demontage der Turmdrehkrane und der zugehörigen Vorrichtungen hätten unter fachkundiger Leitung zu erfolgen. Diese Leitung habe Schwaller obgelegen. Mindestens vom Zeitpunkte an, da er auf den Platz gekommen sei, den Mangel festgestellt und den Kran sogar selber bedient habe, habe ihn eine Mitverantwortung getroffen. Er hätte den Bauführer auf die Gefahr aufmerksam machen sollen. Auch der Einwand, er sei als Angestellter der Vermieterin des Krans nicht zuständig gewesen, bei Piller als Mieter vorstellig zu werden, da die Vermieterin den Abbruch des Krans noch nicht begonnen gehabt habe und für diesen noch nicht verantwortlich gewesen sei, entlaste ihn nicht. Er sei unbestrittenermassen für die Aufstellung des zweiten Krans verantwortlich gewesen und habe gewusst, dass die vorschriftsgemässe Pufferung für diesen am anderen Kran weggenommen worden sei. Das sei eine zu diesem Kran gehörende Vorrichtung gewesen, die gemäss Art. 15 der Verordnung nur unter fachkundiger Leitung, die Schwaller zugekommen sei, habe demontiert werden dürfen. Schwaller sei auch verantwortlich, weil der erste Kran für die von ihm beaufsichtigte Errichtung des zweiten Krans verwendet worden sei. Seine Verantwortung habe daher auch den richtigen Einsatz der für diese Arbeit verwendeten Hilfsmittel insbesondere des ersten Krans, umfasst, auch wenn dessen Verwendung von Piller angeordnet worden sei.
Das Obergericht fügte bei, es käme selbst dann, wenn Art. 230 statt Art. 229 StGB anwendbar wäre, zum gleichen Ergebnis, nämlich dass Kym und Schwaller fahrlässig gehandelt haben, Weibel dagegen freizusprechen sei. Eine Verurteilung auf Grund ersterer Bestimmung wäre bei gleicher oder milderer Bestrafung keine reformatio in peius, da sich deren Verbot nur auf die Höhe der Strafe, nicht auch auf die rechtliche Würdigung des eingeklagten Sachverhaltes beziehe. Die Schwere des Verschuldens bliebe sich bei Anwendung des Art. 230 StGB gleich, und im Strafmass würde sich nichts ändern.
C.- Schwaller führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei insoweit aufzuheben, als es ihn betreffe, und die Sache sei zu seiner Freisprechung an das Obergericht zurückzuweisen.
Er macht geltend, ein Kran sei nicht ein Bauwerk, sondern eine Maschine. Art. 229 StGB treffe daher nicht zu. Das ergebe sich auch aus Art. 230 StGB, der die Beseitigung oder das Nichtanbringen von Sicherheitsvorrichtungen unter bestimmten Voraussetzungen unter Strafe stelle. Dieser Artikel käme praktisch nicht mehr in Frage, wenn alles, was sich auf einem Bauplatze befinde, als Bauwerk oder Bestandteil eines solchen zu würdigen wäre. Die Art. 229 und 230 StGB und die Verordnung der Stadt Zürich seien aber hier überhaupt nicht anwendbar. Für alle gemäss Art. 60 ff. KUVG der Unfallversicherung unterstellten Betriebe, in denen Krane benützt würden, gelte die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen. Art. 38 dieser Verordnung verweise auf die Strafbestimmung des Art. 66 KUVG. Da die Verordnung Sondergesetz und jünger sei als Art. 229 und 230 StGB, müsse das Urteil aufgehoben und der Beschwerdeführer freigesprochen werden. Die Aufhebung sei nötig, weil das Urteil gegen Art. 4 BV verstosse, da sich die Strafuntersuchung willkürlich nur mit Kym, Schwaller und Weibel befasst habe, statt mit allen in Betracht kommenden Personen. Wenn man Kym und Schwaller ein Verschulden vorwerfen wolle, müsse ein solches auch Weibel, Leimgruber, Piller und den Baupolizeibeamten Killer und Kaufmann vorgeworfen werden. Den Beschwerdeführer treffe nach seiner zivilrechtlichen Stellung keine Verantwortung. Mit der Errichtung und Übergabe des ersten Kranes im Dezember 1952 sei die Verantwortung für diesen und für dessen Bedienung bis zum Ende der Mietzeit auf Piller übergegangen. Weder die Franz Stirnimann Baumaschinen AG noch der Beschwerdeführer hätten etwas mit der Verkürzung des Geleises des ersten und der Erstellung der Bahn des zweiten Krans zu tun gehabt. Der Beschwerdeführer habe gesehen, dass das Ende des verkürzten Geleises nur behelfsmässig gesichert worden sei; doch sei es nicht seine Aufgabe gewesen, der Sache nachzugehen; er habe lediglich den neuen Kran aufzurichten gehabt. Ihn treffe kein Verschulden. Er sei nicht verpflichtet gewesen, die Fahrbahn und die Sicherungen des alten Krans zu untersuchen und Anweisungen zu erteilen, weil Piller sein Personal angewiesen gehabt habe, bei der Errichtung des zweiten Krans mit dem ersten beizustehen. Für den Zustand und die Benützbarkeit des letzteren seien Piller und dessen Angestellte allein verantwortlich gewesen. Auch hätte der Beschwerdeführer angesichts der zivilrechtlichen Regelung zwischen der Franz Stirnimann Baumaschinen AG und Piller und des Verhältnisses zu seiner Arbeitgeberin gar nicht das Recht gehabt, in Bezug auf den ersten Kran Weisungen zu erteilen. Der Beschwerdeführer habe auch annehmen dürfen, die neue Sicherung sei genehmigt. Jedenfalls sei es Sache des Piller und seiner Angestellten gewesen, die Genehmigung der Baupolizei einzuholen. Übrigens habe ja Weibel reklamiert. Der Beschwerdeführer dürfe nicht damit belastet werden, dass Piller und dessen Angestellte der Reklamation keine Folge gegeben haben. Er habe keine Schutzvorrichtung beseitigt, und man könne ihm auch nicht vorwerfen, er habe eine solche vorschriftswidrig nicht angebracht. Art. 230 StGB treffe daher nicht zu. Dass der erste Kran vom 8. bis 17. August 1953 ohne Unfall habe benützt werden können, beweise, dass Weibel schuld und die behauptete ungenügende Sicherung für das Ereignis nicht kausal sei. Sollte der Beschwerdeführer doch schuldig sein, so wäre sein Verschulden gegenüber dem der anderen Personen, insbesondere Pillers, Weibels, Kyms und Leimgrubers, äusserst geringfügig, sodass die Busse wesentlich herabgesetzt werden müsste; eine solche von Fr. 10.- reiche aus.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Zürich beantragt, die Beschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Die Nichtigkeitsbeschwerde ist nur gegen Verletzung eidgenössischen Rechts gegeben (Art. 269 Abs. 1 BStP), mit der Einschränkung, dass die Verletzung verfassungsmässiger Rechte, soweit ihr Inhalt nicht durch die eidgenössische Gesetzgebung näher umschrieben ist, mit staatsrechtlicher Beschwerde zu rügen ist (Art. 269 Abs. 2 BStP, Art. 84 Abs. 2 OG). Der Kassationshof hat daher lediglich zu prüfen, ob der Beschwerdeführer zu Recht verurteilt worden ist, nicht auch, ob wegen des Gebots der Rechtsgleichheit (Art. 4 BV) auch andere hätten verurteilt werden sollen. Unbegründete Nichtverurteilung Beteiligter kann nicht zur Folge haben, dass auch der Beschwerdeführer freizusprechen sei.
2. Die Verordnung des Bundesrates vom 22. Juni 1951 über die Verhütung von Unfällen bei der Verwendung von Kranen und Hebezeugen ist in Ausführung des Bundesgesetzes vom 13. Juni 1911 über die Kranken- und Unfallversicherung (KUVG), insbesondere seines Art. 65, erlassen worden. Sie will durch Verhütung von Betriebsunfällen den Interessen der obligatorischen Unfallversicherung dienen. Art. 229 und 230 StGB dagegen schützen Leib und Leben von Menschen um ihrer selbst willen, unabhängig von Versicherungsinteressen. Wie durch den Zweck, weicht die Verordnung auch durch die Tatbestände, die ihr Art. 38 in Verbindung mit Art. 66 KUVG unter Strafe stellt, von Art. 229 und 230 StGB ab. Die Verordnung setzt nicht voraus, dass jemand an Leib oder Leben konkret gefährdet worden sei, und strafbar macht sich gemäss Art. 66 KUVG nur, wer die Übertretung vorsätzlich begeht. Art. 229 und 230 StGB sind dagegen nur bei konkreter Gefährdung von Leib und Leben anwendbar, dann aber unabhängig davon, ob die Tat vorsätzlich oder nur fahrlässig verübt worden ist. Der Verschiedenheit der Zwecke und der Tatbestände entspricht die Verschiedenheit der angedrohten Strafen. Art. 66 KUVG sieht, ausgenommen für Rückfall, nur wahlweise oder kumulativ Busse bis zu fünfhundert Franken und Gefängnis bis zu drei Monaten vor, wobei seit der Geltung des Strafgesetzbuches gemäss dessen Art. 333 Abs. 2 statt auf Gefängnis auf Haft zu erkennen ist. Wer der Verordnung zuwider handelt, begeht somit eine blosse Übertretung. Die Art. 229 und 230 StGB dagegen umschreiben Vergehen, auf denen Gefängnis von drei Tagen bis zu drei Jahren und Busse stehen und bei deren fahrlässigen Begehung diese Strafen einzeln oder kumulativ ausgesprochen werden können (Art. 36 Ziff. 1, 50 Abs. 2 StGB). Unter diesen Umständen liegt auf der Hand, dass die Verordnung und Art. 66 KUVG den Art. 229 und 230 StGB nicht vorgehen können.
3. Nach Art. 229 Abs. 1 StGB ist strafbar, wer vorsätzlich bei der Leitung oder Ausführung eines Bauwerkes oder eines Abbruches die anerkannten Regeln der Baukunde ausser acht lässt und dadurch wissentlich Leib und Leben von Mitmenschen gefährdet. Lässt der Täter die anerkannten Regeln der Baukunde fahrlässig ausser acht, so trifft Art. 229 Abs. 2 zu.
Der Sturz des Krans war die natürliche Folge eines beim teilweisen Abbrechen seines Geleises begangenen Fehlers, der darin bestand, dass die vorgeschriebenen Puffer nicht wieder angebracht, sondern durch einen behelfsmässig befestigten Balken ersetzt wurden. Dennoch kann dem Beschwerdeführer nicht vorgeworfen werden, er habe im Sinne der erwähnten Bestimmung bei der Leitung oder Ausführung eines "Abbruches" anerkannte Regeln der Baukunde ausser acht gelassen. Abgesehen davon, dass die Verkürzung des Geleises von ihm weder geleitet noch ausgeführt wurde, ging sie ordnungsgemäss vor sich und kam es zu einem Unfalle nur, weil der nicht abgebrochene Rest des Geleises in vorschriftswidrigem Zustande weiterverwendet wurde. Es kann deshalb dahingestellt bleiben, ob unter einem "Abbruch" nur der Abbruch eines Bauwerkes zu verstehen ist - was der Umstand, dass Regeln der "Baukunde" verletzt worden sein müssen, nahe legt -, und ob das Geleise ein "Bauwerk" war.
Sollte das Geleise ein Bauwerk gewesen sein, so wäre freilich seine mangelhafte Sicherung als ein bei der Herrichtung der verkürzten Anlage unterlaufener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu würdigen. Allein auch unter diesem Gesichtspunkt könnte der Beschwerdeführer nicht nach Art. 229 bestraft werden, weil nicht er das verkürzte Geleise zur Weiterverwendung hergerichtet hat oder hat herrichten lassen.
Das verkürzte Geleise diente dem ersten Kran, mittelbar sodann der Aufrichtung des zweiten Krans und war damit auch Hilfsmittel für die Erstellung des Hauses, das unter Verwendung des zweiten Krans gebaut werden sollte. Da dieses Haus ein Bauwerk ist, wäre deshalb in der Verwendung des mit mangelhafter Sicherung versehenen Geleises selbst dann ein bei der Ausführung eines Bauwerkes begangener Verstoss gegen anerkannte Regeln der Baukunde zu sehen, wenn nicht auch schon der zweite Kran als Bauwerk und seine Aufrichtung als gegen solche Regeln verstossend zu würdigen wäre; vorausgesetzt immerhin, dass Art. 229 auch dann zutreffe, wenn der Verstoss nicht am Bauwerk selber, sondern lediglich an den bei seiner Erstellung verwendeten Hilfseinrichtungen (Gerüste, Maschinen usw.) in Erscheinung tritt. Ob diese Bestimmung diesen weiten Sinn hat und der Beschwerdeführer, weil er sich des mangelhaft gesicherten ersten Krans bedient hat, nach ihr strafbar ist, kann indessen offen bleiben; denn jedenfalls hat er sich nach Art. 230 StGB vergangen, dessen Anwendung dem Obergericht ohne Verletzung eidgenössischen Rechts zur Ausfällung der gleichen Strafe hätte Anlass geben können und, wie es ausführt, tatsächlich Anlass gegeben hätte.
4. Art. 230 StGB bedroht mit Strafe den, der "vorsätzlich in Fabriken oder in andern Betrieben oder an Maschinen eine zur Verhütung von Unfällen dienende Vorrichtung beschädigt, zerstört, beseitigt oder sonst unbrauchbar macht oder ausser Tätigkeit setzt" (Ziff. 1 Abs. 1) oder "vorsätzlich eine solche Vorrichtung vorschriftswidrig nicht anbringt" (Ziff. 1 Abs. 2). Strafbar macht sich auch, wer fahrlässig handelt (Ziff. 2).
Die von Art. 14 der Verordnung der Stadt Zürich vom 1. Oktober 1943 über die Verwendung von Hebezeugen im Hoch- und Tiefbau vorgeschriebenen Puffer oder geeigneten Prellböcke, die an den Enden der Geleise von Kranen angebracht werden müssen, sind Vorrichtungen, die der Verhütung von Unfällen dienen. Waren im vorliegenden Falle bei der Erstellung der 22 m langen Geleiseanlage vorschriftsgemäss Puffer angebracht worden, so ist nichtsdestoweniger klar, dass sie auch nach der Verkürzung des Geleises wieder anzubringen waren. Fragen kann sich nur, ob diese vorschriftswidrige Unterlassung lediglich dem zum Betriebe Pillers gehörenden Personal, das das Geleise verkürzte, oder auch dem Beschwerdeführer, der den ersten Kran auf ihm zwecks Erstellung des zweiten Krans verkehren liess, zur Last fällt.
Die strafrechtliche Verantwortlichkeit des Beschwerdeführers lässt sich nicht mit der Begründung verneinen, weder er noch die Franz Stirnimann Baumaschinen AG als seine Arbeitgeberin seien zivilrechtlich verpflichtet gewesen, das Geleise in betriebssicheren Zustand zu bringen. Art. 230 StGB auferlegt Pflichten nicht nur dem Betriebsinhaber und den ihm gegenüber zivilrechtlich gebundenen Gehilfen. Diese Einschränkung würde den Schutz von Leib und Leben, dem die Bestimmung dienen will, erheblich abschwächen. Jeder, der seine Sicherheitsvorrichtung der umschriebenen Art vorsätzlich oder fahrlässig beseitigt, macht sich strafbar, desgleichen jeder, der eine solche vorsätzlich oder fahrlässig nicht anbringt, wenn er nach gesetzlicher Vorschrift, nach Vertrag oder auch bloss nach den Umständen zur Anbringung verpflichtet ist. Für den Beschwerdeführer ergab sich eine solche Pflicht daraus, dass er den mangelhaft gesicherten Kran, wenn auch mit Einwilligung Pillers, zu der ihm obliegenden Aufrichtung des zweiten Krans verwenden liess.
Auch in subjektiver Hinsicht trifft Art. 230 zu. Der Beschwerdeführer wusste, dass das Geleise statt der vorgeschriebenen Puffer nur eine behelfsmässige Sicherung trug. Über deren Ungenügen konnte er sich als Fachmann bei pflichtgemässer Überlegung Rechenschaft geben. Dass eine so liederliche Vorrichtung von der Baupolizei genehmigt worden sei, durfte er nicht annehmen, und selbst wenn er es hätte annehmen dürfen, wäre er nicht entschuldigt, da sein Fachwissen ausreichte, um zu erkennen, dass sie den Vorschriften nicht entsprach. Das Mitverschulden des Kym, der trotz der Beanstandung durch Weibel nicht für Abhilfe sorgte, ändert an der Pflichtwidrigkeit der Unterlassung des Beschwerdeführers nichts. Dieser hätte verlangen sollen, es seien vorschriftsgemässe Puffer anzubringen. Wäre seinem Begehren nicht entsprochen worden, hätte er sich weigern sollen, den Kran für die Aufrichtung des andern zu benützen. Der Beschwerdeführer konnte sich auch Rechenschaft geben, dass selbst die Bedienung durch einen gewissenhaften Kranführer einen Unfall nicht ausschloss. Gerade weil es schwierig ist, einen Kran so zuverlässig zu führen, dass er nicht über die Enden des Geleises hinaus gerät, zumal wenn dieses nur 9 m lang ist, werden vorschriftsgemässe Puffer verlangt. Ob Weibel den Unfall hätte verhüten können, ist deshalb unerheblich; mit einem allfälligen Versagen musste der Beschwerdeführer rechnen. Dass der Kran stürzen und Menschen gefährden könne, wenn er auf die frei schwebenden Enden der Schienen geraten würde, musste der Beschwerdeführer sich ebenfalls sagen. Der Vorwurf fahrlässigen Verhaltens ist ihm gegenüber in allen Teilen begründet.
5. Die Bestreitung des Kausalszusammenhanges zwischen der ungenügenden Sicherung und dem Sturz des Krans hält nicht stand. Der Beschwerdeführer behauptet nicht, dass der Unfall auch eingetreten wäre, wenn die Geleise vorschriftsgemässe Puffer getragen hätten. Fuhr der Kran aber nur deshalb über das Geleise hinaus, weil die behelfsmässige Sicherung nachgab, nicht weil etwa Weibel mit unvoraussehbarer Wucht gegen diese angefahren wäre, so ist sowohl der natürliche Zusammenhang zwischen der pflichtwidrigen Unterlassung des Beschwerdeführers und der Gefährdung von Leib und Leben anderer, als auch die Adäquanz dieses Zusammenhanges zu bejahen; gerade weil nach dem gewöhnlichen Lauf der Dinge die ungenügende Sicherung eines Turmdrehkrans zu Unfällen solcher Art führen kann, schreibt die Verordnung der Stadt Zürich Puffer oder geeignete Prellböcke vor.
6. Da der Kassationshof nicht Appellationsinstanz ist, hat er die Strafe nicht nach eigenem Ermessen zu bestimmen. Er könnte die Herabsetzung der Busse nur verfügen, wenn sie nach unzutreffenden rechtlichen Gesichtspunkten zugemessen worden oder willkürlich hart wäre (BGE 68 IV 21,BGE 78 IV 72). Davon kann angesichts der schweren Gefahr für Leib und Leben von Menschen, die der Beschwerdeführer geschaffen hat, keine Rede sein. Eher liesse sich von übertriebener Milde sprechen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen, soweit darauf eingetreten werden kann.
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1. Art. 269 PPF. Rapporto tra il ricorso per cassazione e il ricorso di diritto pubblico (consid. 1). La Corte di cassazione può sindacare la commisurazione della pena? (consid. 6). 2. L'art. 38 dell'ordinanza 22 giugno 1951 concernente le misure da prendere nell'uso di gru e di apparecchi di sollevamento e l'art. 66 LAMI non sono di ostacolo all'applicazione degli art. 229 e 230 CP (consid. 2).
3. Art. 229 CP. La violazione delle regole dell'arte edilizia deve manifestarsi nell'opera? (consid. 3).
4. Art. 230 CP. Chi può rendersi colpevole della soppressione o dell'omissione d'un dispositivo di protezione (consid. 4). Nesso causale adeguato (consid. 5).
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-IV-112%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 IV 123
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Erwägungen ab Seite 123
Aus den Erwägungen:
Nach ständiger Rechtsprechung schützt Art. 237 StGB auch den Fussgängerverkehr, wobei hiefür ebenfalls gilt, dass der Schutz des öffentlichen Verkehrs nicht eine konkrete Gemeingefahr, d.h. die Gefährdung eines grösseren Kreises von Personen voraussetzt; die Gefährdung eines einzelnen kann genügen (BGE 75 IV 124 Erw. 3; BGE 76 IV 124 Erw. 2, 245 ff.; BGE 80 IV 183). Dann ist aber schlechthin nicht einzusehen, warum ein Polizeimann, der auf der Strasse seinen Dienst versieht, dieses Schutzes nicht ebenfalls teilhaftig sein sollte. Die gegenteilige Auffassung, die KARMANN unter Hinweis auf ein vom Obergericht des Kantons Luzern bestätigtes Urteil des Amtsgerichtes Luzern-Land in der Schweizerischen Zeitschrift für Strafrecht, 65 S. 204, erwähnt, ist nicht haltbar. Dass der Polizist sich in Ausübung seiner Pflicht zur Wahrung der öffentlichen Sicherheit auf der Strasse befindet, ist sicher kein Grund, ihn vom Schutze des öffentlichen Verkehrs im Sinne des Art. 237 StGB auszunehmen; er steht deswegen nicht ausserhalb dieses Verkehrs. Der Kassationshof hat denn auch bereits im Urteil vom 3. Mai 1952 in Sachen Walser Erw. 1 diesen Standpunkt eingenommen, und zwar ebenfalls zu Gunsten eines Polizeimannes, der in die Fahrbahn des angeklagten Automobilführers getreten war, um ihn mit dem Lichtzeichen einer Taschenlampe zum Anhalten aufzufordern. In diesem Urteil hat der Kassationshof die Rüge, dass Art. 237 StGB nicht angewendet werden könne, weil nur ein Polizeimann gefährdet worden sei, geradezu als mutwillig bezeichnet.
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Art. 237 StGB. Der Schutz des öffentlichen Verkehrs bezieht sich auch auf den Polizeimann, der auf der Strasse seinen Dienst versieht.
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Erwägungen ab Seite 123
Aus den Erwägungen:
Nach ständiger Rechtsprechung schützt Art. 237 StGB auch den Fussgängerverkehr, wobei hiefür ebenfalls gilt, dass der Schutz des öffentlichen Verkehrs nicht eine konkrete Gemeingefahr, d.h. die Gefährdung eines grösseren Kreises von Personen voraussetzt; die Gefährdung eines einzelnen kann genügen (BGE 75 IV 124 Erw. 3; BGE 76 IV 124 Erw. 2, 245 ff.; BGE 80 IV 183). Dann ist aber schlechthin nicht einzusehen, warum ein Polizeimann, der auf der Strasse seinen Dienst versieht, dieses Schutzes nicht ebenfalls teilhaftig sein sollte. Die gegenteilige Auffassung, die KARMANN unter Hinweis auf ein vom Obergericht des Kantons Luzern bestätigtes Urteil des Amtsgerichtes Luzern-Land in der Schweizerischen Zeitschrift für Strafrecht, 65 S. 204, erwähnt, ist nicht haltbar. Dass der Polizist sich in Ausübung seiner Pflicht zur Wahrung der öffentlichen Sicherheit auf der Strasse befindet, ist sicher kein Grund, ihn vom Schutze des öffentlichen Verkehrs im Sinne des Art. 237 StGB auszunehmen; er steht deswegen nicht ausserhalb dieses Verkehrs. Der Kassationshof hat denn auch bereits im Urteil vom 3. Mai 1952 in Sachen Walser Erw. 1 diesen Standpunkt eingenommen, und zwar ebenfalls zu Gunsten eines Polizeimannes, der in die Fahrbahn des angeklagten Automobilführers getreten war, um ihn mit dem Lichtzeichen einer Taschenlampe zum Anhalten aufzufordern. In diesem Urteil hat der Kassationshof die Rüge, dass Art. 237 StGB nicht angewendet werden könne, weil nur ein Polizeimann gefährdet worden sei, geradezu als mutwillig bezeichnet.
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L'art. 237 CP protège aussi l'agent de police qui fait son service sur la route.
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Aus den Erwägungen:
Nach ständiger Rechtsprechung schützt Art. 237 StGB auch den Fussgängerverkehr, wobei hiefür ebenfalls gilt, dass der Schutz des öffentlichen Verkehrs nicht eine konkrete Gemeingefahr, d.h. die Gefährdung eines grösseren Kreises von Personen voraussetzt; die Gefährdung eines einzelnen kann genügen (BGE 75 IV 124 Erw. 3; BGE 76 IV 124 Erw. 2, 245 ff.; BGE 80 IV 183). Dann ist aber schlechthin nicht einzusehen, warum ein Polizeimann, der auf der Strasse seinen Dienst versieht, dieses Schutzes nicht ebenfalls teilhaftig sein sollte. Die gegenteilige Auffassung, die KARMANN unter Hinweis auf ein vom Obergericht des Kantons Luzern bestätigtes Urteil des Amtsgerichtes Luzern-Land in der Schweizerischen Zeitschrift für Strafrecht, 65 S. 204, erwähnt, ist nicht haltbar. Dass der Polizist sich in Ausübung seiner Pflicht zur Wahrung der öffentlichen Sicherheit auf der Strasse befindet, ist sicher kein Grund, ihn vom Schutze des öffentlichen Verkehrs im Sinne des Art. 237 StGB auszunehmen; er steht deswegen nicht ausserhalb dieses Verkehrs. Der Kassationshof hat denn auch bereits im Urteil vom 3. Mai 1952 in Sachen Walser Erw. 1 diesen Standpunkt eingenommen, und zwar ebenfalls zu Gunsten eines Polizeimannes, der in die Fahrbahn des angeklagten Automobilführers getreten war, um ihn mit dem Lichtzeichen einer Taschenlampe zum Anhalten aufzufordern. In diesem Urteil hat der Kassationshof die Rüge, dass Art. 237 StGB nicht angewendet werden könne, weil nur ein Polizeimann gefährdet worden sei, geradezu als mutwillig bezeichnet.
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L'art. 237 CP protegge anche l'agente di polizia che adempie il suo servizio sulla strada.
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81 IV 124
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Sachverhalt ab Seite 125
A.- S. traf in der Nacht vom 5./6. November 1953, angetrunken aus einem Wirtshaus kommend, den K., der ebenfalls Wirtshäuser besucht hatte. Die beiden gingen auf Vorschlag K.s, der den andern als Homosexuellen kannte und bei ihm Geld zu verdienen hoffte, an einen abgelegenen Ort. Dort griffen sie sich gegenseitig an das Geschlechtsglied. Da S. kein Geld geben wollte, kam es zu einer Auseinandersetzung, in deren Verlauf S. den K. mit einem Messer in die Schulter stach.
B.- S. wurde vom Kantonsgericht von Schwyz am 28. Juni 1954 wegen einfacher Körperverletzung (Art. 123 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und einfacher widernatürlicher Unzucht (§ 18 Abs. 1 EG zum StGB) zu einer bedingt löschbaren Busse von Fr. 40.- verurteilt. Der Einrede des S., § 18 Abs. 1 EG zum StGB sei bundesrechtswidrig, hielt es entgegen, die einfache widernatürliche Unzucht erschöpfe sich nicht in einem Verstoss gegen die Sittlichkeit, als was die Kantone sie kaum mit Strafe bedrohen dürften, sondern sie verletze auch die öffentliche Ordnung, da es, wie auch der vorliegende Fall zeige, im Anschluss an solche Handlungen sehr oft zu tätlichen Auseinandersetzungen komme. Recht oft komme es, worauf im Ständerat hingewiesen worden sei, auch zu Erpressungen, wenn jemand widernatürliche Unzucht getrieben habe. Ausserdem belästigten die sogenannten Strichjungen die Öffentlichkeit. Als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung regle das Strafgesetzbuch die einfache widernatürliche Unzucht weder positiv noch negativ. Somit sei die Ahndung solcher Handlungen dem kantonalen Übertretungsstrafrecht anheimgestellt.
C.- S. führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag auf Freisprechung. In der Verurteilung wegen einfacher widernatürlicher Unzucht sieht er einen Verstoss gegen Bundesrecht, weil in den Beratungen über das Strafgesetzbuch zum Ausdruck gekommen sei, dass solche Handlungen straflos zu bleiben hätten und die Übertretungstatbestände auf dem Gebiete der Sittlichkeit in Art. 205 ff. StGB abschliessend geregelt seien.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Schwyz beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
3. Art. 335 Ziff. 1 Abs. 1 StGB behält den Kantonen die Gesetzgebung über das Übertretungsstrafrecht soweit vor, als es nicht Gegenstand der Bundesgesetzgebung ist.
Nach der Rechtsprechung des Kassationshofes zu dieser Bestimmung (BGE 68 IV 41, 110,BGE 70 IV 85, 132,BGE 71 IV 47) sind die Kantone nicht schon dann berechtigt, einen bestimmten Tatbestand zur Übertretung zu erheben, wenn er nicht vom eidgenössischen Recht mit Strafe bedroht ist. Die Nichtaufnahme eines Tatbestandes in das Strafgesetzbuch kann bedeuten, dass er überhaupt straflos bleibe, also auch nicht als kantonale Übertretung geahndet werden dürfe. Diesen Sinn hat das Schweigen des Strafgesetzbuches dann, wenn dieses Gesetz die Angriffe auf ein bestimmtes Rechtsgut durch ein geschlossenes System von Normen regelt. Behandelt es dagegen ein bestimmtes strafrechtliches Gebiet überhaupt nicht, oder stellt es nur einige wenige Tatbestände daraus unter Strafe, um den von Kanton zu Kanton wechselnden Ansichten über die Strafwürdigkeit oder Straflosigkeit einer bestimmten Handlung Rechnung zu tragen, so bleibt Raum für kantonales Übertretungsstrafrecht.
Für das Gebiet der Unzucht zwischen Personen gleichen Geschlechts enthält das Strafgesetzbuch ein geschlossenes System von Normen. Abgesehen von den Tatbeständen der Nötigung zu unzüchtigen Handlungen (Art. 188), Schändung (Art. 189), Unzucht mit Schwachsinnigen, Kindern unter sechzehn Jahren, unmündigen Pflegebefohlenen, Anstaltspfleglingen und dergleichen (Art. 190-193), die sowohl heterosexuelle als auch homosexuelle Handlungen umfassen, regelt es in Art. 194 die ausgezeichneten Fälle widernatürlicher Unzucht, nämlich die Verführung Unmündiger zur Vornahme oder Duldung solcher Handlungen (Abs. 1), deren Erwirkung durch Missbrauch der Notlage, eines Amts- oder Dienstverhältnisses oder einer auf ähnliche Weise begründeten Abhängigkeit (Abs. 2) und die gewerbsmässigen unzüchtigen Handlungen mit Personen gleichen Geschlechts (Abs. 3). Damit bringt es zum Ausdruck, dass der Bundesgesetzgeber nur diese schweren Fälle als strafwürdig erachtet, einfache widernatürliche Unzucht dagegen straflos zu bleiben hat. Dass das die Meinung der gesetzgebenden Behörden war, ergibt sich klar auch aus den Beratungen der Bundesversammlung, die, nicht ohne Widerstand, Art. 194 gutgeheissen hat (vgl. StenBull, Sonderausgabe, NatR 376 ff., 392 ff., 519 ff., StR 189 ff.).
Ob die Kantone dennoch berechtigt wären, einfache widernatürliche Unzucht als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung mit Übertretungsstrafe zu belegen, kann sich nicht fragen, da ein Verstoss gegen die öffentliche Ordnung nicht vorliegt. Die einfache widernatürliche Unzucht tritt öffentlich sowenig in Erscheinung wie z.B. die einfache Unzucht zwischen Personen verschiedenen Geschlechts, die von Bundesrechts wegen straflos zu bleiben hat (BGE 68 IV 110). Auch spielen sich die damit gelegentlich verbundenen Tätlichkeiten und Erpressungen ihrem Wesen nach nicht in der Öffentlichkeit ab. Das Treiben der Strichjungen sodann fällt unter Art. 194 Abs 3 und gegebenenfalls unter Art. 205 oder 206 StGB; dass die einfache widernatürliche Unzucht gegen die öffentliche Ordnung verstosse, ergibt sich aus ihm nicht.
§ 18 des schwyzerischen EG zum StGB, wonach mit Haft oder Busse zu bestrafen sei, wer an einer Person des gleichen Geschlechtes im Alter von mehr als sechzehn Jahren eine unzüchtige Handlung verübt oder an sich eine solche Handlung von einer Person des gleichen Geschlechtes duldet, ist somit bundesrechtswidrig. Die Vorinstanz hat den Beschwerdeführer von der Anschuldigung der einfachen widernatürlichen Unzucht freizusprechen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationhof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird dahin teilweise gutgeheissen, dass das Urteil des Kantonsgerichtes von Schwyz vom 28. Juni 1954 aufgehoben und die Sache zur Freisprechung des Beschwerdeführers von der Anklage der einfachen widernatürlichen Unzucht und zur Bestrafung wegen einfacher Körperverletzung an die Vorinstanz zurückgewiesen wird.
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Art. 335 Ziff. 1 Abs. 1 StGB. Die Kantone können nicht die einfache widernatürliche Unzucht als Übertretung mit Strafe bedrohen.
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criminal law and criminal procedure
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-IV-124%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 IV 124
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Sachverhalt ab Seite 125
A.- S. traf in der Nacht vom 5./6. November 1953, angetrunken aus einem Wirtshaus kommend, den K., der ebenfalls Wirtshäuser besucht hatte. Die beiden gingen auf Vorschlag K.s, der den andern als Homosexuellen kannte und bei ihm Geld zu verdienen hoffte, an einen abgelegenen Ort. Dort griffen sie sich gegenseitig an das Geschlechtsglied. Da S. kein Geld geben wollte, kam es zu einer Auseinandersetzung, in deren Verlauf S. den K. mit einem Messer in die Schulter stach.
B.- S. wurde vom Kantonsgericht von Schwyz am 28. Juni 1954 wegen einfacher Körperverletzung (Art. 123 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und einfacher widernatürlicher Unzucht (§ 18 Abs. 1 EG zum StGB) zu einer bedingt löschbaren Busse von Fr. 40.- verurteilt. Der Einrede des S., § 18 Abs. 1 EG zum StGB sei bundesrechtswidrig, hielt es entgegen, die einfache widernatürliche Unzucht erschöpfe sich nicht in einem Verstoss gegen die Sittlichkeit, als was die Kantone sie kaum mit Strafe bedrohen dürften, sondern sie verletze auch die öffentliche Ordnung, da es, wie auch der vorliegende Fall zeige, im Anschluss an solche Handlungen sehr oft zu tätlichen Auseinandersetzungen komme. Recht oft komme es, worauf im Ständerat hingewiesen worden sei, auch zu Erpressungen, wenn jemand widernatürliche Unzucht getrieben habe. Ausserdem belästigten die sogenannten Strichjungen die Öffentlichkeit. Als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung regle das Strafgesetzbuch die einfache widernatürliche Unzucht weder positiv noch negativ. Somit sei die Ahndung solcher Handlungen dem kantonalen Übertretungsstrafrecht anheimgestellt.
C.- S. führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag auf Freisprechung. In der Verurteilung wegen einfacher widernatürlicher Unzucht sieht er einen Verstoss gegen Bundesrecht, weil in den Beratungen über das Strafgesetzbuch zum Ausdruck gekommen sei, dass solche Handlungen straflos zu bleiben hätten und die Übertretungstatbestände auf dem Gebiete der Sittlichkeit in Art. 205 ff. StGB abschliessend geregelt seien.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Schwyz beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
3. Art. 335 Ziff. 1 Abs. 1 StGB behält den Kantonen die Gesetzgebung über das Übertretungsstrafrecht soweit vor, als es nicht Gegenstand der Bundesgesetzgebung ist.
Nach der Rechtsprechung des Kassationshofes zu dieser Bestimmung (BGE 68 IV 41, 110,BGE 70 IV 85, 132,BGE 71 IV 47) sind die Kantone nicht schon dann berechtigt, einen bestimmten Tatbestand zur Übertretung zu erheben, wenn er nicht vom eidgenössischen Recht mit Strafe bedroht ist. Die Nichtaufnahme eines Tatbestandes in das Strafgesetzbuch kann bedeuten, dass er überhaupt straflos bleibe, also auch nicht als kantonale Übertretung geahndet werden dürfe. Diesen Sinn hat das Schweigen des Strafgesetzbuches dann, wenn dieses Gesetz die Angriffe auf ein bestimmtes Rechtsgut durch ein geschlossenes System von Normen regelt. Behandelt es dagegen ein bestimmtes strafrechtliches Gebiet überhaupt nicht, oder stellt es nur einige wenige Tatbestände daraus unter Strafe, um den von Kanton zu Kanton wechselnden Ansichten über die Strafwürdigkeit oder Straflosigkeit einer bestimmten Handlung Rechnung zu tragen, so bleibt Raum für kantonales Übertretungsstrafrecht.
Für das Gebiet der Unzucht zwischen Personen gleichen Geschlechts enthält das Strafgesetzbuch ein geschlossenes System von Normen. Abgesehen von den Tatbeständen der Nötigung zu unzüchtigen Handlungen (Art. 188), Schändung (Art. 189), Unzucht mit Schwachsinnigen, Kindern unter sechzehn Jahren, unmündigen Pflegebefohlenen, Anstaltspfleglingen und dergleichen (Art. 190-193), die sowohl heterosexuelle als auch homosexuelle Handlungen umfassen, regelt es in Art. 194 die ausgezeichneten Fälle widernatürlicher Unzucht, nämlich die Verführung Unmündiger zur Vornahme oder Duldung solcher Handlungen (Abs. 1), deren Erwirkung durch Missbrauch der Notlage, eines Amts- oder Dienstverhältnisses oder einer auf ähnliche Weise begründeten Abhängigkeit (Abs. 2) und die gewerbsmässigen unzüchtigen Handlungen mit Personen gleichen Geschlechts (Abs. 3). Damit bringt es zum Ausdruck, dass der Bundesgesetzgeber nur diese schweren Fälle als strafwürdig erachtet, einfache widernatürliche Unzucht dagegen straflos zu bleiben hat. Dass das die Meinung der gesetzgebenden Behörden war, ergibt sich klar auch aus den Beratungen der Bundesversammlung, die, nicht ohne Widerstand, Art. 194 gutgeheissen hat (vgl. StenBull, Sonderausgabe, NatR 376 ff., 392 ff., 519 ff., StR 189 ff.).
Ob die Kantone dennoch berechtigt wären, einfache widernatürliche Unzucht als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung mit Übertretungsstrafe zu belegen, kann sich nicht fragen, da ein Verstoss gegen die öffentliche Ordnung nicht vorliegt. Die einfache widernatürliche Unzucht tritt öffentlich sowenig in Erscheinung wie z.B. die einfache Unzucht zwischen Personen verschiedenen Geschlechts, die von Bundesrechts wegen straflos zu bleiben hat (BGE 68 IV 110). Auch spielen sich die damit gelegentlich verbundenen Tätlichkeiten und Erpressungen ihrem Wesen nach nicht in der Öffentlichkeit ab. Das Treiben der Strichjungen sodann fällt unter Art. 194 Abs 3 und gegebenenfalls unter Art. 205 oder 206 StGB; dass die einfache widernatürliche Unzucht gegen die öffentliche Ordnung verstosse, ergibt sich aus ihm nicht.
§ 18 des schwyzerischen EG zum StGB, wonach mit Haft oder Busse zu bestrafen sei, wer an einer Person des gleichen Geschlechtes im Alter von mehr als sechzehn Jahren eine unzüchtige Handlung verübt oder an sich eine solche Handlung von einer Person des gleichen Geschlechtes duldet, ist somit bundesrechtswidrig. Die Vorinstanz hat den Beschwerdeführer von der Anschuldigung der einfachen widernatürlichen Unzucht freizusprechen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationhof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird dahin teilweise gutgeheissen, dass das Urteil des Kantonsgerichtes von Schwyz vom 28. Juni 1954 aufgehoben und die Sache zur Freisprechung des Beschwerdeführers von der Anklage der einfachen widernatürlichen Unzucht und zur Bestrafung wegen einfacher Körperverletzung an die Vorinstanz zurückgewiesen wird.
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Art. 335 ch. 1 al. 1 CP. Les cantons n'ont pas le droit de frapper d'une peine la simple débauche contre nature.
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criminal law and criminal procedure
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Sachverhalt ab Seite 125
A.- S. traf in der Nacht vom 5./6. November 1953, angetrunken aus einem Wirtshaus kommend, den K., der ebenfalls Wirtshäuser besucht hatte. Die beiden gingen auf Vorschlag K.s, der den andern als Homosexuellen kannte und bei ihm Geld zu verdienen hoffte, an einen abgelegenen Ort. Dort griffen sie sich gegenseitig an das Geschlechtsglied. Da S. kein Geld geben wollte, kam es zu einer Auseinandersetzung, in deren Verlauf S. den K. mit einem Messer in die Schulter stach.
B.- S. wurde vom Kantonsgericht von Schwyz am 28. Juni 1954 wegen einfacher Körperverletzung (Art. 123 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und einfacher widernatürlicher Unzucht (§ 18 Abs. 1 EG zum StGB) zu einer bedingt löschbaren Busse von Fr. 40.- verurteilt. Der Einrede des S., § 18 Abs. 1 EG zum StGB sei bundesrechtswidrig, hielt es entgegen, die einfache widernatürliche Unzucht erschöpfe sich nicht in einem Verstoss gegen die Sittlichkeit, als was die Kantone sie kaum mit Strafe bedrohen dürften, sondern sie verletze auch die öffentliche Ordnung, da es, wie auch der vorliegende Fall zeige, im Anschluss an solche Handlungen sehr oft zu tätlichen Auseinandersetzungen komme. Recht oft komme es, worauf im Ständerat hingewiesen worden sei, auch zu Erpressungen, wenn jemand widernatürliche Unzucht getrieben habe. Ausserdem belästigten die sogenannten Strichjungen die Öffentlichkeit. Als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung regle das Strafgesetzbuch die einfache widernatürliche Unzucht weder positiv noch negativ. Somit sei die Ahndung solcher Handlungen dem kantonalen Übertretungsstrafrecht anheimgestellt.
C.- S. führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag auf Freisprechung. In der Verurteilung wegen einfacher widernatürlicher Unzucht sieht er einen Verstoss gegen Bundesrecht, weil in den Beratungen über das Strafgesetzbuch zum Ausdruck gekommen sei, dass solche Handlungen straflos zu bleiben hätten und die Übertretungstatbestände auf dem Gebiete der Sittlichkeit in Art. 205 ff. StGB abschliessend geregelt seien.
D.- Die Staatsanwaltschaft des Kantons Schwyz beantragt, die Nichtigkeitsbeschwerde sei abzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
3. Art. 335 Ziff. 1 Abs. 1 StGB behält den Kantonen die Gesetzgebung über das Übertretungsstrafrecht soweit vor, als es nicht Gegenstand der Bundesgesetzgebung ist.
Nach der Rechtsprechung des Kassationshofes zu dieser Bestimmung (BGE 68 IV 41, 110,BGE 70 IV 85, 132,BGE 71 IV 47) sind die Kantone nicht schon dann berechtigt, einen bestimmten Tatbestand zur Übertretung zu erheben, wenn er nicht vom eidgenössischen Recht mit Strafe bedroht ist. Die Nichtaufnahme eines Tatbestandes in das Strafgesetzbuch kann bedeuten, dass er überhaupt straflos bleibe, also auch nicht als kantonale Übertretung geahndet werden dürfe. Diesen Sinn hat das Schweigen des Strafgesetzbuches dann, wenn dieses Gesetz die Angriffe auf ein bestimmtes Rechtsgut durch ein geschlossenes System von Normen regelt. Behandelt es dagegen ein bestimmtes strafrechtliches Gebiet überhaupt nicht, oder stellt es nur einige wenige Tatbestände daraus unter Strafe, um den von Kanton zu Kanton wechselnden Ansichten über die Strafwürdigkeit oder Straflosigkeit einer bestimmten Handlung Rechnung zu tragen, so bleibt Raum für kantonales Übertretungsstrafrecht.
Für das Gebiet der Unzucht zwischen Personen gleichen Geschlechts enthält das Strafgesetzbuch ein geschlossenes System von Normen. Abgesehen von den Tatbeständen der Nötigung zu unzüchtigen Handlungen (Art. 188), Schändung (Art. 189), Unzucht mit Schwachsinnigen, Kindern unter sechzehn Jahren, unmündigen Pflegebefohlenen, Anstaltspfleglingen und dergleichen (Art. 190-193), die sowohl heterosexuelle als auch homosexuelle Handlungen umfassen, regelt es in Art. 194 die ausgezeichneten Fälle widernatürlicher Unzucht, nämlich die Verführung Unmündiger zur Vornahme oder Duldung solcher Handlungen (Abs. 1), deren Erwirkung durch Missbrauch der Notlage, eines Amts- oder Dienstverhältnisses oder einer auf ähnliche Weise begründeten Abhängigkeit (Abs. 2) und die gewerbsmässigen unzüchtigen Handlungen mit Personen gleichen Geschlechts (Abs. 3). Damit bringt es zum Ausdruck, dass der Bundesgesetzgeber nur diese schweren Fälle als strafwürdig erachtet, einfache widernatürliche Unzucht dagegen straflos zu bleiben hat. Dass das die Meinung der gesetzgebenden Behörden war, ergibt sich klar auch aus den Beratungen der Bundesversammlung, die, nicht ohne Widerstand, Art. 194 gutgeheissen hat (vgl. StenBull, Sonderausgabe, NatR 376 ff., 392 ff., 519 ff., StR 189 ff.).
Ob die Kantone dennoch berechtigt wären, einfache widernatürliche Unzucht als Verstoss gegen die öffentliche Ordnung mit Übertretungsstrafe zu belegen, kann sich nicht fragen, da ein Verstoss gegen die öffentliche Ordnung nicht vorliegt. Die einfache widernatürliche Unzucht tritt öffentlich sowenig in Erscheinung wie z.B. die einfache Unzucht zwischen Personen verschiedenen Geschlechts, die von Bundesrechts wegen straflos zu bleiben hat (BGE 68 IV 110). Auch spielen sich die damit gelegentlich verbundenen Tätlichkeiten und Erpressungen ihrem Wesen nach nicht in der Öffentlichkeit ab. Das Treiben der Strichjungen sodann fällt unter Art. 194 Abs 3 und gegebenenfalls unter Art. 205 oder 206 StGB; dass die einfache widernatürliche Unzucht gegen die öffentliche Ordnung verstosse, ergibt sich aus ihm nicht.
§ 18 des schwyzerischen EG zum StGB, wonach mit Haft oder Busse zu bestrafen sei, wer an einer Person des gleichen Geschlechtes im Alter von mehr als sechzehn Jahren eine unzüchtige Handlung verübt oder an sich eine solche Handlung von einer Person des gleichen Geschlechtes duldet, ist somit bundesrechtswidrig. Die Vorinstanz hat den Beschwerdeführer von der Anschuldigung der einfachen widernatürlichen Unzucht freizusprechen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationhof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird dahin teilweise gutgeheissen, dass das Urteil des Kantonsgerichtes von Schwyz vom 28. Juni 1954 aufgehoben und die Sache zur Freisprechung des Beschwerdeführers von der Anklage der einfachen widernatürlichen Unzucht und zur Bestrafung wegen einfacher Körperverletzung an die Vorinstanz zurückgewiesen wird.
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Art. 335 cifra 1 cp. 1 CP. I cantoni non hanno la facoltà di colpire con una pena gli atti di semplice libidine.
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81 IV 128
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Sachverhalt ab Seite 128
A.- Hans Berger, der in Orpund auf eigene Rechnung als Automechaniker arbeitet, fuhr am 24. Dezember 1953 etwa um 12.50 Uhr mit seinem Personenwagen, Modell Hansa aus dem Jahre 1936, auf 6,9 m breiter Hauptstrasse innerorts mit mindestens 60 km/Std. von Biel her durch das Ausserdorf Orpund gegen den zwischen dem Hause Lips und dem Postgebäude von rechts her einmündenden Krautplätzenweg. Bevor Berger diese Einmündung erreichte, hatte er eine ziemlich lange gerade Strecke vor sich. Nach der Einmündung trennten ihn dagegen nur etwa 50 m von einer unübersichtlichen Rechtsbiegung. Die Sicht in den Krautplätzenweg, einem Durchgangsweg, an dem Automobilbesitzer wohnen und der oft auch mit Fuhrwerken befahren wird, ist für den von Biel her Kommenden durch den Gartenzaun mit Lebhag der Liegenschaft Lips verdeckt. Die Strasse, auf der Berger fuhr, wies keine Fussgängersteige auf. Verschiedene private Zufahrten verbinden sie mit den zu beiden Seiten stehenden Häusern. Das Gebiet, das Berger durchfuhr, hat vorstädtischen Charakter.
Beim Krautplätzenweg stiess Berger mit dem aus entgegengesetzter Richtung kommenden Radfahrer Armin Rihs zusammen, als dieser, ohne seine Absicht durch Ausstrecken des Armes angezeigt zu haben, gegen den Krautplätzenweg hin abbog. Berger betätigte vor dem Zusammenstoss kräftig die Bremsen, die nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen, prallte unter Hinterlassung einer 18,5 m langen Bremsspur an einen Telephonmast und brachte den Wagen nach einer anschliessenden Schleuderbewegung von etwa 4 m Länge quer in der Strasse zum Stehen.
B.- Am 27. September 1954 verurteilte das Obergericht des Kantons Bern Berger in Anwendung der Art. 25 Abs. 1 und 27 MFG zu Fr. 80.- Busse. Es warf ihm vor, er habe die Geschwindigkeit seines Wagens den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen nicht angepasst. Angesichts der Häufung von Gefahren durch die örtlichen Verhältnisse seien die eingehaltenen 60 km/Std. entschieden zu hoch gewesen. Bei dieser Fahrweise wäre Berger nicht in der Lage gewesen, einem aus dem Krautplätzenweg kommenden Fahrzeug den Vortritt zu lassen. Er sei ortskundig und habe die unübersichtliche Einmündung gekannt. Er habe darauf Rücksicht zu nehmen gehabt. Zudem hätte er dem Umstand Rechnung tragen sollen, dass er einen alten Wagen steuerte, dessen Bremsen nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen.
C.- Berger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Ergänzung der Akten und zur Neubeurteilung, eventuell zur Freisprechung, an das Obergericht zurückzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Tatsächliche Feststellungen des kantonalen Richters binden den Kassationshof (Art. 277 bis Abs. 1 BStP). Ausführungen, die sich gegen sie richten, dürfen in einer Nichtigkeitsbeschwerde nicht gemacht werden (Art. 273 Abs. 1 lit. b BStP). Aus diesen Bestimmungen folgt klar, dass der Kassationshof die Beweiswürdigung nicht zu überprüfen hat, auf der die tatsächlichen Feststellungen beruhen. Daran ändert Art. 249 BStP nichts, der die entscheidende Behörde anweist, die Beweise frei zu würdigen. Das heisst lediglich, dass sie sich nicht an gesetzliche Beweisregeln gebunden fühlen darf, sondern frei von solchen die Überzeugungskraft der Beweise in Betracht zu ziehen hat. Dass sie in der Abwägung der Beweise die Grenzen des Ermessens nicht überschreiten, d.h. nicht willkürlich entscheiden dürfe, ist damit nicht gesagt. Das Verbot der Willkür ergibt sich lediglich aus Art. 4 BV, dessen Verletzung jedoch nicht mit Nichtigkeitsbeschwerde, sondern nur mit staatsrechtlicher Beschwerde, gerügt werden kann (Art. 269 Abs. 2 BStP).
Soweit der Beschwerdeführer der Vorinstanz unter Berufung auf Art. 249 BStP Überschreitung des Ermessens in der Beweiswürdigung vorwirft, insbesondere die Feststellung anficht, er habe bei der Annäherung an die Unfallstelle eine Geschwindigkeit von mindestens 60 km/Std. innegehabt, ist daher auf die Beschwerde nicht einzutreten. Die Vorinstanz hat ihre Feststellungen nicht auf Grund gesetzlicher Beweisregeln getroffen - was der Beschwerdeführer auch nicht behauptet -, sondern die Beweise frei gewürdigt, also Art. 249 BStP nicht verletzt.
2. Der Führer muss sein Fahrzeug ständig beherrschen und die Geschwindigkeit den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen anpassen. Er hat namentlich in Ortschaften und auch sonst überall da, wo das Fahrzeug Anlass zu Verkehrsstörung, Belästigung des Publikums, Erschrecken des Viehs oder Unfällen bieten könnte, den Lauf zu mässigen, nötigenfalls sogar anzuhalten (Art. 25 Abs. 1 MFG). Insbesondere hat er bei Strassengabelungen und -kreuzungen die Geschwindigkeit zu mässigen (Art. 27 Abs. 1 MFG). Diese Bestimmungen wollen abstrakt die Unfallgefahren bekämpfen. Sie gelten auch dann, wenn der Führer keine Anhaltspunkte für eine drohende konkrete Gefahr hat. Daher hilft dem Beschwerdeführer der Einwand nicht, es habe im Augenblick des Unfalles kein Verkehr geherrscht, er habe also keine konkreten Anhaltspunkte gehabt, dass er wegen des Verkehrs langsamer fahren müsse. Die angesichts der örtlichen Verhältnisse gegebene abstrakte Möglichkeit, dass er mit anderen Strassenbenützern zusammentreffen und sie gefährden oder auch nur belästigen könnte, wenn er mit mindestens 60 km/Std. fahre, genügte, um ihn zur Mässigung der Geschwindigkeit zu verpflichten.
Dass solche Möglichkeiten bestanden, steht nach den Feststellungen der Vorinstanz über die örtlichen Verhältnisse ausser Frage. Die Strasse, auf der der Beschwerdeführer sich bewegte, ist die Hauptader der Ortschaft Orpund. Sie führt in der Gegend der Unfallstelle an der unübersichtlichen Einmündung des Krautplätzenweges, am Postgebäude und an verschiedenen nach links und nach rechts abzweigenden privaten Zufahrten zu Häusern vorbei. Das Gebiet hat vorstädtischen Charakter. Die Strasse ist die Hauptverbindung zwischen der Stadt Biel und einigen Ortschaften der zu ihrem Einzugsgebiet gehörenden Gegend. Der Beschwerdeführer durfte daher trotz des Zeitpunktes, in dem er sie benützte, nicht damit rechnen, dass er keine anderen Strassenbenützer begegnen könne. Tatsächlich hat er ja auch zum mindesten einen, den Radfahrer Rihs, begegnet. Er hatte auch darauf Rücksicht zu nehmen, dass die Strasse trotz ihrer Bedeutung keine Fussgängersteige aufweist und verhältnismässig schmal ist. Ob Fussgänger, die von den Häusern her kommen konnten, ihn vor dem Betreten der Strasse hätten sehen können, ist unerheblich; auch wenn dies zugetroffen haben sollte, hatte der Beschwerdeführer auf sie Rücksicht zu nehmen, verbietet doch Art. 25 Abs. 1 MFG auch schon die blosse Belästigung des Publikums. Dass der Kassationshof in BGE 80 IV 130 ff. eine Geschwindigkeit von 60 bis 70 km/Std. für einen mit etwa 1 m Abstand an einem vereinzelten unübersichtlichen Gartentor vorbeifahrenden Personenwagen als nicht übersetzt bezeichnet hat, ändert nichts. Jene Stelle befand sich ausserorts, wo die Führer von Motorfahrzeugen Anspruch auf erhöhte Bewegungsfreiheit haben und die Anwohner zu erhöhter Aufmerksamkeit verpflichtet sind. Die vom Beschwerdeführer benützte Strecke im Ausserdorf Orpund liegt dagegen innerorts, wo dem Führer erhöhte Rücksichtnahme auf andere zuzumuten ist und die Anwohner sich in vermehrtem Masse frei sollen bewegen können. Der Auffassung des Beschwerdeführers, auch innerorts könne jedem zugemutet werden, die Strasse nicht zu betreten oder zu überqueren, wenn ihm ein Motorfahrzeug auf 40 bis 50 m nahe sei, ist nicht beizupflichten. Dadurch würde bei dichtem Motorfahrzeugverkehr der Fussgängerverkehr ungebührlich erschwert oder lahmgelegt, zumal dort, wo Fussgängersteige fehlen. Die Strasse kann oft nicht anders als wenige Meter vor einem Motorfahrzeug überschritten werden. Die Führer der Fahrzeuge dürfen das nicht durch übersetzte Geschwindigkeiten verunmöglichen. Der Beschwerdeführer geht auch fehl mit der Auffassung, die Grenze der zulässigen Geschwindigkeit liege erst dort, wo keine Gewähr mehr bestehe, dass der Wagen bei plötzlichem Bremsen nicht ins Schleudern gerate. Die Art. 25 Abs. 1 und 27 Abs. 1 MFG erlauben dem Motorfahrzeugführer keineswegs, die technischen Möglichkeiten sicherer Führung bis zur Grenze auszuschöpfen und damit die Strasse zur Rennbahn zu machen, sondern verlangen Rücksichtnahme auf andere. Solche ist namentlich an der Einmündung oder Kreuzung von Strassen geboten, wo auch der auf einer Hauptstrasse Fahrende innerorts dem von rechts Kommenden den Vortritt zu lassen hat. Nach der Rechtsprechung des Bundesgerichts bedeutet das freilich nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende nicht schneller fahren dürfe, als dass er vor der Einmündung oder Kreuzung anhalten könne, wenn von rechts ein anderes Fahrzeug gleichzeitig eintreffen sollte. Der aus einer Nebenstrasse kommende Vortrittsberechtigte hat zu berücksichtigen, dass der Verkehr auf der Hauptader dichter ist und flüssiger sein darf als auf der Nebenstrasse; er darf sein Vortrittsrecht nicht ausüben, wenn der mit angemessener Geschwindigkeit auf der Hauptader Fahrende nicht mehr in der Lage ist, ihm den Vortritt zu lassen. Daraus folgt aber nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende sich schlechthin so verhalten dürfe, als ob er der Vortrittsberechtigte wäre, es den Einmündenden überlassend, allein für die Verhütung von Zusammenstössen zu sorgen. Die Benützer der Hauptverkehrsader haben vielmehr ihrerseits durch Herabsetzung der Geschwindigkeit, wie Art. 27 Abs. 1 MFG es ausdrücklich verlangt, auf die Einmündungen und Kreuzungen, zumal wenn sie unübersichtlich sind, Rücksicht zu nehmen (BGE 76 IV 257und dort angeführte Urteile). Indem der Beschwerdeführer sich mit mindestens 60 km/Std. dem Krautplätzenweg näherte, in den er keine Sicht hatte, übertrat er dieses Gebot, unbekümmert darum, ob tatsächlich ein Vortrittsberechtigter nahte oder nicht. Endlich hätte er auch der unübersichtlichen Rechtsbiegung, der er auf etwa 50 m nahe war, durch Herabsetzung der Geschwindigkeit Rechnung tragen sollen.
Übersetzt war seine Geschwindigkeit unbekümmert darum, dass die Bremsen seines Wagens nur gerade den Mindestanforderungen entsprachen. Auch mit besseren Bremsen hätte er nicht so schnell fahren dürfen. Das Gebot der Rücksichtnahme hätte das nicht erlaubt, da andere Strassenbenützer den Zustand der Bremsen eines mit übersetzter Geschwindigkeit daherkommenden Fahrzeuges nicht kennen und durch es auch dann in ihrer Bewegungsfreiheit ungebührlich behindert werden, wenn es besonders gute Bremsen hat. Ob der Beschwerdeführer gewusst hat, dass die seinen knapp den Anforderungen entsprachen, ist daher unerheblich. Als selbständigerwerbender Automechaniker hätte er es übrigens zum mindesten wissen sollen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen, soweit auf sie einzutreten ist.
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1. Art. 249, 273 Abs. 1 lit. b, 277 bis Abs. 1 BStP. Der Kassationshof hat die Beweiswürdigung, die den tatsächlichen Feststellun. gen der kantonalen Behörde zugrunde liegt, auch nicht auf Ermessensüberschreitung hin zu überprüfen (Erw. 1). 2. Art. 25 Abs. 1, 27 Abs. 1 MFG. Unzulässige Geschwindigkeit innerorts und an Strassenkreuzung (Erw. 2).
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https://www.bger.ch/ext/eurospider/live/de/php/clir/http/index.php?highlight_docid=atf%3A%2F%2F81-IV-128%3Ade&lang=de&zoom=&type=show_document
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81 IV 128
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Sachverhalt ab Seite 128
A.- Hans Berger, der in Orpund auf eigene Rechnung als Automechaniker arbeitet, fuhr am 24. Dezember 1953 etwa um 12.50 Uhr mit seinem Personenwagen, Modell Hansa aus dem Jahre 1936, auf 6,9 m breiter Hauptstrasse innerorts mit mindestens 60 km/Std. von Biel her durch das Ausserdorf Orpund gegen den zwischen dem Hause Lips und dem Postgebäude von rechts her einmündenden Krautplätzenweg. Bevor Berger diese Einmündung erreichte, hatte er eine ziemlich lange gerade Strecke vor sich. Nach der Einmündung trennten ihn dagegen nur etwa 50 m von einer unübersichtlichen Rechtsbiegung. Die Sicht in den Krautplätzenweg, einem Durchgangsweg, an dem Automobilbesitzer wohnen und der oft auch mit Fuhrwerken befahren wird, ist für den von Biel her Kommenden durch den Gartenzaun mit Lebhag der Liegenschaft Lips verdeckt. Die Strasse, auf der Berger fuhr, wies keine Fussgängersteige auf. Verschiedene private Zufahrten verbinden sie mit den zu beiden Seiten stehenden Häusern. Das Gebiet, das Berger durchfuhr, hat vorstädtischen Charakter.
Beim Krautplätzenweg stiess Berger mit dem aus entgegengesetzter Richtung kommenden Radfahrer Armin Rihs zusammen, als dieser, ohne seine Absicht durch Ausstrecken des Armes angezeigt zu haben, gegen den Krautplätzenweg hin abbog. Berger betätigte vor dem Zusammenstoss kräftig die Bremsen, die nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen, prallte unter Hinterlassung einer 18,5 m langen Bremsspur an einen Telephonmast und brachte den Wagen nach einer anschliessenden Schleuderbewegung von etwa 4 m Länge quer in der Strasse zum Stehen.
B.- Am 27. September 1954 verurteilte das Obergericht des Kantons Bern Berger in Anwendung der Art. 25 Abs. 1 und 27 MFG zu Fr. 80.- Busse. Es warf ihm vor, er habe die Geschwindigkeit seines Wagens den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen nicht angepasst. Angesichts der Häufung von Gefahren durch die örtlichen Verhältnisse seien die eingehaltenen 60 km/Std. entschieden zu hoch gewesen. Bei dieser Fahrweise wäre Berger nicht in der Lage gewesen, einem aus dem Krautplätzenweg kommenden Fahrzeug den Vortritt zu lassen. Er sei ortskundig und habe die unübersichtliche Einmündung gekannt. Er habe darauf Rücksicht zu nehmen gehabt. Zudem hätte er dem Umstand Rechnung tragen sollen, dass er einen alten Wagen steuerte, dessen Bremsen nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen.
C.- Berger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Ergänzung der Akten und zur Neubeurteilung, eventuell zur Freisprechung, an das Obergericht zurückzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Tatsächliche Feststellungen des kantonalen Richters binden den Kassationshof (Art. 277 bis Abs. 1 BStP). Ausführungen, die sich gegen sie richten, dürfen in einer Nichtigkeitsbeschwerde nicht gemacht werden (Art. 273 Abs. 1 lit. b BStP). Aus diesen Bestimmungen folgt klar, dass der Kassationshof die Beweiswürdigung nicht zu überprüfen hat, auf der die tatsächlichen Feststellungen beruhen. Daran ändert Art. 249 BStP nichts, der die entscheidende Behörde anweist, die Beweise frei zu würdigen. Das heisst lediglich, dass sie sich nicht an gesetzliche Beweisregeln gebunden fühlen darf, sondern frei von solchen die Überzeugungskraft der Beweise in Betracht zu ziehen hat. Dass sie in der Abwägung der Beweise die Grenzen des Ermessens nicht überschreiten, d.h. nicht willkürlich entscheiden dürfe, ist damit nicht gesagt. Das Verbot der Willkür ergibt sich lediglich aus Art. 4 BV, dessen Verletzung jedoch nicht mit Nichtigkeitsbeschwerde, sondern nur mit staatsrechtlicher Beschwerde, gerügt werden kann (Art. 269 Abs. 2 BStP).
Soweit der Beschwerdeführer der Vorinstanz unter Berufung auf Art. 249 BStP Überschreitung des Ermessens in der Beweiswürdigung vorwirft, insbesondere die Feststellung anficht, er habe bei der Annäherung an die Unfallstelle eine Geschwindigkeit von mindestens 60 km/Std. innegehabt, ist daher auf die Beschwerde nicht einzutreten. Die Vorinstanz hat ihre Feststellungen nicht auf Grund gesetzlicher Beweisregeln getroffen - was der Beschwerdeführer auch nicht behauptet -, sondern die Beweise frei gewürdigt, also Art. 249 BStP nicht verletzt.
2. Der Führer muss sein Fahrzeug ständig beherrschen und die Geschwindigkeit den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen anpassen. Er hat namentlich in Ortschaften und auch sonst überall da, wo das Fahrzeug Anlass zu Verkehrsstörung, Belästigung des Publikums, Erschrecken des Viehs oder Unfällen bieten könnte, den Lauf zu mässigen, nötigenfalls sogar anzuhalten (Art. 25 Abs. 1 MFG). Insbesondere hat er bei Strassengabelungen und -kreuzungen die Geschwindigkeit zu mässigen (Art. 27 Abs. 1 MFG). Diese Bestimmungen wollen abstrakt die Unfallgefahren bekämpfen. Sie gelten auch dann, wenn der Führer keine Anhaltspunkte für eine drohende konkrete Gefahr hat. Daher hilft dem Beschwerdeführer der Einwand nicht, es habe im Augenblick des Unfalles kein Verkehr geherrscht, er habe also keine konkreten Anhaltspunkte gehabt, dass er wegen des Verkehrs langsamer fahren müsse. Die angesichts der örtlichen Verhältnisse gegebene abstrakte Möglichkeit, dass er mit anderen Strassenbenützern zusammentreffen und sie gefährden oder auch nur belästigen könnte, wenn er mit mindestens 60 km/Std. fahre, genügte, um ihn zur Mässigung der Geschwindigkeit zu verpflichten.
Dass solche Möglichkeiten bestanden, steht nach den Feststellungen der Vorinstanz über die örtlichen Verhältnisse ausser Frage. Die Strasse, auf der der Beschwerdeführer sich bewegte, ist die Hauptader der Ortschaft Orpund. Sie führt in der Gegend der Unfallstelle an der unübersichtlichen Einmündung des Krautplätzenweges, am Postgebäude und an verschiedenen nach links und nach rechts abzweigenden privaten Zufahrten zu Häusern vorbei. Das Gebiet hat vorstädtischen Charakter. Die Strasse ist die Hauptverbindung zwischen der Stadt Biel und einigen Ortschaften der zu ihrem Einzugsgebiet gehörenden Gegend. Der Beschwerdeführer durfte daher trotz des Zeitpunktes, in dem er sie benützte, nicht damit rechnen, dass er keine anderen Strassenbenützer begegnen könne. Tatsächlich hat er ja auch zum mindesten einen, den Radfahrer Rihs, begegnet. Er hatte auch darauf Rücksicht zu nehmen, dass die Strasse trotz ihrer Bedeutung keine Fussgängersteige aufweist und verhältnismässig schmal ist. Ob Fussgänger, die von den Häusern her kommen konnten, ihn vor dem Betreten der Strasse hätten sehen können, ist unerheblich; auch wenn dies zugetroffen haben sollte, hatte der Beschwerdeführer auf sie Rücksicht zu nehmen, verbietet doch Art. 25 Abs. 1 MFG auch schon die blosse Belästigung des Publikums. Dass der Kassationshof in BGE 80 IV 130 ff. eine Geschwindigkeit von 60 bis 70 km/Std. für einen mit etwa 1 m Abstand an einem vereinzelten unübersichtlichen Gartentor vorbeifahrenden Personenwagen als nicht übersetzt bezeichnet hat, ändert nichts. Jene Stelle befand sich ausserorts, wo die Führer von Motorfahrzeugen Anspruch auf erhöhte Bewegungsfreiheit haben und die Anwohner zu erhöhter Aufmerksamkeit verpflichtet sind. Die vom Beschwerdeführer benützte Strecke im Ausserdorf Orpund liegt dagegen innerorts, wo dem Führer erhöhte Rücksichtnahme auf andere zuzumuten ist und die Anwohner sich in vermehrtem Masse frei sollen bewegen können. Der Auffassung des Beschwerdeführers, auch innerorts könne jedem zugemutet werden, die Strasse nicht zu betreten oder zu überqueren, wenn ihm ein Motorfahrzeug auf 40 bis 50 m nahe sei, ist nicht beizupflichten. Dadurch würde bei dichtem Motorfahrzeugverkehr der Fussgängerverkehr ungebührlich erschwert oder lahmgelegt, zumal dort, wo Fussgängersteige fehlen. Die Strasse kann oft nicht anders als wenige Meter vor einem Motorfahrzeug überschritten werden. Die Führer der Fahrzeuge dürfen das nicht durch übersetzte Geschwindigkeiten verunmöglichen. Der Beschwerdeführer geht auch fehl mit der Auffassung, die Grenze der zulässigen Geschwindigkeit liege erst dort, wo keine Gewähr mehr bestehe, dass der Wagen bei plötzlichem Bremsen nicht ins Schleudern gerate. Die Art. 25 Abs. 1 und 27 Abs. 1 MFG erlauben dem Motorfahrzeugführer keineswegs, die technischen Möglichkeiten sicherer Führung bis zur Grenze auszuschöpfen und damit die Strasse zur Rennbahn zu machen, sondern verlangen Rücksichtnahme auf andere. Solche ist namentlich an der Einmündung oder Kreuzung von Strassen geboten, wo auch der auf einer Hauptstrasse Fahrende innerorts dem von rechts Kommenden den Vortritt zu lassen hat. Nach der Rechtsprechung des Bundesgerichts bedeutet das freilich nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende nicht schneller fahren dürfe, als dass er vor der Einmündung oder Kreuzung anhalten könne, wenn von rechts ein anderes Fahrzeug gleichzeitig eintreffen sollte. Der aus einer Nebenstrasse kommende Vortrittsberechtigte hat zu berücksichtigen, dass der Verkehr auf der Hauptader dichter ist und flüssiger sein darf als auf der Nebenstrasse; er darf sein Vortrittsrecht nicht ausüben, wenn der mit angemessener Geschwindigkeit auf der Hauptader Fahrende nicht mehr in der Lage ist, ihm den Vortritt zu lassen. Daraus folgt aber nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende sich schlechthin so verhalten dürfe, als ob er der Vortrittsberechtigte wäre, es den Einmündenden überlassend, allein für die Verhütung von Zusammenstössen zu sorgen. Die Benützer der Hauptverkehrsader haben vielmehr ihrerseits durch Herabsetzung der Geschwindigkeit, wie Art. 27 Abs. 1 MFG es ausdrücklich verlangt, auf die Einmündungen und Kreuzungen, zumal wenn sie unübersichtlich sind, Rücksicht zu nehmen (BGE 76 IV 257und dort angeführte Urteile). Indem der Beschwerdeführer sich mit mindestens 60 km/Std. dem Krautplätzenweg näherte, in den er keine Sicht hatte, übertrat er dieses Gebot, unbekümmert darum, ob tatsächlich ein Vortrittsberechtigter nahte oder nicht. Endlich hätte er auch der unübersichtlichen Rechtsbiegung, der er auf etwa 50 m nahe war, durch Herabsetzung der Geschwindigkeit Rechnung tragen sollen.
Übersetzt war seine Geschwindigkeit unbekümmert darum, dass die Bremsen seines Wagens nur gerade den Mindestanforderungen entsprachen. Auch mit besseren Bremsen hätte er nicht so schnell fahren dürfen. Das Gebot der Rücksichtnahme hätte das nicht erlaubt, da andere Strassenbenützer den Zustand der Bremsen eines mit übersetzter Geschwindigkeit daherkommenden Fahrzeuges nicht kennen und durch es auch dann in ihrer Bewegungsfreiheit ungebührlich behindert werden, wenn es besonders gute Bremsen hat. Ob der Beschwerdeführer gewusst hat, dass die seinen knapp den Anforderungen entsprachen, ist daher unerheblich. Als selbständigerwerbender Automechaniker hätte er es übrigens zum mindesten wissen sollen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen, soweit auf sie einzutreten ist.
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1. Art. 249, 273 al. 1 lit. b, 277 bis al. 1 PPF. La Cour de cassation ne peut pas examiner si, dans l'appréciation des preuves sur laquelle se fondent ses constatations de fait, l'autorité cantonale a outrepassé son pouvoir discrétionnaire (consid. 1). 2. Art. 25 al. 1, 27 al. 1 LA. Vitesse excessive à l'intérieur d'une localité et aux abords d'un carrefour (consid. 2).
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81 IV 128
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Sachverhalt ab Seite 128
A.- Hans Berger, der in Orpund auf eigene Rechnung als Automechaniker arbeitet, fuhr am 24. Dezember 1953 etwa um 12.50 Uhr mit seinem Personenwagen, Modell Hansa aus dem Jahre 1936, auf 6,9 m breiter Hauptstrasse innerorts mit mindestens 60 km/Std. von Biel her durch das Ausserdorf Orpund gegen den zwischen dem Hause Lips und dem Postgebäude von rechts her einmündenden Krautplätzenweg. Bevor Berger diese Einmündung erreichte, hatte er eine ziemlich lange gerade Strecke vor sich. Nach der Einmündung trennten ihn dagegen nur etwa 50 m von einer unübersichtlichen Rechtsbiegung. Die Sicht in den Krautplätzenweg, einem Durchgangsweg, an dem Automobilbesitzer wohnen und der oft auch mit Fuhrwerken befahren wird, ist für den von Biel her Kommenden durch den Gartenzaun mit Lebhag der Liegenschaft Lips verdeckt. Die Strasse, auf der Berger fuhr, wies keine Fussgängersteige auf. Verschiedene private Zufahrten verbinden sie mit den zu beiden Seiten stehenden Häusern. Das Gebiet, das Berger durchfuhr, hat vorstädtischen Charakter.
Beim Krautplätzenweg stiess Berger mit dem aus entgegengesetzter Richtung kommenden Radfahrer Armin Rihs zusammen, als dieser, ohne seine Absicht durch Ausstrecken des Armes angezeigt zu haben, gegen den Krautplätzenweg hin abbog. Berger betätigte vor dem Zusammenstoss kräftig die Bremsen, die nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen, prallte unter Hinterlassung einer 18,5 m langen Bremsspur an einen Telephonmast und brachte den Wagen nach einer anschliessenden Schleuderbewegung von etwa 4 m Länge quer in der Strasse zum Stehen.
B.- Am 27. September 1954 verurteilte das Obergericht des Kantons Bern Berger in Anwendung der Art. 25 Abs. 1 und 27 MFG zu Fr. 80.- Busse. Es warf ihm vor, er habe die Geschwindigkeit seines Wagens den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen nicht angepasst. Angesichts der Häufung von Gefahren durch die örtlichen Verhältnisse seien die eingehaltenen 60 km/Std. entschieden zu hoch gewesen. Bei dieser Fahrweise wäre Berger nicht in der Lage gewesen, einem aus dem Krautplätzenweg kommenden Fahrzeug den Vortritt zu lassen. Er sei ortskundig und habe die unübersichtliche Einmündung gekannt. Er habe darauf Rücksicht zu nehmen gehabt. Zudem hätte er dem Umstand Rechnung tragen sollen, dass er einen alten Wagen steuerte, dessen Bremsen nur noch gerade den Mindestanforderungen entsprachen.
C.- Berger führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, das Urteil sei aufzuheben und die Sache zur Ergänzung der Akten und zur Neubeurteilung, eventuell zur Freisprechung, an das Obergericht zurückzuweisen.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Tatsächliche Feststellungen des kantonalen Richters binden den Kassationshof (Art. 277 bis Abs. 1 BStP). Ausführungen, die sich gegen sie richten, dürfen in einer Nichtigkeitsbeschwerde nicht gemacht werden (Art. 273 Abs. 1 lit. b BStP). Aus diesen Bestimmungen folgt klar, dass der Kassationshof die Beweiswürdigung nicht zu überprüfen hat, auf der die tatsächlichen Feststellungen beruhen. Daran ändert Art. 249 BStP nichts, der die entscheidende Behörde anweist, die Beweise frei zu würdigen. Das heisst lediglich, dass sie sich nicht an gesetzliche Beweisregeln gebunden fühlen darf, sondern frei von solchen die Überzeugungskraft der Beweise in Betracht zu ziehen hat. Dass sie in der Abwägung der Beweise die Grenzen des Ermessens nicht überschreiten, d.h. nicht willkürlich entscheiden dürfe, ist damit nicht gesagt. Das Verbot der Willkür ergibt sich lediglich aus Art. 4 BV, dessen Verletzung jedoch nicht mit Nichtigkeitsbeschwerde, sondern nur mit staatsrechtlicher Beschwerde, gerügt werden kann (Art. 269 Abs. 2 BStP).
Soweit der Beschwerdeführer der Vorinstanz unter Berufung auf Art. 249 BStP Überschreitung des Ermessens in der Beweiswürdigung vorwirft, insbesondere die Feststellung anficht, er habe bei der Annäherung an die Unfallstelle eine Geschwindigkeit von mindestens 60 km/Std. innegehabt, ist daher auf die Beschwerde nicht einzutreten. Die Vorinstanz hat ihre Feststellungen nicht auf Grund gesetzlicher Beweisregeln getroffen - was der Beschwerdeführer auch nicht behauptet -, sondern die Beweise frei gewürdigt, also Art. 249 BStP nicht verletzt.
2. Der Führer muss sein Fahrzeug ständig beherrschen und die Geschwindigkeit den gegebenen Strassen- und Verkehrsverhältnissen anpassen. Er hat namentlich in Ortschaften und auch sonst überall da, wo das Fahrzeug Anlass zu Verkehrsstörung, Belästigung des Publikums, Erschrecken des Viehs oder Unfällen bieten könnte, den Lauf zu mässigen, nötigenfalls sogar anzuhalten (Art. 25 Abs. 1 MFG). Insbesondere hat er bei Strassengabelungen und -kreuzungen die Geschwindigkeit zu mässigen (Art. 27 Abs. 1 MFG). Diese Bestimmungen wollen abstrakt die Unfallgefahren bekämpfen. Sie gelten auch dann, wenn der Führer keine Anhaltspunkte für eine drohende konkrete Gefahr hat. Daher hilft dem Beschwerdeführer der Einwand nicht, es habe im Augenblick des Unfalles kein Verkehr geherrscht, er habe also keine konkreten Anhaltspunkte gehabt, dass er wegen des Verkehrs langsamer fahren müsse. Die angesichts der örtlichen Verhältnisse gegebene abstrakte Möglichkeit, dass er mit anderen Strassenbenützern zusammentreffen und sie gefährden oder auch nur belästigen könnte, wenn er mit mindestens 60 km/Std. fahre, genügte, um ihn zur Mässigung der Geschwindigkeit zu verpflichten.
Dass solche Möglichkeiten bestanden, steht nach den Feststellungen der Vorinstanz über die örtlichen Verhältnisse ausser Frage. Die Strasse, auf der der Beschwerdeführer sich bewegte, ist die Hauptader der Ortschaft Orpund. Sie führt in der Gegend der Unfallstelle an der unübersichtlichen Einmündung des Krautplätzenweges, am Postgebäude und an verschiedenen nach links und nach rechts abzweigenden privaten Zufahrten zu Häusern vorbei. Das Gebiet hat vorstädtischen Charakter. Die Strasse ist die Hauptverbindung zwischen der Stadt Biel und einigen Ortschaften der zu ihrem Einzugsgebiet gehörenden Gegend. Der Beschwerdeführer durfte daher trotz des Zeitpunktes, in dem er sie benützte, nicht damit rechnen, dass er keine anderen Strassenbenützer begegnen könne. Tatsächlich hat er ja auch zum mindesten einen, den Radfahrer Rihs, begegnet. Er hatte auch darauf Rücksicht zu nehmen, dass die Strasse trotz ihrer Bedeutung keine Fussgängersteige aufweist und verhältnismässig schmal ist. Ob Fussgänger, die von den Häusern her kommen konnten, ihn vor dem Betreten der Strasse hätten sehen können, ist unerheblich; auch wenn dies zugetroffen haben sollte, hatte der Beschwerdeführer auf sie Rücksicht zu nehmen, verbietet doch Art. 25 Abs. 1 MFG auch schon die blosse Belästigung des Publikums. Dass der Kassationshof in BGE 80 IV 130 ff. eine Geschwindigkeit von 60 bis 70 km/Std. für einen mit etwa 1 m Abstand an einem vereinzelten unübersichtlichen Gartentor vorbeifahrenden Personenwagen als nicht übersetzt bezeichnet hat, ändert nichts. Jene Stelle befand sich ausserorts, wo die Führer von Motorfahrzeugen Anspruch auf erhöhte Bewegungsfreiheit haben und die Anwohner zu erhöhter Aufmerksamkeit verpflichtet sind. Die vom Beschwerdeführer benützte Strecke im Ausserdorf Orpund liegt dagegen innerorts, wo dem Führer erhöhte Rücksichtnahme auf andere zuzumuten ist und die Anwohner sich in vermehrtem Masse frei sollen bewegen können. Der Auffassung des Beschwerdeführers, auch innerorts könne jedem zugemutet werden, die Strasse nicht zu betreten oder zu überqueren, wenn ihm ein Motorfahrzeug auf 40 bis 50 m nahe sei, ist nicht beizupflichten. Dadurch würde bei dichtem Motorfahrzeugverkehr der Fussgängerverkehr ungebührlich erschwert oder lahmgelegt, zumal dort, wo Fussgängersteige fehlen. Die Strasse kann oft nicht anders als wenige Meter vor einem Motorfahrzeug überschritten werden. Die Führer der Fahrzeuge dürfen das nicht durch übersetzte Geschwindigkeiten verunmöglichen. Der Beschwerdeführer geht auch fehl mit der Auffassung, die Grenze der zulässigen Geschwindigkeit liege erst dort, wo keine Gewähr mehr bestehe, dass der Wagen bei plötzlichem Bremsen nicht ins Schleudern gerate. Die Art. 25 Abs. 1 und 27 Abs. 1 MFG erlauben dem Motorfahrzeugführer keineswegs, die technischen Möglichkeiten sicherer Führung bis zur Grenze auszuschöpfen und damit die Strasse zur Rennbahn zu machen, sondern verlangen Rücksichtnahme auf andere. Solche ist namentlich an der Einmündung oder Kreuzung von Strassen geboten, wo auch der auf einer Hauptstrasse Fahrende innerorts dem von rechts Kommenden den Vortritt zu lassen hat. Nach der Rechtsprechung des Bundesgerichts bedeutet das freilich nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende nicht schneller fahren dürfe, als dass er vor der Einmündung oder Kreuzung anhalten könne, wenn von rechts ein anderes Fahrzeug gleichzeitig eintreffen sollte. Der aus einer Nebenstrasse kommende Vortrittsberechtigte hat zu berücksichtigen, dass der Verkehr auf der Hauptader dichter ist und flüssiger sein darf als auf der Nebenstrasse; er darf sein Vortrittsrecht nicht ausüben, wenn der mit angemessener Geschwindigkeit auf der Hauptader Fahrende nicht mehr in der Lage ist, ihm den Vortritt zu lassen. Daraus folgt aber nicht, dass der auf der Hauptader Verkehrende sich schlechthin so verhalten dürfe, als ob er der Vortrittsberechtigte wäre, es den Einmündenden überlassend, allein für die Verhütung von Zusammenstössen zu sorgen. Die Benützer der Hauptverkehrsader haben vielmehr ihrerseits durch Herabsetzung der Geschwindigkeit, wie Art. 27 Abs. 1 MFG es ausdrücklich verlangt, auf die Einmündungen und Kreuzungen, zumal wenn sie unübersichtlich sind, Rücksicht zu nehmen (BGE 76 IV 257und dort angeführte Urteile). Indem der Beschwerdeführer sich mit mindestens 60 km/Std. dem Krautplätzenweg näherte, in den er keine Sicht hatte, übertrat er dieses Gebot, unbekümmert darum, ob tatsächlich ein Vortrittsberechtigter nahte oder nicht. Endlich hätte er auch der unübersichtlichen Rechtsbiegung, der er auf etwa 50 m nahe war, durch Herabsetzung der Geschwindigkeit Rechnung tragen sollen.
Übersetzt war seine Geschwindigkeit unbekümmert darum, dass die Bremsen seines Wagens nur gerade den Mindestanforderungen entsprachen. Auch mit besseren Bremsen hätte er nicht so schnell fahren dürfen. Das Gebot der Rücksichtnahme hätte das nicht erlaubt, da andere Strassenbenützer den Zustand der Bremsen eines mit übersetzter Geschwindigkeit daherkommenden Fahrzeuges nicht kennen und durch es auch dann in ihrer Bewegungsfreiheit ungebührlich behindert werden, wenn es besonders gute Bremsen hat. Ob der Beschwerdeführer gewusst hat, dass die seinen knapp den Anforderungen entsprachen, ist daher unerheblich. Als selbständigerwerbender Automechaniker hätte er es übrigens zum mindesten wissen sollen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen, soweit auf sie einzutreten ist.
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1. Art. 249, 273 cp. 1 lett. b, 277 bis cp. 1 PPF. La Corte di cassazione non può sindacare l'apprezzamento delle prove che è alla base degli accertamenti di fatto dell'autorità cantonale, neppure per stabilire se questa abbia oltrepassato i limiti del proprio potere discrezionale (consid. 1). 2. Art. 25 cp. 1, 27 cp. 1 LA. Velocità eccessiva nell'interno degli abitati e nei pressi di crocevia (consid. 2).
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81 IV 13
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Sachverhalt ab Seite 13
A.- Am 2. Juli 1954 beantragte Erwin Deiss bei der Kantonspolizei in Winterthur, Bernhard Neuhäusler sei wegen Tätlichkeiten zu bestrafen, weil er am betreffenden Tage mit dem Schuh gegen den Antragsteller geschlagen und ihn ins Gesicht getroffen habe. Nachdem die Polizei Neuhäusler angehört und dem Statthalteramt Winterthur Bericht erstattet hatte, verfällte dieses den Beschuldigten am 25. August 1954 in Anwendung des Art. 126 StGB in eine Busse von Fr. 70.-. Neuhäusler verlangte gerichtliche Beurteilung. Am 25. Oktober 1954 fand vor dem Einzelrichter des Bezirksgerichtes Winterthur die Hauptverhandlung statt. Da Neuhäusler sich am 29. Oktober 1954 mit Deiss verglich und letzterer den Strafantrag zurückzog, schrieb der Einzelrichter am 30. Oktober 1954 den Prozess als erledigt ab.
B.- Das Statthalteramt Winterthur führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, die Verfügung des Einzelrichters sei aufzuheben und die Strafverfügung des Statthalteramtes zu bestätigen, eventuell die Sache zum Entscheid über den Bestand dieser Strafverfügung an den Einzelrichter zurückzuweisen.
Zur Begründung wird geltend gemacht, die Strafverfügung des Statthalteramtes sei Urteil erster Instanz im Sinne des Art. 31 StGB, weshalb nach Verkündung dieser Verfügung der Strafantrag nicht mehr habe zurückgezogen werden können.
C.- Neuhäusler und der Einzelrichter beantragen, die Beschwerde sei abzuweisen. Sie machen geltend, nach § 346 zürch. StPO sei ein Rekurs gegen Bussenverfügungen der Polizeibehörden nicht zulässig, dagegen könne der Gebüsste binnen zehn Tagen, von der Eröffnung des Entscheides an gerechnet, gerichtliche Beurteilung der Sache verlangen. In diesem Begehren liege nicht die Ergreifung eines Rechtsmittels, vielmehr enthalte es lediglich das Verlangen, das administrative durch das gerichtliche Verfahren zu ersetzen. Daher stünden die Gerichte der Bussenverfügung unabhängig gegenüber. Die Polizeiverfügung trete an die Stelle der Anklageschrift. Demzufolge amte der Einzelrichter als erst- und letztinstanzlich urteilende Gerichtsinstanz. Er sei deshalb befugt gewesen, den Rückzug des Strafantrages entgegenzunehmen und den Prozess als erledigt abzuschreiben.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Berechtigte kann seinen Strafantrag nur zurückziehen, solange das Urteil erster Instanz noch nicht verkündet ist (Art. 31 Abs. 1 StGB).
Urteil im Sinne dieser Bestimmung ist jeder Entscheid der zuständigen Behörde, der verbindlich darüber erkennt, ob der Beschuldigte sich einer strafbaren Handlung schuldig gemacht hat, und der gegebenenfalls die Rechtsfolgen bestimmt, die diese Handlung nach sich zieht (BGE 78 IV 151). Wenn die Kantone, wie in Übertretungssachen (Art. 345 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und im Verfahren gegen Kinder und Jugendliche (Art. 84 ff., 91 ff. StGB), berechtigt sind, die Beurteilung einer Verwaltungsbehörde zu übertragen, ist nicht erforderlich, dass das Urteil von einem Richter ausgehe. Ebensowenig ist nötig, dass der Beurteilung eine mündliche Verhandlung vorausgegangen sei, an der der Berechtigte müsste Gelegenheit gehabt haben, den Strafantrag zurückzuziehen. Wie im erwähnten Präjudiz ferner ausgeführt wurde, kann auch ein Entscheid, der nur unter der Voraussetzung Recht schafft, dass die Parteien sich ihm unterziehen oder dass er von keiner Seite durch Appellation, Einsprache und dergleichen angefochten wird, Urteil sein; denn indem Art. 31 Abs. 1 StGB von einem Urteil erster Instanz spricht, ist die Bestimmung insbesondere gerade für jene Fälle aufgestellt worden, in denen der Entscheid angefochten wird und das Verfahren vor einer oberen Instanz weitergeht.
2. Nach dieser Rechtsprechung, deren Erwägungen durch die Ausführungen des Beschwerdegegners und des Einzelrichters nicht erschüttert werden, liegt in der Strafverfügung des Statthalteramtes Winterthur vom 25. August 1954 das Urteil erster Instanz. Eine Tätlichkeit, wie der Beschwerdeführer sie begangen haben soll, ist wahlweise mit Haft und Busse bedroht (Art. 126 StGB), also eine Übertretung (Art. 101 StGB), und konnte daher von Bundesrechts wegen von einer Verwaltungsbehörde sogut wie von einem Richter beurteilt werden. Dass das Statthalteramt tatsächlich als urteilende, nicht etwa bloss als eine untersuchende und das Urteilsverfahren vorbereitende Instanz geamtet hat, ergibt sich aus § 334 zürch. StPO, wonach es die daselbst bezeichneten Übertretungen "untersucht und beurteilt". Dass es den Beschwerdegegner, der schon vor der Polizei zu Worte gekommen war, nicht nochmals verhört hat, ist unerheblich. Der Begriff des Urteils setzt nicht voraus, dass der Richter oder die entscheidende Verwaltungsbehörde den Beschuldigten einvernommen habe, genügt doch sogar unter dem Gesichtspunkt des Art. 4 BV (Anspruch auf rechtliches Gehör), dass der Verurteilte in irgend einer Form, sei es auch bloss in einem Ermittlungsverfahren vor der Polizei oder erst im Rechtsmittelverfahren, zu Worte gekommen sei (BGE 46 I 327). Der Entscheid des Statthalteramtes wäre denn auch in Rechtskraft erwachsen, wenn der Beschwerdegegner die Sache nicht durch Einsprache an den Einzelrichter des Bezirksgerichtes weitergezogen hätte. Zwar hätte gemäss § 354 StPO die Oberbehörde ihn noch binnen drei Monaten vom Tage der Ausfällung an wegen offenbarer Gesetzesverletzung aufheben können. Das heisst aber nicht, dass er ohne Überprüfung und Genehmigung durch die Oberbehörde nicht habe formell und materiell rechtskräftig werden können. Die Mitwirkung der Oberbehörde ist nicht notwendig, sondern deren Befugnis erschöpft sich darin, binnen drei Monaten den vom Statthalteramt allein gefällten Entscheid unter bestimmten Voraussetzungen von Amtes wegen unverbindlich zu erklären und gemäss § 355 StPO durch einen eigenen Entscheid zu ersetzen. Unerheblich ist auch, dass der Einzelrichter des Bezirksgerichtes hinsichtlich des Strafmasses nicht an die Strafverfügung des Statthalteramtes gebunden ist (§ 361 Abs. 1 StPO); ein Entscheid kann auch dann Urteil sein, wenn die vom Verurteilten angerufene obere Instanz ihn zu Ungunsten- des letztern abändern darf.
Der Rückzug des Strafantrages war daher im Verfahren vor dem Einzelrichter nicht mehr zulässig. Daraus folgt jedoch nicht, dass der Entscheid des Statthalteramtes zu bestätigen sei, sondern lediglich, dass das gerichtliche Verfahren vor dem Einzelrichter fortgesetzt werden muss.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, die Verfügung des Einzelrichters des Bezirksgerichtes Winterthur vom 30. Oktober 1954 aufgehoben und die Sache zur Beurteilung an den Einzelrichter zurückgewiesen.
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Art. 31 Abs. 1 StGB. Die Strafverfügung des Statthalteramtes nach zürcherischem Recht in Übertretungssachen ist Urteil erster Instanz.
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Sachverhalt ab Seite 13
A.- Am 2. Juli 1954 beantragte Erwin Deiss bei der Kantonspolizei in Winterthur, Bernhard Neuhäusler sei wegen Tätlichkeiten zu bestrafen, weil er am betreffenden Tage mit dem Schuh gegen den Antragsteller geschlagen und ihn ins Gesicht getroffen habe. Nachdem die Polizei Neuhäusler angehört und dem Statthalteramt Winterthur Bericht erstattet hatte, verfällte dieses den Beschuldigten am 25. August 1954 in Anwendung des Art. 126 StGB in eine Busse von Fr. 70.-. Neuhäusler verlangte gerichtliche Beurteilung. Am 25. Oktober 1954 fand vor dem Einzelrichter des Bezirksgerichtes Winterthur die Hauptverhandlung statt. Da Neuhäusler sich am 29. Oktober 1954 mit Deiss verglich und letzterer den Strafantrag zurückzog, schrieb der Einzelrichter am 30. Oktober 1954 den Prozess als erledigt ab.
B.- Das Statthalteramt Winterthur führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, die Verfügung des Einzelrichters sei aufzuheben und die Strafverfügung des Statthalteramtes zu bestätigen, eventuell die Sache zum Entscheid über den Bestand dieser Strafverfügung an den Einzelrichter zurückzuweisen.
Zur Begründung wird geltend gemacht, die Strafverfügung des Statthalteramtes sei Urteil erster Instanz im Sinne des Art. 31 StGB, weshalb nach Verkündung dieser Verfügung der Strafantrag nicht mehr habe zurückgezogen werden können.
C.- Neuhäusler und der Einzelrichter beantragen, die Beschwerde sei abzuweisen. Sie machen geltend, nach § 346 zürch. StPO sei ein Rekurs gegen Bussenverfügungen der Polizeibehörden nicht zulässig, dagegen könne der Gebüsste binnen zehn Tagen, von der Eröffnung des Entscheides an gerechnet, gerichtliche Beurteilung der Sache verlangen. In diesem Begehren liege nicht die Ergreifung eines Rechtsmittels, vielmehr enthalte es lediglich das Verlangen, das administrative durch das gerichtliche Verfahren zu ersetzen. Daher stünden die Gerichte der Bussenverfügung unabhängig gegenüber. Die Polizeiverfügung trete an die Stelle der Anklageschrift. Demzufolge amte der Einzelrichter als erst- und letztinstanzlich urteilende Gerichtsinstanz. Er sei deshalb befugt gewesen, den Rückzug des Strafantrages entgegenzunehmen und den Prozess als erledigt abzuschreiben.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Berechtigte kann seinen Strafantrag nur zurückziehen, solange das Urteil erster Instanz noch nicht verkündet ist (Art. 31 Abs. 1 StGB).
Urteil im Sinne dieser Bestimmung ist jeder Entscheid der zuständigen Behörde, der verbindlich darüber erkennt, ob der Beschuldigte sich einer strafbaren Handlung schuldig gemacht hat, und der gegebenenfalls die Rechtsfolgen bestimmt, die diese Handlung nach sich zieht (BGE 78 IV 151). Wenn die Kantone, wie in Übertretungssachen (Art. 345 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und im Verfahren gegen Kinder und Jugendliche (Art. 84 ff., 91 ff. StGB), berechtigt sind, die Beurteilung einer Verwaltungsbehörde zu übertragen, ist nicht erforderlich, dass das Urteil von einem Richter ausgehe. Ebensowenig ist nötig, dass der Beurteilung eine mündliche Verhandlung vorausgegangen sei, an der der Berechtigte müsste Gelegenheit gehabt haben, den Strafantrag zurückzuziehen. Wie im erwähnten Präjudiz ferner ausgeführt wurde, kann auch ein Entscheid, der nur unter der Voraussetzung Recht schafft, dass die Parteien sich ihm unterziehen oder dass er von keiner Seite durch Appellation, Einsprache und dergleichen angefochten wird, Urteil sein; denn indem Art. 31 Abs. 1 StGB von einem Urteil erster Instanz spricht, ist die Bestimmung insbesondere gerade für jene Fälle aufgestellt worden, in denen der Entscheid angefochten wird und das Verfahren vor einer oberen Instanz weitergeht.
2. Nach dieser Rechtsprechung, deren Erwägungen durch die Ausführungen des Beschwerdegegners und des Einzelrichters nicht erschüttert werden, liegt in der Strafverfügung des Statthalteramtes Winterthur vom 25. August 1954 das Urteil erster Instanz. Eine Tätlichkeit, wie der Beschwerdeführer sie begangen haben soll, ist wahlweise mit Haft und Busse bedroht (Art. 126 StGB), also eine Übertretung (Art. 101 StGB), und konnte daher von Bundesrechts wegen von einer Verwaltungsbehörde sogut wie von einem Richter beurteilt werden. Dass das Statthalteramt tatsächlich als urteilende, nicht etwa bloss als eine untersuchende und das Urteilsverfahren vorbereitende Instanz geamtet hat, ergibt sich aus § 334 zürch. StPO, wonach es die daselbst bezeichneten Übertretungen "untersucht und beurteilt". Dass es den Beschwerdegegner, der schon vor der Polizei zu Worte gekommen war, nicht nochmals verhört hat, ist unerheblich. Der Begriff des Urteils setzt nicht voraus, dass der Richter oder die entscheidende Verwaltungsbehörde den Beschuldigten einvernommen habe, genügt doch sogar unter dem Gesichtspunkt des Art. 4 BV (Anspruch auf rechtliches Gehör), dass der Verurteilte in irgend einer Form, sei es auch bloss in einem Ermittlungsverfahren vor der Polizei oder erst im Rechtsmittelverfahren, zu Worte gekommen sei (BGE 46 I 327). Der Entscheid des Statthalteramtes wäre denn auch in Rechtskraft erwachsen, wenn der Beschwerdegegner die Sache nicht durch Einsprache an den Einzelrichter des Bezirksgerichtes weitergezogen hätte. Zwar hätte gemäss § 354 StPO die Oberbehörde ihn noch binnen drei Monaten vom Tage der Ausfällung an wegen offenbarer Gesetzesverletzung aufheben können. Das heisst aber nicht, dass er ohne Überprüfung und Genehmigung durch die Oberbehörde nicht habe formell und materiell rechtskräftig werden können. Die Mitwirkung der Oberbehörde ist nicht notwendig, sondern deren Befugnis erschöpft sich darin, binnen drei Monaten den vom Statthalteramt allein gefällten Entscheid unter bestimmten Voraussetzungen von Amtes wegen unverbindlich zu erklären und gemäss § 355 StPO durch einen eigenen Entscheid zu ersetzen. Unerheblich ist auch, dass der Einzelrichter des Bezirksgerichtes hinsichtlich des Strafmasses nicht an die Strafverfügung des Statthalteramtes gebunden ist (§ 361 Abs. 1 StPO); ein Entscheid kann auch dann Urteil sein, wenn die vom Verurteilten angerufene obere Instanz ihn zu Ungunsten- des letztern abändern darf.
Der Rückzug des Strafantrages war daher im Verfahren vor dem Einzelrichter nicht mehr zulässig. Daraus folgt jedoch nicht, dass der Entscheid des Statthalteramtes zu bestätigen sei, sondern lediglich, dass das gerichtliche Verfahren vor dem Einzelrichter fortgesetzt werden muss.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, die Verfügung des Einzelrichters des Bezirksgerichtes Winterthur vom 30. Oktober 1954 aufgehoben und die Sache zur Beurteilung an den Einzelrichter zurückgewiesen.
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Art. 31 al. 1 CP. Sont des jugements de première instance les décisions pénales que, selon le droit zurichois, les préfets rendent en matière de contraventions.
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81 IV 13
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Sachverhalt ab Seite 13
A.- Am 2. Juli 1954 beantragte Erwin Deiss bei der Kantonspolizei in Winterthur, Bernhard Neuhäusler sei wegen Tätlichkeiten zu bestrafen, weil er am betreffenden Tage mit dem Schuh gegen den Antragsteller geschlagen und ihn ins Gesicht getroffen habe. Nachdem die Polizei Neuhäusler angehört und dem Statthalteramt Winterthur Bericht erstattet hatte, verfällte dieses den Beschuldigten am 25. August 1954 in Anwendung des Art. 126 StGB in eine Busse von Fr. 70.-. Neuhäusler verlangte gerichtliche Beurteilung. Am 25. Oktober 1954 fand vor dem Einzelrichter des Bezirksgerichtes Winterthur die Hauptverhandlung statt. Da Neuhäusler sich am 29. Oktober 1954 mit Deiss verglich und letzterer den Strafantrag zurückzog, schrieb der Einzelrichter am 30. Oktober 1954 den Prozess als erledigt ab.
B.- Das Statthalteramt Winterthur führt Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, die Verfügung des Einzelrichters sei aufzuheben und die Strafverfügung des Statthalteramtes zu bestätigen, eventuell die Sache zum Entscheid über den Bestand dieser Strafverfügung an den Einzelrichter zurückzuweisen.
Zur Begründung wird geltend gemacht, die Strafverfügung des Statthalteramtes sei Urteil erster Instanz im Sinne des Art. 31 StGB, weshalb nach Verkündung dieser Verfügung der Strafantrag nicht mehr habe zurückgezogen werden können.
C.- Neuhäusler und der Einzelrichter beantragen, die Beschwerde sei abzuweisen. Sie machen geltend, nach § 346 zürch. StPO sei ein Rekurs gegen Bussenverfügungen der Polizeibehörden nicht zulässig, dagegen könne der Gebüsste binnen zehn Tagen, von der Eröffnung des Entscheides an gerechnet, gerichtliche Beurteilung der Sache verlangen. In diesem Begehren liege nicht die Ergreifung eines Rechtsmittels, vielmehr enthalte es lediglich das Verlangen, das administrative durch das gerichtliche Verfahren zu ersetzen. Daher stünden die Gerichte der Bussenverfügung unabhängig gegenüber. Die Polizeiverfügung trete an die Stelle der Anklageschrift. Demzufolge amte der Einzelrichter als erst- und letztinstanzlich urteilende Gerichtsinstanz. Er sei deshalb befugt gewesen, den Rückzug des Strafantrages entgegenzunehmen und den Prozess als erledigt abzuschreiben.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Berechtigte kann seinen Strafantrag nur zurückziehen, solange das Urteil erster Instanz noch nicht verkündet ist (Art. 31 Abs. 1 StGB).
Urteil im Sinne dieser Bestimmung ist jeder Entscheid der zuständigen Behörde, der verbindlich darüber erkennt, ob der Beschuldigte sich einer strafbaren Handlung schuldig gemacht hat, und der gegebenenfalls die Rechtsfolgen bestimmt, die diese Handlung nach sich zieht (BGE 78 IV 151). Wenn die Kantone, wie in Übertretungssachen (Art. 345 Ziff. 1 Abs. 2 StGB) und im Verfahren gegen Kinder und Jugendliche (Art. 84 ff., 91 ff. StGB), berechtigt sind, die Beurteilung einer Verwaltungsbehörde zu übertragen, ist nicht erforderlich, dass das Urteil von einem Richter ausgehe. Ebensowenig ist nötig, dass der Beurteilung eine mündliche Verhandlung vorausgegangen sei, an der der Berechtigte müsste Gelegenheit gehabt haben, den Strafantrag zurückzuziehen. Wie im erwähnten Präjudiz ferner ausgeführt wurde, kann auch ein Entscheid, der nur unter der Voraussetzung Recht schafft, dass die Parteien sich ihm unterziehen oder dass er von keiner Seite durch Appellation, Einsprache und dergleichen angefochten wird, Urteil sein; denn indem Art. 31 Abs. 1 StGB von einem Urteil erster Instanz spricht, ist die Bestimmung insbesondere gerade für jene Fälle aufgestellt worden, in denen der Entscheid angefochten wird und das Verfahren vor einer oberen Instanz weitergeht.
2. Nach dieser Rechtsprechung, deren Erwägungen durch die Ausführungen des Beschwerdegegners und des Einzelrichters nicht erschüttert werden, liegt in der Strafverfügung des Statthalteramtes Winterthur vom 25. August 1954 das Urteil erster Instanz. Eine Tätlichkeit, wie der Beschwerdeführer sie begangen haben soll, ist wahlweise mit Haft und Busse bedroht (Art. 126 StGB), also eine Übertretung (Art. 101 StGB), und konnte daher von Bundesrechts wegen von einer Verwaltungsbehörde sogut wie von einem Richter beurteilt werden. Dass das Statthalteramt tatsächlich als urteilende, nicht etwa bloss als eine untersuchende und das Urteilsverfahren vorbereitende Instanz geamtet hat, ergibt sich aus § 334 zürch. StPO, wonach es die daselbst bezeichneten Übertretungen "untersucht und beurteilt". Dass es den Beschwerdegegner, der schon vor der Polizei zu Worte gekommen war, nicht nochmals verhört hat, ist unerheblich. Der Begriff des Urteils setzt nicht voraus, dass der Richter oder die entscheidende Verwaltungsbehörde den Beschuldigten einvernommen habe, genügt doch sogar unter dem Gesichtspunkt des Art. 4 BV (Anspruch auf rechtliches Gehör), dass der Verurteilte in irgend einer Form, sei es auch bloss in einem Ermittlungsverfahren vor der Polizei oder erst im Rechtsmittelverfahren, zu Worte gekommen sei (BGE 46 I 327). Der Entscheid des Statthalteramtes wäre denn auch in Rechtskraft erwachsen, wenn der Beschwerdegegner die Sache nicht durch Einsprache an den Einzelrichter des Bezirksgerichtes weitergezogen hätte. Zwar hätte gemäss § 354 StPO die Oberbehörde ihn noch binnen drei Monaten vom Tage der Ausfällung an wegen offenbarer Gesetzesverletzung aufheben können. Das heisst aber nicht, dass er ohne Überprüfung und Genehmigung durch die Oberbehörde nicht habe formell und materiell rechtskräftig werden können. Die Mitwirkung der Oberbehörde ist nicht notwendig, sondern deren Befugnis erschöpft sich darin, binnen drei Monaten den vom Statthalteramt allein gefällten Entscheid unter bestimmten Voraussetzungen von Amtes wegen unverbindlich zu erklären und gemäss § 355 StPO durch einen eigenen Entscheid zu ersetzen. Unerheblich ist auch, dass der Einzelrichter des Bezirksgerichtes hinsichtlich des Strafmasses nicht an die Strafverfügung des Statthalteramtes gebunden ist (§ 361 Abs. 1 StPO); ein Entscheid kann auch dann Urteil sein, wenn die vom Verurteilten angerufene obere Instanz ihn zu Ungunsten- des letztern abändern darf.
Der Rückzug des Strafantrages war daher im Verfahren vor dem Einzelrichter nicht mehr zulässig. Daraus folgt jedoch nicht, dass der Entscheid des Statthalteramtes zu bestätigen sei, sondern lediglich, dass das gerichtliche Verfahren vor dem Einzelrichter fortgesetzt werden muss.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird gutgeheissen, die Verfügung des Einzelrichters des Bezirksgerichtes Winterthur vom 30. Oktober 1954 aufgehoben und die Sache zur Beurteilung an den Einzelrichter zurückgewiesen.
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Art. 31 cp. 1 CP. Sono sentenze di prima instanza le decisioni penali che i prefetti emanano in materia di contravvenzioni secondo il diritto zurigano.
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81 IV 134
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Sachverhalt ab Seite 134
A.- Werner Rediger stiess am 13. Dezember 1953 nach Einbruch der Dunkelheit, gegen 18.00 Uhr, auf seinem Motorroller in Schweizerhalle beim Abbiegen aus der Strasse Augst-Birsfelden nach links in den Rothausweg mit dem von hinten kommenden Auto des Matzinger zusammen, wobei der Mitfahrer Redigers, Amstutz, schwer verletzt wurde.
B.- Der Strafgerichtsausschuss des Kantons Basel-Landschaft erklärte mit Urteil vom 1. September 1954 die beiden Fahrzeuglenker der schweren Körperverletzung im Sinne des Art. 125 Abs. 2 StGB schuldig und bestrafte Rediger mit Fr. 40.- und Matzinger mit Fr. 80.- Busse.
Dieses Urteil erwuchs gegenüber Matzinger in Rechtskraft. Rediger zog die Sache an das Obergericht weiter mit dem Antrag auf Freisprechung. Die Staatsanwaltschaft appellierte ebenfalls und beantragte Erhöhung der Busse Redigers auf Fr. 100.--.
Das Obergericht des Kantons Basel-Landschaft bestätigte mit Urteil vom 3. Dezember 1954 den Schuldspruch der ersten Instanz und erhöhte in teilweiser Gutheissung der Appellation der Staatsanwaltschaft die Busse Redigers auf Fr. 60.-.
C.- Nach den Feststellungen der kantonalen Instanzen trug sich der Unfall unter den folgenden Umständen zu: Zur Bekundung der Absicht, nach links abzubiegen, streckte Amstutz auf Weisung Redigers ca. 100 m vor der Einmündung des Rothausweges den linken Arm aus. Rediger verlangsamte seine Geschwindigkeit auf ca. 15 Std/km. Nachdem er vorerst zwei in gleicher Richtung fahrende Autos vorbeigelassen hatte, bog er, ohne nochmals zurückzuschauen, nach links ab und überquerte die Strasse, die dort eine durch eine Sicherheitslinie unterteilte Fahrbahn von insgesamt 8,50 Breite aufweist. Matzinger, der in einem Abstand von ca. 60 m mit 70 Std/km Geschwindigkeit den beiden erwähnten Autos folgte und mit abgeblendeten Lichtern fuhr, war noch höchstens 40 m vom Motorroller Redigers entfernt, als dieser abzubiegen begann. Matzinger bemerkte den Roller erst in diesem Augenblick. Er bremste scharf ab und riss seinen Wagen nach links. Dieser kam ins Schleudern, streifte den Roller, der inzwischen in die Einmündung des Rothausweges gelangt war, hinten am Gepäckträger und überschlug sich. Der Roller wurde weggeschleudert. Während sein Führer Rediger wie auch der Autolenker Matzinger unverletzt blieben, wurde der Mitfahrer Redigers, Amstutz, auf das Trottoir geworfen und schwer verletzt.
Auf Grund dieses Sachverhalts verneinte das Obergericht zwar, dass Rediger gegen eine Fahrvorschrift des MFG verstossen habe, da dieses den Führer, der bei einer Einmündung nach links abbiege, nicht verpflichte, vorerst nach rückwärts zu schauen. Dagegen erblickte es darin, dass Rediger ein solches Zurückschauen unterliess, eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 Abs. 3 StGB und gelangte auf diesem Wege zu der Verurteilung Redigers wegen schwerer Körperverletzung.
D.- Gegen dieses Urteil führt Rediger Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, der angefochtene Entscheid sei aufzuheben und er von Schuld und Strafe freizusprechen. Er bestreitet, dass sein mit den Vorschriften des MFG im Einklang stehendes Verhalten eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 StGB darstelle. Ferner stellt er das Bestehen eines Kausalzusammenhanges zwischen seinem Verhalten und der Verletzung seines Mitfahrers in Abrede.
Die Staatsanwaltschaft beantragt, das Dispositiv des angefochtenen Urteils sei zu bestätigen, jedoch in den Erwägungen zum Ausdruck zu bringen, dass die Auffassung der Vorinstanz, Rediger habe keine Bestimmung des MFG verletzt, nicht zutreffe.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Ansicht der Vorinstanz, dass Rediger keine Verletzung einer Verkehrsvorschrift des MFG zur Last falle, kann nicht beigepflichtet werden.
Wohl ist der Fahrer, der nach links in eine öffentliche Seitenstrasse abbiegen will und diese Absicht entsprechend den Vorschriften von Art. 75 MFV ankündigt, grundsätzlich nicht verpflichtet, vor dem Abschwenken nach rückwärts zu schauen (BGE 76 IV 58,BGE 78 IV 183; nicht publ. Urteil des Kassationshofs vom 11. Dezember 1953 i.S. Benoit). Er hat sein Augenmerk vor allem nach vorne zu richten, um einem allenfalls aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug den Vortritt gewähren zu können. Mit der Möglichkeit, dass ein ihm nachfolgendes Fahrzeug ihn überholen wolle, braucht er nicht zu rechnen; denn Art. 26 Abs. 3 MFG verbietet das Überholen an Kreuzungen, und solchen sind nach ständiger Rechtsprechung, von der abzuweichen kein Anlass besteht, Einmündungen gleichzusetzen (BGE 79 IV 70und dort erwähnte Entscheide).
Diese Ordnung gilt indessen nur dort, wo der abbiegende Fahrer nach den gesamten Umständen der Überzeugung sein darf, dass sein Zeichen wahrgenommen worden ist. An dieser Voraussetzung gebrach es im vorliegenden Fall. Der herrschenden Dunkelheit wegen konnte sich Rediger nicht mit Sicherheit darauf verlassen, dass der ausgestreckte Arm seines Mitfahrers Amstutz von einem nachfolgenden Fahrzeuglenker rechtzeitig bemerkt werde, und tatsächlich hat er nach seinen Aussagen vor der ersten Instanz mit der Möglichkeit gerechnet, dass das Handzeichen allenfalls nicht gesehen werden könnte. Unter diesen Umständen durfte er nicht im Vertrauen auf das Vortrittsrecht, das ihm nach Art. 26 Abs. 3 MFG gegenüber einem von hinten kommenden Fahrzeug zustand, es bei dem Handzeichen bewenden lassen und aufs Geratewohl abbiegen. Er hätte vielmehr unmittelbar vorher, allenfalls nach bereits erfolgter leichter Schrägstellung seines Fahrzeuges, einen Blick nach rückwärts werfen sollen, um sich zu vergewissern, ob von dort keine Gefahr drohe. Hätte er sich so verhalten, dann hätte er das Auto Matzingers, das nach verbindlicher Feststellung der Vorinstanz in diesem Zeitpunkt nur noch ca. 40 m entfernt war, sehen und auf Grund der Erkenntnis, dass jener ihm den Vortritt nicht mehr gewähren könne oder wolle, anhalten müssen. Hiezu war er nach der allgemeinen Vorschrift von Art. 25 Abs. 1 MFG gehalten, die den Fahrzeuglenker überall dort zum Anhalten verpflichtet, wo sein Fahrzeug Anlass zu einem Unfall geben könnte. Nach ständiger Rechtsprechung gilt diese Bestimmung auch für den Vortrittsberechtigten, der sieht oder bei gehöriger Aufmerksamkeit sehen könnte, dass ihm durch ein selbst vorschriftswidriges Verhalten des andern die Ausübung des Vortrittsrechts verunmöglicht wird (BGE 77 IV 221,BGE 79 II 216und dort erwähnte Entscheide).
2. Die schuldhafte Verletzung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Sorgfaltspflicht, die dem Beschwerdeführer zur Last fällt, stellt zugleich eine Fahrlässigkeit dar, welche auf Grund von Art. 65 Abs. 4 MFG die von der Vorinstanz ausgesprochene Verurteilung wegen schwerer Körperverletzung rechtfertigt. Damit bleibt kein Raum mehr für die Rüge, die Vorinstanz habe zu Unrecht ein fahrlässiges Verhalten desBeschwerdeführers bejaht, obwohl er keine ausdrückliche Verkehrsvorschrift übertreten habe.
Entgegen der Meinung des Beschwerdeführers kann sodann nicht zweifelhaft sein, dass zwischen seinem Verstoss gegen die erwähnte Verkehrsvorschrift und den Verletzungen des Amstutz ein Kausalzusammenhang im Rechtssinn besteht. Sein Verhalten war nach der Erfahrung des Lebens und dem gewöhnlichen Lauf der Dinge geeignet, den tatsächlich eingetretenen Erfolg herbeizuführen (BGE 73 IV 231). Die Missachtung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Vorsichtspflicht schloss unter den gegebenen Umständen die hohe Gefahr eines Zusammenstosses in sich. Dass neben dem fehlerhaften Verhalten des Beschwerdeführers auch ein solches des Autolenkers Matzinger zum Unfall beigetragen hat, ist für die Entscheidung der grundsätzlichen Frage nach der rechtserheblichen Kausalität des vom Beschwerdeführer begangenen Verstosses ohne Belang.
3. Die Beschwerde Redigers gegen seine Verurteilung ist somit abzuweisen. Ob die gegen ihn ausgefällte Strafe im richtigen Verhältnis zur Bestrafung des Autolenkers Matzinger steht, hat der Kassationshof nicht zu überprüfen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen.
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Art. 25 Abs. 1 MFG und 75 MFV. Vorsichtspflicht des Führers, der an einer Strassengabelung oder -kreuzung nach links abbiegt (Erw. 1).
Kausalzusammenhang (Erw. 2).
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Sachverhalt ab Seite 134
A.- Werner Rediger stiess am 13. Dezember 1953 nach Einbruch der Dunkelheit, gegen 18.00 Uhr, auf seinem Motorroller in Schweizerhalle beim Abbiegen aus der Strasse Augst-Birsfelden nach links in den Rothausweg mit dem von hinten kommenden Auto des Matzinger zusammen, wobei der Mitfahrer Redigers, Amstutz, schwer verletzt wurde.
B.- Der Strafgerichtsausschuss des Kantons Basel-Landschaft erklärte mit Urteil vom 1. September 1954 die beiden Fahrzeuglenker der schweren Körperverletzung im Sinne des Art. 125 Abs. 2 StGB schuldig und bestrafte Rediger mit Fr. 40.- und Matzinger mit Fr. 80.- Busse.
Dieses Urteil erwuchs gegenüber Matzinger in Rechtskraft. Rediger zog die Sache an das Obergericht weiter mit dem Antrag auf Freisprechung. Die Staatsanwaltschaft appellierte ebenfalls und beantragte Erhöhung der Busse Redigers auf Fr. 100.--.
Das Obergericht des Kantons Basel-Landschaft bestätigte mit Urteil vom 3. Dezember 1954 den Schuldspruch der ersten Instanz und erhöhte in teilweiser Gutheissung der Appellation der Staatsanwaltschaft die Busse Redigers auf Fr. 60.-.
C.- Nach den Feststellungen der kantonalen Instanzen trug sich der Unfall unter den folgenden Umständen zu: Zur Bekundung der Absicht, nach links abzubiegen, streckte Amstutz auf Weisung Redigers ca. 100 m vor der Einmündung des Rothausweges den linken Arm aus. Rediger verlangsamte seine Geschwindigkeit auf ca. 15 Std/km. Nachdem er vorerst zwei in gleicher Richtung fahrende Autos vorbeigelassen hatte, bog er, ohne nochmals zurückzuschauen, nach links ab und überquerte die Strasse, die dort eine durch eine Sicherheitslinie unterteilte Fahrbahn von insgesamt 8,50 Breite aufweist. Matzinger, der in einem Abstand von ca. 60 m mit 70 Std/km Geschwindigkeit den beiden erwähnten Autos folgte und mit abgeblendeten Lichtern fuhr, war noch höchstens 40 m vom Motorroller Redigers entfernt, als dieser abzubiegen begann. Matzinger bemerkte den Roller erst in diesem Augenblick. Er bremste scharf ab und riss seinen Wagen nach links. Dieser kam ins Schleudern, streifte den Roller, der inzwischen in die Einmündung des Rothausweges gelangt war, hinten am Gepäckträger und überschlug sich. Der Roller wurde weggeschleudert. Während sein Führer Rediger wie auch der Autolenker Matzinger unverletzt blieben, wurde der Mitfahrer Redigers, Amstutz, auf das Trottoir geworfen und schwer verletzt.
Auf Grund dieses Sachverhalts verneinte das Obergericht zwar, dass Rediger gegen eine Fahrvorschrift des MFG verstossen habe, da dieses den Führer, der bei einer Einmündung nach links abbiege, nicht verpflichte, vorerst nach rückwärts zu schauen. Dagegen erblickte es darin, dass Rediger ein solches Zurückschauen unterliess, eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 Abs. 3 StGB und gelangte auf diesem Wege zu der Verurteilung Redigers wegen schwerer Körperverletzung.
D.- Gegen dieses Urteil führt Rediger Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, der angefochtene Entscheid sei aufzuheben und er von Schuld und Strafe freizusprechen. Er bestreitet, dass sein mit den Vorschriften des MFG im Einklang stehendes Verhalten eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 StGB darstelle. Ferner stellt er das Bestehen eines Kausalzusammenhanges zwischen seinem Verhalten und der Verletzung seines Mitfahrers in Abrede.
Die Staatsanwaltschaft beantragt, das Dispositiv des angefochtenen Urteils sei zu bestätigen, jedoch in den Erwägungen zum Ausdruck zu bringen, dass die Auffassung der Vorinstanz, Rediger habe keine Bestimmung des MFG verletzt, nicht zutreffe.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Ansicht der Vorinstanz, dass Rediger keine Verletzung einer Verkehrsvorschrift des MFG zur Last falle, kann nicht beigepflichtet werden.
Wohl ist der Fahrer, der nach links in eine öffentliche Seitenstrasse abbiegen will und diese Absicht entsprechend den Vorschriften von Art. 75 MFV ankündigt, grundsätzlich nicht verpflichtet, vor dem Abschwenken nach rückwärts zu schauen (BGE 76 IV 58,BGE 78 IV 183; nicht publ. Urteil des Kassationshofs vom 11. Dezember 1953 i.S. Benoit). Er hat sein Augenmerk vor allem nach vorne zu richten, um einem allenfalls aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug den Vortritt gewähren zu können. Mit der Möglichkeit, dass ein ihm nachfolgendes Fahrzeug ihn überholen wolle, braucht er nicht zu rechnen; denn Art. 26 Abs. 3 MFG verbietet das Überholen an Kreuzungen, und solchen sind nach ständiger Rechtsprechung, von der abzuweichen kein Anlass besteht, Einmündungen gleichzusetzen (BGE 79 IV 70und dort erwähnte Entscheide).
Diese Ordnung gilt indessen nur dort, wo der abbiegende Fahrer nach den gesamten Umständen der Überzeugung sein darf, dass sein Zeichen wahrgenommen worden ist. An dieser Voraussetzung gebrach es im vorliegenden Fall. Der herrschenden Dunkelheit wegen konnte sich Rediger nicht mit Sicherheit darauf verlassen, dass der ausgestreckte Arm seines Mitfahrers Amstutz von einem nachfolgenden Fahrzeuglenker rechtzeitig bemerkt werde, und tatsächlich hat er nach seinen Aussagen vor der ersten Instanz mit der Möglichkeit gerechnet, dass das Handzeichen allenfalls nicht gesehen werden könnte. Unter diesen Umständen durfte er nicht im Vertrauen auf das Vortrittsrecht, das ihm nach Art. 26 Abs. 3 MFG gegenüber einem von hinten kommenden Fahrzeug zustand, es bei dem Handzeichen bewenden lassen und aufs Geratewohl abbiegen. Er hätte vielmehr unmittelbar vorher, allenfalls nach bereits erfolgter leichter Schrägstellung seines Fahrzeuges, einen Blick nach rückwärts werfen sollen, um sich zu vergewissern, ob von dort keine Gefahr drohe. Hätte er sich so verhalten, dann hätte er das Auto Matzingers, das nach verbindlicher Feststellung der Vorinstanz in diesem Zeitpunkt nur noch ca. 40 m entfernt war, sehen und auf Grund der Erkenntnis, dass jener ihm den Vortritt nicht mehr gewähren könne oder wolle, anhalten müssen. Hiezu war er nach der allgemeinen Vorschrift von Art. 25 Abs. 1 MFG gehalten, die den Fahrzeuglenker überall dort zum Anhalten verpflichtet, wo sein Fahrzeug Anlass zu einem Unfall geben könnte. Nach ständiger Rechtsprechung gilt diese Bestimmung auch für den Vortrittsberechtigten, der sieht oder bei gehöriger Aufmerksamkeit sehen könnte, dass ihm durch ein selbst vorschriftswidriges Verhalten des andern die Ausübung des Vortrittsrechts verunmöglicht wird (BGE 77 IV 221,BGE 79 II 216und dort erwähnte Entscheide).
2. Die schuldhafte Verletzung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Sorgfaltspflicht, die dem Beschwerdeführer zur Last fällt, stellt zugleich eine Fahrlässigkeit dar, welche auf Grund von Art. 65 Abs. 4 MFG die von der Vorinstanz ausgesprochene Verurteilung wegen schwerer Körperverletzung rechtfertigt. Damit bleibt kein Raum mehr für die Rüge, die Vorinstanz habe zu Unrecht ein fahrlässiges Verhalten desBeschwerdeführers bejaht, obwohl er keine ausdrückliche Verkehrsvorschrift übertreten habe.
Entgegen der Meinung des Beschwerdeführers kann sodann nicht zweifelhaft sein, dass zwischen seinem Verstoss gegen die erwähnte Verkehrsvorschrift und den Verletzungen des Amstutz ein Kausalzusammenhang im Rechtssinn besteht. Sein Verhalten war nach der Erfahrung des Lebens und dem gewöhnlichen Lauf der Dinge geeignet, den tatsächlich eingetretenen Erfolg herbeizuführen (BGE 73 IV 231). Die Missachtung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Vorsichtspflicht schloss unter den gegebenen Umständen die hohe Gefahr eines Zusammenstosses in sich. Dass neben dem fehlerhaften Verhalten des Beschwerdeführers auch ein solches des Autolenkers Matzinger zum Unfall beigetragen hat, ist für die Entscheidung der grundsätzlichen Frage nach der rechtserheblichen Kausalität des vom Beschwerdeführer begangenen Verstosses ohne Belang.
3. Die Beschwerde Redigers gegen seine Verurteilung ist somit abzuweisen. Ob die gegen ihn ausgefällte Strafe im richtigen Verhältnis zur Bestrafung des Autolenkers Matzinger steht, hat der Kassationshof nicht zu überprüfen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen.
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Art. 25 al. 1 LA et 75 RA. Devoir de prudence du conducteur qui dans une bifurcation ou une croisée de route tourne à gauche (consid. 1).
Rapport de causalité (consid. 2).
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Sachverhalt ab Seite 134
A.- Werner Rediger stiess am 13. Dezember 1953 nach Einbruch der Dunkelheit, gegen 18.00 Uhr, auf seinem Motorroller in Schweizerhalle beim Abbiegen aus der Strasse Augst-Birsfelden nach links in den Rothausweg mit dem von hinten kommenden Auto des Matzinger zusammen, wobei der Mitfahrer Redigers, Amstutz, schwer verletzt wurde.
B.- Der Strafgerichtsausschuss des Kantons Basel-Landschaft erklärte mit Urteil vom 1. September 1954 die beiden Fahrzeuglenker der schweren Körperverletzung im Sinne des Art. 125 Abs. 2 StGB schuldig und bestrafte Rediger mit Fr. 40.- und Matzinger mit Fr. 80.- Busse.
Dieses Urteil erwuchs gegenüber Matzinger in Rechtskraft. Rediger zog die Sache an das Obergericht weiter mit dem Antrag auf Freisprechung. Die Staatsanwaltschaft appellierte ebenfalls und beantragte Erhöhung der Busse Redigers auf Fr. 100.--.
Das Obergericht des Kantons Basel-Landschaft bestätigte mit Urteil vom 3. Dezember 1954 den Schuldspruch der ersten Instanz und erhöhte in teilweiser Gutheissung der Appellation der Staatsanwaltschaft die Busse Redigers auf Fr. 60.-.
C.- Nach den Feststellungen der kantonalen Instanzen trug sich der Unfall unter den folgenden Umständen zu: Zur Bekundung der Absicht, nach links abzubiegen, streckte Amstutz auf Weisung Redigers ca. 100 m vor der Einmündung des Rothausweges den linken Arm aus. Rediger verlangsamte seine Geschwindigkeit auf ca. 15 Std/km. Nachdem er vorerst zwei in gleicher Richtung fahrende Autos vorbeigelassen hatte, bog er, ohne nochmals zurückzuschauen, nach links ab und überquerte die Strasse, die dort eine durch eine Sicherheitslinie unterteilte Fahrbahn von insgesamt 8,50 Breite aufweist. Matzinger, der in einem Abstand von ca. 60 m mit 70 Std/km Geschwindigkeit den beiden erwähnten Autos folgte und mit abgeblendeten Lichtern fuhr, war noch höchstens 40 m vom Motorroller Redigers entfernt, als dieser abzubiegen begann. Matzinger bemerkte den Roller erst in diesem Augenblick. Er bremste scharf ab und riss seinen Wagen nach links. Dieser kam ins Schleudern, streifte den Roller, der inzwischen in die Einmündung des Rothausweges gelangt war, hinten am Gepäckträger und überschlug sich. Der Roller wurde weggeschleudert. Während sein Führer Rediger wie auch der Autolenker Matzinger unverletzt blieben, wurde der Mitfahrer Redigers, Amstutz, auf das Trottoir geworfen und schwer verletzt.
Auf Grund dieses Sachverhalts verneinte das Obergericht zwar, dass Rediger gegen eine Fahrvorschrift des MFG verstossen habe, da dieses den Führer, der bei einer Einmündung nach links abbiege, nicht verpflichte, vorerst nach rückwärts zu schauen. Dagegen erblickte es darin, dass Rediger ein solches Zurückschauen unterliess, eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 Abs. 3 StGB und gelangte auf diesem Wege zu der Verurteilung Redigers wegen schwerer Körperverletzung.
D.- Gegen dieses Urteil führt Rediger Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag, der angefochtene Entscheid sei aufzuheben und er von Schuld und Strafe freizusprechen. Er bestreitet, dass sein mit den Vorschriften des MFG im Einklang stehendes Verhalten eine Fahrlässigkeit im Sinne von Art. 18 StGB darstelle. Ferner stellt er das Bestehen eines Kausalzusammenhanges zwischen seinem Verhalten und der Verletzung seines Mitfahrers in Abrede.
Die Staatsanwaltschaft beantragt, das Dispositiv des angefochtenen Urteils sei zu bestätigen, jedoch in den Erwägungen zum Ausdruck zu bringen, dass die Auffassung der Vorinstanz, Rediger habe keine Bestimmung des MFG verletzt, nicht zutreffe.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Der Ansicht der Vorinstanz, dass Rediger keine Verletzung einer Verkehrsvorschrift des MFG zur Last falle, kann nicht beigepflichtet werden.
Wohl ist der Fahrer, der nach links in eine öffentliche Seitenstrasse abbiegen will und diese Absicht entsprechend den Vorschriften von Art. 75 MFV ankündigt, grundsätzlich nicht verpflichtet, vor dem Abschwenken nach rückwärts zu schauen (BGE 76 IV 58,BGE 78 IV 183; nicht publ. Urteil des Kassationshofs vom 11. Dezember 1953 i.S. Benoit). Er hat sein Augenmerk vor allem nach vorne zu richten, um einem allenfalls aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug den Vortritt gewähren zu können. Mit der Möglichkeit, dass ein ihm nachfolgendes Fahrzeug ihn überholen wolle, braucht er nicht zu rechnen; denn Art. 26 Abs. 3 MFG verbietet das Überholen an Kreuzungen, und solchen sind nach ständiger Rechtsprechung, von der abzuweichen kein Anlass besteht, Einmündungen gleichzusetzen (BGE 79 IV 70und dort erwähnte Entscheide).
Diese Ordnung gilt indessen nur dort, wo der abbiegende Fahrer nach den gesamten Umständen der Überzeugung sein darf, dass sein Zeichen wahrgenommen worden ist. An dieser Voraussetzung gebrach es im vorliegenden Fall. Der herrschenden Dunkelheit wegen konnte sich Rediger nicht mit Sicherheit darauf verlassen, dass der ausgestreckte Arm seines Mitfahrers Amstutz von einem nachfolgenden Fahrzeuglenker rechtzeitig bemerkt werde, und tatsächlich hat er nach seinen Aussagen vor der ersten Instanz mit der Möglichkeit gerechnet, dass das Handzeichen allenfalls nicht gesehen werden könnte. Unter diesen Umständen durfte er nicht im Vertrauen auf das Vortrittsrecht, das ihm nach Art. 26 Abs. 3 MFG gegenüber einem von hinten kommenden Fahrzeug zustand, es bei dem Handzeichen bewenden lassen und aufs Geratewohl abbiegen. Er hätte vielmehr unmittelbar vorher, allenfalls nach bereits erfolgter leichter Schrägstellung seines Fahrzeuges, einen Blick nach rückwärts werfen sollen, um sich zu vergewissern, ob von dort keine Gefahr drohe. Hätte er sich so verhalten, dann hätte er das Auto Matzingers, das nach verbindlicher Feststellung der Vorinstanz in diesem Zeitpunkt nur noch ca. 40 m entfernt war, sehen und auf Grund der Erkenntnis, dass jener ihm den Vortritt nicht mehr gewähren könne oder wolle, anhalten müssen. Hiezu war er nach der allgemeinen Vorschrift von Art. 25 Abs. 1 MFG gehalten, die den Fahrzeuglenker überall dort zum Anhalten verpflichtet, wo sein Fahrzeug Anlass zu einem Unfall geben könnte. Nach ständiger Rechtsprechung gilt diese Bestimmung auch für den Vortrittsberechtigten, der sieht oder bei gehöriger Aufmerksamkeit sehen könnte, dass ihm durch ein selbst vorschriftswidriges Verhalten des andern die Ausübung des Vortrittsrechts verunmöglicht wird (BGE 77 IV 221,BGE 79 II 216und dort erwähnte Entscheide).
2. Die schuldhafte Verletzung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Sorgfaltspflicht, die dem Beschwerdeführer zur Last fällt, stellt zugleich eine Fahrlässigkeit dar, welche auf Grund von Art. 65 Abs. 4 MFG die von der Vorinstanz ausgesprochene Verurteilung wegen schwerer Körperverletzung rechtfertigt. Damit bleibt kein Raum mehr für die Rüge, die Vorinstanz habe zu Unrecht ein fahrlässiges Verhalten desBeschwerdeführers bejaht, obwohl er keine ausdrückliche Verkehrsvorschrift übertreten habe.
Entgegen der Meinung des Beschwerdeführers kann sodann nicht zweifelhaft sein, dass zwischen seinem Verstoss gegen die erwähnte Verkehrsvorschrift und den Verletzungen des Amstutz ein Kausalzusammenhang im Rechtssinn besteht. Sein Verhalten war nach der Erfahrung des Lebens und dem gewöhnlichen Lauf der Dinge geeignet, den tatsächlich eingetretenen Erfolg herbeizuführen (BGE 73 IV 231). Die Missachtung der nach Art. 25 Abs. 1 MFG gebotenen Vorsichtspflicht schloss unter den gegebenen Umständen die hohe Gefahr eines Zusammenstosses in sich. Dass neben dem fehlerhaften Verhalten des Beschwerdeführers auch ein solches des Autolenkers Matzinger zum Unfall beigetragen hat, ist für die Entscheidung der grundsätzlichen Frage nach der rechtserheblichen Kausalität des vom Beschwerdeführer begangenen Verstosses ohne Belang.
3. Die Beschwerde Redigers gegen seine Verurteilung ist somit abzuweisen. Ob die gegen ihn ausgefällte Strafe im richtigen Verhältnis zur Bestrafung des Autolenkers Matzinger steht, hat der Kassationshof nicht zu überprüfen.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Beschwerde wird abgewiesen.
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de
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Art. 25 cp. 1 LA e art. 75 RLA. Dovere di prudenza del conducente che a una biforcazione o un crocevia volta a sinistra (consid. 1).
Nesso causale (consid. 2).
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criminal law and criminal procedure
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IV
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81 IV 139
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Sachverhalt ab Seite 139
A.- Walker fuhr mit seinem Personenwagen am 10. Juni 1954, 19.50 Uhr, mit einer Geschwindigkeit von ca. 50 Std/km von Emmenbrücke gegen Luzern. Bei der Kirche Reussbühl, wo die Strasse eine langgestreckte Rechtskurve beschreibt, schickte er sich an, einen aus zwei Wagen bestehenden Strassenbahnzug zu überholen, der in gleicher Richtung auf der linken Strassenseite fuhr. Die Strasse wird an der betreffenden Stelle auf der rechten Seite durch eine ca. 3 m hohe Stützmauer abgeschlossen, so dass die Übersicht über die Kurve beeinträchtigt ist. Der Abstand zwischen dem Strassenbahngeleise und der Stützmauer beträgt ca. 4 m. Am Ende der Kurve, unmittelbar nach der für diese geltenden Parkierungsverbotstafel, war am rechten Strassenrand ein Personenwagen parkiert. Als Walker sich auf halber Höhe neben dem Strassenbahnzug befand, bremste er scharf ab. Dabei geriet sein Wagen ins Schleudern und kam kurz vor dem parkierten Personenwagen schräg gegen die Stützmauer zu gewendet zum Stehen. Zu diesem plötzlichen Bremsen sah sich Walker nach seiner Darstellung deshalb veranlasst, weil ein in gleicher Richtung fahrender Radfahrer das parkierte Auto überholte, so dass zwischen ihm und dem Tram für den Wagen Walkers nicht mehr genügend Raum zum Durchfahren geblieben sei. Auf das Bremsgeräusch vom Wagen Walkers hin leitete der Tramführer eine Schnellbremsung ein und brachte das Tram auf der Höhe des parkierten Wagens zum Anhalten. Ein Zusammenstoss erfolgte nicht.
B.- Das Amtsgericht Luzern-Land erklärte mit Urteil vom 22. Dezember 1954 Walker der Widerhandlung gegen Art. 46 Abs. 2 MFV (Überholen der Strassenbahn in einer unübersichtlichen Strassenbiegung) schuldig und bestrafte ihn mit Fr. 40.- Geldbusse.
C.- Mit der vorliegenden Nichtigkeitsbeschwerde beantragt Walker Aufhebung des angefochtenen Urteils und Rückweisung der Sache zu seiner Freisprechung. Er macht geltend, eine Verletzung von Art. 46 Abs. 2 MFV falle schon deswegen ausser Betracht, weil die genannte Vorschrift sich nur auf das normale Überholen nach links beziehe. Auf der rechten Seite dürfe dagegen eine Strassenbahn auch in einer Kurve überholt werden, wenn die Strassenbreite es zulasse.
D.- Die Staatsanwaltschaft Luzern beantragt Abweisung der Beschwerde.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Das Überholen von Strassenbahnen ist in Art. 61 Abs. 3 MFV geregelt. Die Vorschrift unterscheidet zwischen der fahrenden und der haltenden Strassenbahn. Sie bestimmt, dass die fahrende Strassenbahn rechts zu überholen ist, wenn deren Abstand vom rechten Strassenrand dies erlaubt; nur wo dies nicht der Fall ist, darf links überholt werden. Im übrigen wird Art. 46 MFV, d.h. die allgemeine Ausführungsvorschrift zu Art. 26 Abs. 3 MFG über das Überholen, als anwendbar erklärt.
Nach Art. 46 Abs. 1 MFV ist das Überholen nur gestattet, wenn die dazu erforderliche Strassenstrecke frei und übersichtlich ist, namentlich wenn kein anderes Fahrzeug entgegenkommt. Nach dem Überholen darf erst dann wieder rechts eingebogen werden, wenn für das überholte Fahrzeug jede Gefährdung ausgeschlossen ist.
Abs. 2 sodann wiederholt wörtlich die Vorschrift von Art. 26 Abs. 3 MFG, dass an Strassenkreuzungen, Bahnübergängen und unübersichtlichen Stellen, besonders an Strassenbiegungen, nicht überholt werden dürfe.
Abs. 3 endlich verpflichtet den Überholenden, besonders vorsichtig zu fahren und auf die übrigen Strassenbenützer Rücksicht zu nehmen.
2. Dass Art. 46 MFV auf das Überholen der Strassenbahn nur anwendbar sei, wenn dies auf der linken Seite geschieht, kann dem Wortlaut von Art. 61 Abs. 3 MFV nicht entnommen werden. Dieser verweist ganz allgemein und ohne Einschränkung auf Art. 46 MFV. Richtig ist allerdings, dass dieser Hinweis sinngemäss aufgefasst werden muss. So lässt sich Art 46 Abs. 1, der auf das normale linksseitige Überholen anderer nicht schienengebundener Fahrzeuge zugeschnitten ist, nicht uneingeschränkt anwenden auf das rechtsseitige Überholen der Strassenbahn, das nach Art. 61 Abs. 3 MFV den Regelfall bildet. Dagegen hat das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV auch beim Überholen der Strassenbahn auf der rechten Seite seinen guten Sinn. Denn erfolgt solches Überholen an einer unübersichtlichen Stelle, insbesondere an einer Strassenbiegung, so kann dadurch eine gefährliche Situation geschaffen werden. Zwar verlässt der Überholende seine rechte Strassenseite nicht, so dass er nicht damit rechnen muss, er könnte einem aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug in die Quere kommen. Hingegen kann während des Überholungsmanövers plötzlich ein Hindernis in seiner Fahrbahn auftauchen, wie z.B. ein in gleicher Richtung fahrendes langsameres Fahrzeug, eine Gruppe von Fussgängern oder dergl. Erblickt er ein solches Hindernis wegen der Unübersichtlichkeit des Ortes so spät, dass er nicht mehr rechtzeitig anhalten kann, so besteht unmittelbare Unfallgefahr; denn das Hindernis durch Ausbiegen nach links zu umfahren, ist ihm durch die Strassenbahn verwehrt. Dem Auftreten solcher Gefahrsituationen wird durch das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV vorgebeugt.
3. Die Reussbühlkurve ist nach den verbindlichen Feststellungen der Vorinstanz unübersichtlich; sie kann wegen der auf ihrer rechten Seite verlaufenden Stützmauer nicht voll überblickt werden. Nach Art. 46 Abs. 2 MFV darf deshalb dort der Strassenbahn nicht vorgefahren werden. Der Beschwerdeführer hat somit dadurch, dass er das Überholungsmanöver gleichwohl einleitete und zur Hälfte durchführte, gegen die genannte Bestimmung verstossen und ist daher zu Recht bestraft worden...
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 61 Abs. 3 und Art. 46 MFV. Die Vorschriften von Art. 46 MFV sind auch auf das Überholen der Strassenbahn auf der rechten Seite anwendbar.
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81 IV 139
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Sachverhalt ab Seite 139
A.- Walker fuhr mit seinem Personenwagen am 10. Juni 1954, 19.50 Uhr, mit einer Geschwindigkeit von ca. 50 Std/km von Emmenbrücke gegen Luzern. Bei der Kirche Reussbühl, wo die Strasse eine langgestreckte Rechtskurve beschreibt, schickte er sich an, einen aus zwei Wagen bestehenden Strassenbahnzug zu überholen, der in gleicher Richtung auf der linken Strassenseite fuhr. Die Strasse wird an der betreffenden Stelle auf der rechten Seite durch eine ca. 3 m hohe Stützmauer abgeschlossen, so dass die Übersicht über die Kurve beeinträchtigt ist. Der Abstand zwischen dem Strassenbahngeleise und der Stützmauer beträgt ca. 4 m. Am Ende der Kurve, unmittelbar nach der für diese geltenden Parkierungsverbotstafel, war am rechten Strassenrand ein Personenwagen parkiert. Als Walker sich auf halber Höhe neben dem Strassenbahnzug befand, bremste er scharf ab. Dabei geriet sein Wagen ins Schleudern und kam kurz vor dem parkierten Personenwagen schräg gegen die Stützmauer zu gewendet zum Stehen. Zu diesem plötzlichen Bremsen sah sich Walker nach seiner Darstellung deshalb veranlasst, weil ein in gleicher Richtung fahrender Radfahrer das parkierte Auto überholte, so dass zwischen ihm und dem Tram für den Wagen Walkers nicht mehr genügend Raum zum Durchfahren geblieben sei. Auf das Bremsgeräusch vom Wagen Walkers hin leitete der Tramführer eine Schnellbremsung ein und brachte das Tram auf der Höhe des parkierten Wagens zum Anhalten. Ein Zusammenstoss erfolgte nicht.
B.- Das Amtsgericht Luzern-Land erklärte mit Urteil vom 22. Dezember 1954 Walker der Widerhandlung gegen Art. 46 Abs. 2 MFV (Überholen der Strassenbahn in einer unübersichtlichen Strassenbiegung) schuldig und bestrafte ihn mit Fr. 40.- Geldbusse.
C.- Mit der vorliegenden Nichtigkeitsbeschwerde beantragt Walker Aufhebung des angefochtenen Urteils und Rückweisung der Sache zu seiner Freisprechung. Er macht geltend, eine Verletzung von Art. 46 Abs. 2 MFV falle schon deswegen ausser Betracht, weil die genannte Vorschrift sich nur auf das normale Überholen nach links beziehe. Auf der rechten Seite dürfe dagegen eine Strassenbahn auch in einer Kurve überholt werden, wenn die Strassenbreite es zulasse.
D.- Die Staatsanwaltschaft Luzern beantragt Abweisung der Beschwerde.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Das Überholen von Strassenbahnen ist in Art. 61 Abs. 3 MFV geregelt. Die Vorschrift unterscheidet zwischen der fahrenden und der haltenden Strassenbahn. Sie bestimmt, dass die fahrende Strassenbahn rechts zu überholen ist, wenn deren Abstand vom rechten Strassenrand dies erlaubt; nur wo dies nicht der Fall ist, darf links überholt werden. Im übrigen wird Art. 46 MFV, d.h. die allgemeine Ausführungsvorschrift zu Art. 26 Abs. 3 MFG über das Überholen, als anwendbar erklärt.
Nach Art. 46 Abs. 1 MFV ist das Überholen nur gestattet, wenn die dazu erforderliche Strassenstrecke frei und übersichtlich ist, namentlich wenn kein anderes Fahrzeug entgegenkommt. Nach dem Überholen darf erst dann wieder rechts eingebogen werden, wenn für das überholte Fahrzeug jede Gefährdung ausgeschlossen ist.
Abs. 2 sodann wiederholt wörtlich die Vorschrift von Art. 26 Abs. 3 MFG, dass an Strassenkreuzungen, Bahnübergängen und unübersichtlichen Stellen, besonders an Strassenbiegungen, nicht überholt werden dürfe.
Abs. 3 endlich verpflichtet den Überholenden, besonders vorsichtig zu fahren und auf die übrigen Strassenbenützer Rücksicht zu nehmen.
2. Dass Art. 46 MFV auf das Überholen der Strassenbahn nur anwendbar sei, wenn dies auf der linken Seite geschieht, kann dem Wortlaut von Art. 61 Abs. 3 MFV nicht entnommen werden. Dieser verweist ganz allgemein und ohne Einschränkung auf Art. 46 MFV. Richtig ist allerdings, dass dieser Hinweis sinngemäss aufgefasst werden muss. So lässt sich Art 46 Abs. 1, der auf das normale linksseitige Überholen anderer nicht schienengebundener Fahrzeuge zugeschnitten ist, nicht uneingeschränkt anwenden auf das rechtsseitige Überholen der Strassenbahn, das nach Art. 61 Abs. 3 MFV den Regelfall bildet. Dagegen hat das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV auch beim Überholen der Strassenbahn auf der rechten Seite seinen guten Sinn. Denn erfolgt solches Überholen an einer unübersichtlichen Stelle, insbesondere an einer Strassenbiegung, so kann dadurch eine gefährliche Situation geschaffen werden. Zwar verlässt der Überholende seine rechte Strassenseite nicht, so dass er nicht damit rechnen muss, er könnte einem aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug in die Quere kommen. Hingegen kann während des Überholungsmanövers plötzlich ein Hindernis in seiner Fahrbahn auftauchen, wie z.B. ein in gleicher Richtung fahrendes langsameres Fahrzeug, eine Gruppe von Fussgängern oder dergl. Erblickt er ein solches Hindernis wegen der Unübersichtlichkeit des Ortes so spät, dass er nicht mehr rechtzeitig anhalten kann, so besteht unmittelbare Unfallgefahr; denn das Hindernis durch Ausbiegen nach links zu umfahren, ist ihm durch die Strassenbahn verwehrt. Dem Auftreten solcher Gefahrsituationen wird durch das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV vorgebeugt.
3. Die Reussbühlkurve ist nach den verbindlichen Feststellungen der Vorinstanz unübersichtlich; sie kann wegen der auf ihrer rechten Seite verlaufenden Stützmauer nicht voll überblickt werden. Nach Art. 46 Abs. 2 MFV darf deshalb dort der Strassenbahn nicht vorgefahren werden. Der Beschwerdeführer hat somit dadurch, dass er das Überholungsmanöver gleichwohl einleitete und zur Hälfte durchführte, gegen die genannte Bestimmung verstossen und ist daher zu Recht bestraft worden...
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 61 al. 3 et 46 RA. Les prescriptions de l'art. 46 RA s'appliquent aussi en cas de dépassement d'un tramway par la droite.
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Sachverhalt ab Seite 139
A.- Walker fuhr mit seinem Personenwagen am 10. Juni 1954, 19.50 Uhr, mit einer Geschwindigkeit von ca. 50 Std/km von Emmenbrücke gegen Luzern. Bei der Kirche Reussbühl, wo die Strasse eine langgestreckte Rechtskurve beschreibt, schickte er sich an, einen aus zwei Wagen bestehenden Strassenbahnzug zu überholen, der in gleicher Richtung auf der linken Strassenseite fuhr. Die Strasse wird an der betreffenden Stelle auf der rechten Seite durch eine ca. 3 m hohe Stützmauer abgeschlossen, so dass die Übersicht über die Kurve beeinträchtigt ist. Der Abstand zwischen dem Strassenbahngeleise und der Stützmauer beträgt ca. 4 m. Am Ende der Kurve, unmittelbar nach der für diese geltenden Parkierungsverbotstafel, war am rechten Strassenrand ein Personenwagen parkiert. Als Walker sich auf halber Höhe neben dem Strassenbahnzug befand, bremste er scharf ab. Dabei geriet sein Wagen ins Schleudern und kam kurz vor dem parkierten Personenwagen schräg gegen die Stützmauer zu gewendet zum Stehen. Zu diesem plötzlichen Bremsen sah sich Walker nach seiner Darstellung deshalb veranlasst, weil ein in gleicher Richtung fahrender Radfahrer das parkierte Auto überholte, so dass zwischen ihm und dem Tram für den Wagen Walkers nicht mehr genügend Raum zum Durchfahren geblieben sei. Auf das Bremsgeräusch vom Wagen Walkers hin leitete der Tramführer eine Schnellbremsung ein und brachte das Tram auf der Höhe des parkierten Wagens zum Anhalten. Ein Zusammenstoss erfolgte nicht.
B.- Das Amtsgericht Luzern-Land erklärte mit Urteil vom 22. Dezember 1954 Walker der Widerhandlung gegen Art. 46 Abs. 2 MFV (Überholen der Strassenbahn in einer unübersichtlichen Strassenbiegung) schuldig und bestrafte ihn mit Fr. 40.- Geldbusse.
C.- Mit der vorliegenden Nichtigkeitsbeschwerde beantragt Walker Aufhebung des angefochtenen Urteils und Rückweisung der Sache zu seiner Freisprechung. Er macht geltend, eine Verletzung von Art. 46 Abs. 2 MFV falle schon deswegen ausser Betracht, weil die genannte Vorschrift sich nur auf das normale Überholen nach links beziehe. Auf der rechten Seite dürfe dagegen eine Strassenbahn auch in einer Kurve überholt werden, wenn die Strassenbreite es zulasse.
D.- Die Staatsanwaltschaft Luzern beantragt Abweisung der Beschwerde.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
1. Das Überholen von Strassenbahnen ist in Art. 61 Abs. 3 MFV geregelt. Die Vorschrift unterscheidet zwischen der fahrenden und der haltenden Strassenbahn. Sie bestimmt, dass die fahrende Strassenbahn rechts zu überholen ist, wenn deren Abstand vom rechten Strassenrand dies erlaubt; nur wo dies nicht der Fall ist, darf links überholt werden. Im übrigen wird Art. 46 MFV, d.h. die allgemeine Ausführungsvorschrift zu Art. 26 Abs. 3 MFG über das Überholen, als anwendbar erklärt.
Nach Art. 46 Abs. 1 MFV ist das Überholen nur gestattet, wenn die dazu erforderliche Strassenstrecke frei und übersichtlich ist, namentlich wenn kein anderes Fahrzeug entgegenkommt. Nach dem Überholen darf erst dann wieder rechts eingebogen werden, wenn für das überholte Fahrzeug jede Gefährdung ausgeschlossen ist.
Abs. 2 sodann wiederholt wörtlich die Vorschrift von Art. 26 Abs. 3 MFG, dass an Strassenkreuzungen, Bahnübergängen und unübersichtlichen Stellen, besonders an Strassenbiegungen, nicht überholt werden dürfe.
Abs. 3 endlich verpflichtet den Überholenden, besonders vorsichtig zu fahren und auf die übrigen Strassenbenützer Rücksicht zu nehmen.
2. Dass Art. 46 MFV auf das Überholen der Strassenbahn nur anwendbar sei, wenn dies auf der linken Seite geschieht, kann dem Wortlaut von Art. 61 Abs. 3 MFV nicht entnommen werden. Dieser verweist ganz allgemein und ohne Einschränkung auf Art. 46 MFV. Richtig ist allerdings, dass dieser Hinweis sinngemäss aufgefasst werden muss. So lässt sich Art 46 Abs. 1, der auf das normale linksseitige Überholen anderer nicht schienengebundener Fahrzeuge zugeschnitten ist, nicht uneingeschränkt anwenden auf das rechtsseitige Überholen der Strassenbahn, das nach Art. 61 Abs. 3 MFV den Regelfall bildet. Dagegen hat das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV auch beim Überholen der Strassenbahn auf der rechten Seite seinen guten Sinn. Denn erfolgt solches Überholen an einer unübersichtlichen Stelle, insbesondere an einer Strassenbiegung, so kann dadurch eine gefährliche Situation geschaffen werden. Zwar verlässt der Überholende seine rechte Strassenseite nicht, so dass er nicht damit rechnen muss, er könnte einem aus der Gegenrichtung herannahenden Fahrzeug in die Quere kommen. Hingegen kann während des Überholungsmanövers plötzlich ein Hindernis in seiner Fahrbahn auftauchen, wie z.B. ein in gleicher Richtung fahrendes langsameres Fahrzeug, eine Gruppe von Fussgängern oder dergl. Erblickt er ein solches Hindernis wegen der Unübersichtlichkeit des Ortes so spät, dass er nicht mehr rechtzeitig anhalten kann, so besteht unmittelbare Unfallgefahr; denn das Hindernis durch Ausbiegen nach links zu umfahren, ist ihm durch die Strassenbahn verwehrt. Dem Auftreten solcher Gefahrsituationen wird durch das Überholungsverbot des Art. 46 Abs. 2 MFV vorgebeugt.
3. Die Reussbühlkurve ist nach den verbindlichen Feststellungen der Vorinstanz unübersichtlich; sie kann wegen der auf ihrer rechten Seite verlaufenden Stützmauer nicht voll überblickt werden. Nach Art. 46 Abs. 2 MFV darf deshalb dort der Strassenbahn nicht vorgefahren werden. Der Beschwerdeführer hat somit dadurch, dass er das Überholungsmanöver gleichwohl einleitete und zur Hälfte durchführte, gegen die genannte Bestimmung verstossen und ist daher zu Recht bestraft worden...
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Die Nichtigkeitsbeschwerde wird abgewiesen.
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Art. 61 cp. 3 e art. 46 RLA. Le prescrizioni dell'art. 46 RLA sono applicabili anche nel caso di chi sorpassa una tranvia a destra.
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81 IV 142
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Sachverhalt ab Seite 143
Ralph Pfäffii focht am 18. Dezember 1954 ein ihm am gleichen Tage durch Zustellung der schriftlichen Ausfertigung eröffnetes Urteil des Obergerichts des Kantons Aargau vom 26. November 1954 in einer eidgenössischen Fiskalstrafsache (Verletzung des Radioregals) mit Nichtigkeitsbeschwerde an. Die Eingabe, die zugleich eine Begründung enthält, ist nicht unterzeichnet. Der Beschwerdeführer richtete sie an das Obergericht, und von diesem aus gelangte sie mit den Akten am 29. Dezember 1954 an das Bundesgericht.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
Nach Art. 272 Abs. 1 BStP, der gemäss Art. 312 BStP auch in Fiskalstrafsachen anwendbar ist, muss die Nichtigkeitsbeschwerde innert zehn Tagen seit der nach dem kantonalen Recht massgebenden Eröffnung des angefochtenen Entscheides bei der Behörde, die ihn erlassen hat, durch Einreichung einer schriftlichen Erklärung eingelegt werden. Dass die Erklärung unterschrieben werden müsse, sagt die Bestimmung nicht ausdrücklich. Sie unterscheidet sich dadurch von Art. 273 Abs. 1 BStP, wonach die Beschwerdeschrift, nämlich die gemäss Art. 272 Abs. 2 BStP innert zwanzig Tagen seit Zustellung der schriftlichen Ausfertigung des Entscheides einzulegende Beschwerdebegründung, mit Unterschrift versehen sein muss. Diese Abweichung entbindet jedoch den Beschwerdeführer nicht der Pflicht, auch die Beschwerdeerklärung zu unterschreiben. Das gehört zum Begriff der Schriftlichkeit, wie er nicht nur im Zivilrecht (vgl. Art. 13 Abs. 1 OR), sondern allgemein verstanden wird, und ergibt sich auch aus Art. 30 Abs. 1 OG, wonach sämtliche für das Bundesgericht bestimmten Rechtsschriften mit Unterschrift versehen sein müssen. Diese Bestimmung ist nicht eine blosse Ordnungsvorschrift, sondern macht die Unterschrift zur Voraussetzung der Gültigkeit der Beschwerdeerklärung; denn wie schon unter der Herrschaft des alten Organisationsgesetzes, das eine entsprechende Norm nicht enthielt, entschieden worden ist, stellt eine Eingabe ohne Unterschrift keine rechtserhebliche Erklärung dar (BGE 29 I 477, BGE 77 II 352, BGE 80 IV 48). In der nicht unterzeichneten Eingabe vom 18. Dezember 1954 liegt daher keine gültige Beschwerdeerklärung. Da die Frist zur Einlegung einer solchen abgelaufen ist, kann auf die Beschwerde nicht eingetreten werden.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Auf die Nichtigkeitsbeschwerde wird nicht eingetreten.
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Art. 272 Abs. 1 BStP. Nur die unterschriebene Beschwerdeerklärung ist gültig.
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criminal law and criminal procedure
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81 IV 142
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Sachverhalt ab Seite 143
Ralph Pfäffii focht am 18. Dezember 1954 ein ihm am gleichen Tage durch Zustellung der schriftlichen Ausfertigung eröffnetes Urteil des Obergerichts des Kantons Aargau vom 26. November 1954 in einer eidgenössischen Fiskalstrafsache (Verletzung des Radioregals) mit Nichtigkeitsbeschwerde an. Die Eingabe, die zugleich eine Begründung enthält, ist nicht unterzeichnet. Der Beschwerdeführer richtete sie an das Obergericht, und von diesem aus gelangte sie mit den Akten am 29. Dezember 1954 an das Bundesgericht.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
Nach Art. 272 Abs. 1 BStP, der gemäss Art. 312 BStP auch in Fiskalstrafsachen anwendbar ist, muss die Nichtigkeitsbeschwerde innert zehn Tagen seit der nach dem kantonalen Recht massgebenden Eröffnung des angefochtenen Entscheides bei der Behörde, die ihn erlassen hat, durch Einreichung einer schriftlichen Erklärung eingelegt werden. Dass die Erklärung unterschrieben werden müsse, sagt die Bestimmung nicht ausdrücklich. Sie unterscheidet sich dadurch von Art. 273 Abs. 1 BStP, wonach die Beschwerdeschrift, nämlich die gemäss Art. 272 Abs. 2 BStP innert zwanzig Tagen seit Zustellung der schriftlichen Ausfertigung des Entscheides einzulegende Beschwerdebegründung, mit Unterschrift versehen sein muss. Diese Abweichung entbindet jedoch den Beschwerdeführer nicht der Pflicht, auch die Beschwerdeerklärung zu unterschreiben. Das gehört zum Begriff der Schriftlichkeit, wie er nicht nur im Zivilrecht (vgl. Art. 13 Abs. 1 OR), sondern allgemein verstanden wird, und ergibt sich auch aus Art. 30 Abs. 1 OG, wonach sämtliche für das Bundesgericht bestimmten Rechtsschriften mit Unterschrift versehen sein müssen. Diese Bestimmung ist nicht eine blosse Ordnungsvorschrift, sondern macht die Unterschrift zur Voraussetzung der Gültigkeit der Beschwerdeerklärung; denn wie schon unter der Herrschaft des alten Organisationsgesetzes, das eine entsprechende Norm nicht enthielt, entschieden worden ist, stellt eine Eingabe ohne Unterschrift keine rechtserhebliche Erklärung dar (BGE 29 I 477, BGE 77 II 352, BGE 80 IV 48). In der nicht unterzeichneten Eingabe vom 18. Dezember 1954 liegt daher keine gültige Beschwerdeerklärung. Da die Frist zur Einlegung einer solchen abgelaufen ist, kann auf die Beschwerde nicht eingetreten werden.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Auf die Nichtigkeitsbeschwerde wird nicht eingetreten.
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Art. 272 al. 1 PPF. Une déclaration de pourvoi n'est valable que si elle est signée.
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Sachverhalt ab Seite 143
Ralph Pfäffii focht am 18. Dezember 1954 ein ihm am gleichen Tage durch Zustellung der schriftlichen Ausfertigung eröffnetes Urteil des Obergerichts des Kantons Aargau vom 26. November 1954 in einer eidgenössischen Fiskalstrafsache (Verletzung des Radioregals) mit Nichtigkeitsbeschwerde an. Die Eingabe, die zugleich eine Begründung enthält, ist nicht unterzeichnet. Der Beschwerdeführer richtete sie an das Obergericht, und von diesem aus gelangte sie mit den Akten am 29. Dezember 1954 an das Bundesgericht.
Erwägungen
Der Kassationshof zieht in Erwägung:
Nach Art. 272 Abs. 1 BStP, der gemäss Art. 312 BStP auch in Fiskalstrafsachen anwendbar ist, muss die Nichtigkeitsbeschwerde innert zehn Tagen seit der nach dem kantonalen Recht massgebenden Eröffnung des angefochtenen Entscheides bei der Behörde, die ihn erlassen hat, durch Einreichung einer schriftlichen Erklärung eingelegt werden. Dass die Erklärung unterschrieben werden müsse, sagt die Bestimmung nicht ausdrücklich. Sie unterscheidet sich dadurch von Art. 273 Abs. 1 BStP, wonach die Beschwerdeschrift, nämlich die gemäss Art. 272 Abs. 2 BStP innert zwanzig Tagen seit Zustellung der schriftlichen Ausfertigung des Entscheides einzulegende Beschwerdebegründung, mit Unterschrift versehen sein muss. Diese Abweichung entbindet jedoch den Beschwerdeführer nicht der Pflicht, auch die Beschwerdeerklärung zu unterschreiben. Das gehört zum Begriff der Schriftlichkeit, wie er nicht nur im Zivilrecht (vgl. Art. 13 Abs. 1 OR), sondern allgemein verstanden wird, und ergibt sich auch aus Art. 30 Abs. 1 OG, wonach sämtliche für das Bundesgericht bestimmten Rechtsschriften mit Unterschrift versehen sein müssen. Diese Bestimmung ist nicht eine blosse Ordnungsvorschrift, sondern macht die Unterschrift zur Voraussetzung der Gültigkeit der Beschwerdeerklärung; denn wie schon unter der Herrschaft des alten Organisationsgesetzes, das eine entsprechende Norm nicht enthielt, entschieden worden ist, stellt eine Eingabe ohne Unterschrift keine rechtserhebliche Erklärung dar (BGE 29 I 477, BGE 77 II 352, BGE 80 IV 48). In der nicht unterzeichneten Eingabe vom 18. Dezember 1954 liegt daher keine gültige Beschwerdeerklärung. Da die Frist zur Einlegung einer solchen abgelaufen ist, kann auf die Beschwerde nicht eingetreten werden.
Dispositiv
Demnach erkennt der Kassationshof:
Auf die Nichtigkeitsbeschwerde wird nicht eingetreten.
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Art. 272 cp. 1 PPF. La dichiarazione di ricorso è valida soltanto se è firmata.
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81 IV 145
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Sachverhalt ab Seite 145
Berger vollzog im September 1953 mit der am 15. März 1938 geborenen M. S. den Beischlaf, und im Oktober 1953 wiederholte er die Tat. Im Strafverfahren wegen Unzucht mit einem Kinde gab er seine Verbrechen vor dem Untersuchungsrichter zu, und M. S. sagte in der Untersuchung ihrerseits als Zeuge wahrheitsgemäss aus. In der Folge ersuchte Berger sie erfolglos, alles abzuleugnen. Das Obergericht des Kantons Bern verurteilte ihn daher am 30. November 1954 ausser wegen Unzucht mit einem Kinde auch wegen Versuchs der Anstiftung zu falscher Zeugenaussage. Berger führte Nichtigkeitsbeschwerde mit dem Antrag auf Freisprechung von der Anschuldigung des Versuchs der Anstiftung zu falschem Zeugnis. Sie wurde abgewiesen.
Erwägungen
Aus den Erwägungen:
Der Beschwerdeführer macht geltend, er habe gegenüber M. S. keinen strafbaren Versuch der Anstiftung zu falschem Zeugnis begangen, weil das Mädchen, wenn es als Zeuge falsch ausgesagt hätte, nicht zu Zuchthaus, sondern lediglich zu einer Massnahme gemäss Art. 89 ff.
StGB hätte verurteilt werden können, also nicht ein Verbrechen im Sinne des Art. 9 StGB verübt hätte.
Er verkennt, dass die Würdigung einer Tat als Verbrechen oder Vergehen nicht von der Strafe abhängt, die gegen den konkreten Täter ausgesprochen wird oder werden kann, sondern von der Strafe, die auf Handlungen dieser Art ohne Rücksicht auf besondere persönliche Verhältnisse, Eigenschaften und Umstände, die die Strafbarkeit des konkreten Täters mindern, erhöhen oder ausschliessen, angedroht ist (vgl. Art. 9 StGB; BGE 72 IV 51, BGE 74 IV 16). Einzig von der für Erwachsene angedrohten Strafe hängt die Würdigung der Tat als Verbrechen oder Vergehen insbesondere auch dann ab, wenn sie von einem Jugendlichen begangen wird. Würde auf die gegenüber Jugendlichen anwendbaren Massnahmen abgestellt, so wären die Handlungen dieser Personen weder Verbrechen noch Vergehen, könnten also z.B. auch Art. 24 Abs. 1 und Art. 25 StGB nicht angewendet werden. Wer einen Jugendlichen anstiftet oder ihm Hülfe leistet, wäre also straflos. Das kann das Gesetz nicht wollen. Dass die von Jugendlichen begangenen Handlungen Verbrechen oder Vergehen sein können, obschon der Täter nicht zu Zuchthaus bezw. Gefängnis verurteilt werden kann, ergibt sich auch aus Art. 95 Abs. 1 StGB, der die beiden Begriffe verwendet, ferner daraus, dass Art. 9 in einem Titel steht, der überwiegend (Ausnahmen siehe BGE 76 IV 274) Bestimmungen enthält, die für Handlungen von Jugendlichen so gut gelten wie für solche von Erwachsenen.
Wären demnach falsche Aussagen des Mädchens Verbrechen gewesen, so fällt der Versuch des Beschwerdeführers, es zu solchen zu bestimmen, unter Art. 24 Abs. 2 StGB.
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Art. 9, 24 Abs. 2 StGB. Falsches Zeugnis (Art. 307 StGB) ist auch dann Verbrechen, wenn es von einem Jugendlichen abgelegt wird.
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criminal law and criminal procedure
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